• Non ci sono risultati.

La partitura della coscienza. Nietzsche e gli esercizi spirituali.

N/A
N/A
Protected

Academic year: 2021

Condividi "La partitura della coscienza. Nietzsche e gli esercizi spirituali."

Copied!
370
0
0

Testo completo

(1)

UNIVERSITÀ DI PISA

Facoltà di Lettere e Filosofia

Corso di Laurea Specialistica in Filosofia e Forme del sapere

TESI DI LAUREA

LA PARTITURA DELLA COSCIENZA NIETZSCHE E GLI ESERCIZI SPIRITUALI

Candidato:

Maria Gaglioti

ANNO ACCADEMICO 2018/2019

Relatori:

Prof. Alfonso Maurizio Iacono

(2)

A Mario Lorenzo Calabi.

Così Schiller a Humboldt il 2 aprile 1805: “Il consigliere e giudice che Lei così spesso è stato per me nella realtà, lo è ancora ancora adesso nel pensiero, e quando cerco di pormi davanti a me stesso per uscire dalla mia soggettività, questo accade attraverso la Sua persona e dalla Sua anima”. Humboldt - Schiller II1

1 Humboldt e Schiller, in Wilhelm von Humboldt duecentocinquant'anni dopo, a cura di A. Carrano, E. Massimilla, F. Tessitore, Liguori, Napoli, 2017, p. 267.

(3)

Indice

Introduzione ... 11

Capitolo 1

Sulla spiritualizzazione n/della natura umana ... 25

1 “La filosofia del presente come storia” ... 25

1.1 “La filosofia del presente come storia” e l’uomo come soggetto della storia . 25 1.2 L’uomo come soggetto enigmatico della storia ... 28

1.3Dalla Bestimmung des Menschen - la destinazione dell’uomo - alla configurazione attuale del mondo ... 31

1.4 La posizione dell’uomo nel cosmo: verità, natura, società, individuo ... 33

1.5 Dalla Bestimmung des Menschen al suo compimento nel der ganze Mensch . 37 1.6 L’uomo come frammento: il circolo vizioso della scissione. Dalla scissione all’integrazione ... 38

1.7 La filosofia come mezzo di ricomposizione della scissione umana ... 41

1.8 Educarsi all’indiviso ... 45

2 Il corpo: come luogo della storia ... 48

2.1 La corporeità come dimensione costitutiva della persona ... 48

2.1.1 Il corpo teologico ... 49

2.1.2 Il corpo filosofico ... 50

(4)

Capitolo 2

La filosofia come esercizio d’esperienza ... 56

1 Pierre Hadot e la filosofia come modo di vivere ... 56

1.1 Che cos’è la filosofia antica? ... 56

1.1.1 Questioni di metodo ... 58

1.1.1.1 Problemi di definizione ... 59

1.1.2 Il concetto concepito: accenni sulla nascita della definizione di filosofia come esercizio spirituale ... 62

2 Esercizi spirituali nell’antichità ... 63

2.1 Perché spirituali? ... 63

2.1.1 Funzione attuale degli esercizi spirituali ... 66

2.1.2 Gli esercizi: un metodo a due tempi ... 68

2.1.3 La direzione spirituale ... 70

2.1.4 Concentrazione dell’io ... 72

2.1.4.1 L’ascesi ... 73

2.1.4.2 Il pensiero della morte ... 74

2.1.4.3 L’esame di coscienza ... 76

2.1.5 Dilatazione dell’io ... 77

2.1.5.1 Espansione dell’io nel cosmo ... 77

2.1.5.2 Lo sguardo dall’alto ... 78

2.1.5.3 La fisica come esercizio spirituale ... 78

3 La vita come esercizio filosofico... 80

(5)

3.2 Platone: dal micro al macrocosmo ... 83

3.3 La sacralità dell’universo in Aristotele ... 86

3.4 La scelta fondamentale: il fiorire delle scuole filosofiche nel periodo ellenistico ... 88

3.5 La carne dell’epicureo ... 90

3.6 La cittadella interiore stoica ... 91

3.7Le scuole filosofiche in epoca imperiale ... 92

3.8 Neoplatonismo. Il divino dentro di noi ... 95

Capitolo 3

Esercitarsi a tradire Il passaggio della filosofia come modo di

vivere dalla grecità alla cristianità ... 98

1 Porfirio e Proclo ... 98

2 Filone d’Alessandria ... 99

3 La diffusione e penetrazione del pensiero greco ... 100

4 L’esegesi cristiana ... 103

4.1Origene e l’esegesi ... 105

5 Il monachesimo ed i Padri del deserto ... 110

5.1 L’esperienza del deserto ... 111

5.2 Le fonti del monachesimo ... 112

Capitolo 4

Ignazio di Loyola e gli Esercizi spirituali ... 114

(6)

2 La devotio moderna ... 116

3 La Spagna ... 117

4 La vita di Ignazio ... 118

4.1 Una nobile casata ... 119

4.2 La veglia d’armi ... 126

4.3 L’esperienza di Manresa ... 126

4.4 Gli anni di studio ... 131

5 Ignazio, il direttore ideale ... 133

6 Il progetto di Ignazio ... 136

7 Ignazio ed il problema della scissione ... 137

8 Gli Esercizi spirituali ... 140

8.1Destinatari ... 142

8.2Il testo degli Esercizi ... 144

8.3 Sull’importanza dell’Annotazione 20 ... 149

8.4 Le IV settimane ... 157

8.4.1 La I settimana ... 158

8.4.1.1 Esame particolare e quotidiano ... 158

8.4.1.2 Struttura degli esercizi ... 159

8.4.2 La II settimana. Meditazioni autobiografiche ... 163

8.4.2.1 La chiamata del re temporale ... 164

(7)

8.4.2.3 Meditazione di due bandiere ... 167

8.4.2.4 Meditazione di tre binari di uomo ... 169

8.4.2.5 Sull’Elezione ... 169

8.4.3 La III settimana ... 171

8.4.4 La IV settimana ... 173

Capitolo 5

Baltasar Gracián y Morales ... 176

1 La Compagnia di Gesù ed i collegia ... 176

2 Baltasar Gracián e l’inculturazione verticale ... 181

2.1 Sull’onesta disobbedienza. Gracián e i suoi pseudonimi ... 181

3 Il Barocco ... 188

4 Un concerto di sconcerti. Metodo e stile in Gracián ... 190

5 Sulla praticità del sapere ... 192

5.1 L’antinomia come descrizione e soluzione della scissione ... 196

5.2 Persona ... 197

5.3 La scelta. L’esercizio dell’Elezione ... 201

5.4 La prudenza ... 202

5.5 Teoria della conoscenza ... 208

6 Oráculo Manual y arte di prudenza ... 209

6.1 L’antropologia graciana ... 210

(8)

Capitolo 6

Nietzsche ... 216

1 Con Hadot oltre Hadot ... 216

2 Quadri storico-geografici ... 220

2.1 Il pietismo e le sue origini ... 222

2.1.1 Lutero ... 224

2.1.1.1 Taulero ... 225

2.1.1.2 La Theologia Deutsch ... 226

2.1.1.3 Il De imitatione Christi ... 228

2.1.1.4 Un fondo tesaurizzato ... 229

2.1.2 Scritti di Lutero fondamentali per il pietismo ... 230

2.1.3 Critiche dei pietisti a Lutero ... 232

2.1.4 Oltre Lutero, Johann Arndt (1555-1621) ... 233

2.1.5 Quadro storico ... 235

2.1.6 Il pietismo luterano ... 236

2.1.6.1 Le fonti del pietismo luterano ... 242

2.1.6.1.1 Influenze inglesi e gesuitismo ... 242

2.1.6.1.2 Misticismo moderno e medievale, platonismo e stoicismo, Scritture neotestamentarie ... 245

2.1.6.2 Gli esponenti del pietismo luterano ... 247

2.1.6.2.1 Philipp Jakob Spener (1635-1705) ... 248

2.1.6.2.2 August Hermann Francke (1663-1727) ... 252

2.1.6.2.3 Gottfried Arnold (1666-1714) ... 257

(9)

2.1.6.2.5 Il pietismo del Württemberg. Johann Albrecht Bengel

(1687-1752) ... 263

2.2 Dal pietismo al neopietismo ... 267

2.2.1 Halle e Friedrich August Gottreu Tholuck (1799-1877) ... 269

2.3 La famiglia Nietzsche ... 270

2.4 Le amicizie di Nietzsche. Natura e musica ... 272

2.5 Musica e morte come esercizio spirituale ... 281

2.5.1 La musica ... 283

2.5.2 Sulla musica 1858 ... 285

2.5.3 Di contraddizione in contraddizione. Pforta ... 288

2.5.4 La morte ... 295

3 Nietzsche e gli esercizi spirituali ... 298

3.1 L’armamentario pietista ... 299

3.1.1 “Ricordare me stesso”. Tra diario ed autobiografia: una scrittura per l’avvenire ... 301

3.2 La natura ... 305

3.3 Lo sguardo retrospettivo ... 306

3.4 La seconda delle autobiografie del 1858. [Ottobre 1858] La mia vita ... 309

3.5 Agosto 1859 ... 310

3.6 1860-1861-1862 ... 316

3.6.1 Fato e storia ... 320

(10)

3.6.3 Germania, 27 aprile 1862 ... 328

3.6.4 Meditazioni novembrine ... 329

3.7 1863 ... 331

3.7.1 Per le vacanze ... 331

3.7.2 La mia vita. Verso una nuova prospettiva ... 332

3.8 1864 ... 334

3.9 Sugli stati d’animo ... 334

3.9.1 “Eternarsi superandosi” ... 336

3.9.2 La mia vita: da Pforta a Bonn ... 338

3.9.3 Sogno di una notte di S. Silvestro ... 339

3.10 Settembre 1867 – Aprile 1868 ... 340

Conclusioni ... 344

Bibliografia ... 355

(11)
(12)

Introduzione

1

In una lunga lettera scritta ad Alfred Douglas dalla prigione di Reading, datata 1897, Oscar Wilde racconta il proprio tentativo di concepire l’esperienza del carcere e dei lavori forzati come qualcosa di buono e giusto per la propria vita, fecondi per la propria crescita spirituale:

come in arte ci concerne unicamente ciò che una cosa particolare è per noi in un particolare momento, precisamente così avviene nell'evoluzione etica del nostro carattere. Debbo far si che tutto ciò che mi è accaduto sia un bene per me. Il tavolaccio, il cibo ributtante, le dure funi da sfibrare in stoppa finché i polpastrelli diventano insensibili dal bruciore, i compiti umilianti con cui inizia e finisce ogni giornata, la divisa squallida che rende il dolore grottesco a vedersi, il silenzio, la solitudine, la vergogna, tutto questo io debbo trasformare in una esperienza spirituale. Non vi è una sola degradazione del corpo di cui io non debba tentare di fare una spiritualizzazione dell'anima. […] Ciò che importa, ciò che ancora mi attende, ciò che ho da fare se non voglio rimanere mutilato, guasto e incompleto per il breve resto della mia vita, è di assorbire nella mia natura tutto quel che mi è stato fatto, farlo parte di me, accettarlo senza lamenti, paura o riluttanza. Il vizio supremo è la superficialità. Tutto ciò che è vissuto fino in fondo è giusto. Quando fui incarcerato alcuni mi consigliarono di cercare di dimenticare chi fossi. Era un consiglio disastroso. Soltanto rendendomi conto di ciò che sono2 ho trovato qualche conforto. Ora altri mi consigliano di cercare, quando sarò scarcerato, di dimenticare d'esser mai stato in prigione. So che sarebbe ugualmente disastroso. Significherebbe per me esser sempre perseguitato da un senso intollerabile di vergogna; e le cose che sono destinate a me non meno che a chiunque altro - la bellezza del sole e della luna, il corso delle stagioni, la musica dell'alba o il silenzio delle notti, la pioggia tra le foglie o la rugiada sull'erba inargentata - per me si guasterebbero e perderebbero il loro potere taumaturgico e la capacità di comunicare la gioia. Respingere le nostre esperienze è arrestare il nostro sviluppo, rinnegare le nostre esperienze è costringere la nostra vita alla menzogna. È niente di meno che rinnegare l'Anima. Infatti, proprio come il corpo assorbe cibi di ogni genere, cibi comuni e impuri, insieme ad altri purificati […], e li trasforma […]; così l'Anima a sua volta ha le proprie funzioni nutritive e può trasformare in nobili pensieri e alte passioni ciò che di per sé è basso, crudele e degradante; meglio ancora, può trovare proprio qui le sue manifestazioni più auguste, e spesso si rivela nella sua perfezione più assoluta proprio per mezzo di ciò che doveva sconsacrarla o distruggerla3.

2 Il corsivo è mio, come anche nei due casi precedenti.

3 Cfr. Oscar Wilde, De profundis; La ballata del carcere di Reading; Lettere dalla prigione; Poesie scelte, traduzione di Adelina Manzotti Bignone, Edizioni delle Alpi, Milano, 1935.

(13)

Il carcere di Wilde non è un espediente letterario, è, al contrario, un’esperienza che, in virtù della propria forza intrinseca, della propria veracità, diventa letteratura. Cosa di questa esperienza personale ha il potere d’interessare ancora oggi? Cosa hanno da dire i lavori forzati, la degradazione del corpo e la loro spiritualizzazione, ad uno studente borghese di filosofia, ad un fisiatra, ad una madre o ad un musicista? Cosa hanno in comune un omosessuale incarcerato ed un costruttore ebreo di yeshivah? Essi condividono la più primitiva di tutte le esperienze, quella del dolore4. È in virtù di questa comunione, che ogni uomo è in grado di poter parlare ad ogni altro a prescindere dall’altezza cronologica in cui ha vissuto o dallo status sociale a cui è appartenuto; ed è questa comunione a rendere Wilde ancora attuale.

Ne Il problema della sofferenza C. S. Lewis scrive che “il dolore è il megafono di Dio”, il mezzo di cui egli si serve per risvegliare un mondo sordo. Anche qualora si volesse negare l’esistenza di Dio, rimarrebbe comunque vero che il dolore è un megafono capace di richiamare e dirigere l’attenzione dell’uomo verso una determinata direzione: se stesso. L’esperienza del dolore amplifica il bisogno di senso che permea tutte le esperienze umane ed acuisce il naturale bisogno dell’uomo di comprendere e di comprendersi. Il dolore è l’occasione – ed in questo senso è l’opportunità – che costringe l’uomo ad una più attenta riflessione sulla propria vita, le proprie azioni, i propri sentimenti ed infine, in modo più stringente, sul proprio io, sulla propria persona. Ciò implica che, oltre a introdurre al problema del male in generale e al “Perché mi viene fatto del male?”5 in specie, il dolore induce direttamente la domanda: “Chi sono io?”. “Soltanto

rendendomi conto di ciò che sono ho trovato qualche conforto”. Vi è in Wilde una volontà di unità della comprensione. Comprendere il proprio vero io diventa la chiave per

4 “Ma il fatto più importante, da cui può procedere in generale l’interpretazione della storia, è l’esperienza del male e del dolore prodotta dall’agire storico”, Karl Löwith, Significato e fine della storia: i presupposti teologici della filosofia della storia, prefazione di Pietro Rossi, il Saggiatore, Milano, 2010, p. 23.

(14)

accedere alla comprensione profonda della propria esperienza vissuta e della sua valenza etica; non è possibile abbracciare la totalità del reale se si prescinde dalla conoscenza di sé e dalla totalità della propria esperienza; espungere parte di essa equivale a perdere definitivamente la possibilità che la realtà si mostri nella sua essenza. Rinnegare le proprie esperienze significa rinunciare alla verità – in primo luogo su di sé – rinunciare alla possibilità di rispondere alla domanda: “Chi sono io?”.

Oltre ad una volontà di unità della comprensione, vi è in Wilde anche un’unità nel modo di concepire la realtà; la vita corporale e quella spirituale non sono disgiunte, procedono, non solo similmente, ma unite, influenzandosi reciprocamente: “Non vi è una sola degradazione del corpo di cui io non debba tentare di fare una spiritualizzazione

dell'anima”. Questo tentativo, nella storia della filosofia e della teologia, prende il nome

di esercizio spirituale. È attraverso l’esercizio spirituale che l’uomo impara a conoscersi e ri-conoscersi negli atti che compie. Il De profundis di Wilde è un ottimo esempio di come l’uomo, aggrappandosi al proprio bisogno di senso, compia naturalmente ed inconsapevolmente questi esercizi lungo tutto il corso della propria esistenza, e massimamente in quei momenti in cui il senso del mistero e dell’angoscia si fanno più opprimenti. Come ricorda Pierre Hadot: “l’esperienza mostra che siamo capaci di praticare esercizi spirituali ciascuno secondo i propri limiti psicologici”6. Essi mirano a

ricomporre quell’unità che permea ogni dimensione della natura. Gli esercizi spirituali nascono dall’urgenza di comprendere a fondo e pienamente il proprio presente; aiutano a

concentrarsi, a fare dell’attimo presente, il proprio centro; aiutano a centrarsi, a

concepirsi attualmente nel mondo ed a concepire il mondo stesso, in un particolare momento e momento dopo momento, allargando l’angolo di visuale, cancellando i punti ciechi. E però, i punti ciechi non possono essere cancellati se l’uomo non accetta di

(15)

conoscersi interamente, se edulcora parte delle esperienze e della realtà che vive. In breve, se l’uomo non sceglie la verità quale proprio cominciamento, prospettiva e principio ordinatore dei propri atti, non ha la possibilità di conoscersi e di vivere autenticamente. La verità è lo spazio entro cui gli esercizi dello spirito operano la loro funzione unificatrice; essi raccolgono il reale e, grazie alla loro aderenza alla verità, lo trascendono, cioè spogliano ogni fatto ed atto fino a renderlo totalmente trasparente alla comprensione, rivelandone il principio ordinatore, la reale causazione. Finanche l’osservazione, l’analisi degli atti che il singolo compie, fornisce un’occasione per comprendere chi esso sia, la sua essenza più profonda.

Wilde è testimone, inoltre, di una continuità tra aderenza alla verità e percezione della natura; la bellezza della natura non può assolvere il proprio potere taumaturgico se si trova dinanzi ad un io che si nasconde, oblia, rinnega. La gioia è riservata solo a coloro i quali non mistificano la loro stessa natura, la natura che in loro si manifesta e particolarizza. La natura è la condizione prima della spiritualizzazione della persona, non può esservi spirito senza natura, poiché lo spirito promana proprio dalla natura che ad esso soggiace.

In una lunga intervista7, in occasione dell’uscita dell’ultima pellicola di Martin Scorsese, il gesuita Antonio Spadaro ha modo di domandargli: “Nella storia di «Silence» c’è moltissima violenza fisica e psicologica. Che cosa c’è nella rappresentazione della violenza?”8. Così il regista: “Io sono ossessionato dallo spirituale. Sono ossessionato dalla

7 Si capirà in seguito meglio la pregnanza di questa nota. Intanto. È interessantissimo, e curioso ad un tempo, in merito al presente lavoro il fatto che Spadaro paragoni quest’intervista ad un esame di coscienza: “Così iniziamo la conversazione su Silence. Vengono fuori le domande e gli accenni di risposta. Ecco avviato un laboratorio che è andato avanti per otto mesi con scambio di e-mail e sue registrazioni ad alta voce, poi trascritte fedelmente da un assistente. Questa, più che una intervista, è stata un esame di coscienza, un laboratorio di senso. E ciò grazie a lui. Io mi accorgo di essere stato un pretesto, un enzima”, Antonio Spadaro, «Silence». Intervista a Martin Scorsese, in Civiltà Cattolica, Quaderno 3996, p. 565-586, 2016, Volume IV, intervista del 24 dicembre 2016. https://www.laciviltacattolica.it/articolo/silence-intervista-a-martin-scorsese.

(16)

domanda su ciò che siamo. E questo significa guardarci da vicino, guardare il bene ed il male in noi. Possiamo nutrire il bene in modo che, a un certo punto futuro nell’evoluzione del genere umano, la violenza, forse, cesserà di esistere? Comunque sia, per il momento, la violenza è qui. È qualcosa che facciamo. Mostrarlo è importante. Così non si fa l’errore di pensare che la violenza sia qualcosa che fanno altri, che fanno “le persone violente”. “Ovviamente io non potrei mai farlo”. E no: invece, in realtà, potresti. Non possiamo negarlo. Quindi ci sono persone che rimangono sconvolte dalla loro stessa violenza, o che se ne entusiasmano”9. È interessantissimo notare la concezione del reale che sostanzia

queste parole, identica a quella di Wilde: vi è un’unione profonda, una continuità, tra la dimensione spirituale e quella corporale ed è sulla base di questa unità che è possibile comprendere “Chi sono io?” e “Che cosa è l’uomo?”. Da questa comprensione può successivamente apparire chiaro il motore del proprio agire e del proprio modo di agire all’interno della società. L’intenzione di Scorsese è chiarissima: demistificare l’uomo contemporaneo, spogliarlo totalmente, fargli prendere coscienza di ciò che è e fa.

2

Cosa hanno in comune gli uomini oltre al dolore? Essi hanno in comune quelle domande che il dolore rende chiare: “Chi sono io?”, “Che cosa è l’uomo?”, “Qual è il mio posto nel cosmo?”, “Qual è la mia destinazione?”; ma anche la volontà di rispondervi. Queste domande storicamente percorrono e sostanziano la filosofia; di più, esse sono la fonte da cui la filosofia propriamente sgorga, giacché essa è, eminentemente, il tentativo da parte dell’uomo di rispondere, ossia di comprendere e dare senso, agli interrogativi che più intimamente e carnalmente lo abitano. È possibile guardare alla filosofia come ad un pharmakon efficace che nell’atto di osservare e definire insegna a correggersi, educa

(17)

lo spirito dell’uomo a sollevarsi dalla mera istintualità e, nel farsi propriamente persona, a trascendersi, armonizzando tutte le causazioni che lo costituiscono. Il vero e costante pericolo della storia, ed in particolare di quella della filosofia, è stato, ed è, la concezione dualistica dell’uomo, credere ch’egli sia composto da un’anima che cerca di liberarsi dal giogo impostogli dalla naturalità della carne; mentre proprio la carnalità è il luogo in cui l’anima si libera e si esprime.

Dopo la Shoà e di fronte ai segni di una nuova imminente guerra mondiale, di fatto già in atto, dopo i drammatici fatti di Aleppo, le pulizie etniche e le persecuzioni religiose, le bombe nelle metropolitane, gli atti terroristici nei locali, i morti di Lampedusa, il rogo di Notre Dame, ma anche dopo i nubifragi, le inondazioni, le frane e i sempre più frequenti terremoti e sciami sismici, in una parola, dinanzi alla morte, ed alla morte violenta, insensata, improvvisa che cosa ha da insegnarci Wilde con la sua bella letteratura e che cosa ha da insegnarci la filosofia così apparentemente distante dal dolore e dall’uomo comune? Di fronte all’ingiustizia del non senso a che valgono le spiritualizzazioni dello spirito, la trascendenza e la comune esperienza?

L’intenzione del presente lavoro è proprio quella di mostrare come la sfida che il male pone ad ogni uomo possa essere vinta proprio, e solo, a partire da un lavoro che l’uomo è chiamato a compiere su se stesso; in ciò è aiutato dalla filosofia stessa e dagli esercizi spirituali.

Perché iniziare le proprie riflessioni filosofiche attingendo a materiale nient’affatto filosofico? Per due motivi; in primis perché spesso un contenuto filosofico trova pregnanza e forza maggiore se espresso in termini non filosofici; talvolta il linguaggio filosofico appare, nei suoi tecnicismi, arido; inoltre, il rischio della filosofia è sempre più quello di dare vita ad una classe separata di intellettuali incapace di comunicare efficacemente con la società nella sua totalità, ed analogamente incapace di

(18)

rendere conto del legame armonico dell’esistente, ed è questo il secondo motivo per cui pare appropriato impostare questo lavoro iniziando da qualcosa di diverso dalla filosofia, ma che ad essa riconduce. Punto nevralgico del presente lavoro è proprio lo studio di tale legame armonico dell’esistente, che si manifesta ed ha la propria acme nell’uomo – nelle attività che da esso promanano – e del suo essere costantemente minacciato dalla scissione e frammentazione di sé in singole facoltà, attività e funzioni.

Un rischio quest’ultimo, non lontano, ma vivo, presente ed attuale, suggestivamente descritto dallo Schiller nelle sue Ästhetiche Erziehung: “eternamente incatenato soltanto ad un singolo frammento del tutto, l’uomo stesso si forma solo come un frammento”10. La scissione introduce un elemento di dolore nuovo all’interno della

natura, riduce l’uomo alla sua sola funzione, impedendogli così la vera conoscenza di sé e lo sviluppo armonico di tutte le sue facoltà. È evidente come anche Schiller abbia quale proprio sotteso una concezione della realtà come profondamente unita e continua. Egli pone ancora oggi un interrogativo serio alla filosofia: essa aiuta a formare uomini che sappiano concepirsi e concepirsi come un tutto? Che sappiano conoscersi e riconoscersi come un tutto unito? Il presente lavoro si sostanzia di quest’interrogazione. Un’interrogazione che percorre tutto il mondo moderno fino a giungere alla contemporaneità.

3

Precisamente a quest’idea, anche schilleriana, di unità e continuità tra spirito e natura nell’uomo – tra spirito e carnalità in specie – tra elementi del reale ed infine tra arti, aveva guardato già dagli anni della propria giovinezza Nietzsche11. Se ne ravvisa

10 Giovanna Pinna, Introduzione a Schiller, Laterza, Bari, 2012, p. 72.

11 Nietzsche aveva in comune con Schiller – che aveva certamente letto, come si vedrà, a da cui aveva presumibilmente anche ereditato concordandovi – anche un certo criticismo verso il modo in cui in ambito accademico era concepito il sapere: nella Prolusione schilleriana essa s’incarna nella descrizione

(19)

traccia già nel saggio giovanile Agone omerico: “Quando si parla di umanità, ci si fonda sull’idea che debba trattarsi di ciò che separa e distingue l’uomo dalla natura. Ma una tale separazione in realtà non esiste: le qualità “naturali” e quelle chiamate propriamente “umane” sono inscindibilmente intrecciate. L’uomo, nelle sue capacità più alte e più nobili, è completamente natura, e porta in sé l’inquietante duplice carattere di essa. Le sue attitudini più terribili, che vengono considerate come non umane, sono forse proprio il terreno fecondo, onde soltanto può sorgere ogni umanità, nei moti dell’animo, nelle azioni e nelle opere”. Questo stralcio di Nietzsche riannoda tutti i fili dipanati sino a questo punto: il dolore e la sua valenza etica, la conoscenza di sé, l’unità della realtà e dell’esperienza, la continuità tra natura e spirito; ed in questa intessitura s’incontra con Wilde: “l'Anima […] può trasformare in nobili pensieri e alte passioni ciò che di per sé è basso, crudele e degradante; meglio ancora, può trovare proprio qui le sue manifestazioni più auguste, e spesso si rivela nella sua perfezione più assoluta proprio per mezzo di ciò che doveva sconsacrarla o distruggerla”.Sono proprio le attitudini più terribili dell’uomo, come d’altro canto è proprio ciò che nella concretezza dell’esperienza umana quotidiana è più basso, crudele e degradante, ad essere la scaturigine di ogni umanità, di ogni naturale spiritualizzazione.

È dalla concezione dell’uomo come un intero naturale di qualità e attitudini inscindibilmente intrecciate che può prendere avvio la ricomposizione di quella scissione che l’individuo sperimenta in sé e fuori di sé, ed è su questo comune terreno che, inaspettatamente, nel pensiero nicciano filosofia e teologia s’incontrano. S’incontrano in

dicotomica dotti per il pane-teste pensanti (Friedrich Schiller, Lezioni di filosofia della storia, introduzione, traduzione e cura di Lorenzo Calabi, ETS, Pisa, 2012, p. 49ss.), troppo bella e lunga per esser riportata qui per intero; mentre in Nietzsche trova sfogo, tra l’altro, in una efficacissima lettera a Erwin Rohde del 20 Novembre 1868 ove apostrofa i suoi colleghi appellandoli “quella brulicante genia di filologi dei nostri giorni” e tratteggiandoli nel loro “affaccendarsi da talpe, con le cavità mascellari rigonfie e lo sguardo cieco, contente di essersi accaparrate un verme, e indifferenti verso i veri, urgenti problemi della vita” (Epistolario, 1, 651, a cura di G. Colli, M. Montinari, G. Campioni, F. Gerratana e M. C. Fornari, Milano, Adelphi, 1976-2011).

(20)

due sensi. Da un lato Nietzsche si appropria di una lunga tradizione di testi il cui tema centrale si sviluppa intorno alla possibilità di concepire la filosofia non tanto quale semplice speculazione, bensì quale fare, un fare psicagogico, connotato nella direzione della conoscenza, della cura e del perfezionamento di sé attraverso degli esercizi, che non è inesatto definire, spirituali. Dall’altro, la loro spregiudicata rielaborazione all’interno della riflessione nicciana incoraggia la riscoperta della loro centralità, coadiuvando la formazione di un nuovo tipo d’intellettuali e pensatori, massimamente interessati alla domanda: “Chi siamo noi in realtà?”12. Pensatori, questi, che danno vita a correnti di

pensiero tra loro distanti, se non opposte, ma accomunate dalla stessa visione unitaria dell’esistenza e dell’esperienza. Diventa così interessante osservare come le preoccupazioni ed interrogazioni nicciane non si discostino affatto da quelle di pensatori di area cristiana, finanche cattolica, e che anzi, vi si armonizzino; entrambe interessate alla tematizzazione della scissione umana, della tensione tra aspetti pulsionali della vita e istanze dello spirito.

Il Novecento è il secolo in cui, a fronte anche di tutto il portato nicciano, e, delle conseguenze antropologiche generate dal poderoso progresso delle scienze e del sapere, emerge prepotente la necessità di porre con forza nuova rispetto al passato il problema dell’uomo, della sua destinazione e della sua natura. Un vento nuovo inaugura studi inediti in tutti i campi del sapere. La filosofia e la teologia cercano di rispondere a questa sfida elaborando antropologie in grado, non solo e non tanto, di far dialogare tra loro l’elemento pulsionale e quello spirituale, quanto piuttosto di spiegare la loro comune radice, il loro procedere l’uno dall’altro.

Innegabilmente tutta la filosofia contemporanea, e non solo, si sviluppa all’ombra del martello nicciano e dei suoi riverberi in ambito antropologico. È impossibile

(21)

comprendersi attualmente se si prescinde dall’impatto che essa ha avuto su tutti i più grandi pensatori, poeti, romanzieri, musicisti novecenteschi; essi hanno dovuto confrontarsi con lui, chi per affinità, chi in opposizione; chi in maniera diretta, chi indirettamente attraverso la mediazione dei suoi lettori. Grazie a tale confronto, inaspettatamente e sorprendentemente, si schiude la possibilità di una comprensione più completa e chiara dell’umano. Nietzsche è diventato “non solo una tappa obbligatoria di ogni itinerario intellettuale, ma anche uno di quei «grandi nomi» su cui si stratificano le più diverse incrostazioni della «storia», un «catalizzatore» di molteplici tensioni politico-spirituali che ancora oggi non sembrano del tutto risolte”13.

4

Il pensiero nicciano si concreta, sin dalle sue origini, intorno a quella che potremmo definire, un’urgenza educativa, l’antico γνῶθι σεαυτόν, gnōthi seautón, osservata, rovesciata, scandagliata in tutte le sue possibili declinazioni, trasvalutata. Un appello ch’egli percepisce come un destino, una chiamata innanzitutto personale – e, proprio in quanto personale, anche sociale ed in ultimo universale – che, come già accennato, egli eredita – appropriandosene in modo del tutto originale – da una vasta e varia tradizione teologico-filosofico-letteraria, con la quale entra in contatto sin dalla sua prima giovinezza e con la quale continuerà a dialogare lungo tutto il corso della propria esistenza, dai primi scritti diaristici, all’Inattuale su Schopenhauer – “ma come possiamo ritrovare noi stessi? Come può l’uomo conoscersi?”14 – sino al sottotitolo Come si diventa ciò che si è di Ecce homo, sottesa dichiarazione dell’avvenuta totale scoperta, conoscenza

13 Aldo Venturelli, Introduzione, in Nietzsche, Umano troppo umano, Così parlò Zarathustra, Al di là del bene e del male, Il crepuscolo degli idolo, L’Anticristo, Ecce homo, I Mammut, Newton Compton s.r.l., Roma, 2012. L’Introduzione è ad Ecce homo.

(22)

di sé e trasvalutazione. Proprio in Ecce homo diviene massimamente evidente la molteplice valenza del dolore all’interno del pensiero nicciano e com’esso costituisca l’essenza stessa dell’Erlebnis dell’essere filosofo; è il testo in cui la già citata frase di Wilde: “Non vi è una sola degradazione del corpo di cui io non debba tentare di fare una

spiritualizzazione dell'anima”, trova la sua più drammatica esemplificazione filosofica,

ed in cui il termine spirito viene utilizzato con maggior frequenza e molteplicità di significati.

Sulla base di quest’osservazione non pare privo di senso domandarsi se, più in generale, seguendo la definizione che Pierre Hadot ha dato all’espressione esercizio

spirituale, la stessa scrittura nicciana sia, o possa essere interpretata come, un esercizio

spirituale continuo e multiforme, e se la filosofia stessa venga da lui pensata in questi termini. Cosa intende Nietzsche con il termine spirito? Conosce una qualche forma di esercizio spirituale? È mai entrato in contatto con questo genere letterario? E se sì, ne è stato influenzato? Ha mai praticato degli esercizi spirituali?

Nel tentativo di risalire ad una risposta quanto più completa a quest’interrogazione, il presente lavoro cerca di dare, innanzitutto, una generale inquadratura al concetto stesso di esercizio spirituale, a come storicamente esso sia stato concepito, recepito e risemantizzato.

Il primo capitolo cercherà d’illustrare come l’esigenza di spiritualizzare la propria esperienza quotidiana nasca dal bisogno profondo dell’uomo di comprendersi, di capire qual è il proprio posto nel mondo, e, a tal fine, di capire che cosa sia l’uomo, quale posto occupi all’interno della natura e quale sia il senso dell’esistenza umana, soffermandosi su alcuni di quei concetti che concorrono a definire la realtà del soggetto uomo, e soprattutto, nella seconda parte, su quello di corpo e sulla sua necessaria rivalutazione. Si farà particolare riferimento a quell’epoca e a quegli autori che paiono aver maggiormente

(23)

colto e drammatizzato quest’urgenza.

Si porrà particolare attenzione alla valenza storica della filosofia, alla sua biforcazione in esercizio e discorso, e, nel suo farsi esercizio, alla sua valenza eminentemente esistenziale, come pharmakon alla scissione dell’uomo e aiuto alla sua ricomposizione; biforcazione la cui evoluzione verrà portata avanti anche nel secondo e terzo capitolo e che sarà, in realtà, il filo conduttore dei vari capitoli.

Nel secondo capitolo, sulla scorta della restituzione che Pierre Hadot dà della filosofia antica come modo di vita, esercizio attivo di formazione delle anime attraverso un lavoro su se stessi, verrà presentata l’ossatura di alcuni esercizi spirituali praticati nel mondo greco, e dopo latino, prescindendo dal contesto in cui, nelle varie singole scuole, venivano praticati. Si cercherà di mostrare com’essi, proprio grazie al loro potere di trasformare le disposizioni naturali e morali dell’individuo, abbiano potuto esser traditi e assorbiti anche dalla cristianità, ed in modo talmente profondo da far sì che il concetto e la pratica dell’esercizio spirituale si legassero, nella coscienza comune, solo al sentire religioso, offuscando lentamente quello filosofico.

Nel terzo capitolo si procederà, quindi, ad un confronto diretto con questa tradizione cristiana. Sin dal II sec d. C. la cristianità greca e latina iniziò infatti ad elaborare numerosi esercizi spirituali; eppure erroneamente si crede che la paternità degli esercizi spirituali sia da attribuire a Sant’Ignazio di Loyola, protagonista del quarto capitolo. Indubbiamente quelli da lui ideati sono diventati, in virtù della loro particolare efficacia, il cuore pulsante della pratica religiosa, momento imprescindibile della vita del credente, ad un tempo via purificativa, illuminativa ed unitiva grazie ai quali giungere alla radice del proprio vero io ed educarlo alla libertà; e però essi incorporano, anche se

(24)

talvolta in modo non saputo, modelli a lui precedenti. Ciò testimonia quanto già affermato in precedenza, ossia che l’esercizio spirituale è una pratica a cui l’uomo naturalmente tende. Il metodo ignaziano, essendo principalmente interessato alla promozione integrale della persona umana, implica il globale coinvolgimento di tutte le dimensioni dell’esercitante: intelletto e volontà, corpo e sensi, sentimento e affetti, immaginazione e fantasia, cioè implica il coinvolgimento di quel compositum humanum spirituale e corporeo descritto nelle sue varie parti da Wojtyla, egli stesso, a sua volta, direttore e redattore di esercizi spirituali.

Tale confronto condurrà direttamente, nel quinto capitolo, a quello che può essere interpretato come il più riuscito e famoso tentativo di unire gli esercizi spirituali filosofici e religiosi, l’Oracolo manuale e arte di prudenza del gesuita spagnolo secentesco Baltasar Gracián. Una breve opera composta di trecento aforismi in sé conclusi che ebbe un’immediata e larghissima fortuna, vedendosi tradotto in francese, tedesco, latino, italiano, inglese, olandese, russo, ungherese, polacco. I primi stranieri ad interessarsene furono i francesi, alcuni lo imitarono apertamente, altri lo citarono, taluni si spinsero fino al plagio. Noti estimatori di Gracián furono La Rochefoucauld, La Bruyère, Voltaire, Rousseau, Fènelon, Corneille, tutti autori presenti nella biblioteca nicciana. Ma è in Germania che Gracián suscitò il più grande interesse ed ebbe il più rapido successo, anche se limitatamente all’Oráculo manual, il quale visse, nell’arco di solo due secoli, ben dodici differenti traduzioni, tra le quali la più conosciuta è quella del 1832, pubblicata solo nel 1861, ad opera di Schopenhauer, Balthasar Gracians Hand-Orakel und Kunst

der Weltklugheit; traduzione che sino ad oggi conta più di quaranta riedizioni. Proprio

quest’ultima, nell’edizione del 1877 edita da Brockhaus, verrà letta da Nietzsche nell’autunno-inverno 1873-74.

(25)

Alla luce dei capitoli precedenti, il sesto cercherà di porre le basi per iniziare a comprendere se effettivamente il pensiero di Nietzsche sia stato influenzato dal concetto di esercizio spirituale e se sì da quale dei modelli sopra citati, se filosofico, religioso o entrambi. Ci si chiederà in che modo Nietzsche abbia rielaborato le fonti con cui direttamente o indirettamente è venuto a contatto, se incorpori intenzionalmente solo dei tratti riveduti di questi epigoni oppure se addirittura viva praticando questi esercizi. Mostrando come Nietzsche risponda praticamente, esistenzialmente, alla domanda: “Che cosa significa filosofare?”, giungeremo a domandarci se i suoi scritti siano esercizi che egli stesso pratica o fa praticare al suo lettore. Infine, per comprendere in modo corretto le opere di Nietzsche, muovendo dal principio secondo cui un testo deve esser interpretato in funzione al genere letterario a cui appartiene, non sarà indifferente domandarsi a quale di essi appartengano gli esercizi spirituali, se costituiscono essi stessi un genere a sé o se possono essere modularti all’interno di altri generi. In questo senso sarà possibile – qualora a questo lavoro dovesse essere offerta l’occasione d’essere portato avanti – domandarsi se, per esempio, i tentativi di autocritica nicciani debbano essere considerarti alla stregua di semplici autobiografie del pensiero o se la loro funzione sia quella di ri-semantizzazione dei suoi scritti, o, infine, se siano chiari esempi di esercizi spirituali di uno spirito che pensa e ripensa se stesso secondo un modello di autolettura collaudato, esercizi coscienti di auto-osservazione volti al perfezionamento di sé.

(26)

Capitolo 1

Sulla spiritualizzazione n/della natura umana

1 “La filosofia del presente come storia”

1.1 “La filosofia del presente come storia” e l’uomo come soggetto della storia Nella Prefazione, attraverso le parole di Wilde, è stato possibile riflettere su una delle possibili accezioni del concetto di spiritualizzazione; una declinazione che potrebbe esser definita forte, poiché denuncia una continuità, segna un legame inscindibile, tra i concetti di natura e spirito. Lo spirituale non viene qui pensato come uno svincolarsi da ciò che è materiale, ma al contrario, come un sussumere, un riportare un concetto nell’ambito di un altro più generale capace di ricomprenderlo. Tale continuità tra natura e spirito spinge a ripensare la definizione di uomo qualificandolo quale essere intero ed indiviso, costituito da elementi e dinamismi tra loro comunicanti ed in grado di influenzarsi reciprocamente. Quest’interconnessione risale fino alla domanda circa la natura stessa dell’essere umano, quale specie, e della sua cristallizzazione e particolarizzazione nel singolo, quale persona; una domanda che ancora oggi appare tanto attuale quanto insoluta, come testimoniano le Baxter Lectures curate a partire dal 2006 da Lorenzo Calabi.

Quale importanza ha oggi continuare a problematizzare l’uomo? Per quale motivo la filosofia, la filosofia morale e la filosofia della storia continuano, e devono continuare, a porlo al centro delle loro preoccupazioni? La risposta è, nella sua banalità, auto-evidente: egli è il soggetto della storia; dove con il termine storia s’intende storia del genere umano considerata dal punto di vista delle relazioni che l’uomo ha con i suoi simili, nella società civile, con la natura, di cui è parte, e con il divino. Ma è anche storia

(27)

del rapporto che l’uomo intrattiene con se stesso e della coscienza della compresenza, in lui, di natura e spirito.

Da Genesi 1, 26, da quando Dio lo creò, gli diede un lavoro – custodire e coltivare il giardino dell’Eden – e lo pose al di sopra delle altre creature – conferendogli il potere di dare un nome agli animali – fino ad oggi, cioè alla teorizzazione dell’oltre-uomo –

Übermensch – egli rimane l’ininterrotto presente della storia. Non è, quindi, possibile

comprendersi, comprendere il momento storico presente, ogni momento storico, la conformazione stessa della storia, e la configurazione odierna del mondo, se si prescinde dalla comprensione del suo soggetto e del soggetto nel suo agire e patire storico. Un agire ed un patire che seguono, ad un tempo, una doppia direzione, una universalmente storica ed una più intimamente personale; in questo senso uomo e storia si co-appartengono: la storia del singolo viene ricompresa in quella universale e viceversa. Ed è tale co-appartenenza a rendere chiaro che così come la storia non è semplicemente un processo ed un esito, bensì, anche un passaggio, altresì l’uomo. Pensare l’uomo come un passaggio, non significa solo osservarlo dal punto di vista del divenire, ma anche delle condizioni sociali e naturali, così come delle disposizioni personali e spirituali che rendono possibile tale passaggio. Pertanto, il filosofo della storia che si ripropone quale proprio compito quello di concepire la storia seguendone “mutamenti tendenziali, forze propulsive e forze antagonistiche, e fenomeni di tali forze: fenomeni, infine, di compiutezza e di individuazione, di civilizzazione e di raffinamento e, insieme, di scissione, di impoverimento e di uniformazione”15, non dovrà dimenticare che questi non sono che un

riverbero di una realtà dinamica che ha luogo principalmente e primariamente nel e con l’uomo e, quindi, dovrà innanzitutto preoccuparsi di riconcepirne l’origine.

15 Mario Lorenzo Calabi, https://karllowith.jimdo.com/löwithiana/1-interviste-italiane/lorenzo-calabi/, intervista dell’8 aprile 2014.

(28)

Aprire un quotidiano è un gesto semplice, non altrettanto lo è comprende ciò che si legge, intuirne le implicazioni ed i rimandi storici, la prospettiva ideologica di chi scrive; ancora meno lo è collocarsi rispetto a ciò che si legge e comprendersi, cioè capire che la storia ci con-prende, ci con-tiene, che noi siamo questa stessa storia di cui leggiamo, che siamo il soggetto della storia ed il suo presente e che il presente è l’unica dimensione temporale che realmente ci appartiene, giacché solo in essa possiamo agire attualmente. Sfogliare un quotidiano può essere un gesto ingenuo ed abitudinario, un semplice informarsi, un segno di cosmopolitismo, ma può anche essere un esercizio giornaliero di ri-centratura della propria persona: un ri-collocarsi, giorno per giorno e giorno dopo giorno, all’interno della storia universale ed attraverso d’essa nelle proprie attività e nella propria interiorità.

La stessa espressione “filosofia del presente come storia” usata da Lorenzo Calabi racconta di una weltanschauung filosofica che ha quale proprio presupposto la volontà di ristabilire il legame tra le varie dimensioni del reale – e quindi tra le scienze – ed ordinare i concetti in un tutto armonico, che contrappone alla frammentarietà dei saperi, quella limpida visione ed intuìta compiutezza del nesso delle cose, che permette di raccordare la propria attività con la grande totalità del mondo. Intuire il nesso delle cose ed imparare a raccordare la propria attività, e persona, con la grande totalità del mondo è ciò che permette di rispondere alle più essenziali e perduranti domande racchiuse nel cuore umano ed è ciò che consente d’essere coscienti del proprio agire e del proprio agire storico. Imparare a concepire l’uomo come un tutto integrale di natura e spirito che in quanto tale agisce storicamente, comprenderne i mutamenti, le forze, ed i fenomeni, soprattutto quelli di scissione ed impoverimento, è la sfida che si deve porre oggi la filosofia per essere pienamente concepita come “filosofia del presente come storia”. Il tentativo di problematizzare la relazione natura-spirito e uomo-storia presuppone il

(29)

tentativo di “mettere a sistema” – cioè mettere sotto un’unica idea una serie di idee che sono concatenate, ma che altrimenti rimarrebbero allo stato di aggregato – l’esistenza stessa; significa cercare di dare un senso alla contraddittorietà ed enigmaticità dell’esistenza e della propria destinazione.

A tale necessità s’appella il bel passo de L’uomo e la storia in cui Scheler scrive: “Noi siamo diventati, in quasi diecimila anni di storia, la prima epoca in cui l’uomo è divenuto completamente e interamente problematico a se stesso”16; per cui: “se c’è un compito filosofico il cui assolvimento viene richiesto in maniera particolarmente pressante dalla nostra epoca, questo è quello di un’antropologia filosofica. Intendo una scienza fondamentale relativa all’essenza e alla costituzione essenziale dell’uomo.”17.

1.2 L’uomo come soggetto enigmatico della storia

Riconsiderata da questo punto di vista, la filosofia del presente come storia permette di giungere alla più radicale di tutte le osservazioni sull’uomo: difatti, primo passo per mettere a sistema sotto un’unica idea, di senso ed ordine, l’esistenza – ma soprattutto l’uomo, sia quale specie che quale singolo, in rapporto a ed all’interno de l’esistente – è accettare che, indipendentemente dall’ambito in cui viene indagato, l’uomo è un enigma; un enigma che si muove all’interno di una storia che non è mai fissa, per cui richiede d’essere non solo riscoperto in tutti i propri rapporti – tra essi relati – ma d’esserlo incessantemente18.

16 Ecco qui l’uomo che viene presentato quale passaggio ed esito.

17 Cfr. Guido Cusinato, Guida alla lettura, in Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, Franco Angeli, Milano, 2009, p. 87.

18 Detto altrimenti: ad un tempo, mentre s’interroga circa le proprie origini biologiche e l’essenza della

natura umana, l’uomo cerca di comprendere la realtà della propria intima esistenza, vivendo nel proprio corpo l’enigma ch’egli è per sé, e quello che è per natura, sperimentando la necessità di conoscersi e comprendere quale sia il proprio posto nel mondo.

(30)

Sull’enigmaticità del rapporto uomo-storia e uomo-persona insiste la lezione sull’uomo tenuta da Karl Jaspers alla radio bavarese: “Ma chi è l’uomo, quest’essere che si riconosce nel suo legame con un popolo, una razza, una stirpe, un’epoca, un ambito di cultura, una situazione economico-sociale, e che nonostante questo può sciogliersene, ponendosi per così dire al di fuori e al di sopra di tutto questo, nel quale pure è immerso storicamente? Tutto ciò che dell’uomo sappiamo e il singolo sa di sé, non è lui stesso”19. Ivi Jaspers non offre, come pare ad uno sguardo superficiale, solo e tanto, una spiazzante interrogazione – circa la natura dell’essere umano – totalmente priva di elementi definitori, bensì restituisce l’enigmaticità di un intero che sfugge alla piena comprensione intellettiva; da un lato vi è l’uomo storico – “tutto ciò che dell’uomo sappiamo” – dal punto di vista di ciò che lo caratterizza, o può caratterizzarlo – può proprio perché può sciogliersene – storicamente; dall’altro vi è ciò che “il singolo sa di sé”, non solo in quanto frutto della propria determinazione storica, ma in quanto persona, e solo in quanto persona, capace di determinarsi, collocarsi e destinarsi storicamente.

A Jaspers fa eco, pochi anni più tardi, un altro Karl – Löwith – che, ne la Critica

dell’esistenza storica, riflette sull’enigmaticità di un altro rapporto, uomo-natura. Nel

rivendicare la complessità e problematicità della natura umana, intesa unicamente quale risultante peculiare della natura naturans, e non dell’azione di Dio, egli si domanda: “Quale posto – Rang – prende l’uomo nella totalità di ciò che esiste per natura?”20. Esso è “un essere che si può emancipare da ogni natura e porre di fronte e contro di essa”21: infatti, “in quanto parla, pensa e agisce l’uomo si trova sempre «in relazione con il mondo naturale», ma nello stesso tempo «se ne allontana», giacché proprio il suo «agire ragionato» non può non superare «tutto ciò che è dato per natura», perfino nel

19 Karl Jaspers, Piccola scuola del pensiero filosofico, SE, Milano, 2006, p. 54. 20 Cfr. Karl Löwith, Critica dell’esistenza storica, Morano, Napoli 1967, p. 239. 21 Cfr. Karl Löwith, Critica dell’esistenza storica, Morano, Napoli 1967, p. 265-5.

(31)

soddisfacimento dei bisogni più elementari”22. Lowith riprende qui un antico adagio kantiano secondo cui è la natura stessa a porre le condizioni di un simile allontanamento e superamento.

Due anni più tardi, un terzo Karl – Woytjla – nel biasimare la scarsa attenzione data all’antropologia, stringe il cerchio ponendo l’accento sulla necessità di una continua ri-tematizzazione della natura umana: “L’uomo, scopritore di tanti misteri della natura, deve essere incessantemente riscoperto. Rimanendo sempre un “essere sconosciuto”, egli esige continuamente una nuova e sempre più matura espressione della sua natura. […] L’uomo non può perdere il posto che gli è proprio in quel mondo che egli stesso ha configurato”23. Seppur in continuità con Löwith, ivi non ci si riferisce più, solo, al posto

dell’uomo all’interno della totalità della natura, ma a quello che egli occupa in quel

mondo, teatro di tutta la vita umana cui ha dato forma, all’interno del quale, posta la

propria ineluttabile tendenza a superarsi, a superare le condizioni dell’esistenza, rischia di non riuscire più ad orientarsi, fino a perdere il senso stesso della vita, come ben ricorda Perticari: “L’uomo è precisamente l’essere il quale, nel superare la propria natura, mette in gioco la sua stessa vita, la sopravvivenza della specie umana e la vita del pianeta”24.

Soffermarsi a considerare l’impenetrabile enigmaticità umana non significa però arrendersi ad essa, rinunciare ad una comprensione profonda del reale, quanto piuttosto ammettere che ogni possibile sistematizzazione ha dei limiti conoscitivi, all’interno dei quali, e grazie ai quali, devono essere concepiti quei “mutamenti tendenziali, forze propulsive e forze antagonistiche, e fenomeni di tali forze” che rendono l’uomo un intero articolato al suo interno, la cui essenza prima ed ultima rimane insondabile.

22Orlando Franceschelli, Karl Löwith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli, Roma 1997, p.

179.

23 Karl Wojtyla, Persona e atto, Rusconi, Santarcangelo di Romagna, 1997, p.77.

24 Paolo Perticari, Introduzione all’edizione italiana. All’alba di un nuovo orizzonte. La filosofia acrobatica come civiltà pedagogica, in Peter Sloterdijk, Devi cambiare la tua vita, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2010, p. XXXIII.

(32)

1.3 Dalla Bestimmung des Menschen - la destinazione dell’uomo - alla configurazione attuale del mondo

Affermare che l’essenza prima ed ultima dell’uomo rimane insondabile significa, al fondo, interrogarsi, anche e soprattutto, circa la destinazione naturale, sociale, personale, storica dell’uomo ed il senso di tale destinazione. Un’interrogazione questa che giunge alle sue estreme conseguenze nella problematizzazione novecentesca dell’enigmaticità umana, ma che affonda le proprie radici, nella Betrachtung über die

Bestimmung des Menschen del 1748, del teologo luterano Johann Joachim Spalding.

Mentre qui il termine Bestimmung assume una connotazione squisitamente spirituale, di ricerca della corrispondenza dell’uomo con il progetto divino, nello svolgersi del XVIII e XIX secolo, esso subisce uno slittamento semantico in senso antropologico – che aiuta a comprendere come davvero l’uomo sia un intero articolato al suo interno – venendo inteso secondo diverse accezioni: civile in Mendelssohn, morale e destinale in Kant, collettivo e storico in Herder, dapprima storico collettivo di poi individuale in Schiller, fino ad arrivare ad un declino del concetto di Bestimmung in Fichte25, ed a una sua ripresa in Nietzsche, e grazie a Nietzsche nel Novecento.

Al fine di comprendere la configurazione odierna del mondo, in questa sede però, è l’accezione schilleriana del 1789 a suscitare particolare interesse giacché dona alla meditazione sulla destinazione dell’uomo una dimensione universale originalissima rispetto alle altre: nel raccordarle tutte, restituisce l’uomo all’uomo riconducendolo al proprio presente storico.

25

https://www.cle.unicamp.br/eprints/index.php?journal=kant-e-prints&page=article&op=view&path%5B%5D=499&path%5B%5D=394.

Helena Agazzi, Recensione a Laura Anna Macor, Die Bestimmung des Menschen (1748-1800). Eine Begriffsgeschichte. Stuttgart-Bad Cannstatt: frommann-holzboog, 2013, Kant e-Prints – Revista Internacional de Filosofia, Campinas, Série 2. v 10 n.1 pp. 114-118, Jan.abr. 2015.

(33)

Il 1789 è l’anno in cui, come professore straordinario all’Università di Jena”, Friedrich Schiller inizia, nel semestre estivo, il suo corso di lezioni sul significato della storia universale26 – Universalgeschichte – preceduto, di qualche giorno, da un’affollata Prolusione accademica congegnata intorno alla domanda ch’egli concepisce come il massimo problema della storia universale: “Che cosa di più grande ha l’uomo da dare all’uomo della verità?”. Dare la verità è la prima ed originaria destinazione umana; tutte le altre, diverse, destinazioni, che s’intrecciano nella storia universale – civili, morali, collettive, storiche, individuali – “una destinazione esse condividono tutte parimenti fra loro, quella che lorsignori hanno portato con sé venendo al mondo – educarsi ad essere uomini”; cioè esercitarsi alla ricerca, alla comprensione ed alla trasmissione di quel destino connaturato all’uomo che è la verità: un eterno presente che deve essere sempre

presupposto affinché ogni personale presente, così come, più in generale, la costituzione odierna del mondo, possa esser pensata. Considerato da questo punto di vista, lo studio

della storia universale assume in Schiller la forma di un esercizio spirituale che, abituando l’individuo a distaccarsi dalla propria temporalità immediata, lo pone, ad un tempo, nella prospettiva della soggettivazione e dell’oggettivazione di sé e, dunque, della correzione27, educandolo a conoscersi e riconoscersi. Ciò significa che questa destinazione, questo

intero – la verità – che quotidianamente deve venire costituendosi, sottende la

ricostruzione di un altro intero, l’uomo. Il sapere stesso, se così concepito, può essere pensato come un esercizio spirituale coniugantesi secondo diverse forme, la più performativa delle quali, grazie alle molteplici prospettive attraverso cui guarda

26 Appellata alternativamente anche allgemeine Geschichte e allgemeine Weltgeschichte.

27 “Abituando l’uomo a comprendersi con l’intero passato e a precorrersi nel futuro lontano, la storia universale estende «con illusione ottica» la breve esistenza del singolo trasferendola invisibilmente nel genere. Così, anche lo toglie dalla sua temporalità immediata e, dispiegando il grande quadro dei tempi e dei popoli, lo aiuta a correggere le frettolose decisioni del momento, i limitati giudizi dell’egoismo, una visione ordinaria e meschina delle cose morali”. Cfr. Lorenzo Calabi, Il sentiero della ragione e il tribunale del mondo. Introduzione di Lorenzo Calabi, in Friedrich Schiller, Lezioni di filosofia della storia, introduzione, traduzione e cura di Lorenzo Calabi, ETS, Pisa, 2012, p. 27.

(34)

all’essere, all’esistenza ed all’esistente, è la filosofia. Ed è appunto a tale molteplicità prospettica che s’appella la filosofia della storia schilleriana.

1.4 La posizione dell’uomo nel cosmo: verità, natura, società, individuo

Per lo Schiller delle lezioni sulla filosofia della storia, educarsi alla verità, oltre ad essere propria del genere, è anche una destinazione sociale e personale. Domandosi: “Che cosa di più grande ha l’uomo da dare all’uomo della verità?”, Schiller asseriva che la verità è una realtà che esige d’esser condivisa.

Egli aveva ereditato quest’idea di destinazione sociale dallo studio di quegli scritti kantiani nei quali veniva congetturato un inizio della storia degli uomini che potesse considerarsi universale, cioè universalmente valida. Ivi, raffrontando l’evoluzione storico-morale dell’uomo con quella della sua postura, Kant postulava una destinazione

naturale di tipo sociale28. Già in occasione della recensione allo scritto di Moscati, nel

1771, aveva avuto modo di osservare come, sebbene la posizione quadrupede risponda alla “prima preoccupazione della natura”29 – “che l’uomo si conservi per se stesso e a

modo proprio in quanto animale”30 – in lui è “posto anche31 un germe (Keim)32 di ragione grazie al quale, se33 si sviluppa, egli è destinato alla società”34. Solo grazie a quel germe, o meglio, all’interrotto sviluppo di quel germe di ragione – che guida la soluzione adattiva umana – l’uomo, dopo aver conquistato la postura eretta, può mantenerla – “in forma

28 Con il termine postura si può intendere, in senso proprio, una soluzione adattiva che l’uomo ha messo, e mette, biologicamente in atto di fronte al progressivo mutare delle caratteristiche dell’ambiente circostante; in senso traslato, invece, si può intendere il progressivo rischiaramento – il farsi chiaro – della ragione, il suo esodo dalla servitù al suo primo padrone, l’istinto, quella “voce di Dio a cui tutti gli animali obbediscono”. Immanuel Kant, Recensione allo scritto di Moscati: Della essenziale differenza corporea fra la struttura di animali e uomini, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari, 2002, p. 5.

29 Ibidem. 30 Ibidem.

31 Il corsivo è mio.

32 L’utilizzo del termine Keim, in Kant, è duplice: indicando contemporaneamente l’ambito teleologico naturale e quello morale ne problematizza l’interazione.

33 Il corsivo è mio. 34 Ibidem.

(35)

permanente” scrive Kant – elevandosi al di sopra degli altri animali ed iniziando così a considerarli dalla differente prospettiva dell’oggettivazione, della presa di distanza di uno sguardo che impara a conoscere da lontano35. In questo senso la nuova posizione che

l’uomo raggiunge non è solo, e tanto, una soluzione adattiva rispetto ad un ambiente circostante, ma è la determinazione di quella destinazione sociale presupposta in quelle disposizioni naturali cui Kant si riferirà nel 1784: “tutte le disposizioni naturali (natürliche Anlagen) di una creatura sono destinate a dispiegarsi un giorno in modo completo e conforme al fine”36: ogni disposizione risponde ad un fine già dato, già posto,

e quello dell’uomo è la società.

I tempi ed i modi di questo dispiegarsi sono determinati dalla ragione – la facoltà di estendere le regole e gli scopi dell’uso di tutte le forze di una creatura molto oltre l’istinto naturale37 – la quale pur non conoscendo limiti nel travalicare i confini impostigli dall’istinto, non opera immediatamente, ma mediatamente nelle generazioni, “ha bisogno di tentativi, di esercizio e d’istruzione per progredire a poco a poco da un grado di conoscenza all’altro”38. “Un giorno” indica quindi un tempo che continuamente si

realizza, facendosi poietikòs. L’idea che permea tutte le congetture kantiane è che esista un’unitarietà che impronta il genere umano, un filo conduttore (Leitfaden – inteso come criterio e guida) che lavora al proprio promuovimento agendo in ragione di un fine intrinseco sconosciuto agli uomini, il quale opera a tutti i livelli dell’esistenza umana,

35 È da notare, per inciso, che qualche anno dopo, nel 1798, Kant avrà modo di ripetere che “il fatto che l’uomo possa rappresentarsi il proprio io, lo eleva infinitamente al di sopra di tutti gli altri esseri viventi sulla terra. Per questo egli è una persona e, in forza dell’unità di coscienza persistente attraverso tutte le alterazioni che possono toccarlo, egli è una sola e medesima persona, cioè un essere del tutto diverso, in grado e dignità, dalle cose”. Idem, Antropologia pragmatica, Laterza, Bari, 1993, p. 9.

36 Idem, Idea per una storia universale dal punto di vista cosmopolitico, in Scritti di storia, politica e diritto, Laterza, Bari, 2002, p. 31.

37 Cfr. Ibidem. È la capacità propria dell’uomo di poter usare - manipolare ed indirizzare - le proprie forze ben oltre le regole e gli scopi dettati dall’istinto.

(36)

biologica e storica, ed è presente anche alla ragione e la guida pur trascendendo l’accidentalità.

Il pieno dispiegamento della ragione accompagna, non solo uno sviluppo corporeo in grado di procedere in accordo con le potenzialità psichiche ed intellettive dell’uomo, ma anche la possibilità di riflettere circa la sua nuova posizione. Infatti la postura eretta implica un cambiamento di posizione all’interno della scala naturae, una condizione esistenziale inedita, una disposizione – sia naturale che morale – differente rispetto a sé e al resto della natura; essa permette di considerare e di considerarsi sotto una nuova luce: nell’insieme degli animali, l’uomo occupa ora un posto nuovo, trova una nuova collocazione, la quale ingenera il bisogno di nuovi punti di riferimento ed una riorganizzazione dell’ambiente proprio, come ricorda lo Scheler della famosa conferenza del 1928 quando dice che nell’istante stesso in cui l’uomo si è posto “al di fuori della natura per farla oggetto del suo dominio […] ha dovuto ancorare il proprio centro in qualche modo al di fuori e al di là del mondo-ambiente. Essendosi posto tanto audacemente al di sopra del mondo-ambiente, egli non poteva più considerarsi come un semplice “membro” o “parte” di esso!”39. Riconosciamo qui il germe di ragione nel suo sviluppo.

Mentre il termine posizione, indica di per sé un porre, un porsi, un definirsi rispetto ad un contesto, un’orizzontalità - e quindi implica una relazione con l’ambiente circostante e con ciò che abita questo ambiente - il termine disposizione designa un porre in base ad un ordine, ad un fine, ed implica quindi una verticalità. Ed è proprio una simile verticalità a tendere la mano alla teleologia morale. Dopo aver riconosciuto nell’uomo

39 Max Scheler, La posizione dell’uomo nel cosmo, op. cit., p. 179. Cfr. “egli per un verso s’innalza infinitamente al di sopra degli animali, ma deve poi anche adattarsi agli incomodi che gli vengono dall’aver sollevato il suo capo”, Immanuel Kant, Recensione allo scritto di Moscati, op. cit. p. 5. Il contesto scheleriano è certamente differente rispetto a quello kantiano. Qui vale l’analogia solo per quanto concerne il riconoscimento di una differenza morale dell’uomo rispetto all’animale.

(37)

l’esistenza di disposizioni naturali è necessario riconoscere anche delle disposizioni

morali, intese come inclinazioni della volontà – quindi intenzioni – e dell’animo. Tali

inclinazioni determinano sia la sfera affettiva che quella più specificamente legata all’agire morale40, ed “è in questa capacità di assumere posizione verso una costellazione di valori ex-centrica rispetto a quella che orienta la condotta animale, che si esplicita la particolarità dell’uomo nel cosmo”41.

In questa capacità prende forma la storia universale, intesa quale cerchio all’interno del quale “sta tutto il mondo morale. Essa accompagna l’uomo attraverso tutte le situazioni che ha vissuto, attraverso […] la sua stoltezza e la sua saggezza, il suo peggiorare e il suo nobilitare, di tutto ciò che egli ha preso e dato deve rendere conto”42.

Poiché permette d’osservare l’uomo nel suo agire storico, attraverso la successione delle epoche, la storia universale ha il potere di rendere l’uomo all’uomo; essa gli parla direttamente e lo interroga personalmente, abituandolo ad esercitarsi attivamente – nella concretezza delle proprie azioni – alla ricerca della verità sulla propria intima natura; il suo studio diventa così un esercizio spirituale.

Da questa prospettiva è possibile comprendere come sia: “propriamente un’educazione a conoscersi e a riconoscersi quello che la storia universale consente. E per questo fine si studia la storia universale”43. Essa impone all’uomo ch’egli, nel

domandarsi quale sia il proprio posto nel cosmo, interroghi contemporaneamente il proprio io: “Chi sono io?”. Attraverso tale “conoscersi e riconoscersi” lo spirito filosofico raccorda la propria attività con la grande totalità del mondo, riporta a unità le forze

40 In Kant il dialogo tra teleologia della natura e disposizioni naturali da un lato e teleologia e disposizioni morali dall’altro non comporta, però, tout court la soluzione del problema della teleologia della Menschengeschichte, esso è solo tematizzato.

41 Guido Cusinato, Guida alla lettura, op. cit, p. 31.

42 Friedrich Schiller, Lezioni di filosofia della storia, op. cit., p. 48.

43 Lorenzo Calabi, Il sentiero della ragione e il tribunale del mondo. Introduzione di Lorenzo Calabi, op. cit., p. 27.

Riferimenti

Documenti correlati

fondere. Ma perché dico queste cose? Per spiegare a me stesso il nuovo entusiasmo realistico e consapevole, con cui sono tornato da Ivrea. Non ho mai sentito

[r]

The Actor Studio ( Battaglino and Damiano, 2014a ) test was designed to validate the role of emotions in the agent’s deliberation: given the character’s scale of moral

Probably, Mary Shelley's own sad experiences caused her brain to develop such ideas but some scholars believe that the author's interest in future and science might have been

Il sale era utilizzato dalla maggior parte della popolazione come conservante per carne e pesce, l'impiego come conservante manteneva alta la domanda del

Oggi sono contenta e posso godere della stima dei Clienti che hanno riposto in me quella fiducia: il fatto di essere ancora richiesta da loro per informazioni e consigli

E dopo quel primo incontro, il passaggio da manoscritto a libro ebbe inizio. Leo Longanesi, rimasto colpito dal romanzo, l’indomani propose a Berto un contratto in cui si

Chart 24 and 25 display the association that people tend to do when asked about transactions related to micropayments and smartcards. It should be noted that