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Caratteri e ritratti di donne

Un tratto caratteristico dell’arte bandelliana è quello dei ritratti di dame, dove lo scrittore è attentissimo nel disegnare e colorire gli aspetti esteriori della persona, il suo vestire e i suoi ornamenti.68 Questi ritratti nei quali traspare, in una certa misura, la psicologia del personaggio, meritano particolare attenzione.

La descrizione della donna è inseparabile dalla sua classe nobiliare (la popolana appare in diversi racconti più appariscente che bella), ed è soggetta a evocazioni che esasperano i sensi dell’autore e che costituiscono un vera e propria possessione del corpo femminile. Le riflessioni di Bandello sulla figura della donna si rifanno alla filosofia neoplatonica tracciata nei decenni precedenti da autori come Ficino, Bembo e Castiglione.

Se i ritratti femminili dell’autore lombardo dipendono, molto probabilmente, dalla tradizione petrarchesca e quattrocentesca69, questi sono spesso accompagnati da alcuni

tocchi pittorici che rompono il quadro convenzionale: la bellezza della donna viene esaltata da indumenti raffinati e da orpelli di ogni tipo. Pertanto, le descrizioni appaiono più teatrali

68 Ecco il ritratto di «Ginevra la bionda […] suso una chinea guarnita di velluto cavalcava molto

leggiadramente…Ella aveva in capo un cappello vagamente acconcio, con un pennacchio che parte dei capelli le copriva…le nere come ebeno e stellanti ciglia, di minutissimi e corti peli inarcati, con debita distanza ai dui begli occhi sovrastavano…Ma che dirò de la bellezza del vago mento? De la eburnea e candida gola? De le marmoree spalle? E de l’alabastrino petto, ove ella sotto un sottilissimo velo chiudeva due mamelline tonde, sode e delicate? Cingevale il diritto e bianco collo una catenella d’oro di sottilissimo lavoro, la quale, dinanzi al petto pendente, ne l’amorosa vietta, che le poppe d’avorio partiva, cadeva. La veste era di zendado bianco, tutta maestralmente frastagliata, sotto a cui tela d’oro gaiamente riluceva.» Novella I, 27.

69 Un ritratto un po’ petrarcheggiante: una giovane donna, veduta con gli occhi del suo appassionato amatore:

«l’aurea testa, quella serena fronte di pura neve, le nere e arcate ciglia…le guancie che due colorite rose rassembrano…la candida e rotonda gola…le belle braccia, le bianchissime e quanto conviene lunghe e sottili mani, la persona tutta leggiadra e snella» (Novella II, 22).

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che statiche nelle novelle bandelliane: abilmente la bellezza femminile viene messa in scena con tocchi erotici, che offrono il carattere di uno spettacolo gradevole agli occhi di un pubblico di intenditori maschili.

“Miravano tutti con diletto incredibile il ben rilevato e candidissimo petto, con due poppe ritonde e sode che parevano formate d’alabastro, se nonche, tremando ella, vi si vedeva un certo ondeggiamento, che mirabil gioia rendeva”70

Tuttavia, nella corsa incessante verso la virtù o la colpa delle adultere, i tratti del volto femminile si perdono di vista. Poche sono le protagoniste di cui il lettore può conoscere i lineamenti fisici, nè sono certamente quelle delle novelle maggiori, dove l’incalzare delle espressione poetica e del ritmo espositivo annulla forme e colori: vediamo Giulietta presentata in fretta e furia con queste parole «una fuor di misura bellissima garzona», l’assiriana Pantea è «giovane di bellissima corporale a quei tempi riputata che pochissime pari e nessuna superiore se la trovassero per tutta l’Asia», «la semplice fanciulla» Elena «fuor d’ogni credenza era bellissima, e ogni dì crescendo in età mirabilissimamente le sue native bellezze accresceva». L’eroina più caldamente celebrata, la contadinella Giulia da Gazuolo è appena vista come «molto bella e di leggiadri costumi dotata».

Insomma, le protagoniste delle novelle maggiori non hanno più di una generica presentazione, la cui convenzionalità è sentita maggiormente quando si pensi che è «buona a tutti gli usi», sia per far conoscere una donna eroica, sia per presentare la peggiore adultera di questo mondo.

Invece, i personaggi secondari, quando l’incombenza del materiale narrativo è minore, e il Bandello ama riempire le lacune con contemplazioni raffinate, non scevre di sensualità, hanno tratti e movimenti ben precisi. Segno che l’indugio ritrattistico è causato da una minore evidenzia che il personaggio femminile ha acquistato nell’occhio dell’artista. Il Bandello non fu «uno psicologo acuto», è stato detto: ed è un’asserzione da accettarsi senz’altro se lo si mette a confronto coi grandi del suo tempo e d’ogni tempo; ma, su un piano meno elevato, si può avanzare qualche riserva. Il Bandello ebbe viva l’intuizione di alcuni modi di essere della vita interiore.

È strano che anche acuti studiosi del Bandello, e i suoi grandi ammiratori, abbiano infatti potuto ripetere il giudizio sbrigativo che egli sia un psicologo mediocre: sembrerebbe, invece, che uno dei meriti più lampanti di questo autore sia proprio il vigore psicologico.

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Questo paladino dell’amore, tranne nei casi di stanchezza o di poca attrazione per l’argomento, dipinge i tratti e i modi della passione in tutto il loro svolgersi, e ne rappresenta i casi e le forme più vari, dalla passione ancor tenera ed infantile a quella peccaminosa o ancora a quella puramente brutale.

Egli vide, non senza acume, con un senso di stupore, se non di sgomento, il dramma della ragione sopraffatta dal «concupiscibile appetito», dell’eros disfrenato che prorompe senza scampo nella colpa e nel delitto: nelle novelle notissime della contessa di Challant (I,4), di Parisina (I,44), di Anna Bolena (III,62), della duchessa di Borgogna (IV,5).

Così, nella novella II, 41, la storia di Elena, una fanciulla di quattordici anni, che scopre l’emozione del primo amore, viene descritta con una freschezza, una delicatezza e precisione di tono, che implicano una profonda conoscenza dei movimenti del cuore delle donne. Il narratore evoca con il suo stile analitico e dettagliato la sottile evoluzione di questa fanciulla, che passa dall’innocenza degli incontri fortuiti all’amore sconosciuto e confuso, alla coscienza di una prima paziente attesa, fino alla rivelazione della donna alla pienezza dei suoi sentimenti e alla determinazione per conquistare la sua felicità.

Il nascente amore di Elena è tra le cose più delicate e meglio condotte della novellistica italiana. Già è poeticamente intonato lo sfondo in cui sorge, a Venezia, mentre la fanciulla è nella casa di quattro giovani sorelle che giocano a palla e tutte sono innamorate di qualche ragazzo, così che interrompono ogni tanto il gioco e corrono al balcone per vedere il proprio amante. Ed ecco che una volta, Elena, tutta sola, è al balcone, e, come vede il giovane Gerardo si mette a far verso di lui gli atti che alle ragazze più grandi di lei aveva visto fare verso gli innamorati:

“Non s’era Elena levata dal balcone ove il giovine la vide, il quale, navigando soavemente con la sua barca scoperta, come ei vide la bella Elena, cosí con lieto viso cominciò a riguardarla e con la coda de l’occhio lascivettamente a mirarla. Ella che alora si trovava un bel garofano fiorito a l’orecchia, quello levatosi come la gondola fu sotto il balcone, lievemente il bello ed odorifero fiore, piú vicino al giovine che puotè, lasciò venir giú. Gerardo oltra modo lieto di cosÍ fatto avvenimento, pigliato il vago fiore ed a la giovane fatta condecevole riverenza, esso fiore piú e piú volte allegramente basciò. L’odore del vago fiore e la bellezza d’Elena in cosí forte punto entrarono nel core del giovine, che ogni altro ardore che in quello ardesse in un tratto si smorzò, e con tanta forza le fiamme de la bella Elena l’accesero, che mai piú non fu possibile non dico ad estinguerle ma pure in minima parte a scemarle. Onde Gerardo di nuovo fuoco abbrusciando, la pratica de la barbiera in tutto abbandonò e di se stesso intieramente a la vaga fanciulla fece dono. Ma ella, che semplicissima era ed ancora il petto agli strali amorosi aperto non aveva, quando Gerardo dinanzi a le finestre di lei passava,ancor che volentieri lo vedesse, nè piú nè meno lo guardava come se il mirarsi insieme fosse stato un giuoco.[…] ondimeno, a lungo andare sentiva nel

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core piacer non picciolo veggendo Gerardo, ed averia voluto che egli venti volte l’ora si fosse lasciato vedere, ma il dí de la festa solamente. Per questo, per non esser nei giorni festivi da le compagne disturbata, e piú contentandosi de la vista di Gerardo che del gioco de le “forfette” cominciò or con una scusa or con altra a distorsi da la compagnia de le quattro sorelle”71

Così a poco a poco il Bandello fa sorgere e ingrandire nell’animo della fanciulla l’amore, che resterà tuttavia un gioco, anche alla vigilia delle nozze, in cui ella pensa pure al gioco dell’amore maritale, sebbene non abbia la minima idea di cosa sia.

Questo amore si svolge con allegra gentilezza, e lo stile sembra voglia un po’ imitare quei certi atteggiamenti fanciulleschi della donna che sulla prima soglia dell’adolescenza si sveglia all’amore.

Bandello sa anche descrivere un contenuto spesso patetico, l’irruzione brutale del dramma nella vita di una donna, fino a quel momento tranquilla o l’irresistibile ascesa della passione, che alla fine ha sconvolto le barriere morali e sociali, e a portato la vittima alla distruzione.

Le donne conquistano in Bandello un nuovo spazio narrativo, diventando soprattutto protagoniste di una ricca cronaca contemporanea, fatta di tragici drammi, di fatti quotidiani misti di beffe, di sangue, di passioni o di efferati delitti.

Nei suoi racconti Bandello fonde il tema amoroso con motivi patetici e orrorosi. L’incesto, le decapitazioni, gli omicidi, stupri e suicidi sono l’esito di passioni smisurate e proibite, di vendette crudeli e costituiscono un potenziale tragico che spiega l’incredibile successo dell’autore presso Shakespeare e tutti gli altri autori del teatro elisabettiano.72

L’eros tende a diventare passione tragica o a ripiegare entro i confini rassicuranti della fedeltà coniugale, offrendo così altri spunti interessanti di riflessione. Una lettura sociologica dei racconti ci permette di capire quale fosse l’atteggiamento della mentalità collettiva dell’opera verso il comportamento amoroso maschile e femminile.

71 Novella II,41.

72 Non per nulla è tipico di Bandello il gusto orroroso, la tendenza, cioè, a privilegiare il resoconto di passioni

smisurate, di crudeltà inaudite, di fatti di sangue tragici e orribili. Il gusto dei racconti criminosi e il piacere dell’orroroso rientrava in quella tendenza, che fu proprio di tutta la seconda metà del Cinquecento, quando la civiltà europea e non soltanto quella italiana, aveva perduto la fiducia nell’uomo e nell’armonia del mondo. Non fu tragico il Trecento, né il Quattrocento e lo stesso primo Cinquecento: l’ipocrisia, derivante dall’obbligo di accettare norme morali imposte dal potere religioso per combattere la riforma protestante, doveva aprire una frattura nella coscienza della realtà; da qui il gusto dell’orroroso, da qui la nascita della tragedia, proprio in quell’Italia, che si diceva priva di tal genere letterario.

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La novella 4 della prima parte, celebre per la sua protagonista, la contessa di Challant, appartiene a quelle di carattere drammatico, e anzi tragico, ed è ispirata da una figura storicamente esistita, la cui vita scellerata e la cui decapitazione dovevano aver suscitato un vasto strascico di discussioni e di commenti nella società milanese e lombarda del Cinquecento. Di tali discussioni e commenti più di un’eco è rimasta nella novella, in cui Bandello ha procurato di rievocare le vicende della contessa e di mettere in luce quei suoi «disordinati e disonestissimi appetiti» che la portarono a una fine terribile, in ancor giovane età, e travolsero nella rovina coloro che non erano riusciti a sottrarsi al suo fascino perverso.

Nella versione bandelliana della storia di Bianca Maria contessa di Challant vi è un tema dominante che ritorna diverse volte, a illuminare la meravigliosa assenza d’ogni senso morale nella «rea femina»: con la stessa semplicità di cuore con cui una giovane donna può chiedere al suo amante una «grazia» del tutto innocente, la contessa chiede al suo secondo amatore di uccidere il primo, poi ritornata agli amori col primo, lo invita ad uccidere il secondo; e infine vuole persuadere il suo terzo amante, «mostrandosi ben ebra de l’amor di lui», ad ammazzare i primi due.

Con un senso di stupore pensoso il novellatore contempla quel miserevole essere umano «a cui ogni gran scelleratezza pareva nulla», quella donna che senza alcun lume di ragione, era «non dico governata, ma furiosamente spinta». E nella chiusa della novella v’è, per quel miserevole essere umano, quasi predestinato alla colpa e al delitto, un senso di pietà: «A la fine essendo condutta nel rivellino del castello verso la piazza, e veduto il ceppo, si cominciò piangendo a disperare e a domandare di grazia che, se volevano che morisse contenta, le lasciassero veder il suo don Pietro…Così la misera fu decapitata. E questo fin ebbe ella de le sue sfrenate voglie.»

Bisogna attribuire in questo caso a Bandello la pesantezza di aver fatto sentire in certi punti la perfidia di quel personaggio: soprattutto alle parole rivolte dalla contessa ai suoi amanti, che hanno la capziosità subdola e crudele di chi ha disinvoltamente capovolto i valori e insieme l’accento freneticamente esaltato dalla fissazione.

Altra donna, a guardare bene, è Parisina: in lei il «concupiscibile appetito» si esalta, e in un certo senso, si nobilita, facendosi per grandi passioni veemente.

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Nella celebre novella di Ugo e della Parisina73, l’ideologia dell’autore è influenzata dal

diverso criterio con cui la società del tempo giudicava il tradimento dell’uomo e della donna.

La novella è preceduta da una lettera dedicatoria a Baldassare Castiglione, autore del Cortegiano. A Castiglione la novella è inviata in cambio di un testo letterario, che questi avrebbe mandato in lettura a Bandello. Il racconto sarebbe stato oralmente narrato da Bianca D’este74, discendente di Niccolò III75, il principe di Ferrara protagonista della

novella. Niccolò fece decapitare il figlio Ugo, avuto dal primo matrimonio, e la seconda moglie, la Parisina, sorpresi in adulterio. Fra i tre protagonisti del racconto, Bandello privilegia la donna: pur condannandola, non nasconde del tutto una qualche ammirazione per la sua sfrenata passione.

Nella novella, a parlare e a esprimersi direttamente è la Parisina, non Ugo e neppure Niccolò. È lei a vivere consapevolmente la forza della passione erotica, mentre il figliastro è mostrato nella sua ingenuità giovanile. È lei a sentire quasi eroicamente l’amore, a chiedere al marito di ucciderla pur di salvare la vita di Ugo. È lei, infine, che anche in punto di morte, resta coraggiosamente fedele alla propria passione, senza pentirsi e senza volersi confessare, mentre l’altro riconosce il peccato e chiede perdono.

Al tradimento del Marchese e a quello di Parisina sono applicati due pesi e due misure. Questo è uno dei temi più scottanti nella querelle des femmes (disputa delle donne), su cui prende coraggiosamente posizione Margherita di Navarra, battendosi a favore di un ugual trattamento dell’adulterio maschile e femminile. Ma la mentalità dominante era molto diversa, ed è ben rappresentata da Bandello.

Il marchese era il «gallo di Ferrara», la voce popolare gli attribuiva «trecento figliuoli», e in effetti Niccolo III viene descritto dalla sua discendente come «il più feminil uomo che a quei tempi si ritrovasse, che quante donne vedeva tante ne voleva. Non si seppe perciò che ad alcuna da lui fosse fatta violenza già mai». 76

A nessuna censura è sottoposto questo poco lodevole costume da parte di chi narra. La narratrice è sì una donna, ma in realtà si tratta di una voce narrante fittizia. Nell’ indugio narrativo sull’iperbolica prole c’è una sottaciuta ammirazione per la invidiabile energia

73 Novella I,44 da Matteo Bandello, Novelle, a cura di E.Menetti, pp.203-217.

74 Bianca d’Este fu figlia di Sigismondo d’Este e sposa nel 1495 Amerigo Sanseverino.

75 Niccolò (1382-1441), figlio naturale di Alberto V, cercò di consolidare il potere estense migliorano le

relazioni con i Visconti di Milano, città nella quale morì forse per avvelenamento. La sua corte era ritrovo di umanisti e di letterati.

76 Nelle parole di Bianca d’Este prevale sempre la moderazione nei confronti di Niccolò, cercando di

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virile del marchese e per la facilità e il successo delle sue conquiste. Le donne non resistevano al suo fascino.

Ben diverso è il giudizio di Parisina che denuncia il potere reale del marito: «Ed essendo signore, chi sarà che gli dica di no?». Ciò che è permesso al Marchese diventa invece per la Parisina gravissima colpa. Essa è l’unica a non accettare il comportamento del marito e il tentativo di reagirvi, affermando il suo diritto alla giovinezza e all’amore, è punito con la morte, una morte legalmente decretata.

Il giudizio sulla donna, nonostante la comprensione delle sue motivazioni, è di ferma condanna. La sua passione è «gran scelleratezza» di cui ella stessa è consapevole, lei è la responsabile della seduzione dell’ingenuo giovinetto.

Il marchese, scoperto il tradimento, non sopporta questo affronto e fa decapitare gli sfortunati amanti. È una regolare condanna a morte, giacché al privilegio maschile si unisce quello del potere signorile. Il narratore sente il bisogno di giustificare, almeno psicologicamente, la crudeltà della punizione «e l’amore che a la moglie e al figliuolo portava in crudelissimo odio convertì»: è, questo, un amore di cui non v’è traccia nella novella, e che certamente non era avvertito dalla Parisina.

La persona tragica di Parisina ha maggior risalto nel confronto con la mediocre umanità del suo amante, «ebro del cocente amore de la matrigna»: un buon giovinetto di traviato e vinto dall’aggressività della donna «baldanzosa e lasciva»; che muore pentito e confesso, dopo essere stato «tre continovi giorni in compagnia di dui frati, sempre di ben in meglio disponendosi a l vicina morte e ragionando di cose sante. Passato il terzo giorno, la mattina a buon’ora uno di quei frati gli disse la messa; e infine il giovine con grandissime lagrime, chiedendo a Dio e al mondo perdono dei suoi peccati, prese divotamente il sacratissimo corpo del nostro Salvatore»: una morte esemplare, secondo lo schema cattolico; della quale il Bandello, ricordandosi d’essere stato frate prima che cortigiano e scrittore, assai si compiace. Ma la sua simpatia di scrittore artista si rivolge piuttosto a Parisina, irremovibile e chiusa nel suo disperato amore.

Tra i due protagonisti della tragica storia d’amore, rievocata sullo sfondo di lusso, d’intrigo e di licenza della corte ferrarese del secolo XV, il nostro autore ha sentito più vicina soprattutto la figura di Parisina, giovinetta «bella e vezzosa», giunta a Ferrara con l’illusione di sposare il conte Ugo e maritata all’anziano Niccolò III, già vedovo e continuamente invischiato in molteplici avventure amorose. A poco a poco s’insinua nell’animo di lei l’affetto per il figliastro, che, ricambiato, conduce i due amanti alla morte; ed è proprio a questo punto che Parisina, sinora verbosa enunciatrice a Ugo del suo

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incontenibile amore, si solleva a un’insueta grandezza: spicca la figura della donna, dolente e disperata eroina d’amore, la quale fa dell’affetto per il figliastro il centro esclusivo della sua esistenza di donna avvenente e appassionata e il conforto supremo e unico nell’affrontare energicamente il supplizio.

È la donna dunque la vera eroina dell’amore di fronte al fragile Ugo, che piange amaramente il suo peccato, e al marchese che si prende piacere di tutte, senza amare nessuno. Quando la loro tresca viene scoperta, difatti, il giovane si mostra contrito del suo fallo, e chiede perdono al padre; la donna invece eroicamente di quel eroismo voluto dall’aborrito Machiavelli, e di cui si ha l’incarnazione nella Mandragola, la donna tutta buona, ma poi onorevolmente cattiva, quando è necessario, si addossa tutta la colpa, rifiuta la confessione, e chiede soltanto di salvare il suo giovane amante.

Si deve osservare che Bandello ha dato rilievo grandissimo a Parisina, assai meno a Ugo; ci si potrebbe obiettare che lo stesso è avvenuto a Dante, quando ha dato rilievo e voce a Francesca, e meno a Paolo. L’ispirazione religiosa di Dante poteva indulgere verso la donna peccatrice, e lasciare in ombra Paolo; ma in Bandello è sempre il mito della