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Capitolo 2 La filosofia come esercizio d’esperienza

2 Esercizi spirituali nell’antichità

2.1 Perché spirituali?

2.1.4 Concentrazione dell’io

Tutte le pratiche di trasformazione dell’io presuppongono che l’individuo si disponga spiritualmente all’attenzione – προσοχή – un’apertura al e una concentrazione

104 Il tema dello specchio può avere una triplice interpretazione: nel primo caso l’altro è lo specchio di un’esperienza esistenziale dell’io, allo stesso tempo personale e universale; nel secondo caso, attraverso la direzione delle anime dei propri discepoli, il maestro stesso corregge e dirige la propria anima. Nell’ultimo caso l’altro è lo specchio della ragione universale: “Se, dunque, la filosofia è epimeleia tês psychês, ossia cura dell’anima, e se tale cura presuppone la conoscenza di ciò di cui ci si deve prendere cura, come si realizza concretamente questo processo di autoconoscenza? […] l’anima può conoscere se stessa solo guardandosi allo specchio, ossia rivolgendo lo sguardo verso un’altra anima […]. Si tratta di una tesi profonda e misteriosa che ha dato adito a interpretazioni molto diverse”, la più plausibile sembra essere quella dialettico-antropocentrica secondo la quale è impossibile conoscersi attraverso la solitaria introspezione, è necessario il dialogo con gli altri, ma “l’altro che il sé conosce non è l’individuo particolare ma ciò che accomuna tutti gli uomini vale a dire la ragione e l’intelligenza”. Per quest’ultimo caso cfr. Franco Ferrari (a cura di), Socrate tra personaggio e mito, BUR, Milano, 2007, p. 172.

sul momento presente, ci si abbandona ad esso. Nello scegliere una vita filosofica ci si consacra ed insieme si compiere un gesto di elezione che implica anche un altro tipo di

abbandono: “ogni forma di spiritualità comincia con un «lasciare la presa», con una rinuncia dell’io limitativo e limitante”105. Rinunciare al proprio io limitativo e limitante significa smettere di cercare di tenere stretto in mano il filo del tempo, lasciare ch’esso scorra via, abbandonare in egual modo il passato – le consuetudini acquisite, la propria precedente visione del mondo – ed il futuro con i propri progetti.

Poiché presente, passato e futuro sono i veicoli attraverso cui tutte le passioni si muovono nell’animo, concentrarsi unicamente sul presente fa capire cosa sia realmente necessario e naturale, libera dal giogo di ciò che non dipende più da noi. Vigilare ed avere una presenza continua di spirito per reagire alla realtà che ininterrottamente pone sfide nuove e richiede scelte immediate. Consacrarsi ad una vita filosofica, ed in particolare ad una precisa regola di vita, significa accogliere questa regola e quotidianamente lasciare che essa cresca dentro l’io. Ogni giorno ci si dispone, e ri-dispone – più volte al giorno ed almeno mattino e sera – a memorizzare, , e meditare, , la regola alla cui luce analizzare gli eventi della propria giornata.

2.1.4.1 L’ascesi

Tutte le scuole dell’antichità condividono l’idea per cui, per essere felice e conoscersi interamente, l’io debba gradualmente abbandonare il proprio punto di vista parziale ed elevarsi verso una prospettiva universale, smettere di confondersi con i propri desideri ed appetiti, risospingendoli indietro quietandoli, senza cedere al loro immediato soddisfacimento. Quest’idea è il presupposto essenziale dell’ascesi.

105 A. Cheng, Historie de la pensée chinoise, Seuil, Paris, 1997, p. 198. Storia del pensiero cinese, Einaudi, Torino, 2000, vol. I, p. 205.

A partire dalla convinzione che la resistenza fisica predisponga all’indipendenza dell’io, le pratiche ascetiche prevedono che l’individuo si sottoponga ad esercizi che allenino l’animo ed il corpo al dominio di sé: seguendo il principio di sottrazione secondo cui tanto più ci s’indebolisce, tanto più corpo ed anima ne sapranno trarre giovamento: ci si mette alla prova con diete ed astinenze – alimentari e sessuali – digiuni, esposizione alle intemperie, ingiurie e umiliazioni. Ogni scuola, poi, prevede prescrizioni proprie in accordo con la regola di vita professata.

Tali pratiche educano l’io utilizzando come loro tramite più prossimo la corporeità, così, poiché il corpo non dimentica un dolore patito, esse sfruttano la dolorabilità della carne, trasformando il corpo stesso in un memoriale perenne.

2.1.4.2 Il pensiero della morte

Spesso la stessa filosofia può esser, ed è stata, pensata come esercizio della morte. La parola morte in questo contesto indica non solo il termine naturale della vita, ma anche quella spoliazione – kenosis – che attraverso quest’esercizio l’uomo deve compiere per conoscersi intimamente e, nel divenire totalmente sé – cioè nell’uccidere l’uomo vecchio – divenire altro: “non si entra nella verità senza essere passati attraverso il proprio annientamento; senza aver soggiornato a lungo in uno stato di estrema umiliazioni”106.

La prefigurazione della propria morte fisica non solo prepara ad una buona morte, serena ed accettata, ma anche uccide tutte quelle ombre di disperazione e distrazione che il cattivo uso dei sensi genera quotidianamente, ombre che non permettono all’io d’essere presente a se stesso e di agire moralmente.

Parte complementare di quest’esercizio è la prae-meditatio malorum, una meditazione preventiva, una presentificazione di possibili sventure, eventi nefasti e mali

che potrebbero accadere. Ci si prepara al male affinché al suo sopraggiungere l’animo non ne rimanga inquietato, ma riesca a mantenere un proprio equilibrio. Si formulano dei discorsi da richiamare in proprio soccorso non solo al sopraggiungere della disgrazia, ma anche per tenere sotto controllo il panico prodotto dalla paura del male. Essi chiariscono come la morte non faccia propriamente parte della vita stessa o come non sia qualcosa che dipende dall’uomo.

Simone Weil aiuta con un bell’esempio:

il pensiero umano non può ammettere la realtà della sventura. Se qualcuno ammette la realtà della sventura deve dire a se stesso: «Un concorso di circostanze che non controllo può togliermi in qualsiasi momento qualsiasi cosa, incluso tutto ciò che considero a tal punto mio da farlo coincidere con me stesso. In me non vi è nulla che io possa perdere. Un caso può, in qualsiasi momento, abolire ciò che io sono e mettere al suo posto qualsiasi cosa vile e spregevole». Pensare questo con tutta l’anima equivale a sperimentare il niente. Equivale allo stato di estrema e totale umiliazione che è anche la condizione per passare alla verità. Equivale ad una morte dell’anima. Per questo lo spettacolo della nuda sventura causa all’anima lo stesso moto di ritrazione che l’approssimarsi della morte causa nella carne107.

L’esercizio della morte è un “agire, parlare, pensare sempre, come chi può in qualsiasi momento uscire dalla vita”108, è un vivere ogni giorno con la consapevolezza che la morte accompagna ogni passo. Esso presuppone quindi una vigilanza costante verso se stessi. L’idea della morte e del dolore proietta immediatamente l’individuo nella dimensione della verità, lo spinge così ad interrogarsi sulla veracità del proprio sentire, sulla genuinità delle proprie azioni ed intenzioni. Svela su quali sicurezze riposa il cuore dell’uomo e ne mostra la precarietà; come il sale, le purifica, ridimensiona i contrasti, facendoin modo che ogni giorno sia l’incarnazione della norma di vita scelta.

107 Ivi, p. 43.

2.1.4.3 L’esame di coscienza

Se è vero che l’etica è ogni dottrina e riflessione speculativa inerente il comportamento pratico dell’uomo che ha come scopo quello di indicare quale sia il vero

bene ed i mezzi atti a conseguirlo, quali siano i doveri morali verso se stessi e gli altri, e

quali i criteri per giudicare la moralità delle azioni umane, allora l’esercizio dell’esame di coscienza è eminentemente un atto etico. Esso aiuta l’individuo a prendere coscienza dello stato morale in cui si trova attraverso una disamina puntuale e frequente degli errori e dei progressi compiuti.

L’esame di coscienza è un più che quotidiano dialogo con se stessi, un tribunale interiore in cui ognuno è alternativamente giudice, avvocato ed imputato. Pur essendo una resa dei conti, esso non è un bilancio dell’anima, quanto piuttosto un mezzo attraverso il quale ristabilire il potere della ragione. Quasi ogni scuola dell’antichità consiglia di praticare questo esercizio mattina e sera. La mattina ci si dispone ad affrontare la giornata elencando i progressi che devono essere compiuti ed i principi che devono presiedere l’azione – nelle Diatribe Epitteto incoraggia i discendi a domandarsi ogni mattina appena alzati: “Chi sono io? […] Sono un essere ragionevole? Allora, cosa si esige da un tale essere?”109. La sera, invece, si verifica il proprio progredire spirituale. Una forma particolare d’esame di coscienza serale è la preparazione al sonno: prima d’andare a dormire, per placare le pulsioni inconsce che si manifestano nei sogni – desideri selvaggi di violenze di varia natura, stupri, assassini – si stimola la parte razionale dell’anima meditando diversi generi di discorsi interiori che vertano su oggetti elevati.

Questo dialogo viene inizialmente insegnato e guidato da un maestro, un direttore spirituale, ma in seguito viene condotto in solitudine, spesso addirittura in forma scritta, così da avere sottomano una minuziosa osservazione della frequenza dei propri progressi

e delle proprie manchevolezze.