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Le problematiche del dono nella medicina dei trapianti

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Academic year: 2021

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Introduzione 3

1. LE TRASFUSIONI DI SANGUE 6

I. Brevi cenni sulla storia delle trasfusioni di sangue 6

II. L’evoluzione della normativa italiana in materia trasfusionale 13

II.1. Dagli anni ’30 al secondo dopoguerra 13

II.2. Legge 592/1967 15

II.3. Dagli anni ’70 alla legge 107/1990: un cambiamento di prospettiva 18

II.4. Legge 107/1990 20

II.5. Legge 219/2005 23

2. IL TRAPIANTO DI CELLULE STAMINALI EMOPOIETICHE 29

I. Definizioni 29

I.1. Cellule staminali 29

I.2. Cellule staminali emopoietiche 29

I.3. Midollo osseo 31

I.4. Sistema HLA e compatibilità tissutale 32

II. Il trapianto di cellule staminali emopoietiche 33

II.1. Fonti delle cellule staminali emopoietiche 33

II.2. Tipologie di trapianto in base al donatore 36

II.3. Fasi del trapianto di cellule staminali emopoietiche 39

II.4. Implicazioni immunologiche del trapianto di cellule staminali emopoietiche 40

III. Brevi cenni storici sul trapianto di cellule staminali emopoietiche 42 IV. La normativa relativa al trapianto di cellule staminali emopoietiche 48

IV.1. La normativa relativa al prelievo e alla conservazione delle unità di sangue

cordonale 51

3. IL TRAPIANTO DI ORGANI E DI TESSUTI 49

I. Definizioni 49

I.1. Trapianto di tessuti 49

I.2. Trapianto di organi 50

I.3. Tipologie di donatori 51

I.4. Il sistema italiano di allocazione degli organi 55

II. Storia del trapianto di organi 58

III. Nascita ed evoluzione del criterio neurologico di accertamento della morte 67

III.1. Primi sviluppi del criterio neurologico 67

III.2. Il Comitato di Harvard e la President’s Commission 71

IV. Altri criteri neurologici: morte del tronco encefalico e morte corticale 75 V. Evoluzione della normativa italiana in materia di trapianto di organi e tessuti 78

V.1. Legge 235/1957 e decreti attuativi 78

V.2. 1960-1970: due importanti novità 80

V.3. Legge 644/1975 82

V.4. Gli anni ’90: il Comitato Nazionale per la Bioetica e la legge 578/1993 84

V.5. Legge 91/1999 87

4. IL DONO E I TRAPIANTI 93

(2)

I.1. Il dono al servizio della relazione 93

I.2. La gratuità del dono 97

I.3. La restituzione del dono 100

I.4. Dono e altruismo 102

I.5. Prime conclusioni sul dono 104

II. Dono e trapianti 105

II.1. La donazione di organi da vivente 105

II.2. La donazione di sangue e di cellule staminali emopoietiche 109

II.3. La donazione post-mortem 115

III. Due casi limite di dono 119

III.1. Il dono incondizionato: la “donazione samaritana” 119

III.2. Il dono rifiutato: il divieto delle trasfusioni di sangue nel culto dei Testimoni di

Geova 123

IV. I limiti del dono 127

5. IL MERCATO DEGLI ORGANI: UNA VALIDA ALTERNATIVA AL DONO?

131

I. L’argomento Engelhardt: mercato e bioetica laica 133

II. L’argomento Lockwood: le ragioni della donazione non altruistica 137 III. Open market, mercato etico e future markets: tre proposte per la realizzazione della

compravendita degli organi 139

IV. Contro il mercato: le ragioni di un divieto 144

Conclusioni 151

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Introduzione

L’obiettivo di questo lavoro consiste nel valutare la validità del paradigma del dono nella medicina dei trapianti. Siamo soliti, infatti, riferirci all’esperienza del trapianto nei termini di un “dono” che una persona fa ad un’altra: il rischio, però, è che questo concetto venga utilizzato in modo automatico, acritico, senza essere preceduto da una riflessione sulle sue caratteristiche. Inoltre, con il termine “trapianto” vengono indicate una molteplicità di situazioni differenti tra loro per il tipo di materiale biologico coinvolto, le modalità di esecuzione e la tipologia di donatore: è necessario chiedersi se il paradigma del dono sia in grado di descriverle tutte indistintamente, o possa essere applicato solo ad alcune.

Il punto di partenza di questa riflessione, quindi, deve essere la distinzione delle varie tipologie di trapianto e l’analisi delle caratteristiche che le contraddistinguono: ciò permetterà di comprendere le ragioni storiche e scientifiche che hanno portato al loro sviluppo e, attraverso l’analisi dell’evoluzione della normativa ad essi riferita, i modi e i tempi in cui si è iniziato a parlare di “donazione” delle parti del corpo.

Questa analisi verrà svolta nella prima parte del presente lavoro: essa si articola in tre capitoli, aventi come oggetto, rispettivamente, le trasfusioni di sangue, il trapianto di cellule staminali emopoietiche e il trapianto di organi e di tessuti.

Il capitolo 1 riporterà brevemente la storia della nascita e dello sviluppo del primo tipo di trapianto eseguito dall’uomo, ovvero le trasfusioni di sangue: un certo risalto sarà attribuito alle scoperte scientifiche e alle innovazioni tecniche, compiute a cavallo tra il XIX e il XX secolo, che hanno permesso alle trasfusioni di affermarsi come vera e propria terapia. In seguito, verrà analizzata l’evoluzione della normativa italiana in materia trasfusionale dagli anni ’30 ai giorni nostri. Il “filo rosso” di questa analisi sarà la figura del “donatore di sangue”, dapprima affiancata a quella del “datore retribuito” e, solo a partire dal 1990, riconosciuta come unica fonte legittima del sangue e dei suoi componenti.

Il capitolo 2 avrà come oggetto il trapianto di cellule staminali emopoietiche, generalmente conosciuto come “trapianto di midollo osseo”. Questo tipo di trapianto presenta una complessità maggiore rispetto alle trasfusioni di sangue, dovuta principalmente alle caratteristiche immunologiche del materiale biologico coinvolto. Per questo motivo, sarà necessario svolgere un’analisi approfondita dapprima sulle staminali emopoietiche e sul midollo osseo e, in seguito, sulle loro fonti, sulle modalità di esecuzione del trapianto e sulle sue implicazioni immunologiche. Come per le trasfusioni di sangue, verranno accennati i momenti principali della storia del trapianto di cellule staminali emopoietiche e le

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caratteristiche principali della legislazione italiana ad esso relativa. L’analisi della normativa permetterà di individuare le caratteristiche della donazione di staminali emopoietiche e di sangue cordonale.

Il capitolo 3 verterà sul trapianto di organi e di tessuti: particolare attenzione sarà rivolta alle diverse tipologie di donatori (vivente, cadavere, samaritano, marginale) e alle modalità in cui gli organi vengono distribuiti nel sistema italiano di allocazione, che si distingue per sicurezza, trasparenza ed organizzazione.

La storia dei trapianti di organi si intreccia, ad un certo punto, con la nascita e lo sviluppo del criterio neurologico di accertamento della morte (la cosiddetta “morte cerebrale”): sarà, quindi, necessario analizzare le ragioni storiche, mediche e tecnologiche che hanno portato all’introduzione di questo nuovo criterio e il modo in cui esso ha influenzato la medicina dei trapianti. Lo sviluppo del criterio neurologico ha raggiunto il suo apice nel 1968, grazie al report emanato dal Comitato Ad Hoc della Scuola Medica di Harvard, a cui verrà dedicata una parte di questo terzo capitolo. Sarà analizzato, inoltre, un documento emanato nel 1981 dalla “President’s Commission”, il quale aveva l’obiettivo di chiarire i punti nevralgici del report di Harvard per mostrare, così, l’effettiva validità del nuovo criterio di accertamento della morte. Oltre a quello della “morte cerebrale” sono stati proposti due criteri neurologici definiti, rispettivamente, “morte del tronco encefalico” e “morte corticale”, che saranno brevemente affrontati nel corso di questo capitolo.

L’evoluzione della normativa italiana in materia di trapianto di organi e tessuti si presenta in modo decisamente articolato: la nostra analisi si soffermerà sui suoi momenti principali come, ad esempio, la legittimazione della donazione di organi da vivente, l’introduzione del criterio neurologico a fianco di quello cardiorespiratorio e la promulgazione dell’attuale legge in materia di trapianto di organi. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, verrà data particolare attenzione alle problematiche sollevate dall’art. 4, recante le modalità di dichiarazione della volontà alla donazione.

Tenendo conto delle problematiche giuridiche, mediche e filosofiche delineate nella prima parte, la seconda parte di questo lavoro valuterà la validità del paradigma del dono nell’ambito della medicina dei trapianti.

Il capitolo 4 è suddiviso in quattro paragrafi: nel primo verrà svolta un’analisi del paradigma del dono, con l’obiettivo di far emergere le sue caratteristiche. La riflessione si concentrerà, in particolar modo, sulla dimensione relazionale del dono; sui diversi modi in cui debba essere intesa la sua “gratuità”; sulla possibilità che il dono ammetta una restituzione e sulle sue eventuali caratteristiche e, infine, sul ruolo dell’altruismo nel gesto del donatore.

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L’oggetto del secondo paragrafo consisterà nell’analisi delle varie tipologie di trapianto in riferimento al paradigma del dono: ci si chiederà se e in che modo esso sia in grado di descrivere queste esperienze e si evidenzieranno le ragioni per cui alcune di esse non possono essere considerate delle “donazioni”.

Successivamente verranno presi in considerazione due casi limite del dono nella medicina dei trapianti: da un lato, troviamo un dono “incondizionato”, quello di un donatore samaritano che decide di donare, in vita, un proprio organo ad uno sconosciuto; dall’altro, un dono “impossibile”, ovvero il dono del sangue che, nel culto dei Testimoni di Geova, non può essere né dato né ricevuto. L’obiettivo del terzo paragrafo sarà quello di analizzare le principali problematiche bioetiche derivanti da questi doni “al limite”.

Il quarto paragrafo, infine, si occuperà delle criticità derivanti da un uso acritico del dono, ovvero da un uso che non prenda in considerazione tutte le problematiche ad esso connesse nell’ambito dei trapianti.

Nel capitolo 5 verrà presa in esame la principale alternativa al dono degli organi, ovvero la compravendita. Poiché l’attuale sistema di reperimento degli organi, basato sulla donazione, non sembra essere in grado di colmare lo scarto tra la domanda e l’offerta, sono state avanzate diverse ragioni a sostegno dell’introduzione di un mercato degli organi. Verranno, quindi, analizzate le posizioni di quegli autori, come H. T. Engelhardt Jr e M. Lockwood, che giustificano la vendita degli organi sulla base del principio di autonomia dell’individuo. Successivamente, saranno analizzate tre proposte per la realizzazione di un mercato di organi, avanzate da chi legittima la sua introduzione sulla base delle conseguenze positive che da esso deriverebbero. Infine, si mostreranno le criticità insite in queste posizioni e si esporranno le ragioni per cui non è possibile legittimare l’istituzione di un mercato di organi.

Il problema della scarsità di organi, tuttavia, rimane. Di conseguenza, nelle conclusioni di questo lavoro si accennerà a due proposte per tentare di incrementare il numero di organi disponibili evitando, però, di intaccare la dimensione del dono.

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1. LE TRASFUSIONI DI SANGUE

I. Brevi cenni sulla storia delle trasfusioni di sangue

È particolarmente difficile ricostruire con esattezza la cronologia degli eventi che compongono la storia delle trasfusioni di sangue: risulta, infatti, complicato stabilire chi fu il primo ad avere l’idea di trasfondere il sangue da un individuo all’altro e chi per primo la mise effettivamente in pratica. In questa cronologia incerta è però possibile individuare un evento chiave, dopo il quale ebbero inizio i primi tentativi di trasfusione, ovvero la scoperta e l’accurata descrizione del sistema circolatorio umano da parte di William Harvey nel 1628.

Prima della “svolta” del 1628 compaiono numerose testimonianze dell’uso del sangue durante i rituali e le celebrazioni di diverse culture e religioni: ad esempio, in Mesopotamia e nell’Antica Grecia il sangue delle vittime sacrificali veniva offerto agli Dei o usato durante le pratiche divinatorie per leggere l’esito delle battaglie o lo sviluppo degli eventi1. Nella Bibbia il sangue è considerato come mezzo di purificazione ed espiazione delle colpe e nel Nuovo Testamento il sangue di Cristo, versato per espiare i peccati del mondo, diventa il simbolo dell’alleanza tra Dio e l’uomo2. Varie testimonianze riferiscono, inoltre, che il sangue veniva

usato per scopi medici: ad esempio, nelle Metamorfosi di Ovidio (I secolo a. C.) per far ringiovanire il vecchio Esone, Medea gli taglia la gola in modo da rimuovere il sangue “vecchio”3; Ippocrate (390 a. C.), Celso (60 d. C. circa) e Tertulliano (150 d. C. circa)

facevano riferimento all’uso del sangue come farmaco4.

Da queste testimonianze emerge come il sangue sia stato da sempre associato alla vitalità, alla forza e al vigore di un individuo e la sua mancanza nel corpo alla debolezza e, in alcuni casi, alla morte. Già nell’Antico Testamento, per esempio, comparivano alcuni riferimenti alle proprietà vivificanti del sangue:

“Del sangue vostro anzi, ossia della vostra vita, io domanderò conto (…)”5.

1 M. ZONZA, Breve storia delle pratiche trasfusionali e della donazione di sangue, in AA. VV., La donazione

in Italia. Situazione e prospettive della donazione di sangue, organi, tessuti, cellule e midollo osseo, a cura di G.

Castelnuovo, R. Menici, M. Fedi, Sprinter-Verlag, Milano 2011, pp. 3-22, qui pp. 4-5.

2 Ivi, p. 6.

3 T. J. GREENWALT, A Short History of Transfusion Medicine, “Transfusion”, 37 (1997), pp. 550-563, qui p.

550.

4 ZONZA, Breve storia delle pratiche trasfusionali cit., p. 5. 5 Genesi 9,5, La Bibbia, Edizioni Paoline, Milano 1987.

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“La vita di ogni essere vivente è il suo sangue, in quanto esso è vita; e io ho detto ai figli di Israele: non mangerete il sangue di nessun vivente, perché la vita di ogni vivente è il suo sangue e chiunque ne mangia sia eliminato”6.

Sulla base di ciò, si riteneva che il sangue avesse delle proprietà tali che lo rendessero in grado di determinare non solo le caratteristiche fisiche ma anche quelle caratteriali e relative al temperamento, cosa che ritroviamo ancora oggi in alcune espressioni di uso comune come “buon sangue”, “sangue amaro”, “sangue blu”. Per questo motivo, si era soliti detergere la propria pelle o ingerire il sangue delle persone forti e vigorose, in modo da acquisire queste loro caratteristiche. Secondo quanto riportato da Plinio il Vecchio (23 d. C. – 79 d. C.), per esempio, gli spettatori presenti nell’arena bevevano abitualmente il sangue dei gladiatori morenti per diventare simili a loro7.

Nella teoria “umorale” di Ippocrate, ripresa e riadattata da Galeno nel II secolo d. C., il sangue era considerato come uno degli elementi fondamentali del corpo, insieme a flegma, bile gialla e bile nera: l’equilibrio di questi quattro elementi, inteso coma la loro buona mescolanza (eucrasia), garantiva la salute di un individuo, mentre la presenza in eccesso o in difetto di uno di essi affliggeva il carattere e la salute fisica8. Su queste basi Galeno giustificava l’idea del “far sanguinare per far uscire il sangue cattivo”, realizzata tramite i salassi e l’applicazione delle sanguisughe sulla pelle, pratiche che rimarranno in uso fino al XIX secolo.

In nessuna di queste testimonianze sembra essere stata presa in considerazione l’idea di trasfondere il sangue da una persona ad un’altra, almeno fino al 1492, anno di quella che viene generalmente additata come la prima trasfusione in assoluto. Secondo quanto riportato da Pasquale Villari (1827-1917) il ricevente era il vecchio Papa Innocente VIII, afflitto da una malattia che lo aveva ridotto in uno stato semi-comatoso, il quale venne curato attraverso la trasfusione di sangue da tre giovani di circa dieci anni. Secondo la testimonianza di Villari, tutte e tre le trasfusioni non ebbero successo e sia i ragazzi che il Papa morirono dopo poco9. Come fa notare Learoyd nel suo articolo The History of Blood Transfusion Prior to the 20th

Century – Part I molti dubbi rimangono intorno a questo episodio, che non a caso è stato

oggetto di numerose controversie e dibattiti da parte degli storici: risulta, infatti, poco

6 Levitico 17, 14, La Bibbia, Edizioni Paoline, Milano 1987.

7 GREENWALT, A Short History of Transfusion Medicine cit., p. 550.

8 Galeno aveva identificato quattro diversi temperamenti, ognuno associato ad un umore prevalente e ad un

periodo di vita: l’umore “sanguigno” era quello proprio dei giovani, il che sarebbe un’ulteriore testimonianza di come il sangue sia da molto tempo associato alla vitalità, alla forza e al vigore di un individuo (ZONZA, Breve

storia delle pratiche trasfusionali cit., pp. 7-8).

9 P. LEAROYD, The History of Blood Transfusion prior to the 20th Century – Part I, “Transfusion Medicine”,

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plausibile che si sia potuto procedere ad una trasfusione ignorando del tutto l’esistenza della circolazione del sangue. Ciò che appare più probabile, invece, è che il termine “trasfusione” sia stato usato erroneamente, forse a causa di una cattiva traduzione di quella che era l’effettiva malattia del Papa10.

Per avere delle testimonianze maggiormente affidabili è necessario fare riferimento al XVII secolo: come accennato sopra, infatti, il 1628 rappresentò un punto di svolta nella storia delle trasfusioni di sangue. Nella sua opera dal titolo De Motu Cordis, pubblicata in quell’anno, William Harvey espose dettagliatamente il modo in cui il sangue scorre nel corpo: esso viene pompato dal cuore all’interno di un sistema di canali (vene e arterie) in una sola direzione, grazie alla presenza di apposite valvole che ne impediscono il reflusso11. Oltre a ciò, Harvey dimostrò che il sangue pompato non viene interamente consumato dall’organismo e in seguito sostituito da altro sangue, ma ritorna al cuore stesso, cioè circola.

Questa scoperta fu di rilevante importanza: il fatto che il sangue si muovesse in un circolo rendeva possibile l’infusione di medicamenti o di altre sostanze che, grazie alla circolazione sanguigna, avrebbero raggiunto tutto il corpo. Da qui all’idea di “trasferire” il sangue da un individuo ad un altro il salto sarebbe stato breve12.

È praticamente impossibile stabilire chi sia stato il primo ad avere l’idea di effettuare una trasfusione, anche se dopo il 1628 iniziarono a fiorire numerose descrizioni della procedura e degli strumenti necessari per eseguirne una: molte di queste rimasero, però, puramente teoriche e per la prima effettiva trasfusione si dovette aspettare il 166613. In

quell’anno, Richard Lower, un membro della Royal Society, effettuò la prima trasfusione omologa, cioè tra individui della stessa specie: si trattava di due cani, uno dei quali, dissanguato fino al punto di morte, era stato salvato attraverso la trasfusione di sangue proveniente dall’altro animale. Lower compì altri numerosi esperimenti sui cani ed arrivò ad effettuare ripetute trasfusioni di sangue di pecora su un uomo, Arthur Coga.

Nonostante i probabili esiti infausti a cui andarono incontro, gli esperimenti di Lower diedero adito a molti altri tentativi di trasfusione in tutta l’Europa. Anche questi, in realtà, non ebbero successo, dato che la maggior parte delle trasfusioni veniva indiscriminatamente effettuata tra individui di specie diverse, inizialmente solo tra animali e successivamente da animali a uomini14.

10 Ibidem.

11 La portata di questa scoperta è facilmente intuibile se si pensa che, fino ad allora, si riteneva che il sangue

scorresse nel corpo “avanti e indietro nelle vene, imitando le maree” (ibidem).

12 Non ci sono prove che attestino che Harvey abbia compiuto una trasfusione, ma riuscì a dimostrare la sua

teoria sulla circolazione sanguigna infondendo dell’acqua calda in un cadavere (ivi, p. 309).

13 Ivi, pp. 310-311; GREENWALT, A Short History of Transfusion Medicine cit., p. 551.

14 Va ricordato che, all’epoca, non si aveva ancora alcuna conoscenza dell’incompatibilità interspecifica né delle

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In quegli stessi anni, in Francia, uno dei medici del re Luigi XIV, di nome Jean-Baptiste Denis (o Denys), compì diversi tentativi di trasfusione sui cani prima di effettuarne una su un ragazzino di quindici anni. Anche in questo caso la trasfusione venne eseguita utilizzando sangue animale, precisamente quello di un agnello. Denis aveva, infatti, affermato di preferire l’uso di sangue animale poiché esso era “con meno probabilità reso impuro dalle passioni o dai vizi rispetto al sangue umano”15: l’“antica” idea che il sangue veicolasse il

temperamento o la forza di un individuo era quindi ancora molto ben radicata. Non a caso, nel 1667 Denis eseguì ripetute trasfusioni su un uomo di nome Anthony Mauroy, affetto da una non ben precisata “follia”, usando il sangue di un animale ritenuto “calmo”, il vitello, in modo che la sua indole mite potesse placare lo spirito dell’uomo.

Vale la pena soffermarsi brevemente sul caso di Mauroy: esso ha acquisito una certa importanza storica dato che, a causa delle sue conseguenze nefaste, fu con molta probabilità l’ultimo tentativo di trasfusione ad essere effettuato per almeno centocinquant’anni.

Mauroy morì in seguito ad una delle trasfusioni a cui era stato sottoposto, le quali comunque non avevano curato la sua follia. I membri della facoltà di Medicina di Parigi, così come la maggioranza dei medici del tempo, ritenevano che l’unica pratica consentita fosse ancora quella del salasso e sfruttarono la morte di Mauroy al fine di condannare le trasfusioni e chi le praticava. Le trasfusioni di sangue erano ritenute una pratica ancora “sperimentale”, dalle conseguenze troppo incerte e Denis stesso, che vi si era dedicato strenuamente, era solito sottoporre le sue “cavie” al salasso prima della trasfusione stessa.

In seguito si scoprì che la morte di Mauroy non era stata causata dalle ripetute trasfusioni bensì da un avvelenamento da cianuro provocatogli dalla moglie, ma la messa al bando delle trasfusioni da parte della Facoltà di Medicina parigina non decadde16. Essa venne

ufficializzata da un provvedimento emanato dal Parlamento francese nel 1678 e adottato poco dopo dalla Royal Society in Inghilterra e dalla Corte Pontificia: tale provvedimento decretò l’abbandono degli esperimenti sulle trasfusioni e dello studio della fisiologia della circolazione per oltre un secolo e mezzo17.

Saranno gli studi e gli esperimenti di un ostetrico inglese di nome James Blundell a rinnovare l’interesse nei confronti della pratica delle trasfusioni. A Blundell vanno attribuiti due importanti meriti: il primo, come appena detto, è aver permesso la ripresa degli studi sulla

15 LEAROYD, The History of Blood Transfusion prior to the 20th Century cit., p. 312.

16 Le motivazioni alla base del rifiuto delle trasfusioni non erano solo di carattere medico-scientifico: in molti si

appellavano all’“innaturalità” di questa pratica, altri al richiamo della tradizione e dell’autorità, altri ancora avevano il timore di trasformare l’uomo in animale, qualora fosse stato questo il donatore. Inoltre, in un’epoca dominata dal diritto di sangue e dall’idea di “purezza” del sangue stesso, era molto probabile che la pratica delle trasfusioni “ponesse qualche problema di identità e toccasse corde di carattere politico e sociale” (ZONZA,

Breve storia delle pratiche trasfusionali cit., p. 12).

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trasfusione all’interno di un contesto culturale in cui veniva ancora guardata con sospetto. Il secondo, è aver riconosciuto la pericolosità della trasfusione eterologa (cioè tra individui appartenenti a due specie diverse) e l’aver deciso, di conseguenza, di abbandonare l’uso del sangue animale nelle trasfusioni sugli esseri umani18.

Blundell era solito eseguire le trasfusioni con uno strumento di sua invenzione, chiamato “Impellor”, che consisteva nella combinazione di un imbuto e una pompa: il sangue prelevato veniva raccolto nell’imbuto e poi spinto per mezzo della pompa all’interno di una siringa, inserita nelle vene del paziente. “Impellor” era stato progettato in modo da essere fissato allo schienale di una sedia, costringendo di conseguenza il datore di sangue a rimanere seduto al fianco del paziente per tutta la durata della trasfusione. Nonostante fosse uno strumento poco pratico, con esso Blundell e i suoi colleghi avevano provato a porre rimedio ad un problema che rendeva difficoltosa qualsiasi trasfusione, ovvero quello della coagulazione del sangue. L’imbuto era, infatti, circondato da due membrane esterne, in una delle quali veniva raccolta dell’acqua calda, necessaria per mantenere il sangue fluido ed evitare così la formazione di coaguli19. Questa soluzione, in realtà, riusciva a ritardare la coagulazione solo per un intervallo di tempo ristretto: un rimedio definitivo sarebbe stato scoperto solo un secolo più tardi.

Nonostante il rinnovato interesse nei confronti dell’argomento, le trasfusioni continuarono ad essere praticate raramente. Lo stesso Blundell le considerava come l’“ultima speranza”, cioè come una terapia da usare esclusivamente su pazienti che versavano in condizioni disperate, per esempio nei casi di emorragia post-parto e non più come un mezzo per curare i temperamenti “folli”20. Il salasso rimaneva la cura standard per ogni genere di

malattia, insieme all’uso delle sanguisughe, che venivano applicate alla pelle sia del datore di sangue sia del ricevente per prevenire l’infiammazione delle vene.

Tra la seconda metà del XIX e l’inizio del XX secolo vennero compiute importanti scoperte, che permisero di superare tutti quegli “ostacoli” che impedivano alle trasfusioni di affermarsi come una vera e propria terapia. Prime tra tutte, le scoperte di Louis Pasteur sulla contaminazione batterica (1865) contribuirono all’introduzione, seppur graduale, della sterilizzazione degli strumenti e di altre metodologie antisettiche, e, in generale, a prestare maggiore attenzione alla trasmissione di infezioni durante la trasfusione.

18 Si stima che, tra il 1818 e il 1829, Blundell e i suoi colleghi abbiano compiuto circa dieci trasfusioni usando

esclusivamente sangue umano, anche se solo quattro ebbero successo. Il resoconto di una di queste venne pubblicato nel 1829 sul giornale “The Lancet”, destando un certo interesse: si trattava del caso di una donna venticinquenne in emorragia post-parto, alla quale era stato trasfuso con successo il sangue di un chirurgo presente al momento del parto (P. LEAROYD, The History of Blood Transfusion prior to the 20th Century – Part II, 22 (2012), pp. 372-376, qui p. 373).

19 Ivi, p. 374. 20 Ivi, p. 372.

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Un altro importante successo venne riportato nel 1894, quando Sir Almroth E. Wright dimostrò che i sali solubili di alcuni acidi potevano ritardare la coagulazione del sangue per un tempo indefinito, anche se ci vollero almeno vent’anni prima che questa scoperta venisse effettivamente messa in pratica.

Questo periodo rappresentò un punto di svolta anche nella comprensione dell’incompatibilità interspecifica, soprattutto grazie agli studi di Emile Ponfick e Leonard Landois. Entrambi notarono che, a contatto con il siero umano, i globuli rossi del sangue animale subivano la lisi, ovvero venivano praticamente distrutti, per poi essere eliminati attraverso le urine dei riceventi (fenomeno definito “emoglobinuria”). Questo fatto da un lato spiegava gli effetti collaterali spesso riscontrati nelle trasfusioni eterologhe, come dispnea, cianosi, vomito, convulsioni e congestione dei reni; dall’altro, forniva una giustificazione scientifica alla non praticabilità di questo tipo di trasfusioni, le quali vennero presto abbandonate21.

Gli studi di Ponfick e Landois, però, non spiegavano le ragioni per cui anche le trasfusioni omologhe uomo-uomo potevano avere conseguenze pericolose o addirittura fatali. Questo problema venne risolto all’inizio del XX secolo, quando, nel 1900, Karl Landsteiner scoprì e dimostrò che il siero di un uomo può agglutinare i globuli rossi di un altro uomo, portando alla formazione di coaguli. Ciò non avveniva, come si era creduto fino ad allora, per colpa di una qualche malattia, bensì a causa di certe proteine, gli antigeni A e B, presenti sulle membrane dei globuli rossi dei diversi individui. Landsteiner dimostrò che la presenza o meno di questi antigeni differenziava il sangue umano in tre diversi gruppi (che chiamò A, B, 0) e che da essa dipendeva la possibilità di “interazione” tra questi gruppi e, quindi, la riuscita della trasfusione. Nel 1902 von Decastello e Sturli scoprirono l’esistenza del quarto gruppo (AB), il meno frequente di tutti, che non era stato notato da Landsteiner. Pochi anni dopo, nel 1908, Ottenberg e Epstein scoprirono che, al pari di altri caratteri, i gruppi sanguigni sono ereditabili secondo le leggi di Mendel22.

Durante la prima guerra mondiale23, negli ospedali da campo iniziarono ad essere applicate le scoperte relative alle proprietà anti-coagulanti del citrato di sodio, con un’importante conseguenza: la possibilità di ritardare la coagulazione del sangue permise, infatti, di separare nello spazio e nel tempo le fasi di raccolta e di trasfusione. Il sangue, cioè,

21 GREENWALT, A Short History of Transfusion Medicine cit., p. 555. 22 Ivi, pp. 555-556.

23 In generale le situazioni di emergenza affrontate durante i conflitti contribuirono al miglioramento delle

conoscenze e delle tecniche nel campo della medicina trasfusionale durante il XX secolo. Oltre alla prima guerra mondiale, anche durante la guerra civile spagnola e la seconda guerra mondiale vennero compiuti grandi sforzi organizzativi da parte degli stati e della Croce Rossa per raccogliere il sangue da inviare ai soldati al fronte o da usare in patria dopo i bombardamenti.

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poteva essere raccolto e conservato in vere e proprie “banche” e trasfuso in un secondo momento, non costringendo il datore e il ricevente ad essere contemporaneamente presenti. La prima banca del sangue venne creata da Bernard Fantus a Chicago negli anni ’30, ma lo sviluppo decisivo avvenne negli anni ’50, grazie alla scoperta e all’uso delle sacche multiple di plastica da parte di Carl Walter24. Esse erano più pratiche e vantaggiose rispetto ai flaconi

di vetro, dato che permettevano la raccolta del sangue in un sistema chiuso, non a contatto con l’aria e maggiormente antisettico. Inoltre, agevolavano la separazione e la raccolta degli emocomponenti (piastrine, globuli bianchi, globuli rossi e plasma) e la loro introduzione permise, da un lato, lo sviluppo di terapie “mirate”, dove ad ogni paziente veniva trasfuso solo ciò di cui aveva la necessità; dall’altro, la possibilità di effettuare trasfusioni multiple a partire da un solo prelievo25.

Alle scoperte citate fino ad ora, vanno aggiunte anche quelle più recenti, relative alla seconda metà del XX secolo. Per citare le più importanti, in quegli anni vennero scoperti il fattore Rh dei globuli rossi (1940, Landsteiner e Wiener); il sistema HLA dei globuli bianchi (1954, Dausset et al.), scoperta fondamentale per i trapianti di midollo osseo; l’introduzione dell’uso del plasma liquido e la scoperta e lo sviluppo dei metodi di frazionamento delle proteine del plasma (anni ’40); l’introduzione della soluzione ACD, la quale permise la conservazione del sangue fino a 21 giorni (1943); fino ad arrivare alle più recenti scoperte nel campo della conservazione delle cellule staminali emopoietiche da sangue periferico e da sangue cordonale (anni ’90)26.

Grazie a tutte queste scoperte e all’evoluzione della normativa che regola la raccolta e l’utilizzo del sangue e dei suoi componenti, durante il XX secolo la trasfusione è diventata una terapia necessaria in chirurgia, nella cura di malattie oncologiche ed ematologiche (tra cui emofilia, anemie, talassemie), nei trapianti e nei servizi di primo soccorso.

Al 31 dicembre 2015, i donatori di sangue in Italia erano 1.717.520, di cui 1.412.585 periodici e 1.532.212 iscritti ad associazioni di donatori volontari, mentre 635.690 sono stati i pazienti trasfusi27.

24 Ivi, pp. 557-559.

25 Società Italiana di Medicina Trasfusionale e Immunoematologia (SIMTI),

http://www.simti.it/donazione.aspx?id=3, consultato il 22 dicembre 2016.

26 Ibidem.

27 Istituto Superiore di Sanità (ISS), Attività del Sistema Trasfusionale Italiano dell’anno 2015, disponibile al

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II. L’evoluzione della normativa italiana in materia trasfusionale

II.1. Dagli anni ’30 al secondo dopoguerra

Negli anni della prima guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra si assistette alla nascita delle prime associazioni di volontari del sangue28: la prima al mondo fu quella fondata a Buenos Aires dal professor L. Agote, seguita a ruota da altri stati come USA (1920), Gran Bretagna (1922), Svizzera (1922), Portogallo (1924) e Italia, dove nel 1927 venne fondata a Milano l’Associazione Volontari Italiani Sangue (A.V.I.S.) dal dottor Vittorio Formentano29.

Nonostante lo sviluppo delle associazioni di volontari in tutta Europa, la donazione di sangue rimase però un fenomeno pressoché circoscritto fino al secondo dopoguerra e oltre, dato che la maggior parte del sangue raccolto proveniva dai cosiddetti “datori”, ovvero da coloro che ricevevano un compenso in denaro in cambio del prelievo del loro sangue. Nell’Italia fascista degli anni ’30, al fine di aumentare la raccolta di sangue, non si volle puntare sulla donazione volontaria bensì sui comitati provinciali dei datori di sangue retribuiti. Nel testo del decreto ministeriale del 13 dicembre 1937, che disciplinava le attività trasfusionali, non compariva ancora il termine “donatori di sangue” ma semplicemente quello di “datori”, i quali si dividevano in “professionali” e “volontari”30. A differenza di quelli

volontari, che cedevano il loro sangue gratuitamente, i datori professionali venivano retribuiti in base alla quantità di siero ricavata dal sangue ceduto, calcolata in centimetri cubici. Le tariffe delle prestazioni dei datori professionali venivano proposte dal comitato provinciale, presente in ogni capoluogo di provincia, al prefetto, al quale spettava il compito di approvarle31. I datori di sangue professionali e volontari venivano iscritti separatamente in due elenchi32, ma dovevano rispettare i medesimi requisiti33: età superiore ai 10 anni; costituzione sana; assenza di malattie infettive come tubercolosi, malaria e “lue” (sifilide) e possesso di un tesserino di riconoscimento34.

28 D. RODINO, La trasfusione del sangue. La nascita dei centri trasfusionali italiani dall’immediato dopoguerra

al loro inserimento nelle unità operative ospedaliere, Celid, Torino 2013, p. 47.

29 “A seguito di un appello sui giornali dell’epoca, un primo gruppo di 17 volontari firmò un patto di

collaborazione per donare il sangue gratuitamente e volontariamente a chi ne avesse avuto bisogno” (www.avis.it/userfiles/file/2003-7-dicembre.pdf, consultato il 26 novembre 2016).

30 Decreto del Ministro dell’Interno 13 dicembre 1937, Norme concernenti la trasfusione, il prelevamento e la

utilizzazione del sangue umano, art. 8.

31 Ivi, art. 7. 32 Ivi, art. 8. 33 Ivi, art. 4. 34 Ivi, art. 9.

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Nonostante le perplessità che la lettura del presente decreto potrebbe suscitare al giorno d’oggi, ci sembra doveroso sottolineare due punti di notevole rilievo presenti nel testo. Per prima cosa, veniva riconosciuta l’importanza della compatibilità dei gruppi sanguigni del donatore e del ricevente: uno dei requisiti del datore di sangue era infatti quello di avere un gruppo sanguigno compatibile con il ricevente35; inoltre, il decreto prevedeva la possibilità di

avvalersi, in situazioni di emergenza, di un datore di sangue non iscritto nell’elenco ufficiale, se ritenuto idoneo e previa la necessaria precisazione del gruppo sanguigno36. Ciò mostra che

la fondamentale scoperta di Landsteiner era stata pienamente recepita dalla normativa italiana dell’epoca, cosa non scontata, dato che tale scoperta era stata, per diverso tempo, pressoché ignorata da coloro che si occupavano di trasfusioni di sangue37. Il secondo punto che merita la nostra attenzione si trova nell’art. 2, il quale stabiliva che la raccolta di sangue umano e la preparazione di sieri da usare per scopi curativi e profilattici doveva essere fatta esclusivamente da speciali centri di raccolta o da istituti sanitari autorizzati dal Ministero dell’Interno (non esisteva ancora il Ministero della Salute). Il fatto che venissero istituiti appositi centri di raccolta e di preparazione del sangue testimonia che le attività trasfusionali iniziavano ad essere considerate come una branca della medicina a sé stante, ormai ben definita o quasi, di cui solo gli esperti si potevano occupare.

I comitati provinciali a cui si accennava sopra avevano il compito di promuovere la costituzione di questi appositi centri di raccolta e preparazione e di organizzare il servizio trasfusionale nell’ambito della Provincia38. Accanto ad essi, comparivano le associazioni

provinciali o comunali dei datori di sangue, il cui statuto doveva essere approvato dal Prefetto. A livello nazionale, invece, il Ministro dell’Interno poteva autorizzare la costituzione di un’associazione nazionale di datori di sangue39. Tali associazioni avevano il compito di

contribuire alla diffusione di una migliore conoscenza dei problemi riguardanti la trasfusione di sangue e le sue applicazioni e di compiere studi e ricerche sulla pratica dei prelievi di sangue40. Appare evidente che tra questi compiti non rientrava quello della promozione della donazione gratuita di sangue, che non veniva menzionata in nessun punto del decreto se non, indirettamente, nel riconoscimento della figura dei datori volontari.

Questo decreto rimase in vigore fino al 1947, quando venne approvato il decreto legislativo 1256, avente l’obiettivo di riorganizzare il sistema sanitario immediatamente dopo

35 Ivi, art. 5. 36 Ivi, art. 10.

37 GREENWALT, A Short History of Transfusion Medicine, p. 556. 38 Decreto ministeriale 13 dicembre 1937, art. 7.

39 Ivi, art. 11. In realtà la costituzione dell’“associazione nazionale” venne autorizzata ufficialmente solo nel

1950, quando fu riconosciuta la personalità giuridica dell’A.V.I.S. di Milano.

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la fine della guerra. Con questo nuovo decreto la gestione del servizio trasfusionale nazionale venne temporaneamente affidata alla Croce Rossa Italiana (CRI), la quale, inoltre, assorbiva i comitati provinciali dei datori di sangue e coordinava le attività delle associazioni dei datori di sangue in campo organizzativo, tecnico, scientifico, amministrativo41.

In questi anni, lo scenario della raccolta sangue era estremamente frammentato: da un lato permanevano i datori retribuiti; dall’altro iniziavano a fiorire numerose associazioni di volontari del sangue accanto all’A.V.I.S.42 come, ad esempio, Volontari della CRI (1949),

FIDAS (1959) e FRATRES (1971). Con la legge 49 del 1950 (che abrogava il decreto 1256 del 1947) venne riconosciuta la personalità giuridica dell’A.V.I.S. e ne venne sancito il carattere nazionale, indipendentemente dalle realtà locali, comunali, provinciali che perseguivano le sue stesse finalità43. Inoltre, per la prima volta, grazie a questa legge la promozione del dono volontario e gratuito di sangue veniva riconosciuta come uno degli scopi principali delle associazioni di donatori.

L’associazionismo prese piede anche a livello internazionale: nel 1955 venne fondata la Federazione Internazionale Organizzazioni Donatori Sangue (FIODS) dall’iniziativa di diverse associazioni di volontari del sangue provenienti da diversi paesi, compresa l’A.V.I.S. L’obiettivo della FIODS era quello di coordinare le varie associazioni di volontari in modo da promuovere la donazione volontaria e gratuita di sangue in tutto il mondo e convincere gli stati a basare su di essa i loro sistemi trasfusionali. Un’ulteriore spinta alla cooperazione internazionale in campo trasfusionale venne data dall’accordo n° 26 del 1958 del Consiglio d’Europa, nel quale veniva stabilito che, in caso di disastro in uno degli stati membri, gli altri stati avrebbero provveduto alla cooperazione immediata e alla reciproca assistenza attraverso l’invio di sangue44.

II.2. Legge 592/1967

41 Decreto legislativo del capo provvisorio dello stato 13 novembre 1947, n. 1256, Compiti dell’Associazione

italiana della Croce Rossa in tempo di pace, art. 2, comma c.

42 Come sottolineato dai suoi stessi membri, l’A.V.I.S. non era scomparsa durante la guerra, ma “era

oggettivamente difficile far parte o professare di far parte di un sodalizio che si professava apartitico, aconfessionale, che non ammetteva discriminazioni di sesso, razza, lingua, nazionalità, religione, ideologia politica” (www.avis.it/userfiles/file/2003-7-dicembre.pdf, consultato il 26 novembre 2016).

43 L’art. 1 della legge 49/1950 recitava così: “[È] riconosciuta a tutti gli effetti giuridici l’Associazione Nazionale

Volontari Italiani del Sangue (A.V.I.S.), con sede in Milano. Essa promuove, coordina e disciplina le attività delle sezioni provinciali e comunali di volontari del sangue”.

44 Accordo del Consiglio d’Europa 15 dicembre 1958, Accordo europeo concernente lo scambio di sostanze

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Nonostante la nascita di numerose associazioni e federazioni nazionali e internazionali di volontari del sangue, le donazioni rappresentavano ancora una piccola percentuale della raccolta del sangue in confronto alle cessioni retribuite. Per quanto riguarda l’Italia, una delle possibili motivazioni alla base di questa situazione era che, non essendo stata incentivata durante e dopo il fascismo, la donazione volontaria non si era radicata nell’opinione pubblica e quindi, anche dopo la guerra faticava a riprendersi nell’immaginario collettivo45.

Nella legge 592 del 1967, la prima ad avere come oggetto il sistema trasfusionale dopo la fine della guerra, comparvero però due importanti novità riguardanti proprio la donazione del sangue. Per prima cosa, l’art. 2 riconosceva ufficialmente la “funzione civica e sociale delle Associazioni aventi come attività istituzionale preminente la donazione volontaria del sangue e la cui vita sia regolata da statuti democratici”46. La seconda novità, direttamente

collegata alla prima, riguardava la comparsa della figura del “donatore di sangue”: “la qualifica di donatore di sangue”- recitava l’art. 15- “è concessa solo a coloro che cedono il sangue gratuitamente”47. Non essendo più definito come “datore volontario”, quindi, il

donatore prendeva le distanze dal datore professionale, acquistando una sua specifica autonomia. L’art. 15 definiva ulteriormente la figura del donatore, precisando che ci potevano essere donatori “periodici”, ovvero che donavano il sangue a intervalli di tempo regolari e donatori “occasionali”, i quali donavano “una volta tanto”48. La distinzione tra datori

professionali, donatori periodici e donatori occasionali veniva mantenuta iscrivendo gli stessi in tre distinti schedari49; i datori professionali, inoltre, venivano identificati mediante una

tessera di riconoscimento50.

Nella legge 592 del 1967 comparivano, inoltre, elementi innovativi riguardanti questioni scientifiche, organizzative e giuridiche legate al sistema trasfusionale e, soprattutto, concernenti una maggiore tutela del datore e del donatore di sangue. Per quanto riguarda quest’ultimo punto, l’art. 9 stabiliva due importanti provvedimenti: da un lato, veniva introdotto l’obbligo di effettuare il prelievo di sangue solo su coloro che avessero espresso il proprio consenso in merito; dall’altro, diventava necessario accertare che nessun danno avrebbe potuto derivare al datore o al donatore per effetto del prelievo. In base a ciò, l’età minima della persona su cui effettuare il prelievo veniva alzata a 18 anni, con la clausola che per i minori di 21 anni era necessario il consenso da parte dei genitori o dei tutori51.

45 D. DANIELE, L’infermiere e la comunicazione. Disegno ed implementazione di un progetto pilota sulla

diffusione della cultura della donazione di sangue, Università di Pisa, a.a. 2008/2009, p. 13.

46 Legge 14 luglio 1967, n. 592, Raccolta, conservazione e distribuzione del sangue umano, art. 2. 47 Ivi, art. 15, comma 1.

48 Ivi, art. 15, comma 2. 49 Ivi, art. 17, comma 1. 50 Ivi, art. 19, comma 1. 51 Ivi, art. 9.

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Per quanto riguarda il piano scientifico, la legge del 1967 recepiva i più importanti sviluppi che la medicina trasfusionale aveva avuto in quegli anni in Italia. Ciò è intuibile già dal titolo della stessa legge, la quale, a differenza delle precedenti, oltre alla raccolta e alla distribuzione del sangue umano, regolava anche la sua conservazione. Come visto nel paragrafo precedente, la diffusione, negli anni ’30 e ’40, di diverse sostanze anti-coauglanti aveva portato alla possibilità del bancaggio e della conservazione del sangue: la legge del 1967 dimostrava, quindi, come questo fosse diventato possibile anche in Italia, dove, nel 1947 era stata fondata a Torino la prima banca del sangue. Un’altra importante novità sul piano scientifico si trovava nell’articolo 1, nel quale, oltre al sangue umano, venivano menzionati per la prima volta i farmaci “derivati” ottenibili da esso, i cui possibili usi stavano venendo approfonditi in quegli anni.

Gli sviluppi della medicina trasfusionale richiedevano la riorganizzazione del sistema trasfusionale e l’introduzione di nuove strutture a livello locale, provinciale e nazionale. A livello locale, la legge del 1967 stabilì che la gestione della raccolta del sangue venisse affidata ad appositi “centri di raccolta” autorizzati, distinti in fissi e mobili. Essi venivano coadiuvati da “centri di trasfusione” e “centri di produzione degli emoderivati” che si occupavano della preparazione e della distribuzione del sangue e dei suoi derivati per uso profilattico, terapeutico, diagnostico52. A livello provinciale veniva istituita una Commissione per la disciplina e lo sviluppo dei servizi della trasfusione53, la quale aveva anche il compito di vigilare sull’attività di propaganda e di reclutamento dei datori e dei donatori di sangue delle associazioni provinciali e comunali54. A livello nazionale, veniva istituito il Centro Nazionale per la trasfusione di sangue, la cui organizzazione e funzionamento erano affidati alla CRI: ad esso venivano attribuiti compiti di ricerca, consulenza tecnica e quello di centro di riferimento per i gruppi sanguigni55.

Un’altra novità introdotta dalla legge del 1967 riguardava il divieto del commercio del sangue e dei suoi derivati: essi potevano essere ceduti “gratuitamente o dietro rimborso dei costi di raccolta e di preparazione (…) o mediante offerta di altro sangue da parte di terzi”56

ma non potevano essere considerati come “fonti di profitto”57. In aggiunta a quanto appena

riportato, veniva introdotta un’ammenda per coloro che raccoglievano sangue umano per uso trasfusionale o producevano o mettevano in commercio suoi derivati senza l’autorizzazione

52 Ivi, artt. 4, 5, 6, 7. 53 Ivi, art. 3.

54 Ivi, art. 18, comma 4. 55 Ivi, art. 8.

56 Ivi, art. 12, comma 1. 57 Ibidem.

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prevista dalla legge58. Entrambi questi provvedimenti rivestivano una notevole importanza, dato che per la prima volta veniva imposto il divieto di considerare il sangue e i suoi derivati come beni su cui poter lucrare, ma rappresentavano al tempo stesso una profonda contraddizione. Nella stessa legge, infatti, erano contemporaneamente presenti da un lato, il divieto di considerare il sangue e i suoi derivati come fonti di profitto e, dall’altro, la figura dei datori professionali, cioè di coloro che cedevano il proprio sangue dietro compenso59. Non a caso, la pena introdotta dall’art. 22 non riguardava tanto chi cedeva il proprio sangue per fini di lucro, quanto chi lo faceva “senza l’autorizzazione” prevista dalla legge.

Nel 1967, a poca distanza dalla legge 592, venne promulgata un’altra importante legge volta a tutelare i donatori di sangue lavoratori: con questo provvedimento veniva loro riconosciuto, per la prima volta, il diritto all’astensione dal lavoro nel giorno del “salasso” e la corresponsione della normale retribuzione60.

II.3. Dagli anni ’70 alla legge 107/1990: un cambiamento di prospettiva

I datori e i donatori di sangue convissero nella normativa italiana fino al 1990, quando venne promulgata una legge che eliminò definitivamente la figura del datore retribuito. Per capire i motivi che portarono ad un tale cambiamento è necessario soffermarsi brevemente su alcuni eventi che investirono, stravolgendolo, il campo della medicina trasfusionale internazionale tra gli anni ’70 e gli anni ’90.

In questo periodo, diversi governi iniziarono ad avvertire l’esigenza di riorganizzare i propri sistemi di raccolta sangue, basandoli principalmente sulla donazione volontaria e ridimensionando o addirittura eliminando le cessioni retribuite. Il motivo principale di questo radicale cambio di prospettiva fu di natura clinica, più che etica e consistette nell’aumento della trasmissione di malattie infettive tramite le trasfusioni di sangue. In realtà, questo problema era già noto durante la seconda guerra mondiale e la guerra di Corea, a causa dei numerosi casi di epatite post-trasfusionale tra i soldati, ma venne sottovalutato per parecchio tempo. Negli anni ’70, quando venne richiamata l’attenzione sul problema, la situazione

58 Ivi, art. 22. 59 Ivi, art. 16.

60 Legge 13 luglio 1967, n. 584, Riconoscimento del diritto a una giornata di riposo dal lavoro al donatore di

sangue dopo il salasso per trasfusione e alla corresponsione della retribuzione, art. 1: “Ai soli donatori di

sangue viene garantito il diritto all’astensione dal lavoro nel giorno del salasso e che sia loro corrisposta, se dipendenti, la normale retribuzione”.

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esplose con la comparsa e la rapida diffusione di una nuova sindrome che si trasmetteva tramite il sangue, le cui cause erano ancora sconosciute: l’AIDS61.

Come riportato dalla Società di Immunoematologia e Medicina Trasfusionale Italiana (SIMTI), l’AIDS “scardinò le regole operative dei servizi trasfusionali, mettendo in discussione tutta la conoscenza acquisita in merito”62: ci si rese presto conto, infatti, che il

rischio di trasmissione di malattie aumentava quando i prodotti del sangue erano stati ottenuti da datori remunerati e non da donatori volontari63. Questo veniva giustificato sulla base del

fatto che i datori di sangue retribuiti appartenevano principalmente alle fasce più povere ed emarginate della società e cedevano il proprio sangue soprattutto per bisogno. Di conseguenza, erano probabilmente più tentati ad omettere certe informazioni cliniche pertinenti, in modo da donare il sangue più frequentemente di quanto indicato oppure erano meno responsabili o consapevoli riguardo alla propria salute64.

Dato che il sangue proveniente dai donatori era più sicuro rispetto a quello ceduto dai datori retribuiti, la maggior parte degli Stati europei modificò i propri sistemi di raccolta del sangue eliminando le cessioni retribuite. Una spinta in questa direzione venne data dalle organizzazioni sanitarie internazionali, come l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) o il Consiglio d’Europa, le quali fornirono agli stati membri delle linee guida per la riorganizzazione dei loro sistemi trasfusionali. Il punto su cui questi documenti insistettero maggiormente fu quello di esortare gli stati a fondare i propri servizi trasfusionali sull’uso esclusivo della donazione volontaria e gratuita, per ragioni sia di sicurezza sia di giustizia distributiva. La Recommendation n° 4 del 1988 del Consiglio d’Europa, per esempio, affermava:

61 Per quanto riguarda l’Italia, il primo documento ufficiale relativo all’AIDS, alla sua sintomatologia e alle sue

cause, fu la circolare 64 del 3 agosto 1983: qui venivano individuate alcune delle categorie di soggetti più frequentemente colpiti dalla sindrome, tra i quali rientravano anche coloro che ricevevano frequenti trasfusioni di sangue o di emoderivati. Dal 1982 era comunque già attiva una raccolta dati sui casi di AIDS in Italia che, nel 1984, venne formalizzata in un Sistema di Sorveglianza Nazionale. Nel 1987 venne istituito, presso l’Istituto Superiore della Sanità, il centro operativo AIDS allo scopo di indirizzare e coordinare le attività del Sistema Sanitario Nazionale nella lotta contro l’AIDS (Istituto Superiore di Sanità, La normativa italiana in materia di

HIV, AIDS e Infezioni Sessualmente Trasmesse (IST), disponibile al sito http://www.iss.it/binary/ccoa/cont/Rapp_ISTISAN_Leggi.pdf, consultato il 20 dicembre 2016).

62 http://www.simti.it/donazione.aspx?id=3, consultato il 20 dicembre 2016.

63 É quanto veniva sottolineato anche nel documento 28.72 dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (World

Health Organization (WHO), WHA 28.72 – Utilization and Supply of Human Blood and Blood Products, 29th

May 1975, p. 1, disponibile al sito http://www.who.int/bloodsafety/BTS_ResolutionsAdopted.pdf, consultato il 7 gennaio 2017).

64 É quanto veniva ipotizzato dalla Recommendation n° 4 del 1988 del Consiglio d’Europa (Recommendation of

the Concil of Europe 7th March 1988, Recommendation N° R (88) 4 of the Committee of Ministers to Member

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“[L]e autorità sanitarie dovrebbero avere l’obbligo di promuovere l’adozione di politiche in linea con i principi etici della donazione di sangue volontaria e non retribuita; tali principi assicurano la massima sicurezza per la salute di donatori e riceventi”65;

“[S]e si richiede che il dono del sangue sia volontario e non retribuito, non è concepibile rifiutare i prodotti sanguigni ai pazienti che non sono nelle condizioni di pagarli. Il solo modo per essere sicuri della distribuzione di tali prodotti all’intera popolazione è istituire la gratuità o prevedere un rimborso da parte del servizio sanitario nazionale o altro sistema assicurativo adeguato (…)”66.

L’OMS, inoltre, esortava gli stati a

“intraprendere un’attività legislativa volta a regolare le attività trasfusionali e intraprendere tutte quelle attività volte a proteggere e promuovere la salute dei donatori e dei riceventi”67,

attraverso l’introduzione di nuove metodologie per la selezione dei donatori e il rinnovo delle procedure di controllo e di lavorazione degli emocomponenti.

La R (88) 4 sottolineava, in aggiunta, l’importanza di introdurre nelle legislazioni nazionali l’obiettivo dell’autosufficienza di sangue ed emoderivati: da un lato tale obiettivo garantiva la distribuzione del sangue su tutto il territorio; dall’altro aveva il vantaggio di “assicurare la qualità dei prodotti, dato che la produzione avviene sotto il diretto controllo delle Aziende Sanitarie”68. Laddove non fosse stato possibile raggiungere l’autosufficienza,

rendendo necessaria l’importazione di sangue o suoi derivati da altri paesi, per ragioni etiche e di sicurezza si raccomandava agli stati di importare prodotti che derivassero da donazioni volontarie e non retribuite69.

II.4. Legge 107/1990

Le raccomandazioni dell’OMS e del Consiglio d’Europa vennero recepite dalla normativa italiana nella legge 107 del 1990, la quale segnò un vero e proprio cambiamento di prospettiva all’interno del servizio trasfusionale del nostro paese. Come già anticipato sopra, la principale novità introdotta da questa legge fu l’eliminazione della figura del datore di

65 Council of Europe, R (88) 4, art. 1, traduzione mia. 66 Ivi, Memorandum art. 5, trad. mia.

67 WHO, WHA 28.72, p. 1, trad. mia.

68 Council of Europe, R (88) 4, Memorandum art. 11, trad. mia. 69 Ivi, art. 11, trad. mia.

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sangue. Tutte le attività trasfusionali (raccolta, frazionamento, conservazione e distribuzione del sangue umano e dei suoi componenti) venivano, quindi, fondate esclusivamente “sulla donazione volontaria, periodica e gratuita del sangue umano e dei suoi componenti”70, della quale venivano riconosciuti la funzione “civica e sociale e i valori umani e solidaristici”71.

L’importanza della gratuità della donazione costituiva il nucleo della legge, tanto che la donazione di sangue e di emocomponenti venne definita, dalla stessa legge, come l’“offerta gratuita di sangue intero o plasma, o piastrine, o leucociti, previo il consenso informato e la verifica dell’idoneità fisica del donatore”72. L’atto della donazione non poteva, quindi,

derivare da una coercizione, bensì solo da un’offerta spontanea e priva di fini di lucro. Inoltre, l’assoluta volontarietà del donatore veniva assicurata dalla richiesta del suo consenso al prelievo prima di procedere allo stesso, come era d’altronde già previsto nella legge 594 del 1967.

È interessante notare che, oltre che volontaria e gratuita, la donazione di sangue alla base di tutte le attività trasfusionali era quella “periodica”. L’importanza della periodicità della donazione non era stata presa in considerazione dalla legge del 1967, la quale si limitava a distinguere i donatori “periodici” da quelli “occasionali”, mentre assumeva un rilievo del tutto nuovo nella legge del 1990. Il motivo principale era il riconoscimento del fatto che coloro che donavano con regolarità assicuravano una buona e costante disponibilità del sangue e dei suoi componenti. In aggiunta, i donatori periodici garantivano una certa sicurezza e qualità di ciò che donavano, grazie alla regolarità delle indagini cui venivano sottoposti e anche alla consapevolezza della loro responsabilità nei confronti del ricevente. Puntare su questo tipo di donatori risultava, quindi, estremamente vantaggioso, dato che l’incremento del loro numero avrebbe portato all’aumento della percentuale di donazioni sicure e di qualità73.

Il richiamo alla gratuità e alla volontarietà della donazione era presente anche in altri punti della legge. Nell’articolo 1, per esempio, veniva ribadito il fatto che il sangue umano e i suoi componenti non potevano essere considerati come fonte di profitto74: di conseguenza, per chi avesse ceduto, conservato, distribuito il proprio sangue o suoi derivati per fini di lucro era prevista una pena, che poteva consistere nel pagamento di una multa o nella reclusione o, per

70 Legge 4 maggio 1990, n. 107, Disciplina per le attività trasfusionali relative al sangue umano ed ai suoi

componenti e per la produzione di plasmaderivati, art. 1, comma 2.

71 Ivi, art. 2, comma 1. 72 Ivi, art. 3, comma 1.

73 P. PAOLETTI e S. ARISTODEMO, Prospettive future della donazione di sangue in Italia, in AA. VV., La

donazione in Italia. Situazione e prospettive della donazione di sangue, organi, tessuti, cellule e midollo osseo, a

cura di G. Castelnuovo, R. Menici, M. Fedi, Sprinter-Verlag, Milano 2011, pp. 37-44, qui p. 39.

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gli operatori sanitari, nell’interdizione dall’esercizio della professione75. Sempre nell’ottica della promozione della donazione, l’art. 13 riconosceva al donatore lavoratore il diritto all’astensione dal lavoro nel “giorno della donazione” (non più definito come “giorno del salasso”, come prevedeva la legge del 1967) mantenendo la normale retribuzione76.

Un’altra importante novità introdotta da questa legge fu il riconoscimento delle attività trasfusionali come “parte integrante del Servizio Sanitario Nazionale (SSN)”77, il quale era

stato istituito con un’apposita legge nel 197878. Di conseguenza, tra i fini del SSN

comparivano anche quelli della “promozione e dello sviluppo della donazione di sangue e la tutela dei donatori”79, ai quali concorrevano anche quelle associazioni e federazioni dei

donatori volontari del sangue il cui statuto corrispondesse alle finalità della legge80. Le associazioni e le federazioni di donatori volontari potevano concorrere ai fini del SSN anche attraverso la gestione diretta delle unità di raccolta di sangue intero o plasma presenti a livello locale81.

Dal punto di vista organizzativo, la legge del 1990 riprendeva lo schema di quella del 1967, con una distribuzione delle mansioni su diversi livelli. A livello locale, presso i presidi ospedalieri venivano istituiti i “servizi di immunoematologia e trasfusione”: ad essi, coadiuvati dai “centri trasfusionali”, venivano affidate numerose mansioni, tra cui il coordinamento delle unità di raccolta e la garanzia del “buon uso del sangue”82. A livello

regionale e interregionale la legge del 1990 prevedeva dei “centri di coordinamento e compensazione” che, sulla base anche delle raccomandazioni del Consiglio d’Europa, avevano come scopo principale quello di assicurare l’autosufficienza regionale di sangue, plasma ed emoderivati. Per questo motivo, venivano loro affidati i seguenti incarichi: rilevare il fabbisogno regionale annuale di plasmaderivati e determinare il quantitativo di plasma necessario per tale scopo; coordinare e controllare le attività dei centri trasfusionali della

75 Ivi, art. 17. 76 Ivi, art. 13.

77 Ivi, art. 1, comma 2.

78 Si tratta della legge 23 dicembre 1978, n. 833, Istituzione del servizio sanitario nazionale. 79 Legge 107/1990, art. 2, comma 2.

80 Ivi, art. 2, comma 3. Nel decreto ministeriale del 7 giugno del 1991 vennero ulteriormente precisate le

caratteristiche e le finalità statutarie proprie delle associazioni e delle federazioni di donatori di sangue: esse escludevano ogni fine di lucro; si ispiravano ai valori umani e solidaristici della donazione volontaria e gratuita di sangue; erano formate da cittadini donatori volontari (o che lo fossero già stati) e avevano un’organizzazione conforme al principio democratico. I loro statuti andavano adeguati ai seguenti scopi: promozione dell’informazione e della educazione al dono del sangue, dell’educazione alla salute nella popolazione e della coscienza trasfusionale; offerta del sangue da parte dei soci, senza vincoli sulla destinazione; adesione al programma nazionale per il raggiungimento dell’autosufficienza ematica (Decreto del Ministro della Sanità 7 giugno 1991, Indicazioni sulle finalità statutarie delle associazioni e federazioni dei donatori di sangue, artt. 1, 2).

81 Legge 107/1990, art. 7. 82 Ivi, artt. 5, 6.

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propria regione83. A livello nazionale, l’Istituto Superiore di Sanità e la Commissione nazionale per il servizio trasfusionale, avevano il compito di promuovere la ricerca scientifica nel settore delle immunotrasfusioni; ispezionare e controllare le aziende produttrici di emoderivati; proporre iniziative riguardanti la propaganda sulla donazione di sangue e coordinare le attività promozionali delle associazioni o federazioni di donatori volontari84.

L’ultima importante novità introdotta dalla legge del 1990 fu di natura scientifica e testimoniò, ancora una volta, i progressi compiuti in questi anni dalla medicina trasfusionale. Per la prima volta, nella normativa italiana comparve il riferimento alla possibilità di prelevare le cellule staminali midollari e periferiche (cioè prelevate rispettivamente dal midollo osseo e dal sangue periferico) a scopo di trapianto85. Il prelievo delle cellule staminali era disciplinato dalle stesse norme che regolavano quello del sangue e dei suoi componenti, anche se, data l’elevata specificità del trapianto di midollo osseo, venne successivamente emanata una legge ad hoc86.

II.5. Legge 219/2005

Dal 2002, e soprattutto nel triennio 2005-2007, è stata svolta un’intensa attività legislativa in materia di attività trasfusionali, sia a livello nazionale che comunitario87: in

questo periodo, precisamente il 21 ottobre del 2005, dopo una lunga discussione parlamentare è stata promulgata la legge attualmente vigente in Italia88.

La legge del 2005 definisce i principi fondamentali delle attività trasfusionali necessari per il conseguimento delle seguenti finalità:

- raggiungere l’autosufficienza regionale e nazionale di sangue, emocomponenti e farmaci derivati;

- promuovere una più efficace tutela della salute dei cittadini, attraverso il conseguimento dei più alti livelli di sicurezza nell’ambito della donazione e della trasfusione;

- uniformare il servizio trasfusionale su tutto il territorio italiano;

83 Ivi, art. 8. 84 Ivi, artt. 9, 12. 85 Ivi, art. 1, comma 3.

86 Si tratta della legge 6 marzo 2001, n. 52, Riconoscimento del Registro nazionale italiano dei donatori di

midollo osseo.

87 http://www.centronazionalesangue.it/pagine/normativa-000, consultato il 3 gennaio 2017.

88 Si tratta della legge 21 ottobre 2005, n. 219, Nuova disciplina delle attività trasfusionali e della produzione

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