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Metodologie e tecniche per l'insegnamento/apprendimento linguistico in classi con alunni con BES

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dottorato in Filologia Letturature e Linguistica

XXX ciclo

Tesi di dottorato in Glottodidattica (L/LIN-02)

RAFFAELLA MORETTI

METODOLOGIE E TECNICHE PER

L’INSEGNAMENTO/APPRENDIMENTO

LINGUISTICO

IN CLASSI CON ALUNNI CON BES

Tutor:

Prof.ssa Daria Carmina Coppola

Prof. Mirko Aurelio Tavosanis

(2)
(3)

INDICE DEI CONTENUTI

INTRODUZIONE

9

PARTE PRIMA

La complessità dell’interazione glottodidattica nelle classi con

alunni con BES

21

CAP. 1 - IL POLO DELL’APPRENDENTE 23

1. Il concetto di Bisogno Educativo Speciale 26

2. Alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento nella scuola italiana 30 2.1 Riferimenti per la classificazione dei disturbi specifici di

apprendimento 32

3. Teorie e modelli dell’apprendimento della letto-scrittura 34

3.1 Un modello bottom-up: il modello Pandemonium 36 3.2 Un modello top-down: il modello del magazzino lessicale 37

3.3 I modelli interattivi 38

3.4 Il modello modulare a due vie 39

3.5 I modelli evolutivi di tipo stadiale 41

3.6 Come si apprende a scrivere 43

3.7 Il ruolo della memoria nell’apprendimento della letto-scrittura 47

4. Teorie sulla dislessia/disortografia 51

4.1 Teorie di matrice neurolinguistica 54

4.2 Teorie del controllo motorio 56

4.3 Teorie del deficit fonologico 57

4.4 Deficit relativo alla memoria di lavoro 59

4.5 Sviluppo deficitario del lessico mentale 60

5. Alunni con altre L1 62

(4)

6. L’apprendimento linguistico 66

6.1 I modelli innatisti 67

6.2 I modelli cognitivi 68

6.3 I modelli ambientalisti 71

7. Fattori coinvolti nell’apprendimento delle lingue 72

7.1 Fattori extralinguistici 72

7.1.1 Età e periodo di scolarizzazione 72

7.1.2 Fattori cognitivi 74

7.1.3 Fattori motivazionali, emotivi e affettivi 76

7.1.4 Il contesto dell’apprendimento 78

7.2 Fattori linguistici 80

7.2.1 La conoscenza pregressa di altre lingue 80

7.2.2 Ipotesi della dislessia/disortografia differenziale 81

8. Competenza plurilingue 82

8.1 I contributi delle neuroscienze cognitive e della neuropsicologia 86

8.2 L’ipotesi delle soglie e dell’interdipendenza 90

8.3 BICS e CALP 93

8.4 Vantaggi e svantaggi del bilinguismo 96

8.5 Bilinguismo e insegnamento/apprendimento della scrittura 97

CAP. 2 - IL POLO DEL DOCENTE 101

1. I principi e la normativa della didattica inclusiva 101

2. Metodologie e tecniche efficaci in CAD 104

2.1 I metodi delle scienze pedagogiche 105

2.2 Universal Design for Learning (UDL) 106

2.3 Evidence Based Education (EBE) 107

2.4 L’apprendimento significativo 108

2.5 Contributi della linguistica acquisizionale 114

3. Gli approcci umanistici 116

3.1 La tradizione umanistica italiana 116

4. L’approccio dialogico 118

(5)

 

CAP. 3 - IL CURRICOLO LINGUISTICO-CULTURALE 120

1. La dimensione linguistica del curricolo nelle classi complesse 120 2. Alunni con DSA e apprendimento delle lingue: le proposte editoriali 127 3. Il plurilinguismo nei documenti internazionali e nazionali 135

3.1 Le indicazioni del Quadro Comune Europeo 135

3.2 Le indicazioni del CARAP 138

3.3 Le indicazioni della Guida per lo sviluppo e l’attuazione di curricoli

per una educazione plurilingue e interculturale 142 3.4 Le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e

del primo ciclo d’istruzione 145

4. La dimensione culturale 148

PARTE SECONDA

Analisi testuale e linguistica degli elaborati

151

CAP. 1 - TESTI E TESTI SCOLASTICI 153

1. Scrittura come prodotto, come processo e come pratica sociale 154

2. La situazione comunicativa scolastica 158

3. La scrittura scolastica 160

4. Le finalità dell’apprendimento della scrittura nelle Indicazioni Nazionali e nelle

Linee guida per la certificazione delle competenze 162

5. Equivocità terminologica nelle classificazioni testuali 164

6. Criteri classificatori 165 7. Le classificazioni formali 168 7.1 La proposta di F. Sabatini 168 7.2 La proposta di E. Manzotti 170 8. Le classificazioni funzionalistiche 172 8.1 La proposta di Werlich 172 8.2 La proposta di A. Vähäpassi 174

(6)

9. Una classificazione a orientamento cognitivo 178

9.1 La proposta di M. Della Casa 178

10. Le classificazioni pragmatiche 180

10.1 La proposta di A. Colombo 180

10.2 La proposta del GISCEL“scrivere per comunicare”, “scrivere per

inventare”, “scrivere per apprendere” 183

CAP. 2 - PROPOSTA DI CLASSIFICAZIONE TESTUALE DEGLI

ELABORATI DEL CORPUS 187

1. Per una classificazione tipologica degli elaborati del corpus 187

2. Forme testuali scolastiche 191

3. Forme testuali del corpus 193

4. Indicazioni extratestuali e classificazione tipologica 200

5. Sull’impostazione grafica 202

6. Esempi di testi 205

Testi esercitativi 205

Testi per apprendere 207

Testi per comunicare 208

Testi per inventare 209

CAP. 3 - PER UN’ANALISI LINGUISTICA DEGLI ELABORATI 211

1. Varietà linguistiche degli input ambientali 211

1.1 La varietà linguistica richiesta dalle Indicazioni Nazionali 216

2. Standard, norma e varietà 216

2.1 Il dialetto 220

2.2 L’italiano regionale 223

2.3 L’italiano popolare 224

2.4 L’italiano neostandard 225

2.5 Lingua parlata e lingua scritta 231

(7)

 

CAP. 4 - SUI CRITERI DI CLASSIFICAZIONE DEGLI ERRORI 239

1. Il concetto di errore in linguistica 239

2. Il concetto di errore in glottodidattica 241

2.1 Gli errori in italiano L2 come interferenze del dialetto L1 246

2.2 La classificazione di Berruto 248

2.3 Criteri di classificazione degli errori usati per le varietà di

apprendimento 251 3. Criteri di classificazione degli errori usati dalle teorie neuropsicolinguistiche 252

3.1 La proposta di Stella, D’Alessandro, Soglia 253

3.2 La proposta di Tressoldi e Cornoldi 255

3.3 La classificazione di Bozzo e altri 256

CAP. 5 - UNA PROPOSTA DI CLASSIFICAZIONE DEGLI ERRORI E DELLE

FORME NON-STANDARD 265

1. Errori e forme non-standard rilevati nel corpus: il livello ortografico 275 2. Errori e forme non-standard relativi al livello lessicale e semantico 296 3. Errori e forme non-standard relativi al livello morfosintattico 299 4. Errori e forme non-standard relativi al livello pragmatico 316 5. Analisi quantitativa degli errori e delle forme non-standard rilevati nel corpus 317

6. Le correzioni degli insegnanti nel corpus 324

7. Una varietà in evoluzione 327

8. Implicazioni didattiche 332

PARTE TERZA

Il modulo sperimentale plurilingue “In quante lingue mangi?”

335

CAP. 1 - OBIETTIVI E METODOLOGIA 337

1. Contesto e campione 340

2. Strumenti di rilevazione dei repertori plurilingui 343

(8)

2.2 I livelli di competenza del Quadro Comune Europeo 350

2.3 La rilevazione delle competenze BICS/CALP 353

3. Strumenti per lo sviluppo linguistico: tecniche cooperative e translanguaging 354 4. Strumenti di verifica dello sviluppo linguistico: il Language Testing plurilingue 369

CAP. 2 – LE DUE UNITÀ DI LAVORO DEL MODULO SPERIMENTALE 375

1. Prima UdL del modulo sperimentale: composizione del campione 375

1.1 Obiettivi linguistico-culturali 376

1.2 Tema e metodologia 377

1.3 Attività linguistiche: translanguaging, lingue dello studio e lingue del

repertorio 378 1.4 Attività interculturali: le testimonianze dei familiari 380

1.5 Attività metalinguistiche 381

1.6 Il test plurilingue 384

1.7 I task cooperativi 385

1.8 I task individuali 388

1.9 Risultati dei task 389

1.10 Risultati complessivi del test plurilingue 390

1.11 I questionari di gradimento 395

1.12 Conclusioni della prima unità di lavoro 398

2. Seconda UdL del modulo sperimentale 400

2.1 Composizione del campione sperimentale e del campione di controllo 400

2.2 Obiettivi linguistico-testuali e metodologia 401

2.3 Attività linguistico-testuali 402

2.4 Il test finale: e-mail plurilingue 406

2.5 Analisi delle e-mail plurilingui 410

2.6 Risultati 417

2.7 L’intervista ai docenti 418

(9)

 

CONCLUSIONI 423

BIBLIOGRAFIA E SITOGRAFIA 427

* * *

VOLUME II (IN CD-ROM)

APPENDICE DOCUMENTARIA

Corpus A 11

Corpus B 391

(10)
(11)

 

INTRODUZIONE

Il presente studio si inserisce nel vasto panorama dei contributi sull’educazione linguistica, intesa come disciplina integrata di insegnamento/apprendimento di tutte le discipline linguistiche (L1, L2 e LS) e interessata alla maturazione di una competenza linguistica complessa e plurilingue idonea a favorire l’individuo a «prendere parte a interazioni interculturali» (Consiglio d’Europa, 2002). Parlando di lingue dell’educazione, non si considera più una lingua alla volta né una sola lingua (la varietà parlata in famiglia, la lingua standard o la lingua straniera), bensì si parla di lingue al plurale (Ferreri, Calò, 2009: XII) che delineano un unico quadro d’insieme in stretto rapporto con i concetti di coesione sociale, di inclusione e di vita democratica. In Italia questo modello di gestione educativa e inclusiva della pluralità idiomatica risale alle Dieci Tesi per l’educazione linguistica democratica del Giscel (1975), le quali sottolineano come lo sviluppo della dimensione linguistica sia interrelato allo sviluppo della dimensione psicologica, cognitiva e sociale dell’alunno, nel rispetto e nella valorizzazione di tutta la persona (tesi IV). Anche la scuola di oggi riconosce all’educazione plurilingue e all’educazione interculturale il compito di risorsa funzionale alla valorizzazione delle diversità e al successo scolastico, poiché esse rappresentano il presupposto per l’inclusione sociale e per la partecipazione democratica, senza tuttavia tralasciare le molteplici variabili soggettive e ambientali che influenzano l’educazione e i rapporti socio-culturali (Miur, 2012).

In questo studio, per comprendere le variabili che determinano l’apprendimento linguistico sono stati mutuati modelli e strumenti di analisi da diverse discipline linguistiche e sociali (linguistica, linguistica testuale, linguistica acquisizionale,

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sociolinguistica, psicolinguistica, glottodidattica, pedagogia, psicologia), in modo da disporre di un quadro di analisi completo e adeguato alla definizione degli approcci, delle metodologie e delle tecniche di insegnamento in armonia con i bisogni educativi, psicologici, cognitivi e sociali dell’alunno.

In particolare l’analisi si è focalizzata sullo sviluppo dell’abilità di scrittura in classi con alunni con BES (dislessici/disortografici e di altre L1), negli anni scolastici compresi tra l’ultimo anno della scuola primaria e il secondo anno della scuola secondaria di I grado. A questo scopo si è reso opportuno analizzare la scrittura «come prodotto, processo e come pratica sociale» (Orsolini, Pontecorvo, Volterra, 2011: 11). Sono state esaminate cioè le forme testuali prodotte all’interno della tradizionale situazione comunicativa scolastica che presenta ruoli e finalità specifici, ma anche le attività cognitive implicate nell’apprendimento degli aspetti formali e funzionali della lingua (Flower, Hayes, 1980; Bereiter, Scardamalia, 1995), così come pure i processi di trasformazione delle informazioni (De Beaugrande, Dressler, 1990); infine è stato progettato un impianto curricolare e di testing che tengono conto della scrittura come pratica sociale “situata”, cioè legata al contesto linguistico e socioculturale in cui si svolge (Vygotskij, 1987).

Le motivazioni che hanno spinto a questo studio nascono dalla constatazione che il sistema scolastico italiano si trova a dover fronteggiare complessità ed eterogeneità con approcci e strumenti metodologici spesso inadeguati alla realtà delle classi, che si presentano eterogene per abilità, lingue e culture. Partendo dall’analisi della complessità sociale, che ha determinato una trasformazione delle modalità educative e di insegnamento/apprendimento, le Indicazioni Nazionali per il curricolo della scuola dell’infanzia e del primo ciclo d’istruzione (Miur, 2012a) - cioè il documento ministeriale di riferimento per l’istruzione e l’educazione degli alunni del primo ciclo di istruzione - mostrano l’adesione a un modello multidimensionale complesso e non riduttivo di educazione e di formazione, e tuttavia circoscrivono le finalità dell’educazione linguistica all’apprendimento della lingua di scolarizzazione (Miur, 2012a: 28), piuttosto che sottolinearne il ruolo educativo e formativo fondamentale, interrelato con altre

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dimensioni cognitive, psicologiche e socio-culturali. Inoltre, sul piano etico, i modelli di verifica dell’apprendimento proposti dall’insegnamento tradizionale si basano su una funzione selettiva delle prove, in quanto mettono in evidenza soltanto ciò che non è stato ancora appreso, senza tener conto anche di altri aspetti dell’apprendimento che non emergono proprio perché ostacolati dal tipo di richieste, dalle consegne o dal formato dei test. Ne sono esempi le prove nazionali implementate dall’Invalsi che, nel monitoraggio dei livelli di apprendimento conseguiti dal sistema scolastico, non differenziano i test linguistici (di italiano e di inglese) per alunni con BES, concedendo ai soli alunni con disturbi specifici di apprendimento (DSA) la possibilità di poter usufruire di strumenti compensativi. Le medesime prove vengono somministrate a tutti gli alunni, compresi quelli di recente immigrazione inseriti per la prima volta nel sistema educativo italiano nel corso dello stesso anno scolastico (Invalsi, 2017b: 64), sebbene per raggiungere un buon esito agli alunni siano richieste abilità linguistiche complesse.

Le complesse caratteristiche delle classi ad abilità differenziata (CAD), multietniche e multilingui (Caon, 2006), rese ancora più eterogenee dalla presenza di alunni con bisogni educativi speciali (BES) e con bisogni linguistici specifici (Daloiso, 2016a; 2016b) spingono da un lato a investigare le dinamiche interazionali e di apprendimento linguistico che si basano su più codici, più lingue e più varietà; da un altro incoraggiano a definire strumenti di rilevazione delle competenze e delle abilità che tengano conto delle innumerevoli dinamiche coinvolte nell’apprendimento linguistico. Il rapporto tra insegnamento e apprendimento infatti non può essere che fluido, nel senso che non tutto ciò che è insegnato può essere facilmente verificato, né tutto quello che viene appreso può essere semplicemente ricondotto all’insegnamento, soprattutto se si considerano gli innumerevoli stimoli che provengono dai diversi codici e canali coinvolti nelle diverse situazioni comunicative extrascolastiche.

La ricerca e l’implementazione di metodologie e tecniche glottodidattiche in grado di valorizzare i repertori, di facilitare l’apprendimento linguistico - elicitando pratiche spontanee e “naturali”, quali il translanguaging, attraverso strategie pedagogiche consapevoli (Garcìa, Wei, 2014) -, di sostenerlo cognitivamente per renderlo più significativo, nasce dalla constatazione che gli

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approcci di insegnamento/apprendimento linguistico, basati su metodi rigidamente monolingui, non soddisfano i bisogni comunicativi, sociali, cognitivi e educativi degli alunni del primo ciclo d’istruzione. Tali approcci infatti, non sembrano ottimizzare la naturale propensione degli alunni di questa fascia d’età alla socializzazione e all’utilizzo di pratiche plurilingui fluide e dinamiche in grado di orientare verso transfer positivi che portano all’attivazione spontanea di efficaci strategie di apprendimento.

I modelli teorici relativi al plurilinguismo (ad es., Cummins, 2005) e i principali documenti europei che si occupano di politica linguistica, come il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER) e il Quadro di Riferimento per gli Approcci Plurali alle Lingue e alle Culture (CARAP), mettono in luce una visione complessa e interrelata di repertorio e di competenza linguistico-comunicativa. L’ipotesi di Cummins relativa all’interdipendenza tra le lingue presenti nel repertorio dell’apprendente, e la metafora dell’iceberg (2005) relativa alla natura della competenza linguistica, sottolineano che le lingue di un parlante plurilingue «sono solo apparentemente separate, ma in realtà unite in profondità in una competenza “sommersa” che attiva più codici (anche non necessariamente verbali), funzionalmente agli scopi comunicativi» (Coppola, 2016: 6). A questo riguardo, il QCER (Consiglio d’Europa, 2002: 5) parla di competenza plurilingue come estensione sia del repertorio linguistico-culturale sia della competenza linguistico-comunicativa di un individuo che interagisce in esperienze linguistiche diverse, e sottolinea come l’educazione linguistica non possa più mirare tanto alla “padronanza” di una o più lingue apprese isolatamente, avendo come modello di riferimento il “parlante nativo ideale”, quanto piuttosto «alla capacità di usare in modo appropriato ed efficace tutte le lingue acquisite o apprese a livelli diversi di competenza» (Coppola, 2016: 7).

Coerentemente con questa prospettiva, sul piano metodologico si pone la necessità di implementare validi strumenti di rilevazione e di valutazione della competenza plurilingue, intesa non come la semplice somma di competenze monolingui, ma come la capacità d’uso delle lingue che un individuo mette in atto utilizzando in modi diversi le sue abilità e conoscenze sia generali che specificamente linguistiche, ricorrendo a strategie diverse o a competenze diverse (Consiglio d’Europa, 2002: 164-165). Ciò significa che la competenza plurilingue

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comprende sia il concetto di “competenza parziale” in una determinata lingua - cioè prende in considerazione la possibilità che la competenza linguistica necessaria per comunicare correttamente in una lingua sia circoscritta e limitata ma ugualmente funzionale a un obiettivo comunicativo specifico - sia il concetto di dinamicità nelle combinazioni e alternanze tra lingue. Per queste ragioni, in situazioni educative finalizzate all’inclusione, la fase di progettazione curricolare dovrà orientarsi in primo luogo alla valorizzazione della competenza plurilingue e allo sviluppo della competenza pragmalinguistica (necessaria a comunicare efficacemente utilizzando varietà sociolinguistiche e registri appropriati), mentre la fase di verifica degli apprendimenti sarà orientata verso quelle verifiche plurilingui che assecondano la dinamicità e la fluidità della competenza linguistica e che risultano idonee a rilevare i processi di apprendimento linguistico in alunni con competenze e repertori eterogenei e plurali.

La presente ricerca si propone un duplice obiettivo:

1. sul piano linguistico: analizzare e descrivere le forme e le strutture linguistiche (a livello ortografico, morfosintattico e lessicale) di un corpus prodotto da alunni caratterizzati da dislessia/disortografia e/o di altre L1, iscritti all’ultima classe della scuola primaria e alla prima classe della scuola secondaria di I grado;

2. sul piano glottodidattico: mostrare l’efficacia di metodologie glottodidattiche dialogiche e inclusive per lo sviluppo della competenza lessicale, metalinguistica e testuale come emerge nelle produzioni/interazioni scritte da parte di alunni con BES; ed elaborare strumenti di verifica adatti a sollecitare la competenza plurilingue e la competenza metacognitiva.

Il rapporto degli alunni con la scrittura viene indagato dunque da due prospettive diverse:

- attraverso l’analisi testuale e linguistica dei testi scritti in italiano (L1 per alcuni alunni e L2 per altri) richiesti in tradizionali attività d’insegnamento linguistico, che sono confluiti nei corpora A e B;

- attraverso l’analisi dei processi coinvolti nello sviluppo linguistico, cioè quelli che mettono in evidenza come gli alunni esercitano la competenza

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linguistica generale che porta alle produzioni testuali confluite nel corpus C.

Nel primo tipo di analisi si pone attenzione al prodotto finito, cioè al testo, in quanto si parte dall’esame delle tipologie testuali proposte dagli insegnamenti didattici finalizzati all’apprendimento della lingua italiana per poi giungere all’analisi linguistica delle produzioni orientata dal concetto di “norma linguistica”, come avviene nella Error Analysis e nella tradizione didattica italiana.

La prospettiva del secondo tipo di analisi, invece, parte dagli alunni, in quanto si concentra non sul testo visto come prodotto isolato, ma su tutto quell’insieme di processi cognitivi, sociali, comunicativi e linguistici che sostengono la scrittura tanto nella dimensione strumentale che in quella testuale.

Successivamente viene elaborata una proposta glottodidattica basata sull’approccio dialogico e sull’insegnamento integrato di più lingue, abbinato a tecniche di apprendimento cooperativo e supportato da strumenti digitali, finalizzata sia allo sviluppo della competenza comunicativa e testuale, sia all’implementazione di test formativi focalizzati sui processi motivazionali, linguistico-funzionali, socio-culturali e cognitivi che sorreggono l’apprendimento (Black, Harrison, Lee, Marshall, Wiliam, 2002). Questi ultimi risultano più inclusivi rispetto a strumenti di valutazione normativi e selettivi e più idonei a rilevare la competenza linguistica generale attraverso l’attivazione di tutte le risorse linguistiche e cognitive dell’alunno. Dal momento che la progettazione del language testing sollecita una riflessione relativa alle conseguenze sociali e etiche della verifica linguistica e della valutazione, in una prospettiva educativa inclusiva, si è scelto di rifiutare prove rigidamente monolingui accordando agli alunni la possibilità di attingere all’intero repertorio.

La ricerca è suddivisa in tre parti. Nella prima parte, dopo aver preso in considerazione la complessità che caratterizza oggi la scuola come specchio della società (Vertovec, 2007), si mette in evidenza come l’interazione glottodidattica nelle classi complesse necessiti di un’accurata analisi delle caratteristiche dell’alunno (capitolo 1) che ne evidenzi i suoi bisogni (educativi, relazionali, sociali, linguistici), e i fattori interni e esterni (psicologici, cognitivi,

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motivazionali, esperienziali) che possono influenzare positivamente o negativamente l’apprendimento in generale e quello linguistico in particolare. All’interno dell’eterogenea e variegata categoria di alunni con BES, per la quale nel 2012 il Miur ha sentito la necessità di definire orientamenti pedagogico-didattici e strumenti legislativi specifici, viene dapprima presa in considerazione la tipologia di alunni con DSA relativi all’ambito linguistico, come la dislessia e la disortografia. Si parte da una disamina dei vari modelli di matrice psicologica e neurolinguistica che si sono occupati dell’apprendimento della letto-scrittura, per poi passare in rassegna le varie teorie che definiscono gli elementi coinvolti nei disturbi della dislessia/disortografia.

All’analisi di questa tipologia di alunni segue quella relativa agli alunni di altre L1, caratterizzati da varietà interlinguistiche e da competenze plurilingui e pluriculturali, i quali nel sistema scolastico apprendono parallelamente i saperi disciplinari e l’italiano L2, sia nelle varietà informali che in quelle più formali necessarie allo studio. A partire dai modelli innatisti, psicolinguistici e cognitivi che si occupano dello sviluppo linguistico in L1 e L2, si evidenzia come gli studi di linguistica acquisizionale (ad es., Pienemann, 1998; Bettoni, 2001; Ramat, 2003; Andorno, Ramat 2012) abbiano contribuito a definire le tappe e le sequenze di acquisizione spontanea delle lingue che, sebbene riflettano un ordine universale di acquisizione specifico di ogni lingua, sono influenzate da fattori linguistici e extralinguistici anche in contesti di apprendimento guidato.

L’analisi dell’interazione glottodidattica deve tener conto, oltre che delle caratteristiche dell’apprendente, anche degli approcci, delle metodologie e degli strumenti che il docente utilizza, al fine di compiere una scelta responsabile e adeguata a favorire e a potenziare l’apprendimento (capitolo 2). A tal proposito, in questo lavoro, vengono presi in considerazione sia i contributi derivati dalle scienze pedagogiche (che risultano efficaci per l’apprendimento linguistico degli alunni con disturbi specifici di apprendimento), sia i contributi derivati dalla linguistica acquisizionale per l’insegnamento/apprendimento delle lingue seconde, sia i principi che sostengono l’educazione plurilingue, vista la presenza di repertori linguistici variegati e complessi.

Infine, si argomenta la scelta dell’approccio dialogico (Coppola, 2009a; 2009b) come modello di riferimento più adeguato a orientare tutte le fasi dell’interazione

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glottodidattica in classi complesse (dalla fase esplorativa dei bisogni e delle risorse, a quella progettuale e curricolare, e, infine a quella della verifica finale) e a sostenere gli obiettivi di sviluppo educativo, linguistico, cognitivo e socio-culturale degli alunni con BES (capitolo 3).

Nella seconda parte si analizzano, dapprima da un punto di vista testuale poi da un punto di vista linguistico (soprattutto ortografico e morfosintattico), due corpora di elaborati scritti in italiano da alunni dislessici/disortografici di madrelingua italiana e da alunni di altre L1. Partendo dall’analisi della situazione comunicativa scolastica e dalle finalità dell’apprendimento della scrittura, esplicitate dai documenti ministeriali (capitolo 1), si prendono in esame le classificazioni testuali che si sono occupate dei testi scolastici, elaborate secondo criteri diversi (formali, funzionali, cognitivi, pragmatici). Tuttavia, le tipologie testuali elaborate dalle classificazioni prese in rassegna non risultano del tutto idonee a classificare le produzioni scolastiche raccolte. Nasce così una proposta di classificazione testuale specifica per gli elaborati che consente di sistematizzare i tipi e le forme testuali del corpus A (capitolo 2).

Dall’analisi testuale delle produzioni didattiche scritte emergono richieste non accessibili a tutti gli alunni in ugual misura, dal momento che non si differenziano a seconda dei livelli linguistici o delle caratteristiche, e non offrono supporti alla scrittura. Inoltre, le forme testuali richieste mostrano un grado di informatività pressoché nullo, dovuto alla artificiosità della situazione comunicativa scolastica, e quindi presentano un basso grado di applicabilità a situazioni concrete. Ne consegue che le attività risultano poco significative, in quanto non si basano su compiti autentici e non interessano forme testuali che utilizzano mezzi di comunicazione reali e d’uso quotidiano, quindi non sono in grado di legarsi alla concretezza dell’esperienza e di focalizzarsi sulle relazioni comunicative.

All’analisi testuale fa seguito l’analisi linguistica che parte dalle indicazioni presenti nei documenti ministeriali relative alla varietà standard richiesta dalle produzioni scolastiche per confrontarla con altre varietà presenti negli input ambientali. A questo proposito, dopo aver analizzato le caratteristiche delle varietà diatopiche, diastratiche e diafasiche presenti nello schema delle variazioni dell’italiano contemporaneo così come definito da Berruto (2015), si prende in considerazione il concetto di “errore”, in modo da orientare l’analisi delle forme

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non-standard rilevate nel corpus B (capitolo 3). Vengono prese in esame diverse classificazioni di errori prodotte specificamente sia in ambito glottodidattico, per evidenziare i livelli e le forme non conformi con la lingua target (L1 o L2), sia in ambito neuropsicologico per diagnosticare e valutare le competenze linguistiche di soggetti con disturbi di apprendimento linguistico (capitolo 4). Tuttavia, si è ritenuto di adattare gli strumenti di rilevazione e di classificazione degli errori alle caratteristiche del campione che influiscono sui processi di acquisizione di lettura e scrittura (età evolutiva e cognitiva, bisogni educativi e linguistici speciali, scolarizzazione e varietà linguistiche di contatto). Combinando gli strumenti adottati nell’ambito dell’analisi delle lingue seconde (il metodo della Error Analysis e il metodo “formale-funzionale” della linguistica acquisizionale), sia con l’approccio psiconeurolinguistico adottato per la descrizione delle produzioni di alunni dislessici/disortografici, sia con quello diatopico che si basa sulla variazione sociofonetica regionale, si propongono specifici parametri di classificazione delle tipologie di errore e delle forme non-standard individuate nel corpus B, che le mettono in relazione con la situazione comunicativa scolastica e con il contesto sociolinguistico di riferimento (reale e virtuale), senza trascurare le caratteristiche linguistiche e extralinguistiche interne agli apprendenti.

L’analisi linguistica evidenzia la competenza linguistica degli alunni soprattutto a livello ortografico e morfosintattico, ma anche lessicale, attraverso il confronto con la lingua italiana standard e normativa richiesta dalla scuola, e giustifica gli aspetti devianti mettendoli in rapporto con il sistema interlinguistico degli alunni di altre L1, con le specificità dell’apprendimento linguistico strumentale degli alunni dislessici/disortografici, e con l’influenza e le caratteristiche degli input ambientali; ma mostra anche la difficoltà a padroneggiare l’incoerenza delle convenzioni ortografiche, oltre che comportamenti linguistici ascrivibili a movimenti più generali della lingua italiana contemporanea, come l’alternanza di registri (formale/informale) e di espressioni che appartengono a codici diversi (oralità/scrittura).

 

Nella terza parte, infine, viene presentato il Modulo Sperimentale (MS) “In quante lingue mangi?”, suddiviso in due Unità di Lavoro (UdL) - realizzato nelle classi prime e seconde di una scuola secondaria di I grado negli anni scolastici 2015/2016 e 2016/2017. La sperimentazione è stata condotta nell’ambito di un

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gruppo di ricerca (Università di Pisa e ILC «A. Zampolli»-CNR di Pisa) coordinato dalla Prof.ssa Daria Coppola (2017).

L’adozione dell’approccio dialogico nella sperimentazione, quale riferimento teorico nel quale iscrivere l’interazione didattica, ha permesso sia di procedere all’analisi dei bisogni secondo una prospettiva didattica learner-centred, sia di implementare un impianto curricolare flessibile, in grado di farsi carico delle necessità, delle caratteristiche dell’apprendimento e delle risorse degli alunni, nell’ottica di una didattica accessibile e inclusiva.

La fase conoscitiva della sperimentazione prende avvio con la raccolta di dati relativi agli alunni, attraverso un questionario sociolinguistico, l’applicazione di strumenti quantitativi conformi ai livelli del QCER, e qualitativi come le interviste agli insegnanti e l’osservazione diretta dei ragazzi durante le attività (per la rilevazione delle competenze si è tenuto conto delle Basic Interpersonal Communication Skills, o BICS, e della Cognitive Academic Language Proficiency, o CALP): (Cummins, 1979). Viene poi avanzata, attraverso il MS, una proposta didattica funzionale ai bisogni formativi rilevati, che individua negli approcci plurali all’insegnamento/apprendimento delle lingue, così come definiti dal referenziale del CARAP (Consiglio d’Europa, 2012), utili strumenti di apprendimento basati su una considerazione globale del repertorio linguistico degli apprendenti e su una visione olistica dell’educazione linguistica (capitolo 1). L’abbinamento di tecniche plurilingui a tecniche mutuate dal Cooperative Learning contribuisce poi a sottolineare la dimensione socio-costruttivista di un apprendimento che è fortemente ancorato alla realtà esperienziale dei ragazzi e significativo dal punto di vista emotivo, cognitivo e culturale. L’interazione didattica di tipo dialogico, fondata sulla cooperazione, agevola l’uso della lingua come strumento sociale, favorisce l’apprendimento agendo sulla “zona di sviluppo prossimale”, e valorizza le culture e lo scambio culturale. L’approccio dialogico oltre a valorizzare i repertori plurilingui degli alunni di altre L1, e di favorire l’uso spontaneo e interrelato di più lingue, è in grado di sostenere l’apprendimento attraverso i confronti interlinguistici e la riflessione metalinguistica. Coerentemente con l’approccio didattico adottato, si propongono verifiche di tipo non selettivo ma formativo, in grado di rilevare la capacità d’uso delle diverse

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lingue insegnate/apprese o acquisite dall’alunno e di sollecitare tutte le lingue presenti nel suo repertorio, compresi i dialetti e le varietà più marcate in diafasia. Mentre la prima UdL del MS si propone soprattutto di sviluppare la competenza lessicale e quella metalinguistica, nella seconda UdL l’obiettivo riguarda prevalentemente lo sviluppo delle competenze comunicativa e testuale (orale-scritto), attraverso la proposta di testi autentici che, rispondendo a esigenze comunicative concrete, fanno della scrittura uno strumento di comunicazione reale, non fittizio (capitolo 2).

Infine in Appendice, raccolti in un CD-rom allegato alla tesi, si presentano i tre corpora analizzati (di oltre 37.000 parole). Il corpus A, sul quale è stata condotta l’analisi testuale, raccoglie 275 testi di 19.575 parole totali scritti da alunni dell’ultimo anno della scuola primaria e della prima classe della scuola secondaria di I grado degli istituti comprensivi di San Donnino e Lastra a Signa (Fi). Il corpus B, sul quale è stata effettuata l’analisi linguistica, presenta 86 testi per un totale di 11.173 parole raccolti nell’istituto comprensivo La Pira di San Donnino. Il corpus C di 6.323 parole si riferisce ai 102 testi plurilingui elaborati per la verifica finale della seconda UdL del MS dagli alunni delle seconde classi della scuola secondaria di I grado dello stesso istituto.

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PARTE PRIMA

LA COMPLESSITÀ DELL’INTERAZIONE

GLOTTODIDATTICA

NELLE CLASSI CON ALUNNI

CON BISOGNI EDUCATIVI SPECIALI

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- CAPITOLO 1 -

IL POLO DELL’APPRENDENTE

La complessità multidimensionale delle classi che caratterizza ormai tutti gli ordini di scuola riflette naturalmente la complessità della società (Vertovec, 2007), la sua rapida trasformazione e i nuovi bisogni economici, relazionali, educativi e comunicativi che ne derivano.

Da un punto di vista linguistico tutte le classi, essendo composte da individui con una propria identità, cultura e storia, possono essere disomogenee rispetto ai bisogni, alle risorse, alle motivazioni ad apprendere, agli stili di apprendimento, alle competenze linguistiche ecc.; tuttavia le differenze tra alunni diventano più marcate nelle classi caratterizzate dalla presenza di alunni di altre lingue e altre culture, e di alunni con difficoltà di apprendimento di certe abilità scolastiche sia in L1 che nelle altre lingue curricolari.

Una felice definizione di queste classi che mette in luce la disomogeneità delle competenze linguistiche degli alunni è classe ad abilità differenziate (CAD) (Caon, 2006). L’espressione nasce per sottolineare «le caratteristiche personali di cui ogni studente è portatore e che, in quanto soggetto unico e irripetibile, lo differenziano da ogni altra persona» (Caon, 2006: 12). Nello specifico la definizione di CAD si riferisce alle caratteristiche delle classi multietniche e plurilingui connotate specificamente riguardo all’apprendimento dell’italiano L2 e quindi analizza i fattori linguistici, cognitivi, culturali, motivazionali e psicologici che influiscono sull’educazione linguistica degli alunni e, in generale, sul loro comportamento scolastico (Caon, 2006: 17-22). Tuttavia, sebbene l’etichetta CAD sia stata originariamente intesa solo per le classi multietniche e plurilingui, la definizione può essere estesa anche a tutte quelle condizioni che caratterizzano le

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classi con alunni con diversi bisogni linguistici derivati da situazioni momentanee o permanenti, che manifestano livelli linguistici eterogenei, diversi condizionamenti all’apprendimento e correlativi psicologici e relazionali specifici. In particolare le classi ad abilità differenziata possono essere quelle che presentano alunni con Bisogni Educativi Speciali (BES) sia in relazione alla lingua di socializzazione, di scolarizzazione e di studio, come è il caso degli alunni con altre L1 che iniziano l’apprendimento formale dell’italiano come L2, sia in relazione allo sviluppo delle abilità scolastiche di lettura e scrittura nella L1 e di apprendimento delle altre lingue studiate a scuola, come è il caso degli alunni con bisogni linguistici specifici (BiLS) (Daloiso, 2016).

In un contesto scolastico così eterogeneo e composito, anche il processo di insegnamento/apprendimento deve farsi carico di questa complessità data dalle caratteristiche di ognuno, dalle relazioni e dalle reciproche influenze tra i soggetti che partecipano all’inter-azione didattica.

Una proposta di analisi delle componenti del processo di insegnamento/apprendimento, in grado di tener conto delle particolarità di tale contesto di apprendimento, è stata formulata da Coppola (2009a) nel modello dialogico elaborato proprio per accogliere la complessità multidimensionale che riguarda i bisogni, le risorse e le relazioni tra i soggetti, e che permette di esaminare i riferimenti teorici e normativi che orientano gli insegnanti nelle scelte educative e metodologiche.

Si rende necessaria infatti una scelta metodologica orientata ad una visione dell’interazione didattica intesa come processo relazionale e complesso di interrelazioni tra soggetti che si influenzano reciprocamente; inoltre esige un approccio integrato che si faccia carico dell’apprendente nella sua globalità, delle componenti cognitive che lo caratterizzano ma anche di quelle affettive, le quali esercitano una forte influenza sul processo di acquisizione linguistica (Coppola, 2006: 173). In questa prospettiva vengono individuate nell’approccio umanista gli elementi che orientano l’azione dell’insegnante sia nella fase esplorativa, intesa come quelle attività preliminari che servono per esplorare i bisogni, le motivazioni, gli stili e le strategie degli apprendenti; sia nella fase attiva della programmazione, della gestione del percorso didattico e della verifica, nelle quali

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costruisce esperienze e significati in maniera concordata e negoziata (Coppola, 2006: 174-175).

In ambito educativo, la complessità del contesto spinge a mettere al centro dell’enfasi pedagogico-didattica il soggetto apprendente del quale vengono indagati i bisogni, le motivazioni, le caratteristiche individuali e, soprattutto nel caso di bambini e preadolescenti, anche le relazioni familiari e sociali. La centralità dell’alunno nell’interazione insegnamento/apprendimento sollecita la sensibilità e l’attenzione degli insegnanti verso le specificità presenti nelle classi, e richiede l’adozione di valori pedagogici adeguati ai contesti marcatamente eterogenei per competenze e abilità, in maniera da orientare lo stile di insegnamento verso l’individuazione dei bisogni, la valorizzazione delle risorse, il sostegno al processo di apprendimento e l’inclusione sociale e didattica.

L’impianto metodologico di riferimento deve essere in grado, pertanto, di farsi carico delle caratteristiche linguistiche e dei bisogni educativi degli alunni non solo in termini di svantaggio (linguistico, psicolinguistico, relazionale ecc) ma considerando anche le risorse interne e esterne all’individuo che possono favorire l’inclusione nell’interazione didattica e sostenere l’apprendimento. Accanto agli approcci linguistici, cognitivi e psicologici, che di solito vengono impiegati per spiegare l’apprendimento delle lingue, viene qui riaffermata la necessità di affiancare un approccio sensibile alla dimensione socioculturale costruttiva (Bruner, 1982; Vygotskij, 1987). Gli approcci linguistici e cognitivi, infatti, spiegano l’apprendimento del linguaggio facendo ricorso alla metafora dell’input/output per descrivere lo sviluppo del linguaggio e l’insegnamento/apprendimento; tuttavia si conviene che «this methaphor is unable to capture the complexity of dialogic and negotiated practice that is common in developmental and teaching-learning scenarios, either formally in class, or informally between parent and child or between peers» (Martin, 2009: 6). Alla base della prospettiva socioculturale, invece, sta la concezione che l’attività cognitiva abbia un carattere sociale, culturalmente mediato e situato, e che dunque il contesto e le relazioni tra i soggetti esercitino una forte influenza sulle caratteristiche personali che, a loro volta, condizionano e modificano qualitativamente l’ambiente e le relazioni.

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Nonostante il Quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue (QCER) non si esprima in favore di un approccio piuttosto che di un altro, si può trovare comunque conformità tra le indicazioni espresse dal documento internazionale e l’impianto psicopedagogico di matrice socio-costruttivista adottato, dal momento che le persone che apprendono vengono considerate attori sociali, cioè membri di una comunità che hanno precisi compiti da svolgere in circostanze specifiche (Consiglio d’Europa, 2002: 11).

La didattica learner-centred e lo stile promozionale, oltre ad indagare i bisogni e le risorse degli alunni, portano a considerare il docente come facilitatore dell’apprendimento che, attraverso la funzione di supporto, agisce su ciò che Vygotskij aveva definito con il nome di zona di sviluppo prossimale, ossia quell’area dell’apprendimento che si riferisce allo spazio intermedio tra il livello di sviluppo effettivo del bambino/apprendente e il suo livello di sviluppo potenziale se sostenuto da un adulto o dalla collaborazione di compagni più capaci. (Vygotskij, 1987: 127).

1. Il concetto di Bisogno Educativo Speciale

L’espressione Special Educational Needs (SEN), cioè “alunni con bisogni educativi speciali” comparve per la prima volta nella terminologia pedagogica inglese nel 1978, per abolire il termine handicap e per sottolineare la necessità di un rinnovamento del sistema educativo e pedagogico del Regno Unito.

In Italia, il concetto di Bisogno Educativo Speciale (BES) è stato introdotto da Ianes (2005) per comprendere sotto un unico termine-ombrello tutte le possibili difficoltà educative e dell’apprendimento degli alunni, anche di natura transitoria. Infatti, il concetto si riferisce a «qualsiasi difficoltà evolutiva, in ambito educativo e apprenditivo, espressa in un funzionamento (nei vari ambiti della salute secondo il modello ICF dell’Organizzazione Mondiale della sanità) problematico anche per il soggetto, in termini di danno, ostacolo o stigma sociale, indipendentemente dall’eziologia, e che necessita di educazione speciale individualizzata» (Ianes, 2005: 29). Il concetto di “bisogno” secondo questa prospettiva bio-psico-sociale non è visto «come una mancanza, un deficit negativo, uno stato di deprivazione e deficienza, quanto una condizione ordinaria fisiologica di interdipendenza della

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persona dai suoi ecosistemi, una relazione di interdipendenza necessaria a crescere e vivere» (Ianes, 2013: 20).

Nell’ordinamento italiano, la definizione dei Bisogni Educativi Speciali come categorizzazione pedagogica è recepita dalla Direttiva Ministeriale del 27 dicembre 2012 Strumenti d’intervento per alunni con bisogni educativi speciali e organizzazione territoriale per l’inclusione scolastica (Miur, 2012). Rientrano nella definizione di alunni con BES coloro che manifestano bisogni educativi speciali, con continuità o per determinati periodi, per motivi fisici, biologici, fisiologici o anche psicologici, sociali.

Le tipologie di difficoltà che secondo la normativa rientrano nell’area dei BES, sono le seguenti: «svantaggio sociale e culturale, disturbi specifici di apprendimento e/o disturbi evolutivi specifici, difficoltà derivanti dalla non conoscenza della cultura e della lingua italiana perché appartenenti a culture diverse» (Miur, 2012: 2). Recentemente Daloiso (2013), focalizzandosi sui bisogni educativi degli alunni con BES nell’apprendimento delle lingue, ha delimitato la categoria-ombrello, circoscrivendo l’aggettivo «speciale» a «specifico», dal momento che «i bisogni linguistici derivati da un disturbo del neurosviluppo non sono solo “speciali”, ossia in qualche modo peculiari o diversi, ma sono piuttosto “specifici”, in quanto si distinguono, in modo più o meno netto, dai bisogni più generali che portano con sé tutti gli allievi nella classe di lingua» (Daloiso, 2016: 30). In questa prospettiva, la definizione di Bisogno Linguistico Specifico (BiLS) che ne deriva è «l’insieme delle difficoltà evolutive di funzionamento, permanenti o transitorie, in ambito educativo e/o apprenditivo, dovute all’interazione dei vari fattori di salute secondo il modello ICF, che interessano primariamente lo sviluppo della competenza comunicativa nella/e lingua/e materna/e e incidono significativamente sull’apprendimento di altre lingue (seconde, straniere, classiche) al punto da richiedere interventi di adattamento, integrazione o ristrutturazione del percorso di educazione linguistica» (Daloiso, 2013: 644). Il concetto di BiLS è prettamente educativo, in quanto è compito degli insegnanti riconoscere gli alunni con questi bisogni e elaborare misure didattiche per sostenerli nell’apprendimento. Tuttavia, la categoria dei BiLS comprende sempre alunni con caratteristiche eterogenee benché tutte si esplichino in difficoltà linguistiche. All’interno dei BiLs, in effetti

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ci possono essere alunni con disturbi nella componente comunicativa del linguaggio, che manifestano difficoltà a comprendere le regole di conversazione, oppure alunni che hanno avuto e ancora presentano difficoltà specifiche nell’acquisizione della lingua materna nella sua dimensione orale (Disturbo Specifico del Linguaggio); oppure alunni che presentano persistenti difficoltà nell’apprendimento delle attività di lettura, scrittura e calcolo (Daloiso, 2016: 32). Come ribadito dalla Circolare Ministeriale n. 8 del 6 marzo 2013, tra gli alunni che manifestano bisogni educativi speciali troviamo coloro che hanno disturbi specifici di apprendimento (cioè gli alunni con DSA) e coloro che si trovano in una momentanea situazione di svantaggio linguistico in quanto hanno altre L1 e sono in fase di apprendimento dell’italiano come L2. Si tratta quindi di due tipologie di alunni che nel contesto scolastico presentano uno sviluppo delle abilità e delle competenze linguistiche inappropriato alle richieste. In una società alfabetizzata l’apprendimento della lettura e della scrittura e lo sviluppo di una competenza linguistica adeguata allo studio sono una tappa fondamentale nella vita di un individuo. Questi tipi di apprendimento, che possono avvenire quasi esclusivamente solo attraverso la mediazione didattica, seguono filogeneticamente e ontogeneticamente l’apprendimento della lingua orale, la quale, invece, può essere appresa implicitamente nelle interazioni spontanee. La lingua scritta, infatti, contrariamente a quella orale, è un prodotto culturale e poiché non è iscritta nel codice genetico dell’uomo, il suo apprendimento richiede un insegnamento esplicito che, generalmente, avviene dopo un certo grado di sviluppo delle funzioni cognitive e delle competenze linguistiche che riguardano la pragmatica, il lessico e la morfosintassi.

A differenza delle altre categorie di alunni che vengono riunite sotto il termine-ombrello di alunni con BES, le difficoltà degli alunni dislessici/disortografici e degli alunni con altre L1 sono specificamente linguistiche e, paradossalmente, emergono principalmente in ambiente scolastico in quanto sono in correlazione con le richieste, i tempi e le aspettative dell’insegnamento/apprendimento formale. Infatti, come si vedrà, gli approcci teorici più recenti relativi ai disturbi di decodifica/codifica del testo scritto tendono a una definizione di dislessia come una diversa modalità di apprendimento che non si tradurrebbe affatto in disturbo o in difficoltà in una cultura orale che non sollecita l’uso della letto-scrittura.

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Mentre per quanto riguarda gli alunni con altre L1, le difficoltà riguardano soprattutto il rispetto dei tempi di sviluppo delle competenze linguistiche scritte e delle competenze linguistico-accademiche. Nel contesto educativo-scolastico infatti, lo sviluppo delle abilità strumentali, delle competenze comunicative e delle competenze metalinguistiche viene sollecitato contestualmente senza che ancora gli alunni abbiano maturato competenze linguistiche e comunicative piuttosto elevate per poter considerare il linguaggio come un oggetto di attenzione e di riflessione cognitiva.

Per quanto riguarda gli alunni con DSA, l’analisi dei bisogni prende in esame più dimensioni legate:

- alla natura dello sviluppo delle abilità di lettura e scrittura negli alunni con DSA

- alle criticità delle modalità tradizionali di insegnamento delle lingue straniere

- ai correlati psicologici della dislessia e del reiterato insuccesso scolastico ma anche agli stili di apprendimento che caratterizzano gli alunni con DSA, date le particolari condizioni neurofisiologiche.

Nell’analisi dei bisogni linguistici che incontrano gli alunni con altre L1 nel processo di apprendimento vengono prese in esame, invece, le seguenti dimensioni:

- lo sviluppo del sistema linguistico nella L2

- lo sviluppo delle abilità scolastiche come la letto-scrittura

- le diverse funzioni, i tempi e le modalità di sviluppo della competenza comunicativa interpersonale e della competenza linguistico-accademica (rispettivamente BICS e CALP, secondo la definizione di Cummins). Accanto ai bisogni viene individuata la competenza plurilingue, come risorsa e dimensione in grado di sostenere la sollecitazione delle abilità e competenze richieste dalla scuola. In quest’ottica la competenza plurilingue che caratterizza gli alunni con altre L1 costituisce un punto di forza non perché si possiede una competenza comunicativa in altre lingue ma soprattutto perché si possiedono competenze strategiche per l’apprendimento linguistico, competenze socio-pragmatiche e interculturali.

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All’interno di questa prospettiva, nella presente ricerca si avanza una proposta di educazione linguistica che si basa sull’aspetto comunicativo e culturale e che si orienta verso un apprendimento significativo sul piano cognitivo e condiviso sul piano sociale.

2. Alunni con Disturbi Specifici dell’Apprendimento nella scuola

italiana

Dalla rilevazione del MIUR svolta nell’anno scolastico 2014/2015 la percentuale degli alunni e studenti con Disturbi Specifici dell’Apprendimento (DSA) nel sistema nazionale d’istruzione si attesta intorno al 2,1%, interessando 186.803 alunni/studenti su un totale di 8.845.984. In particolare nell’a.s. 2014/2015 le percentuali di alunni/studenti con diagnosi di DSA sono l’1,6% alla scuola primaria, il 4,2% alla scuola secondaria di primo grado e il 2,5% alla scuola secondaria di secondo grado (MIUR, 2015). Tuttavia gli alunni con DSA non presentano un unico disturbo bensì svariati disturbi che interessano diversi aspetti dell’apprendimento, linguistico e no. Focalizzando l’analisi solo sugli alunni con dislessia/disortografia, e quindi tralasciando gli altri tipi di disturbi specifici di apprendimento, la presenza degli alunni caratterizzati dai due disturbi si aggira intorno all’1,4% alla scuola primaria e intorno al 3,6% alla scuola secondaria di I grado. Infatti, sebbene la rilevazione ministeriale specifichi che i casi di dislessia sono 108.804 mentre quelli di disortografia 46.979, tuttavia chiarisce che il totale degli alunni non deve intendersi come la somma dei due disturbi poiché un alunno può presentare diversi disturbi in associazione.

Prima della direttiva ministeriale sui BES del dicembre 2012, la Legge 170 del 2010 e le Linee Guida per il diritto allo studio degli alunni e degli studenti con disturbi specifici di apprendimento (Miur, 2011) avevano già presentato la specificità di questa tipologia di alunni, riconoscendo che la dislessia1, la disgrafia, la disortografia e la discalculia sono disturbi specifici di apprendimento che possono costituire una limitazione importante per le attività scolastiche

 

1 Esistono anche forme di dislessia, disortografia e discalculia che si manifestano come disturbi

acquisiti in seguito a traumi cerebrali, ma i soggetti che vengono analizzati in questo studio si presentano caratterizzati da dislessia di tipo evolutivo, la quale, avendo un’origine costitutiva, si

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benché si manifestino in presenza di capacità cognitive adeguate e in assenza di patologie neurologiche o di deficit sensoriali.

I disturbi, che possono manifestarsi separatamente o in associazione, vengono così definiti:

- Dislessia: disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà

nell’imparare a leggere, in particolare nella decifrazione dei segni linguistici, ovvero nella correttezza e nella rapidità della lettura.

- Disgrafia: disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà

nella realizzazione grafica.

- Disortografia: disturbo specifico di scrittura che si manifesta in difficoltà

nei processi linguistici di transcodifica.

- Discalculia: disturbo specifico che si manifesta con una difficoltà negli

automatismi del calcolo e dell’elaborazione dei numeri.

Sebbene l’accertamento diagnostico spetti ai servizi sanitari, la scuola ha il compito di individuare precocemente i casi sospetti di soggetti con DSA secondo quanto già specificato nelle Linee Guida (Miur, 2011: 5-6) e di predisporre piani didattici personalizzati anche in assenza di diagnosi medica. Quest’ultima precisazione può essere importante per interpretare il progressivo incremento degli alunni che presentano disturbi specifici di apprendimento2. Infatti, dal momento in cui il Ministero dell’Istruzione ha sollecitato gli insegnanti alla riflessione sul tema e li ha investiti della responsabilità di individuare i soggetti con disturbi specifici prima ancora degli accertamenti diagnostici, gli insegnanti usando gli strumenti offerti dalla normativa scolastica italiana hanno affinato la sensibilità nel riconoscere le specifiche difficoltà degli alunni con prestazioni scolastiche non conformi allo sviluppo cognitivo. Questo fatto ha determinato un aumento delle segnalazioni ai servizi sanitari degli alunni con sospetto di dislessia/disortografia, e come conseguenza di ciò si è verificato un incremento dell’accertamento del disturbo.

 

2 La rilevazione ministeriale riferita all’anno scolastico 2011-2012 informava che le percentuali

che interessavano la scuola primaria e la scuola secondaria di I grado erano rispettivamente l’1% e il 2,2% (Miur, 2013).

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2.1 Classificazioni dei disturbi specifici di apprendimento

Esistono vari riferimenti internazionali utilizzati nella definizione e classificazione dei disturbi specifici dell’apprendimento. Si riportano qui le classificazioni redatte dall’Associazione Americana Psichiatri e dall’Organizzazione Mondiale della Sanità che hanno guidato la definizione dei disturbi presentata dalla normativa scolastica:

• 315 Disturbi dell’apprendimento- Asse I sezione Disturbi solitamente diagnosticati per la prima volta nell’infanzia, nella fanciullezza o nell’adolescenza secondo il manuale diagnostico DSM V (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorder) del 2016 curato dalla American Psychiatric Association. Nello specifico, i Disturbi dell’Apprendimento sono caratterizzati da un funzionamento scolastico che è sostanzialmente inferiore a quanto ci si aspetterebbe data l’età cronologica, la valutazione psicometrica dell’intelligenza, e una educazione appropriata all’età del soggetto. Questo documento specifica anche alcuni dei disturbi che si associano al DSA e che sono correlati al basso livello di autostima e alla difficoltà di relazione con gli altri.

• F81 Disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche – contenuta nella parte F80-F89 dedicata ai Disturbi dello sviluppo psicologico del settore V Disturbi psichici e comportamentali dell’ICD-10, cioè la decima versione dell’International Statistical Classification of Disease and Related Health Problems redatta dall’OMS (1990). Questo documento specifica che i disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche comprendono gruppi di condizioni morbose che si manifestano con specifiche e rilevanti compromissioni dell’apprendimento delle abilità scolastiche. Frequentemente i disturbi in questione si presentano insieme con altre sindromi cinetiche, o ad altri disturbi evolutivi.

L’eziologia dei disturbi evolutivi specifici delle abilità scolastiche non è nota, ma si suppone che vi sia un intervento significativo di fattori biologici, i quali interagiscono con fattori non biologici producendo le manifestazioni.

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Mondiale della Sanità in uno strumento diagnostico più recente (2001) noto come ICF e riprese, in Italia, dalla Consensus Conference, che non analizza solo le componenti deficitarie ma si occupa delle influenze delle interrelazioni personali e ambientali sul funzionamento dei soggetti con dislessia/disortografia (come nel caso dei modelli olistici che verranno presentati più avanti).

• L’Organizzazione Mondiale della Sanità ha promosso nel 2001 il modello diagnostico ICF (International Classification of Functioning) come strumento di analisi e classificazione del funzionamento e della disabilità che riguarda tutte le persone, non soltanto quelle con disabilità, in quanto esplora le diverse condizioni di salute ponendosi come un modello di tipo bio-psico-sociale all’approccio della salute e della disabilità. Infatti, l’ICF «sottolinea che la disabilità è un rapporto sociale, dipendente dalle condizioni di salute in cui si trova una persona e le condizioni ambientali e sociali in cui si svolgono le sue attività. Qualora queste condizioni non tengano conto delle limitazioni funzionali della persona e non ne adattino gli ambienti di vita e di relazione, vengono costruiti barriere ed ostacoli che limitano la partecipazione sociale» (Emilio, Griffo, 2009: 16). Secondo questo approccio dunque sul grado di disabilità e di funzionamento influiscono anche l’ambiente di sviluppo e il contesto educativo nel quale interagisce l’alunno. Il modello è adeguato anche per essere applicabile ai disturbi dell’apprendimento che difficilmente si presentano come un quadro omogeneo in quanto di solito sono coinvolte più abilità, influenze ambientali e aspetti psicologici. Da qui la necessità di una valutazione globale, di tipo dinamico, che tenga conto di tutti gli aspetti cognitivi, neuropsicologici e affettivo-relazionali e che evidenzi non soltanto le competenze deficitarie, ma anche le strategie di compensazione attivate che possono evolversi nel tempo per l’intervento di diversi fattori maturazionali (Giovanardi Rossi, Malaguti, 1994: 7-9). L’ICF è utile e utilizzabile in diversi ambiti sociali compreso quello scolastico. Proprio in quest’ultimo campo è considerato un valido strumento educativo poiché permette una programmazione degli interventi didattici orientata a un approccio olistico alla persona. Infatti, il modello mette in evidenza come la gravità del disturbo e un maggiore o minore

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disadattamento siano correlati ai diversi fattori ambientali (scuola, ambiente familiare, contesto sociale), psicologici (le diverse condizioni di ansia, di fiducia, di consapevolezza, autostima) e neurobiologici. A questo proposito il Ministero della Pubblica Istruzione ha promosso nell’a.s. 2010/2011 il progetto “Dal modello ICF dell’OMS alla progettazione per l’inclusione” con l’obiettivo di sperimentare a livello nazionale l’applicazione del modello ICF nella scuola, al fine di diffondere un approccio alla disabilità che dia risalto al ruolo determinante che l’ambiente scolastico svolge nell’effettiva inclusione degli alunni.

• A questi documenti, in Italia è possibile affiancare quello proposto dalla Consensus Conference sui DSA promossa dall’Associazione Italiana Dislessia (AID) nel settembre del 2006 a Montecatini e aggiornato nel 2011 con il Panel di Aggiornamento e Revisione della Consensus Conference (ISS, 2011). Infatti, allo scopo di definire degli standard clinici per la diagnosi e per la riabilitazione della dislessia evolutiva l’AID ha sollecitato un incontro tra associazioni del settore e società scientifiche che ha prodotto un documento finale pubblicato nel gennaio del 2007. Il documento della Consensus Conference definisce la natura del disturbo come neurobiologica e di carattere evolutivo, nel senso che nel tempo si ha una diversa espressività del disturbo sebbene rimanga persistente e quasi sempre associato con altri disturbi.

Per i docenti chiamati, come già detto, a individuare precocemente gli alunni con disturbi di apprendimento, è interessante conoscere che il principale criterio individuato dai clinici per stabilire la diagnosi di DSA è «quello della “discrepanza” tra abilità nel dominio specifico interessato (deficitaria in rapporto alle attese per l’età e/o la classe frequentata) e l’intelligenza generale (adeguata per l’età cronologica)» (ISS, 2009: 38).

3. Teorie e modelli dell’apprendimento della letto-scrittura

Per comprendere le varie teorie sulla dislessia, è preliminare uno studio dei modelli e delle teorie che si occupano dell’apprendimento della letto-scrittura.

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L’insegnamento/apprendimento delle tecniche strumentali di lettura e scrittura presuppone un certo sviluppo della coordinazione oculo-manuale, del sistema cognitivo, della memoria e della competenza linguistica (specialmente della componente fonologica, morfosintattica e anche semantico-lessicale) (Brizzolara, 2001: 215). Le risorse cognitive, attentive, linguistiche e mnestiche costituiscono perciò i prerequisiti per l’apprendimento della letto-scrittura. Nonostante questo però i dislessici, benché non presentino fattori cognitivi o psicologici devianti, non apprendono a leggere e scrivere secondo le tappe previste dai modelli.

Poiché dunque, la dislessia evolutiva emerge proprio nell’apprendimento specifico della lettura e della scrittura è necessario capire come viene descritto l’apprendimento della letto-scrittura dai vari modelli che si sono occupati dei processi “standard” di codifica/decodifica della lingua. Essi inoltre possono aiutare a far luce anche sull’apprendimento della lettura/scrittura in L2 o LS. La maggior parte dei modelli che presentano i processi di decodifica e i meccanismi psicologici attivati durante la lettura sono stati dapprima elaborati su soggetti adulti con dislessia acquisita e poi riadattati per essere applicati a soggetti in età evolutiva con dislessia congenita. Solo recentemente si è arrivati alla formulazione di modelli di apprendimento della scrittura relativi a soggetti in età evolutiva (Brizzolara, 2001: 215-216). I modelli evolutivi di descrizione dei processi di lettura sono stati applicati anche alla scrittura, considerata come il processo inverso, e mettono in evidenza le tappe dell’apprendimento della letto-scrittura attraverso la transizione da una fase di prealfabetizzazione a quella di alfabetizzazione.

Brizzolara (2001: 217) sintetizza 3 principali tipologie di modelli di lettura: quelli top-down o dall’alto al basso, quelli bottom-up o dal basso in alto e quelli interattivi.

1. I modelli top-down pongono l’accento sui processi di tipo semantico come

guida per la decifrazione degli stimoli (ragionamento, aspettative, formulazione di ipotesi, attivazione di conoscenze pregresse ecc). Questi modelli danno conto dell’importanza degli effetti di facilitazione del contesto nel riconoscimento di parole, come ad esempio la maggiore facilità di lettura di un testo rispetto a parole isolate.

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2. I modelli bottom-up rappresentano la lettura come un processo guidato dai

dati, a partire da quelli sensoriali fino ai livelli di rappresentazione più alti. Essi spiegano come mai i lettori più abili rispetto ai meno abili sono meno sensibili al contesto.

3. Infine, i modelli interattivi descrivono la lettura come una combinazione

dei processi dall’alto verso il basso e dal basso verso l’alto, «dimostrando che il riconoscimento di parole non può essere spiegato sulla base di flussi unidirezionali e seriali di informazioni ma dall’integrazione simultanea di vari fonti di elaborazione (analisi di caratteristiche visive delle lettere, conoscenza ortografica, lessicale ecc)» (Brizzolara, 2001: 217).

L’analisi di alcuni modelli che vengono ricondotti a questo schema permette di capire non solo i processi cognitivi implicati nell’apprendimento della letto-scrittura ma anche di desumere modalità applicative importanti nella progettazione didattica per gli alunni con dislessia/disortografia.

3.1 Un modello bottom-up: il modello pandemonium

Un esempio di modello bottom-up che va dall’elaborazione degli stimoli sensoriali all’analisi cognitiva della lingua è data dal modello definito pandemonium (Selfridge, 1959). Nella lettura, una volta che l’informazione visiva ha raggiunto la corteccia visiva primaria, le informazioni riconosciute come possibili grafemi vengono analizzate per determinarne l’esatta natura. Si tratta di un modello che analizza i tratti, cioè le caratteristiche grafiche delle lettere per giungere al riconoscimento dei singoli grafemi (Marini, 2008: 122). Questo modello di natura psicolinguistica, che procede alla scomposizione delle caratteristiche visive dello stimolo in tratti visivi elementari e poi alla loro ricomposizione sotto forma di rappresentazioni, è stato formulato nel 1959 e quindi si pone ancora in maniera coerente con le teorie che individuavano le basi della dislessia nell’incapacità di discriminazione visiva. Tuttavia non riesce a spiegare perché il riconoscimento dei grafemi è migliore all’interno di parole conosciute rispetto a quando sono in isolamento o quando sono inseriti in una non-parola, suggerendo quindi che la lettura probabilmente non procede grafema per grafema come suggerito dal modello ma sia un processo multicomponenziale.

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3.2 Un modello top-down: il modello del magazzino lessicale

Il modello proposto da Seymour e Mac Gregor (1984) pone l’accento sulla formazione di magazzini lessicali piuttosto che sullo sviluppo di strategie di decodifica, pur prevedendo lo sviluppo dell’acquisizione attraverso lo stadio logografico, alfabetico e ortografico. Gli autori, cioè, affermano che alla lettura si arrivi attraverso processi di tipo top-down, che partendo dalle conoscenze lessicali o testuali orientano la capacità di anticipazione e di riconoscimento. Aumentando le parole conosciute, le frasi sentite, lette o usate, i tipi di testualità e i diversi usi della lingua funzionali ai diversi scopi e contesti, la lettura può trovare sostegno nella via lessicale, piuttosto che in quella fonologica di decifratura.

Questa interviene nel primo stadio e nel secondo stadio, quando si stabilisce un rudimentale sistema di riconoscimento sulla base del quale il bambino discrimina parole conosciute utilizzando le caratteristiche grafiche della parola. Già nello stadio successivo si ha lo sviluppo del lessico ortografico. Questo lessico diventa un vero e proprio sistema lessicale in cui la capacità di pronuncia e comprensione delle parole si combina con una capacità di produzione basata su criteri di generalizzazione e traslazione di forme ortografiche conosciute a forme nuove che rispettano la struttura ortografica della lingua.

In una versione più recente questo modello prevede che il lessico logografico e lessico alfabetico emergano in parallelo piuttosto che in successione, e che entrambi diano un contributo funzionale alla formazione del lessico ortografico. In questo senso il sistema ortografico deriverebbe da una combinazione di competenze alfabetiche, relative soprattutto alla corrispondenza lettera-suono, di consapevolezza fonologica, relativa alla struttura gerarchica delle sillabe e di rappresentazioni relative alla configurazione delle lettere immagazzinate nel sistema logografico.

Questo modello suggerisce quindi come un bagaglio lessicale ampio agevoli il passaggio verso la strategia lessicale diretta, che richiede meno sforzo di decodifica e giustifica studi successivi relativi della competenza lessicale. Tuttavia, anche la lettura amplia il bagaglio lessicale, e dunque i due processi si sostengono a vicenda.

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