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Osservazioni sul ruolo della donna nelle novelle di Matteo Bandello

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Academic year: 2021

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INTRODUZIONE ... 2

CAPITOLO I ... 14

LA FIGURA DELLA DONNA ... 14

1.1 La voce delle donne... 14

1.2 Il modello di donna nella letteratura del Rinascimento italiano: tra femminismo e tendenze misogine ... 20

1.3 La varietà del mondo femminile nelle Novelle bandelliane ... 35

CAPITOLO II ... 39

LE DONNE DI MATTEO BANDELLO ... 39

2.1 Il Novelliere... 39

2.1 La condizione della donna nelle narrazioni bandelliane ... 41

2.2 Donne e matrimonio ... 47

2.3 L’Amore come specchio della società ... 55

2.4 Le vergini eroine ... 59

2.5 Caratteri e ritratti di donne ... 67

CAPITOLO III ... 81

LE NOVELLE D’ADULTERIO ... 81

3.1 La donna adultera ... 81

3.2 Le novelle tragiche ... 84

3.3 Le beffe rosa ... 91

3.4 L’inettitudine dei mariti bandelliani ... 101

3.5 Ambiguità e contraddizioni ... 104

CONCLUSIONI ... 108

Bibliografia ... 113

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INTRODUZIONE

In secoli di storia della letteratura, la donna è stata scritta e raccontata dall’uomo, come se la voce femminile potesse farsi intendere solo attraverso la parola maschile e così finisce con il vivere una natura sdoppiata: da una parte, è la fonte di ispirazione del poeta, dall’altra tuttavia, quando le si consente l’accesso al mondo letterario in veste di soggetto scrivente, si trova ai margini.

Ma occorre guardarsi bene dal credere che le donne siano oggetto di storia in quanto tali. È il loro posto nella società, la loro condizione, i loro ruoli e il loro potere, il loro silenzio e la loro parola che intendiamo comprendere. È la varietà delle rappresentazioni della donna che vogliamo cogliere nella permanenza e nelle trasformazioni.

Presente nella realtà di tutti i giorni è al tempo stesso straordinario accorgersi fino a che punto la donna occupi lo spazio dei discorsi e delle rappresentazioni, lo spazio delle favole e delle prediche e, ancora, quello del mondo scientifico e filosofico.

Dal Cinquecento il dibattito sul ruolo della donna e sulle relazioni con l’altro sesso si articola sullo sfondo di un’instabilità socio-politica e di un deterioramento dei quadri di riferimento, tutto mentre il modello ecclesiale si sgretola e si organizzano nuove pratiche religiose.

In questa fase di riorganizzazione la dottrina ecclesiastica — l'ubbidienza all'autorità della Chiesa — ha maggiore peso della parola cristiana e le repressioni tridentine portarono irrimediabilmente alla sessuofobia, alla condanna degli istinti naturali e al rigore pedagogico. Questi caratteri si riversano poi nella letteratura di tutto il secolo.

I testi, le immagini di questo particolare momento storico ci trasportano nel cuore del nostro discorso: la donna viene definita come maliziosa, imperfetta, creatura di eccessi e misteri diabolici, mortifera e scaltra. Si ha un ben dirla anche come un essere dolce e sottomessa: ma ben presto, nelle varie descrizioni, la sua crudeltà e la sua sessualità smodata sembrano avere la meglio.

Questo lavoro di tesi si propone di analizzare l’immagine e il ruolo della donna nella società del XVI secolo, attraverso la lettura delle novelle di Matteo Bandello, la cui importanza culturale risiede soprattutto nel fatto di esser riuscito a trasferire nei suoi racconti lo spirito del suo tempo.

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Egli infatti propone dei resoconti narrativi che hanno sullo sfondo gli avvenimenti maggiori della storia d'Italia di quel tempo e sviluppa una tematica erotica ricca e interessante che portano alla nascita di numerose figure di donne, che ebbero un grande seguito anche nella letteratura d’oltralpe.

Se è vero, infatti, che il Rinascimento, dal punto di vista artistico, rappresenta la rielaborazione dei modelli di equilibrio ed eleganza classici, non si può dimenticare che in quella fase storica l’Italia era costantemente minacciata dalle invasioni straniere e gli intellettuali spesso riflettevano un senso di pessimistica impotenza di fronte ai grandi sconvolgimenti che attraversavano il vecchio continente. In quegli anni tutte le rassicuranti basi del pensiero medievale venivano a mancare: guerre, tensioni religiose, rivoluzione scientifica, scoperte geografiche avevano rivoluzionato il punto di vista di artisti e letterati, lasciando in loro un sottofondo di angoscia che non può essere ignorato.

Il mondo che si riflette nelle opere e nelle figure dei più grandi autori del Cinquecento italiano è un mondo molto più spesso drammatico che sereno, più spesso violento e feroce che rappacificato, poiché tutta l’Italia viene percossa e straziata dalle truppe francesi e spagnole per il predominio delle nostre terre. Il boato delle armi rimbomba nel racconto delle vicende private e intime, nei tradimenti, nelle gelosie, negli omicidi passionali che tingono di tragico i racconti bandelliani.

Non possiamo non accennare al fatto che, per una buona parte, il Novelliere è un vero e proprio trattato delle passioni. Ed è in questi moti della passione che il Bandello realizza commedie, drammi e tragedie circa i vizi e le virtù delle protagoniste femminili.

In un simile contesto, è evidente come le donne avranno un’importanza fondamentale e che si parlerà di personaggi femminili estrapolati da ogni contesto sociale e atteggiamento morale.

Per cogliere appieno la complessità e la ricchezza del bagaglio culturale e umano del nostro autore, possono essere utili alcuni cenni biografici.

Matteo Bandello è un frate dell’ordine domenicano, nato a Castelnuovo Scrivia nel 1485 e cresciuto a Milano presso il convento di santa Maria delle Grazie, dove era priore suo zio Vincenzo. Grazie a quest’ultimo poté compiere un lungo viaggio nell’Italia centrale e meridionale, stringendo relazioni con i personaggi più in vista del tempo e acquistando quella spregiudicata esperienza del mondo e della vita, che si rifletterà nelle Novelle. Tornato a Milano nel 1506 dopo la morte dello zio cominciò a frequentare i salotti aristocratici lombardi, finché caduta la città in mano ai francesi si rifugiò a Mantova, alla corte dei Gonzaga dove ottenne la protezione di Isabella d’Este. Resosi secolare, condusse

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una vita errabonda, seguendo prima Francesco Gonzaga, Giovanni delle Bande Nere, Ranuccio Farnese e, nel 1529, Cesare Fregoso, capitano di ventura della Repubblica veneziana. Quando questi fu assassinato dai sicari di Carlo V (1541), il nostro autore accompagnò la vedova, Costanza Rangone, in Francia, dove Enrico II gli assegnò il vescovato di Agen. Egli morì probabilmente ad Agen nel 1561.

Specchio interessante e vivace di questa vita romanzesca e agitata, tra le corti signorili e nelle sale festose delle colte gentildonne, non meno che sui campi di battaglia, nelle discussioni ora serie ed elevate, ma più spesso qualunquiste e spensierate, con religiosi di tutti gli ordini e grado, specchio, dunque, di tutto questo mondo, che vive e discute e si agita, sono le duecentoquattordici novelle, di varia importanza e lunghezza e inegualmente distribuite nelle quattro parti della raccolta.

Riflettere tuttavia sull’opera di Bandello significa anche riflettere sulla novella.

Quello novellistico è un genere che, alla brevitas, unisce la ricerca di novità e la varietà dei codici espressivi entro un contesto di dialogo e conversazione, di scambio di saperi e di notizie. La qualità della mimesi del reale, divisa tra il mirabile, il verosimile e il vero, la finzione dell’oralità, le finalità pedagogiche, ludiche e sapienziali, contribuiscono alla fortuna del genere tra i lettori di ogni generazione.

La novella diventa lo specchio della realtà quotidiana e racconta con gli strumenti della finzione una società e un immaginario in continua evoluzione, perché in rapporto costante con la storia, dalla più recente alla più antica.

Ed è proprio questa elasticità nell’adattarsi ad ogni occasione a fare della novella bandelliana un genere utile a finalità plurime: Bandello narra novelle per divertire, per consolare, per denunciare, per educare, per riflettere sulle cose del mondo, per ricordare fatti storici antichi e contemporanei, per creare un universo sociale comune.1

Egli, di fatto, scrive novelle erotiche, tragiche, comiche, orrorose, narrando episodi di scene storiche o avvenimenti di cronaca, concentrando la sua attenzione su alcune figure di donna, alle quali vengono concesse piani di rilievo assai maggiori rispetto ai protagonisti maschili e che verranno esaminate nel secondo e terzo capitolo

1 Voi mò, candidi lettori che le cose mie legerete, degnatevi pigliar il tutto con quell’animo che io tutte le mie

novelle ho scritto, che fu non ad altro fine certamente se non per dilettare ed avvertir ogni sorte di persone che, lasciate le sconce cose, debbiano attender a viver onestamente: veggendosi per lo più che l’operazioni triste e viziose o tardi o per tempo restano punite, restando né la memoria con eterna infamia; ove le cose ben fatte ed oneste sempre vivono con gloria e sono lodate e celebrate. State sani. Da Il Bandello ai candidi ed umanissimi lettori salute.

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Matteo Bandello è perciò uno scrittore di novelle che egli chiama anche «istorie», alcune delle quali vengono presentate come «disonestissime», «mirabili» ma sopra ogni cosa «vere».2

Le novelle di Bandello sono storie vere in un senso più ampio che non sia quello di notizie di cronaca, riguardante questo o quell’episodio e personaggio: sono vere non perché l’autore le abbia inventate ma perché le ha udite o le ha lette e le ha conservate nella sua memoria e trascritte come fatti avvenuti o dati per tali.

Per farle apparire storie e non favole, lo scrittore lombardo attinse alle cronache d’ogni tempo, le narrazioni più passionali, più intricate di amorose vicissitudini, di curiosi accidenti, d’aneddoti arguti; ovvero, quando apprese avventure visibilmente favolose e romanzesche, si ingegnò per renderle il più possibile verosimili, eliminando o riducendo l’elemento fantastico, corredandole di particolari concreti, di sapore storico e locale.

Bandello si preoccupa essenzialmente della verità e della verosimiglianza dei suoi racconti; e proprio perciò comprendeva che la cornice conferiva alla novella un accento di finzione letteraria; e seguendo l’esempio del Novellino di Masuccio Salernitano, premise a ogni novella una lettera dedicatoria, rivolta a personaggi del suo tempo, nella quale rievocava l’occasione in cui aveva udito la novella, atteggiandosi pertanto a relatore, anziché a narratore in persona.

Sebbene queste novelle vengono scritte senza alcuna cornice, Bandello volle nondimeno dare a «ciascuna un padrone o padrona, dei suoi signori ed amici», vale a dire, che egli antepose ad ogni racconto una lettera dedicatoria, senza bisogno di seguire alcun tipo di ordine: «il che nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto di storia continovata, ma una mistura di accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi, a divere persone avvenuti, e senza ordine alcuno recitati»3.

2 Ma al mio proposito dico che ogni istoria, ancor che scritta fosse ne la piú rozza e zotica lingua che ci sia,

sempre diletterá il suo lettore. E queste mie novelle, s’ingannato non sono da chi le recita, non sono favole ma vere istorie. Dicono poi che non sono oneste. In questo io son con loro, se sanamente intenderanno questa onesta. Io non nego che non ce ne siano alcune che non solamente non sono oneste, ma dico e senza dubio confesso che sono disonestissime […], Parte II, Novella 11 Una donna si trova in un tempo aver tre innamorati in casa e venendo il marito quello mirabilmente beffa, Menetti E. (a cura di), Matteo Bandello: Novelle, Bur Rizzoli, Milano 2011, pp 357-373.

3 Onde essendo data fuori la prima e seconda parte di quelle, non mi pare per convenienti rispetti tardar più

a mandar appo le due la terza. E non avendo potuto servar ordine ne l’altre, mè no m’è stato lecito servarlo in queste. Il che certamente nulla importa, non essendo le mie novelle soggetto d’Istoria continovata, ma una mistura d’accidenti diversi, diversamente e in diversi luoghi e tempi a diverse persone avvenuti e senza ordine veruno recitati. Da IL BANDELLO AI CANDIDI ED UMANISSIMI LETTORI SALUTE.

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Tuttavia una tal confusione produce un’impressione assai meno sgradevole di quanto parrebbe, per il fatto che ciascuna novella può considerarsi indipendente dalle altre, dacché le serve da cornice la lettera di dedica.

Ogni novella è così arricchita da una lettera indirizzata a persona di larga notorietà, o anche affatto ignota, delle classi più svariate: son uomini di chiesa, di toga e di spada, gentiluomini e mercanti, donne famose per cultura, per nobiltà o per censo, poeti e letterati di ogni regione, protettori dello scrittore, o più semplicemente suoi amici o conoscenti. La sfida di Bandello ai suoi lettori è quella di legittimare questa illusione, che nasce dalla palese falsificazione dei documenti storici. I nomi dei dedicatari, dai noti intellettuali del suo secolo, ai signori presso i quali Bandello ha prestato i suoi servigi, sono esistiti realmente, ma nelle dediche interagiscono con situazioni e personaggi totalmente inventati. Insieme al caso nudo e crudo acquistano rilevanza e significato la scelta e la ricostruzione di quest’ultimo attraverso la parola di chi la racconta, uomo o donna di esperienza, che sa dare valore e senso alla vita. Ogni caso viene affrontato in un contesto di conversazione, in cui le opinioni non sono definitive ma occasione di confronto, espressione della molteplicità dei punti di vista. Tutto ciò ha una ricaduta immediata sul piano stilistico: non si tende più ad una scrittura ispirata al nobile modello di Boccaccio ma si persegue la registrazione di una lingua comune, anche se cortigiana, che sia accessibile a tutti.

Bandello rifiuta così l’impiego di uno stile di tipo boccaccesco per non rischiare di attenuare o dissipare quel tono realistico, di vita vissuta, e magari di cronaca che egli voleva dare alle sue narrazioni.

In più luoghi del suo ampio novelliere Bandello si dichiara orgogliosamente «lombardo»4, rivendicando l’espressività della sua lingua materna, frutto degli scambi linguistici e narrativi dei ducati settentrionali.

4 io non sono toscano, né bene intendo la proprietà di quella lingua, anzi mi confesso lombardo, anticamente

disceso da quelli ostrogoti che, militando sotto Teodorico loro re ed avendo le stanze a Dertona, edificarono la mia patria ne la via Emilia tra i liguri cisapennini, non lungi da la foce de la Schirmia, ove quella le prese acque fontanili de l’Apennino e da torrenti accresciute discarca nel re dei fiumi.[…] Non sarebbe adunque gran meraviglia se io talora usasse alcuna parola triviale, e poco usitata, che spirasse alquanto del gotico. Se la lingua tosca mi fosse stata natia o apparata l’avessi, molto volentieri usata l’averei, perciò che conosco quella esser molto castigata e bella. […] Voi mò candidi miei lettori che le cose mie leggerete, degnatevi pigliar il tutto con quell’animo che io tutte le mie novelle ho scritto, che fu non ad altro fine certamente se non per dilettare ed avvertir ogni sorte di persone che, lasciate le sconce cose, debbiano attender a vivere onestamente: veggendosi per lo più che l’ operazioni triste e viziose o tardi o per tempo restano punite, restando ne la memoria con eterna infamia; ove le cose ben fatte ed oneste sempre vivono con gloria e sono lodate e celebrate. Da Il Bandello ai candidi ed umanissimi lettori salute, pp. 482-485.

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Tanto più che si rendeva conto, come già Castiglione5, di non essere il più adatto a

maneggiare adeguatamente la lingua fiorentina nell’elegante maniera di Boccaccio.

Di qui l’onesta e modesta dichiarazione di non «avere stile»6: dichiarazione che,

chiaramente, non va presa ingenuamente alla lettera, bensì considerata in relazione alle idealità letterarie e alle istanze artistiche dello scrittore, ossia a quella sua poetica del vero, la quale predilige le misure formali antiletterarie e si orienta verso uno stile capace di dare il senso del reale: uno stile esatto e preciso, piano e rapido, minuzioso nelle descrizioni, esauriente nei ritratti, rigoroso nella rappresentazione degli episodi e delle vicende, piuttosto povero di carica allusiva ed evocativa, ma il più possibile aderente alle cose narrate.

Bandello scriveva, quindi, per conservare la memoria del suo tempo, dei mille accidenti, anche di quelli che potevano apparire insignificanti o comuni ma che restavano i soli a creare meraviglia e interesse in chi li avrebbe letti, travolgendo il lettore del suo tempo che poteva così misurarsi e confrontarsi con le «mirabili istorie».

Per lui non era tanto importante il contesto in cui accadeva il fatto da raccontare, quanto la sua eccezionalità. Ecco che la maggior parte delle novelle attinge ad avvenimenti straordinari che avvengono in situazioni quotidiane e spesso umili, senza però tralasciare vicende di storia antica e recente.

L’eccezionalità di un fatto va intesa nel senso più ampio possibile:

“Mirabili nel vero sono tutti quei casi che fuor de l’ordinario corso del nostro modo di vivere a la giornata accadeno, e spesso quando gli leggiamo ci inducono a meraviglia, ancora che talvolta molti uomini, non avendo riguardo a la santità de l’istoria che deve essere con verità scritta, come leggono una cosa che abbia del mirabile o che lor paia che non deverebbe esser di quel modo fatta, dicono: - Forse non avvenne così, ma chi questo scrisse l’ha voluto a modo suo adornare.” 7

5 Il libro del Cortegiano, Dedica, cap. II.

6 Io non voglio dire come disse il gentile ed eloquentissimo Boccaccio, che queste mie novelle siano scritte in

fiorentin volgare, perché direi manifesta bugia, non essendo io né fiorentino né toscano, ma lombardo. E se bene io non ho stile, ché il confesso, mi sono assicurato a scriver esse novelle, dandomi a credere che l’istoria, e cotesta sorte di novelle possa dilettare in qualunque lingua ella sia scritta. Da il Bandello ai candidi e umani lettori, Menetti E. (a cura di), Matteo Bandello: Novelle, Bur Rizzoli, Milano 2011, pp79-81.

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Nel brano citato sopra, Bandello affronta il tema della veridicità delle sue «istorie» e ritorna sull’ argomento nel seguente estratto:

“Io veggio molti di voi, signori miei, pieni d’ammirazione di quanto adesso vi narro, e vi deve forse parere ch’io vi narri fole di romanzi, o de le favole che si fingono su le mani. Ma io vi dico una vera istoria” 8

Nello spazio narrativo tra la lettera dedicatoria e la novella vera e propria, Bandello raccoglieva, come in un album dei propri ricordi, le occasioni dalle quali nascevano le sue novelle, le fortunate personalità incontrate nei suoi lunghi viaggi per le corti dell’Italia centro-settentrionale.

Proprio il moltiplicarsi delle diverse possibilità dei casi, divertenti, drammatici, bizzarri, patetici, orribili, che attira Bandello e che, a seconda delle situazioni e degli umori, lo incuriosisce, lo incanta e lo esalta. Ma anche nelle novelle dove domina lo sgomento si percepisce lo stupore, la sorpresa per le infinite e sempre nuove combinazioni a cui conducono la varietà delle indoli e delle passioni dei diversi individui.

Nell’ampio e organico saggio sulle Novelle bandelliane, Lelio Cremonte9 tenta di

evidenziare come il termine «meraviglia» assuma il sentimento, espresso in reazione alla stranezza degli eventi (che sembrano favole «e non di meno son pur avvenuti e son veri»10); ed esiste poi, una delle chiavi di lettura fondamentali per comprendere il valore artistico di molte novelle bandelliane, che seppure apparentemente nude e secche, in realtà si alimentano anch’esse di un latente e teso stupore.

E sarà, a volte, l’ammirazione per quello che c’è di stravagante o esemplare nei fatti narrati, o l’orrido che si prova davanti ad un episodio grave e raccapricciante, o altre volte

8 Parte I, Novella 57, De le molte mogli del re d’Inghilterra e morte de le due di quelle, con altri modi e varii

accidenti intervenuti.

9 Cremonte L., Matteo Bandello e i casi mirabili delle sue novelle, a cura del Comitato onoranze bandelliane,

Alessandria 1996.

10 Spesse fiate sogliono avvenire casi cosí strani che,quando poi sono narrati, par che piú tosto favole si

dicano che istorie, e nondimeno son pur avvenuti e son veri. Per questo io credo che nascesse quel volgato proverbio: che “il vero che ha, faccia di menzogna non si deverebbe dire”. Ma dicasi ciò che si vuole, ch’io sono di parer contrario, e parmi che chiunque prende piacer a scriver i varii accidenti che talora accader si veggiono, quando alcuno gliene vien detto da persona degna di fede, ancorche paia una favola, che per questo non deve restar di scriverlo, perciò che, secondo la regola aristotelica, ogni volta che il caso è possibile deve esser ammesso. Parte II, Novella 35. Un gentiluomo navarrese sposa una che era sua sorella e figliuola non lo sapendo. Menetti E., (a cura di), Matteo Bandello: Novelle, Bur Rizzoli, Milano 2011, pp. 425-432.

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ancora una semplice curiosità per l’inconsueto, o il gusto per situazioni eccentriche e strambe.

I racconti di Bandello, erede di una lunghissima tradizione umanistica, si complicano pertanto di avventure amorose, violente e tragiche che si dirigono, in molti casi, in situazioni paradossali, assurde e, addirittura, poco credibili. Lo straordinario finisce, così, per trovare terreno fertile dall’ordinario e mutevole svolgimento della vita.

Leggendo tali novelle, sfila davanti a noi una serie interminabile di personaggi, da Lucrezia e Sesto Tarquinio a Sofonisba e Massinissa, da Rosmunda a Maometto II, da Giulietta a Romeo a Ugo e Parisina, dall’efferata contessa di Challant all’umile contadinella di Gazuolo, ecc; e viene a comporsi sotto gli occhi del lettore un mondo vario e colorito, aperto e spazioso, patetico e appassionato (sino al limite dell’oscenità e della lascivia), sempre tenacemente attaccato alla vita e intimamente umano e vero anche nelle vicende più complicate e favolose.

In questi racconti, siano essi materiati di pura storia, o pervasi dalla leggenda, predomina generalmente la nota tragica, confusa troppo di frequente con l’orrore raccapricciante e con l’atrocità più spietata, senza alcun sentimento di umana bontà, o di commozione, o di gentilezza, tanto che la lettura riesce il più delle volte pesante in quella interminabile serie di delitti e di brutalità ripugnanti.

Fortunatamente, l’impressione d’orrore è temperata da sensazioni più gradite, leggendo altre novelle di carattere romanzesco e sentimentale.

Da questi viluppi di casi imprevisti e di virtù straordinarie, che stanno fuori del mondo reale, Bandello esce spessissimo e assai di buon grado, per toccare saldamente la terra e tuffarsi nel gorgo della vita, la quale non è fatta soltanto di pianti, di sospiri e di piacevoli fantasticherie, ma ancor più di spensierata giovialità e di riso giocondo, di corruzione e di vizi, d’inganni, di astuzie, di miserie e purtroppo d’immoralità e sconcezze bestiali.

Di questo mondo Bandello è stato lo storico, il cronista informato, il memorialista, e d’altronde il suo realismo, il suo impegno nel narrare cose viste e vissute anche quando palesemente si tratta di fatti mitici e fantastici, non escludono né attenuano le sue personali doti di narratore e di artista. Egli, cioè, è sempre preso da un moto di curiosità, e talora di stupore, nei confronti dei suoi personaggi e delle sue trame; e una tale curiosità e meraviglia giunge talvolta al livello dell’appassionamento, dell’intenerimento e della commozione non appena svolge degli intrecci che più da vicino colpiscono la sua umanità, sollecitando una sua virtuale o reale partecipazione affettiva. Anzi, Bandello è sensibile al linguaggio della passione nel senso più lato, sia che questa conduca a effetti comici,

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determinando intrighi a lieto fine e burle ben riuscite, sia che induca gli uomini alla tragedia, facendo perdere loro il razionale dominio di se stessi e portandoli a compiere azioni malvagie e crudeli, sia, ancora, che generi delle situazioni in cui s’intrecciano il lieto e il triste, il farsesco e il melanconico.

Essendo pertanto Bandello il cantore per eccellenza delle passioni umane, è comprensibile come il motivo erotico abbia una parte predominante nel suo novelliere, dando luogo a un’infinità varietà di casi e vicende e giungendo al vertice artistico quando narra di amori che sfociano tragicamente nella morte, mentre un ruolo certamente minore hanno di volta in volta la tematica cavalleresca e cortigiana e quella della burla, della facezia, dei giochi d’ingegno, dell’avventura e della satira anti ecclesiastica (frenata dalla medesima condizione religiosa dell’autore).

L’attitudine di Bandello a rappresentare il nudo della storia non esclude l’interesse introspettivo e psicologico, spesso presente nella delineazione dei personaggi, e di quelli femminili in ispecie, in cui la voce della passione meglio si manifesta, persino nelle sue estreme conseguenze; così come non impedisce o attenua l’artistica felicità e compiutezza con cui sono svolti certi motivi congeniali all’indole di Bandello: ci riferiamo a talune rappresentazioni carnali o alle minuziose descrizione dei nudi femminili, contemplati col raffinato piacere di chi ama le cose belle, ed è lieto di circondarsene.11

Il novelliere bandelliano ha il merito d’essere concepito con piena libertà d’ispirazione, senza alcuna restrizione mentale, all’infuori d’ogni altra preoccupazione, che non fosse d’ordine letterario.

Però chi prende visione delle raccolte immediatamente successive si accorgerà subito che qualche cosa di grave era intervenuto a turbare lo svolgimento spontaneo e naturale della produzione novellistica, divenuta più circospetta, meticolosa, tenendosi con ogni riguardo lontana da tutto ciò, che potesse avere l’apparenza di contrasto o d’irriverenza verso la religione, i ministri del culto e anche verso la morale.

Accanto al fine del diletto12 si colloca nei novellatori del Cinquecento e con crescente insistenza in quelli operanti nel clima di austerity promosso dalla Controriforma, l’intento pedagogico-moralistico: intento che non è del tutto estraneo a Bandello.

11 King M.L., Le donne nel Rinascimento, Editori Laterza, Bari 1991, pp.189-190.

12 Io, né invito né sforzo persona chi si sia a leggerle, ma ben prego tutti quelli a cui piacerà di leggerle, che

con quell’animo degnino di leggerle, con il quale sono state da me scritte: affermo bene che per giovar altrui e dilettare le ho scritte. IL BANDELLO AI CANDIDI ED UMANI LETTORI.

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La reazione cattolica, che negli ultimi quarant’anni del XVI secolo, fece pesare la sua ingerenza in ogni altro campo della letteratura, contro la novellistica si dimostrò inesorabile.

Le stesse novelle di Bandello, mentre all’estero si diffondevano fruttuosamente e senza contrasti, nella forma originaria, ispirando nuovi lavori; in Italia, vivente ancora l’autore, usciva a Milano nel 1560, una seconda edizione espurgata, per cura di Ascanio Censorio degli Ortensi, il quale credette bene di acconciarla secondo le prescrizioni della Chiesa romana, riducendo la raccolta a soli centoquaranta novelle, le meno scabrose.

Ritornando al lavoro di tesi, questo è articolato in tre brevi capitoli.

Nel primo capitolo viene fornito un ragguaglio sulla figura della donna a cavallo tra l’età rinascimentale e quella della Controriforma, sui numerosi personaggi femminili che si delineano nelle opere letterarie di quel periodo, non solo novelle, ma anche trattati e dialoghi.

All’ excursus letterario del primo capitolo segue il secondo, dove vengono prima esaminate le caratteristiche generali del suo Novelliere, fino all’esposizione della condizione alla quale era relegata la donna nel XVI secolo, ed alcuni ritratti di donna che sono diventati celebri e modelli per la storia della letteratura italiana successiva.

L’atteggiamento di Bandello di fronte alle donne appare duplice: accanto a una parvenza di simpatia e di comprensione compaiono, talvolta, in chiave ironica, degli sfoghi misogini sulla tesi della donna corrotta e insaziabile. In altri passi del Novelliere la difesa sulla ferrea castità delle donne acquista toni moderni, soprattutto quando Bandello denuncia l’ingiusto stato di inferiorità sociale a cui esse erano sottoposte.

In realtà, la donna ammirata da Bandello è quella che si dedica comunque anima e corpo al matrimonio, al proprio uomo, alla famiglia e alla casa. Ogni altro destino viene descritto come eccezionale e si tratta di situazioni che inducono nell’autore un atteggiamento critico e sospettoso. Solo l’amore e il rapporto extra coniugale con un altro uomo consentono alla donna, in un numero molto significativo di casi, di sfuggire alla sua condizione domestica di madre e moglie. Tuttavia, l’adulterio comporta dei rischi a cui i personaggi delle novelle non sfuggono sempre.

La tesi si conclude con il terzo capitolo, in cui vengono analizzate talune novelle dell’autore lombardo, quelle in cui sono ravvisabili accenni di una nuova figura della donna, diversa dalle altre della letteratura precedente, la donna adultera.

Bandello finisce con il proporre due immagini di adulterio: da una parte, il tradimento viene visto come male impossibile da sradicare e che porta ad una fine tragica, dall’altra

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parte, il tema dell’adulterio è associato alle beffe femminili, già presenti in Boccaccio, le quali non dovrebbero essere oggetto di biasimo poiché rappresentano la legittima vendetta sugli uomini che si compiacciono troppo nell’ingannare le proprie mogli.

Le novelle di adulterio e le avventure dei tradimenti di queste donne rappresentano la principale fonte narrativa bandelliana, tanto che sembrano riflettere sulla natura umana e sulla società del suo tempo.

L’adultera, con i suoi ingegnosi inganni e il suo amaro risentimento verso un marito troppo spesso ottuso e geloso, costituisce una delle figure più interessanti dell’intera raccolta. Nella rappresentazione di queste figure femminili Bandello lascia, tuttavia, trapelare l’influenza di stereotipi misogini sull’incostanza e l’irrazionalità delle donne.

La visione che l’autore ha della donna appare riverberare le teorie aristoteliche del tempo che insistevano nell’attribuire al genere femminile una natura iper-sessuata; essendo queste una trasposizione imperfetta dell’uomo, erano spinte al soddisfacimento sessuale dal desiderio di ottenere maggiore perfezione tramite l’unione con il perfetto corpo maschile. Le donne che si abbandonano completamente ai propri smodati appetiti e i loro «mal regolati desideri»13 costituiscono il principale obiettivo polemico di Bandello; a esse va il biasimo senza riserve dell’autore.

È interessante, poi, notare come Bandello non sembra volersi concentrare sul mettere in guardie le donne sulla necessità di autocontrollo e continenza da parte loro. Anzi, pare ansioso di dimostrare la propria comprensione verso le esigenze del genere femminile, anche quando è intento a sottolinearne i difetti o a esprimere dubbi sulla natura delle donne.

Dato il notevole numero delle novelle scritte da Bandello, il proseguo di questa tesi sarà concepita con l’inserimento di alcuni passi, scelti ed estrapolati dal «Novelle» di Matteo Bandello (BUR Rizzoli,2011), curato da Elisabetta Menetti, docente all’Università di Modena e Reggio Emilia, membro del Comitato scientifico del Centro Studi Matteo Bandello e dal 2002 dirigente con Gian Mario Anselmi del portale di Letteratura Griseldaonline.14

Grazie a questo lavoro è stato possibile mettere in luce uno scrittore, che in forza della sua eccezionale vena creativa, riesce a tenere in sé gli estremi della sua formazione spirituale e della sua vocazione di narratore, rendendo omaggio alla sua epoca e ad una tradizione come quella novellistica, dove si erano già buttate le fondamenta.

13 Parte II, Novella 24; 14http://griseldaonline.it/

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Quella di Bandello è la rappresentazione di un mondo complesso, quello che è stato il XVI secolo, in un continuo alternarsi di vicende tragiche e violente ma con una perenne ricerca di armonia e di pace, dove convivono le due anime del pensiero umanistico e rinascimentale: l’irrazionalità violenta e la fiducia nella ragione, che tutto domina.

Lo scopo della ricerca è stato di far emergere, attraverso l’analisi degli argomenti trattati nelle novelle esaminate, un’immagine articolata del mondo femminile, in un periodo storico in cui la figura della donna seppur non dimentica di una recente emancipazione, restava ancora legata ai ruoli assegnatole dalla tradizione.

I risultati, che saranno dettagliatamente esposti nelle conclusioni finali, non faranno altro che tirare le somme, dopo un’attenta e curata indagine, di come la raccolta bandelliana, con i ritratti dei suoi personaggi e la rappresentazione dei luoghi narrati, non sia altro che una risorsa inesauribile e necessaria alla nostra identità culturale.

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CAPITOLO I

LA FIGURA DELLA DONNA

1.1

La voce delle donne

La storia delle donne sembra svolgersi nei secoli del Medioevo in forma silenziosa perché, fino al Rinascimento, per quasi tutte è una storia di sottomissione e di occupazioni domestiche. In questa situazione generalizzata c’erano, tuttavia, grandi differenze tra i ceti sociali nel modo di vivere. 15

Se in ogni tempo le donne sono state oggetto di storia attraverso la rappresentazione artistico-letteraria o storica dell’immaginario o della scrittura maschile, dal Rinascimento esse sono divenute soggetto di storia in quanto capaci di autorappresentarsi e di produrre pratiche discorsive.

La donna modifica il suo ruolo, da oggetto di scrittura in soggetto nei discorsi al femminile, dove si manifesta una visione autonoma del mondo, dell’amore, del matrimonio e del rapporto con l’altro sesso. Pertanto, con il sopraggiungere dell’età moderna cambia, sostanzialmente, il modo in cui la donna appare all’interno della letteratura.

Con il termine Rinascimento si designava tanto un arco cronologico quanto la grande renovatio culturale e civile che sembra caratterizzare quel particolare momento storico. Il rifiorire dell’arte e del pensiero, accompagnata da una nuova concezione della vita e della libertà e contrassegnata da un forte impegno civile, hanno fatto sì che il Rinascimento sia stato unanimemente considerato un movimento progressivo.

È vero che nel concetto di renovatio vi è una forte mitizzazione, nata tra i contemporanei stessi e confermata dagli storici del secolo XIX, e che nella cultura rinascimentale sono presenti anche aspetti oscuri, ma è indubbio che il movimento si presenta nel suo

15 La donna riemerge in ogni iniziativa, con la volontà di sfuggire al reale e alla sua pesantezza e, al tempo

stesso, ai discorsi soffocanti prodotti su di lei. Eppure non tutte hanno le stesse chances. Per le donne del popolo sfuggire alla reclusione e al ruoli prestabiliti dalla società significa perlopiù diventare marginali, se non prostitute. Le più fortunate, le donne delle classi superiori, hanno un modo del tutto personale di sfuggire alla reclusione dei loro ruoli; intelligenti, felici di esserlo, privilegiano ciò che è proibito loro: l’uso dell’intelletto, della loro visione del mondo.

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complesso come positivo, capace di catalizzare energie che si traducono in un ampliamento della riflessione culturale e degli spazi di libertà individuali.

Secondo gli storici dell’Ottocento, come Jacob Burckhardt, anche le donne parteciparono a questa congiuntura favorevole, dischiudendosi anche a loro l’istruzione: «Finalmente, per ben intendere la vita sociale dei circoli più elevati del Rinascimento, è da sapere che la donna in essi fu considerata pari all’uomo». E continuava: «Anzitutto l’educazione della donna nelle classi più elevate era essenzialmente uguale a quella dell’uomo». Infatti esse si segnalarono nell’istruzione letteraria e filologica, nella partecipazione attiva alla poesia italiana «onde un numero considerevole di donne acquistarono una grande celebrità»16.

In opposizione alle teorie dello svizzero Burckhardt segnaliamo la discussione aperta da Kelly in Did Women have a Renaissance?17 sul Rinascimento femminile che suscitò un vivace dibattito. È a partire dalle asserzioni di Burckhardt che Joan Kelly riconsiderava il periodo rinascimentale sotto il profilo della storia delle donne e giungeva a osservazioni del tutto divergenti.

Non mancarono, è vero, donne erudite, ma molte di loro ottennero di essere introdotte nei circoli degli umanisti solo rinunciando al matrimonio ed esibendo la loro pietà e cultura religiosa. Se dal piano della erudizione lo sguardo si sposta ai più significativi mutamenti culturali del periodo rinascimentale, continua poi la Kelly, si può constatare che una nuova classe emergente crea forme di organizzazione politica e sociale che tendono a ridurre gli spazi di libertà e le opportunità di scelte femminili. Ha, insomma, inizio quella moderna relazione tra i sessi che vede una maggiore subordinazione della donna all’uomo.

C’è stato un Rinascimento per le donne? Si è chiesta Kelly. A questa domanda, posta in chiave schiettamente polemica, viene risposta quasi sempre in modo totalmente negativo. Tuttavia, le donne sono riuscite ugualmente a ritagliarsi spazi di espressioni nella letteratura, nella vita religiosa e negli atti processuali dei tribunali. La voce delle donne, infatti si levò in difesa della natura femminile affiancandosi a quella certo ben più corposa degli uomini, nella querelle du sexes.

In campo culturale le ricerche successive al giudizio della Kelly misero in luce una progressiva acquisizione degli strumenti letterari e retorici da parte delle donne che consentirono loro di accedere alla stampa.

16 J. Burckhardt, Die Kultur der Renaissance in Italien, Basel 1860 (trad. it. La civiltà del Rinascimento in

Italia, Firenze 1968, pp. 361-362).

17 J. Kelly, Did Women have a Renaissance?, in Id., Women, history and theory, Chicago-London 1984, pp.

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Le donne, figlie o mogli del signore, assumono un ruolo di primo piano nella politica culturale signorile in quegli anni. Spesso viene loro affidata la politica culturale degli Stati, l’attività di propaganda volta a celebrare la casata, l’allestimento delle feste e degli spettacoli teatrali. Tra l’altro, il fenomeno poi delle donne poetesse, che ha caratterizzato la lirica cinquecentesca, trova le radici proprio in questa nuova capacità di iniziativa culturale che ora viene riconosciuta alle donne nell’ambito della corte. Queste tuttavia non si applicarono unicamente alla stesura e alla pubblicazione dei loro canzonieri, ma anche attraverso più complesse forme di scrittura, come il romanzo o il trattato.

La lirica petrarchistica, di gran moda nella prima metà del Cinquecento, risulta in ampia misura coinvolta in questo processo di apertura ai caratteri femminili. L'immissione innovativa dell'identità femminile entro il sistema culturale del Rinascimento conduce ad una forte presenza delle donne tra le personalità intellettuali più autorevoli dell'epoca, contribuendo in tal senso ad un ampliamento e allargamento dei ruoli tradizionalmente assegnati all'esclusiva competenza maschile.

L'immagine devota della casta sposa sottomessa al marito, nella quale i tabù degli ecclesiastici e dei mistici ebbero facile gioco a trionfare sulla sensibilità e sulla psicologia femminili, perlopiù ridotte a manifestazioni di umiltà o ad espressioni di fedele ortodossia inclini persino alla mortificazione della donna, è sostituita da questa vigorosa emergenza di una dimensione femminile che rivendica per se tutti gli aspetti dell'esistenza materiale, compresi quelli comunemente additati come peccaminosi e lascivi.

A questo proposito occorrerà precisare che nessuna altra epoca della letteratura italiana ha potuto contare un numero così elevato di poetesse e scrittrici, e bisognerà attendere l'età contemporanea per vedere ancora così tante donne dedicarsi all'esercizio della scrittura poetica.

D'altra parte un grande storico della letteratura come Carlo Dionisotti vide proprio nel «contributo delle donne» il riconoscimento di una nuova società letteraria italiana imposta dalla tendenza espansiva e associativa della cultura rinascimentale. Nella letteratura femminile egli individua infatti «la prova più vistosa di tale novità e mutamento», precisando che: «Soltanto nella letteratura del medio Cinquecento le donne fanno gruppo. Non prima ne poi». 18

Queste donne letterate provengono da ambienti sociali eterogenei, il che è significativo dell'estendersi del processo di emancipazione culturale anche presso gli strati meno elevati.

18 Dionisotti C., La letteratura italiana nell'età del concilio di Trento, in Storia e geografia della letteratura

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Sono talvolta nobili dame dell'aristocrazia come Vittoria Colonna o Veronica Gambara o la giovanissima Isabella Morra. Sono talaltra esponenti di spicco dell'alta borghesia cittadina come Barbara Torelli Strozzi o Laura Ammannati Battiferri o Laura Terracina. Sono addirittura meretrici come Tullia d'Aragona, Gaspara Stampa e Veronica Franco. Per queste ultime, lo status di cortesana se anche era, per certi versi, apparentato alla condizione di meretrice, portava con se tratti particolari che gli conferivano alcuni privilegi sociali e soprattutto una maggiore e seppure precaria, dignità. Dall’altra parte, la legislazione dell’epoca, anche in uno Stato libero come la Repubblica di Venezia, non lasciava alternativa: la donna o era «onesta» o era «meretrice»19.

Sono donne diversissime tra loro per estrazione sociale e ruolo professionale, eppure tutte unite dalla passione per l'esercizio della letteratura, divenuto anche per loro, come per gli uomini, uno strumento per ascendere i gradini non facili della società cinquecentesca. Nonostante l'evidente diversità delle esistenze individuali, ciò che accomuna queste donne è la maturata coscienza del diritto di decidere della propria vita.

Il petrarchismo dal canto suo, diffusissimo nelle corti quattrocentesche, offre un codice di comunicazione non solo alle donne aristocratiche, ma anche a donne di estrazione sociale più umile, che trovano in esso uno strumento di elevazione e di affermazione sociale. È il caso, questo, delle cantanti, delle suonatrici, delle cortigiane di alto rango, che stabilivano relazioni erotiche solo con grandi personaggi. Inoltre, sempre, il petrarchismo pare rappresentare per le donne un codice di comunicazione mondana che riflette pur sempre l’immaginario e il potere maschili, tanto che esse cercano di impadronirsene, ma di fatto, sono costrette a parlare attraverso un linguaggio che non è il loro.

Nella seconda metà del ‘500, invece, si può notare la testimonianza di uno spostamento dell’interesse femminile verso altri generi letterari come il poemetto, la favola pastorale, l’epistolario, la scrittura mistico-religiosa e anche la trattatistica, zona di esclusiva competenza maschile.

Proprio sotto forma di un dialogo è stato scritto Il merito delle donne di Moderata Fonte per dare risposta alla pubblicazione, sul finire del secolo, di alcuni poeti che mettono in

19 La Repubblica di Venezia, se consideriamo le sue carte, quelle letterari e quelle giuridiche, sembra

riconoscere al proprio interno due figure contrapposte di donna, la donna onesta e la meretrice. La prima viene formata in figura letteraria e proposta come modello nei primi decenni del XVI secolo, quando alla donna onesta per definizione, in quanto nobile di nascita, si affianca una nuova figura femminile, la cui onestà è definita invece dalle virtù del costume, la castità e la fedeltà, trasmesse e avvalorate da un vasto patrimonio culturale, ora accessibile alle donne stesse. Invece, erano meretrici, secondo la legislazione di allora, tutte le donne che non avevano marito, o che vivevano separate dal coniuge, e che tuttavia stabilivano relazioni amorose anche con un solo uomo.

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discussione le capacità del sesso femminile. Invece di celebrare la figura della donna o istruirla, l’autrice preferisce partire dal modello di comportamento già presente nella società, ponendo in risalto le contraddizioni caratteristiche, al fine di dimostrare quanto di falso ci sia nella realtà dei rapporti fra i sessi.

Il dialogo si svolge in due giornate tra sette donne veneziane unite «da cara e discreta amicizia», le quali s'incontrano e discutono sulla condizione della donna e sui rapporti con l'uomo. Le componenti del gruppo rappresentano le situazioni femminili più tipiche: vi compaiono, infatti, la sposa novella, la sposa giovane, la maritata da tempo, la vedova, la madre attempata insieme con la figliola, l'intellettuale nubile. L'opportunità di poter conversare «senzahaver rispetto di uomini che le notassero o le impedissero» consente alle amiche una riflessione dei rapporti fra i sessi condotto in assoluta libertà.

Dapprima il gruppo vagheggia una vita autonoma e di felicità nella solitudine, attraverso i personaggi di Leonora e Corinna, l'una vedova giovane senza problemi economici, l'altra letterata non sposata che riscuote la generale ammirazione delle compagne. Sollecitate dal loro esempio, le altre donne notano come sia deludente la loro condizione di maritate e, più genericamente, tutto il gruppo deplora l'ingiusto trattamento riservato al loro sesso dagli uomini, i quali - nota Leonora - si considerano superiori per un abuso «che si è messo nel Mondo» e «poi a lungo andare si hanno fatto lecito, e ordinario»20.

In contrapposizione viene presentata un'immagine femminile in cui si riassumono le numerose qualità possedute dalle donne, le quali sono dolci, pazienti e benigne, in tutto superiori e pronte a donarsi. Successivamente le sette amiche affrontano il tema dell'attaccamento emotivo all'uomo, tentando di spiegarsi la ragione per cui le donne siano agli uomini «schiave volontarie fino alla morte»; su questo problema il gruppo si arresta e decide di rinviarne la soluzione al giorno seguente.

La seconda giornata scorre del tutto imprevedibile: le sette amiche non riescono a sviscerare fino in fondo la questione complessa dell'affettività e divagano con vari pretesti. Si discute, infatti, di astrologia, erboristeria, medicina e della cultura in generale, intercalando sonetti in lode di dame e cavalieri noti al gruppo. Infine, esauriti tutti gli argomenti possibili, c'è un ripiegamento collettivo dall'animosità iniziale ad una più modesta richiesta di maggiore comprensione da parte degli uomini.

D'altra parte, tutto il testo alterna momenti di vitalità e consapevolezza a sbandamenti e capitolazioni, comprensibili nella difficile ricerca di un nuovo rapporto tra i sessi in

20 Moderata Fonte, Il merito delle donne: ove chiaramente si scuopre quanto siano elle degne e più perfette

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un’epoca nella quale l'emancipazione femminile rimane l'isolata aspirazione di pochissime donne, che hanno potuto accedere al patrimonio culturale, di cui l'uomo è unico depositario21.

Questa è anche l’epoca delle grandi regine, che si ritrovano, talvolta, ad essere anche grandi scrittrici, come Margherita di Navarra. Non a caso, poi, la discussione degli Asolani e del Cortegiano è presieduta rispettivamente dalla nobildonna veneziana Caterina Cornaro e dalla duchessa di Urbino, Elisabetta Gonzaga. Ciò non impediva, tuttavia, la perpetuazione di posizioni misogine nello stesso dibattito sull’amore e sul comportamento dei trattati del Rinascimento.

La storia delle donne, specialmente in quel secolo cruciale che si colloca tra gli albori del Rinascimento e la fase culminante della Controriforma Cattolica, va, dunque, ricostruita nei rapporti tra strutture politico-sociali e sistemi di rappresentazione collettiva.

Spesso, nell’Italia del XVI e XVII secolo, si assiste ad eventi traumatici di disciplinamento, i quali svelano una durezza particolare proprio nel caso in cui siano rivolti al controllo della coscienza femminile e, nel contempo indifferenza al fatto che la donna sia abbandonata alle sofferenze di una realtà insopportabile, al disprezzo, alle umiliazioni, alle tragedie che si consumano impunite nel chiuso orizzonte familiare.

L’unico momento storico in cui si vede in azione una forza intellettuale controcorrente, con lo scopo di confortare la femminilità, restituendole fiducia e speranza, è quello dei primi quarant’anni del XVI secolo ma si tratta di un momento cronologicamente limitato.

Naturalmente, questo discorso vale quasi esclusivamente per la società aristocratica e non riguarda gli strati popolari più bassi, peraltro, al di fuori degli interessi della cultura classicista più elevata, e se ne ha poi il riflesso nella rappresentazione del mondo della corte al centro della letteratura del Cinquecento in cui, accanto agli uomini detentori del potere politico e militare, compaiono alcune figure di nobildonne non più relegate in una posizione subalterna.

Si spiegano, in tal modo, i tanti discorsi e dialoghi sulla superiorità e l’eccellenza delle donne di cui la trattatistica rinascimentale è piena. Ed è significativo che nei titoli più ricorrenti di questa trattatistica filogina compaia il termine “difesa” a testimoniare la necessità di una smentita delle accuse indimostrate, che l’ottusità maschilista rivolge tradizionalmente alle donne. Ma, paradossalmente, questa vivacità intellettuale va in

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frantumi quando si scontra con il muro di restaurazione innalzato dal cattolicesimo tridentino.

All’inizio del XVI secolo, dunque, la condizione femminile diventa oggetto di una intensa riflessione che tocca i più diversi ambiti e penetra in tutti i generi letterari. Nella novella, nella lirica cortigiana, nei trattati e nei poemi cavallereschi la donna è al centro di una rinnovata curiosità.

1.2

Il modello di donna nella letteratura del Rinascimento italiano: tra

femminismo e tendenze misogine

Fra la fine del Quattrocento e l’inizio del Cinquecento, la trattatistica delineò esempi di comportamento in ogni campo, da quello religioso a quello profano delle corti e della vita politica. Il trattato doveva offrire dei modelli teorici e pratici e, dunque, presupponeva, anzitutto, l’idea di perfettibilità umana e la pratica della pedagogia.

La componente femminile del Rinascimento italiano emerge chiaramente proprio dalle testimonianze dei contemporanei e dalle pagine di queste opere di carattere pedagogico e educativo. Ma prima di soffermarsi su tali opere occorre preliminarmente volgere un rapido sguardo a quello che viene ritenuto il maggior documento letterario della nuova sensibilità rinascimentale verso la dimensione femminile, cioè il Libro del Cortegiano di Baldassare Castiglione.

Pubblicato nel 1528 e diviso in quattro libri, il Cortegiano riporta un dialogo immaginario che l'autore dice avvenuto nel 1506 presso la Corte di Urbino, nel quale gli interventi dei vari interlocutori servono a definire l'ideale sociale e culturale del perfetto uomo e della perfetta donna di Corte. In assenza dell’autore si sarebbe tenuto un gioco di società, che poi gli sarebbe stato riferito al suo ritorno: per quattro sere una trentina di cortigiani, fra cui Pietro Bembo e Giuliano de Medici, riunitisi intorno alla duchessa Elisabetta Gonzaga, cercano di definire il perfetto cortigiano. Se nel primo libro Lodovico di Canossa definisce la qualità principale del cortigiano, la grazia, cancellando ogni affettazione attraverso la sprezzatura, e nel secondo vengono indicate le altre sue qualità e l’ideale della mediocritas, che deve sempre tenerlo lontano dagli eccessi, nel terzo libro l’argomento si sposta sulle donne, in particolare sulla figura della perfetta «donna di palazzo».

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L’ aspetto particolare della vita cortigiana era rappresentato dal costume femminile, a cui anche Castiglione dedica ampio spazio. Vengono messe a confronto due posizioni, una misogina, fondata sulla considerazione dell’inferiorità della donna e, dunque, della diversità delle qualità cortigiane che le sono richieste, l’altra, più spregiudicata, in cui si teorizza la scissione fra essere e apparire: la dissimulazione consentirebbe di salvare, da un lato, la famiglia e il matrimonio e, dall’altro, la libertà dei costumi in maniera sessuale. Il successo che il terzo libro del Cortegiano ebbe in Francia, dove circolò ancor prima della traduzione completa dell’opera, è un esempio della nuova sensibilità per questa problematica. Esso aprì un dibattito, che contrappose fra il 1541 e il 1543 un certo numero di poeti di corte sul tema dell’amore cortese e della donna. È la celebre Querelle des Amyes, in cui tre modelli di donna si affrontarono nella discussione: l’Amyie de Cour (l’amica di corte) di Bentrard de la Borderie, immagine spregiudicata di cortigiana, cosciente del suo potere sugli uomini che sfrutta cinicamente, la Contr’Amye de Court di Charles Fontaine, antitesi della precedente, e la Parfaite Amye (l’amica perfetta) di Antoine Heroet, che si ispira alla dottrina platonica.

Il modello che si impone ovunque nel Rinascimento è quello dell’amore platonico, alla cui divulgazione contribuì notevolmente l’opera di Bembo. Anche il Cortegiano si conclude con l’esaltazione della filosofia dell’amor platonico, dell’Amore in «assenza» che permette la contemplazione della pura bellezza nell’immaginazione, attraverso gli occhi della mente. Ma l’amore è qui anche una pratica sociale, che permea i rapporti e la vita di corte, come «ragionamenti», «intertenimento», gioco di sguardi, di parole, di gesti.

Questa dimensione non può prescindere, dunque, dal nuovo modello di comportamento femminile, imposto dai costumi di corte. La donna non è più solo buona massaia e madre di famiglia. Per la prima volta esce dal privato familiare o dal rapporto esclusivo con l’amante per esibirsi in un ruolo pubblico. La nuova figura della gentildonna di corte è esplicitamente formata secondo un’ottica e un discorso rigorosamente maschili.

Quando nel terzo libro del trattato di Castiglione si affronta la questione e Giuliano de Medici è chiamato a pronunciarsi sulle qualità della perfetta donna di palazzo, appare evidente che l’autore non è affatto schierato con i misogini. Tuttavia, il ruolo complessivo della donna nella corte resta sempre contraddistinto dall’ inferiorità rispetto all’uomo: ella deve saper essere aggraziata, deve saper conversare in modo appropriato ma anche civettuolo e mondano, restando, comunque, onesta e virtuosa. Da un lato, le spetta il compito di saper intrattenere l’uomo, dall’altro, la sua libertà d’iniziativa è sottoposta a criteri morali più rigidi rispetto a quelli maschili.

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Il terzo libro intende formare la donna di palazzo, partendo, però, dalla considerazione generale secondo cui «le medesime regule, che son date per lo cortegiano, servono ancor alla donna».

La dama deve avere gli stessi requisiti del cortegiano, riassumibili nella virtù della «grazia» nelle maniere, nelle parole, nei gesti, nel portamento, ma anche virtù specifiche, i cui caratteri hanno modellato nei secoli l’idea di femminilità. Pertanto, «medesimamente la nobiltà, il fuggire l’affettazione, l’essere aggraziata da natura in tutte le operazion sue, l’essere di boni costumi, ingeniosa, prudente, non superba, non invidiosa, non malefica, non vana, non contenziosa, non inetta, sapersi guadagnar e conservar la grazia della sua signora e di tutti gli altri, far bene e aggraziatamente tutti gli esercizii che si convengono alle donne». Alla donna conviene che sia elegante nell’abbigliamento e, più del cortigiano, è fondamentale che sia fornita di tanta bellezza. Questa «donna di palazzo» deve, in primo luogo, essere una «buona madre di famiglia» ed in quanto tale «saper governare le facultà del marito e la casa sua e i figlioli, quando è maritata». Ma se questa è, comunque e ovunque, la qualità specifica della donna, legata strettamente alla sua funzione riproduttiva e all’ambito di un’economia domestica, quando la donna «vive in corte» deve saper praticare i rapporti sociali che vi si producono. Quindi, deve saper «gentilmente intertenere ogni sorte d’omo con ragionamenti grati e onesti e accomodati al tempo e loco e alle qualità di quelle persone con cui parlerà». Le modalità di questa conversazione hanno un elemento nuovo e proprio della condizione femminile: la necessità di essere «onesta», di praticare una conversazione, senza mettere in questione la sua virtù, senza correr rischi di cader nella lascivia o in un amore disonesto. Un saper ascoltare e rispondere, più che essere soggetto dell’enunciazione; un prendere parte dal di fuori. Il livello culturale della donna di palazzo deve risultare funzionale alla sua possibilità di partecipare ai discorsi degli altri. Una pratica mondana più che culturale, decisamente subalterna: di intertenimento e non di conversazione.

Perciò la donna di palazzo deve, poi, avere una «tenerezza molle e delicata», non deve assumere qualsiasi atteggiamento che rientri nella sfera maschile, deve essere colta, avere conoscenza di musica e pittura, saper danzare e deve sapere intrattenere ogni sorta di uomo con discorsi grati e onesti, ma soprattutto è necessario che assicuri la legittimità della prole. La donna riveste grande importanza. Se alla costruzione di un nuovo modello di femminilità tutto cinquecentesco Castiglione dedica l'intero terzo libro del Cortegiano, in tutta l'opera restano assai frequenti anche i passi in cui la conversazione riflette sulla

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necessità di una definizione di sensibilità femminile sganciata dagli stereotipi misogini ed orientata invece in direzione di una acquisita emancipazione sociale e culturale.

La comprensibilità della dimensione femminile da parte del pubblico colto del primo Cinquecento è forse uno degli aspetti più significativi del Cortegiano, nel quale prende forma e sostanza il canone rinascimentale della bellezza muliebre. Un tratto predomina sugli altri nella nuova figura di donna così ben codificata dal Castiglione, quello forse che meglio esprime la portata rivoluzionaria della femminilità cinquecentesca: ossia l'insistenza ripetuta e più volte ribadita sull'erudizione della donna, sulla sua educazione letteraria e artistica, sulle sue frequentazioni intellettuali e librarie, sulle sue capacità di apprezzare e stimare le prove più difficili e complesse della cultura rinascimentale.

Alla donna del Rinascimento è richiesta una preparazione culturale simile ed equivalente a quella dell'uomo, il suo sapere deve essere altrettanto saldo ed elevato, pena l'emarginazione sociale.

Il Cortegiano esprime compiutamente l'ideale femminile di indubbia predominanza nella cultura e nella società cinquecentesche. Questa valutazione del libro di Castiglione non è inopportuna ne incongruente. Basti considerare il fatto che in larga parte la trattatistica di pedagogia femminile coeva indica nel modello di donna espresso nel Cortegiano l'obiettivo a cui tendere, il risultato da raggiungere tramite un percorso educativo che sembra per l'appunto impostato con lo scopo preciso di pervenire gradualmente alla formazione di una perfetta donna di palazzo.

Come il Cortegiano di Castiglione, sullo schema del dialogo è costruito anche La nobiltà delle donne di Ludovico Domenichi, uscito a Venezia nel 1549: cinque interlocutori ragionano sulla nuova concezione di femminilità che il Rinascimento ha imposto alle coscienze più accorte dell'epoca. La presenza attiva delle donne della civiltà rinascimentale sembra saldamente regolata ed accettata senza remore, talora con ruoli arditamente vicini a posizioni estreme della cultura riformatrice. Inoltre, come per Castiglione, Domenichi scrive seppur sempre idealmente per una donna raffinata ed educata da poter comprendere e apprezzare le prove più erudite della letteratura e dell’arte.

Il messaggio lanciato dall’autore mira innanzitutto a fare spazio ad un'immagine elevata della donna in ambito sociale e culturale, espressione umana in senso pieno di una dimensione psicologica e nel contempo rappresentazione pubblica di una funzione civile. Ma l'altra faccia della passione letteraria che conquistò il pubblico signorile e cortigiano del Cinquecento ha invece il profilo restrittivo e proibitivo del manuale di comportamento.

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Su questo orizzonte, le esigenze insegnative ed educative si saldano con le istanze coercitive radicate nell'ideologia rinascimentale, quelle della compostezza, della misura, della gratia, istanze con le quali anche il trattato di Domenichi pare stringere relazioni stabili.

Nel La Nobiltà delle donne si riesce a cogliere perfettamente concezioni moderne relative alla donna e alla sua funzione sociale, tali da maturare una sorta di femminismo talvolta esasperato. Non solo viene asserita e consolidata la convinzione di una equanime parità fra i sessi, ma si propende anzi per affermare con argomenti assolutamente originali la superiorità della donna rispetto all'uomo.

Nelle pagine iniziali Domenichi attacca senza mezzi termini i pregiudizi misogini e maschilisti che l'età sua ha ereditato dal Medioevo, il quale a sua volta li aveva derivati dalla civiltà classica. In particolare egli si scaglia contro gli antichi Greci, primi responsabili della sottovalutazione culturale e sociale della donna. È colpa dei Greci e della loro presunzione omocentrica se la condizione femminile ha patito nei secoli ingiuste posizioni di subalternità, ridotta alla funzione di procreatrice e in tutto sottoposta all'uomo. Quando l’autore passa poi ad esporre la sua ideologia femminista, la donna assume una importanza eccezionale, non constatabile in altri simili testi coevi.

Per la prima volta nella storia della cultura occidentale le sacre scritture bibliche sono chiamate a deporre a favore dell'emancipazione femminile: poiché è stata creata per ultima, la donna è al primo posto nella scala delle preferenze divine. Se la sequenza della creazione, cosi come è testimoniata dalla Genesi, segue un ordine di graduale avvicinamento alla sostanza divina, cioè nella trafila minerale-vegetale-animale-uomo-donna, è lecito allora ritenere la minerale-vegetale-animale-uomo-donna, e non l'uomo, la creatura più prossima al principio emanatore dell'universo. La Donna è il fine ultimo della creazione.22

22 Considerando dunque le Scritture, e cominciando dal principio della creatione, dico che la Donna nello

esser creata ha avuto dignità maggiore assai dell'uomo. Noi sappiamo che tutte le cose, le quali sono state fatte da Dio, specialmente in questo fra loro differenti sono: che alcune di quelle perpetuamente rimangono incorrottibili, et altre sono sottoposte alla corruttione et alla mutatione. E Dio nel crearle questo ordine tenne, che incominciando dal più nobile di uno, finì nel nobilissimo dell'altro. Perché prima creò gli angeli incorrottibili e le anime, conciosiacosa ch'e opinione di Agostino che l'anima del primo nostro padre Adamo, anzi che fosse creato il corpo, fu creata insieme con gli Angeli. Creò i corpi incorrottibili, sì come sono i cieli e le stelle; et anco gli elementi incorrottibili, ma però sottoposti a varie mutationi, e di questi tutte l'altre cose soggette alla corruttione compose, procedendo dai più vili per ciascun grado di dignità di nuovo ascendendo alla perfettione dell'universo. Di qui primieramente uscirono i minerali, dapoi i vegetali, le piante e gli alberi, poscia le piante animali, finalmente gli animali brutti, appresso i reptili, i pesci, gli uccelli e i quadrupedi. Ma nell'ultimo creò due uomini simili a se, il maschio prima e poi la femina, nella quale si compirono i cieli e la terra et ogni loro ornamento. Perciochè il creatore del tutto, poi ch'egli ebbe creato la femina, si riposo in quella dalle fatiche sue, come non gli restasse più di creare alcuna cosa più onorata di lei: et in essa tutta la sapienza e potenza del fattore si termino et ebbe fine, et oltra di lei altra creatura non si trova, ne imaginarsi puote. Essendo adunque la Donna l'ultima creata, fine e compimento

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Nel testo di Domenichi è riconoscibile un tipo femminile che sa adoperare efficacemente sul piano sociale gli strumenti di cui è in possesso, primi fra gli altri l'intelligenza e la bellezza. Inoltre, la straordinaria profondità del suo spessore culturale rende La nobiltà delle donne non solo un convincente manuale di comportamento e di civile conversazione, ma anche e soprattutto un repertorio selezionato di doti e virtù femminili, un inventario ben catalogato degli stilemi letterariamente più autorevoli nella descrizione anatomica e psicologica della donna rinascimentale. Prende vita così un femminismo che persegue l'azzeramento definitivo delle convenzioni maschiliste ancora fortemente radicate in molte zone della cultura cinquecentesca. Non si mira più a delineare un equilibrio paritario e simbiotico tra il maschile e il femminile, ma ad imporre un modello antropologico “ginecocentrico”, non confrontabile e ne equiparabile agli altri modelli di femminilità elaborati dalla tradizione.

Vi è un altro aspetto della Nobiltà delle donne che merita almeno un accenno. Si tratta dell'attenzione dedicata al corpo femminile, capolavoro della natura e della creazione divina. La ragione dell'avvenente bellezza della donna sta nel fatto che l'anima femminile è più nobile dell'anima maschile. Se dunque i corpi delle donne sono assai più belli e più delicati di quelli degli uomini, è manifesto segno che le loro anime sono necessariamente più degne ed eccellenti.

Il corpo femminile è descritto passando minuziosamente in rassegna l'elenco dei suoi componenti fisici.Le forme dell'anatomia femminile, ritenute strumento privilegiato delle tentazioni del demonio per tutto il Medioevo, assumono, nella cultura rinascimentale, una connotazione di armonia estetica. Anche qui, come nel Cortegiano, il piacere della vista e della cura del corpo assume una rilevanza decisiva.

Al di là della tenace polemica nei confronti degli stereotipi misogini di derivazione medievale, va piuttosto sottolineata la componente ideologica che connota il libro di Domenichi: nel senso di una consapevole apertura alla femminilità intesa come categoria spirituale, ora finalmente accreditata, di cittadinanza entro la civiltà del Rinascimento.

perfettissimo dell'opere di Dio, mi negherete voi ch'ella per la sua somma eccellenza non sia dignissima sopra tutte l'altre creature? Che senza lei il mondo già in tutto perfettissimo e in ogni cosa compiuto sarebbe stato imperfetto [...]. Così la Donna, mentre si fabricò il mondo, fra tutte le create cose in quanto al tempo fu l'ultima; e la medesima, per auttorità e per dignità, fu la prima nel concetto della mente di Dio [...]. La donna fu la ultima opra che facesse Iddio e da lui introdotta in questo mondo come regina di esso in un real palazzo già preparato per lei, ornato e compiuto di ciò che fa bisogno. Debitamente dunque e amata, riverita et osservata da ogni creatura, et ogni creatura meritamente a lei e soggetta et la ubedisce, essendo ella Regina e fine di tutte l'altre creature e perfettione e gloria in tutti i modi perfetta. Da Domenichi L., La Nobiltà delle donne, Venezia, 1549, pp. 19v.-20v.

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