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Altri criteri neurologici: morte del tronco encefalico e morte corticale

Tra gli anni ’70 e gli anni’80 l’ampliamento degli studi sulla “morte cerebrale” portò alla formulazione di nuovi criteri neurologici di accertamento della morte.

Il primo di questi si focalizzava sulla perdita irreversibile delle funzioni del tronco encefalico, una struttura posta al di sotto degli emisferi cerebrali e del diencefalo. Il tronco encefalico contiene i nuclei di molti nervi cranici, i quali mediano le funzioni sensitive e motorie della faccia, del capo e del collo. La regione centrale del tronco, definita “formazione

reticolare”, tra le altre funzioni svolge anche quelle di controllo degli stati di coscienza, modulazione dello stato di vigilanza e regolazione del respiro e dell’attività cardiaca.

Nel 1971 due chirurghi del Minnesota, A. Mohandas e S. N. Chou, osservarono che, nei pazienti che avevano subito gravi danni intracranici, alla lesione del tronco encefalico seguiva, dopo poco tempo, l’arresto cardiorespiratorio. Ciò li portò ad identificare la perdita irreversibile delle funzioni del tronco come il “punto di non ritorno” verso il processo di morte e a formulare un nuovo criterio neurologico definito, appunto, “morte del tronco encefalico73.

Secondo Mohandas e Chou, la perdita irreversibile delle funzioni del tronco poteva essere accertata mediante dei criteri diagnostici, che consistevano nel valutare l’assenza di riflessi mediati dal tronco encefalico (ad esempio, i riflessi pupillare, corneale, vestibolooculare, carenale), di respirazione e di movimenti spontanei. La diagnosi, inoltre, doveva essere accompagnata dalla conoscenza certa della causa che aveva portato alla lesione del tronco e dall’esclusione dell’ipotermia e dell’intossicazione da farmaci: se le condizioni permanevano immutate per 12 ore, si poteva procedere alla dichiarazione di morte74.

Durante gli anni ’80 e ’90, in alcuni ambienti medici, soprattutto in Gran Bretagna, si iniziò a sostenere che la diagnosi della “morte del tronco encefalico” poteva essere ritenuta una condizione sufficiente della morte cerebrale e, di conseguenza, della morte dell’intero organismo. I sostenitori di questa posizione assumevano che il tronco encefalico fosse il “sistema critico” dell’intero encefalo, dato che la respirazione, la capacità di coscienza, il controllo della pressione sanguigna, mediate dal tronco, permettevano lo svolgimento delle funzioni delle strutture superiori dell’encefalo (talamo e emisferi cerebrali). La perdita irreversibile delle funzioni del tronco avrebbe comportato, quindi, la cessazione della respirazione e della capacità di coscienza e, di conseguenza, la lesione irreversibile dei centri superiori: la cessazione delle funzioni del tronco avrebbe significato, cioè, l’impossibilità, per l’organismo, di continuare a funzionare come un tutto integrato75.

La “morte del tronco encefalico”, quindi, consisteva in quella condizione di coma apneico che costituiva il nucleo del criterio di “morte cerebrale” così come era stato concepito dalla Commissione di Harvard.

Questo criterio è stato integrato nella normativa britannica, dove la cessazione delle funzioni del tronco encefalico è ritenuta una condizione sufficiente per accertare la morte dell’individuo e, quindi, per prelevarne gli organi. In altri stati europei la morte del tronco viene ritenuta un criterio valido al solo scopo “prognostico” e non “diagnostico” della morte

73 R. BARCARO et al., Prospettive bioetiche di fine vita cit., p. 33. 74 Ibidem.

del paziente: la lesione irreversibile del tronco, quindi, viene considerata un segnale che avverte che la morte del paziente è prossima, non che è già avvenuta. Per questo motivo è stato obiettato che equiparare la “morte del tronco” alla “morte cerebrale totale” significa confondere l’inevitabilità della morte con la morte stessa76.

È necessario sottolineare che la condizione diagnosticata dal criterio della “morte del tronco cerebrale” è stata spesso confusa con altre condizioni patologiche, tra cui lo stato vegetativo e la sindrome “locked-in” che, però, non soddisfano i criteri neurologici di accertamento della morte.

Nello stato vegetativo, il danno cerebrale è limitato agli emisferi, mentre gran parte del tronco viene risparmiata. Il paziente in stato vegetativo, quindi, può mantenere la respirazione spontanea ed è vigile, cioè può aprire gli occhi, reagire ad alcuni stimoli, sbadigliare, masticare, deglutire ed avere un ciclo sonno-veglia. Queste reazioni sono automatiche e non consapevoli, dato che i centri adibiti all’elaborazione dei contenuti della coscienza (emisferi e talamo) sono irreversibilmente lesionati.

Il paziente che presenta la sindrome “locked-in” conserva la consapevolezza ma, a causa di una lesione ischemica del tronco encefalico, non può muovere gli arti, parlare, masticare o deglutire. In alcuni casi, dato che il nervo ottico è indipendente dal tronco, può essere mantenuto un parziale controllo dei muscoli oculari e palpebrali, attraverso i quali il paziente può comunicare con il mondo esterno. Per questo motivo, la diagnosi di questa sindrome è estremamente difficile, dato che bisogna prestare attenzione al fatto che il paziente muova gli occhi in modo volontario, stabilendo una comunicazione.

Durante gli anni ‘80 è stato proposto un ulteriore criterio neurologico, definito “morte corticale”. In questo caso, i danni riguardano “solo” la corteccia cerebrale e gli emisferi, mentre le altre strutture cerebrali, tra cui il tronco, rimangono intatte.

Secondo i sostenitori di questo criterio, con la “morte corticale” andrebbero perse tutte quelle funzioni essenziali per la vita umana in quanto tale, ovvero quelle facoltà mentali “superiori” (pensiero, linguaggio, memoria ed elaborazione delle sensazioni) che caratterizzano la “persona”, distinguendola dall’animale. Con questo criterio ci si allontanerebbe, quindi, dalla morte intesa come la cessazione dell’integrazione delle funzioni dell’organismo, istituendo due “morti” distinte: quella della “persona” e quella biologica dell’“organismo”77.

76 Questa è stata, per un certo periodo, l’obiezione del Comitato Nazionale per la Bioetica italiano, esposta nel

documento del 1991 dal titolo Definizione e accertamento della morte nell’Uomo. Questa posizione è stata successivamente rivista nel 2010 e presentata nel documento I criteri per l’accertamento della morte.

Il criterio della “morte corticale” è rimasto al livello di pura proposta teorica e non ha ricevuto, per ora, nessuna applicazione normativa, sulla base di due ragioni principali: la prima, di natura empirica, riguarda il fatto che, allo stato attuale della conoscenza, le facoltà mentali superiori, in particolar modo la coscienza, non sono localizzabili in una singola area cerebrale, ma sembra che derivino piuttosto dall’associazione di diverse aree cerebrali, corticali e non. Inoltre, risulta difficile stabilire quale estensione dovrebbe avere il danno cerebrale affinché il paziente venga considerato come totalmente privo di coscienza.

La seconda ragione è di natura morale: questo criterio, se messo in pratica, potrebbe essere esteso ad individui affetti da patologie che comportano l’assenza delle funzioni mentali superiori, come certe forme di demenza o di ritardo mentale, o anche pazienti privi di coscienza che, però, mantengono intatte le loro funzioni cardio-respiratorie (ad esempio, i pazienti in stato vegetativo). Di conseguenza, si considererebbero morti pazienti che non sono mai stati considerati tali e che difficilmente lo sarebbero tuttora78.

A queste due motivazioni se ne aggiunge una terza, di natura filosofica: la relatività del concetto di “persona”, che ha sempre assunto diverse accezioni, renderebbe ancora più problematica e controversa l’accettazione e l’applicazione di questo criterio.

V. Evoluzione della normativa italiana in materia di trapianto di organi e