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Brevi cenni storici sul trapianto di cellule staminali emopoietiche

Come nel caso delle trasfusioni di sangue, la seconda guerra mondiale ha svolto un ruolo fondamentale anche per quanto riguarda il trapianto di midollo osseo. Le elevate dosi di radiazioni dovute alle esplosioni delle bombe atomiche a Hiroshima e Nagasaki provocarono in moltissime persone la cosiddetta “sindrome da radiazioni”, la quale colpiva in particolar modo il midollo osseo, distruggendolo. Dato che i meccanismi radiobiologici alla base di questa nuova patologia erano pressoché sconosciuti, nel secondo dopoguerra si assistette ad un crescente interesse intorno agli effetti delle radiazioni sull’organismo, soprattutto sul midollo osseo.

Tra i numerosi studi compiuti in questi anni, vanno ricordati in particolar modo quelli di L. O. Jacobson (1949) e di E. Lorenz (1950). Il primo scoprì che il trapianto singenico di milza tra topi era in grado di rigenerare la funzione emopoietica, compromessa dalle

radiazioni alle quali uno dei topi era stato sottoposto. Al secondo va attribuita, invece, la scoperta l’effetto “rigenerativo” della funzione emopoietica era ottenibile anche attraverso l’infusione endovena del midollo osseo prelevato da un fratello gemello18.

Inizialmente si ritenne che la rigenerazione emopoietica fosse dovuta ad alcuni elementi “umorali” presenti nella milza e nel midollo osseo, ma ben presto si scoprì e si dimostrò che la funzione emopoietica veniva ripristinata dall’azione di alcune particolari cellule presenti negli stessi. Queste cellule erano le progenitrici dalle quali si sarebbero sviluppate le staminali emopoietiche mature: la loro analisi approfondita consentì di individuare le caratteristiche fondamentali delle cellule responsabili della ricostituzione emopoietica, ovvero la multipotenza e la capacità di autorinnovarsi19.

La prima di queste caratteristiche consiste nella capacità di differenziarsi in uno qualsiasi dei diversi tipi cellulari che costituiscono gli elementi del sangue, ovvero globuli rossi, globuli bianchi e piastrine. La seconda consiste nella capacità di riprodurre se stesse per un numero virtualmente illimitato di volte, in modo da rimanere quantitativamente invariate per tutta la vita dell’organismo.

A questa scoperta si aggiunse presto anche quella relativa al fatto che il midollo osseo dei topi sottoposti a trapianto allogenico presentava le stesse caratteristiche citogenetiche del donatore: le cellule del ricevente e del donatore, cioè, avevano le stesse caratteristiche genetiche. Oltre ad avvalorare la tesi cellulare, opposta a quella “umorale”, questa scoperta introdusse il concetto di “chimera biologica”, ovvero di un organismo in cui le sole cellule del tessuto emopoietico hanno le caratteristiche genetiche del donatore da cui sono state prelevate, mentre tutte le altre mantengono il genotipo “regolare” del ricevente stesso20.

La maggior parte di questi studi venne compiuta su modelli animali come topi, cani e primati non-umani. Una delle prime applicazioni del trapianto di midollo osseo negli esseri umani avvenne, invece, nel 1958, quando G. Mathé e i suoi colleghi sottoposero a trapianto allogenico cinque scienziati che erano stati esposti ad elevate dosi di radiazioni durante un incidente nucleare a Vinca, nella ex-Yugoslavia. Tutti e cinque presentavano una grave aplasia midollare, ovvero un’insufficienza funzionale del midollo osseo, dovuta alla riduzione del numero di cellule del tessuto emopoietico midollare, distrutte dalle radiazioni. In quattro di loro si verificò la reazione immunologica del rigetto21, seguito, però, dalla ripresa del midollo osseo autologo. Al quinto, il quale aveva subito la dose maggiore di radiazioni,

18 A. R. PERRY and D. C. LINCH, The History of Bone Marrow Transplantation, “Blood Reviews”, 10 (1996),

pp. 215-219, qui p. 215.

19 A. P. NG and W. S. ALEXANDER, Haematopoietic Stem Cells: Past, Present and Future cit., p. 1.

20 H. M. VRIESENDORP and P. J. HEIDT, History of Graft-versus-Host Disease, “Experimental Hematology”,

44 (2016), pp. 674-688, qui p. 677.

vennero infusi midollo osseo allogenico e cellule staminali emopoietiche provenienti dal fegato di un feto abortito spontaneamente22. Nonostante l’attecchimento del midollo osseo

infuso, il quinto scienziato morì 25 giorni dopo il trapianto per il collasso di diversi organi, molto probabilmente causato da quella che all’epoca veniva definita “secondary disease”, ovvero una complicanza del trapianto, che in quegli anni era oggetto di un intenso studio da parte di D. van Bekkum23.

L’episodio dei cinque scienziati incentivò gli studiosi di tutto il mondo a sperimentare il trapianto di midollo osseo allogenico come terapia, rivolta in particolare alla cura di pazienti con una ricaduta di leucemia, per i quali le terapie convenzionali non avevano funzionato. Il trapianto autologo era stato momentaneamente accantonato, dato che c’erano alte probabilità che il midollo osseo del paziente stesso fosse contaminato con le cellule tumorali.

La maggior parte dei trapianti eseguita nel decennio 1960-1970, però, non ebbe successo, dato che ancora scarse erano le conoscenze relative alla compatibilità tissutale e, di conseguenza, alle reazioni immunologiche del trapianto allogenico24.

Il decennio seguente rappresentò, invece, un momento di svolta nell’ambito del trapianto di midollo osseo, grazie a numerose scoperte e miglioramenti introdotti nella pratica stessa del trapianto.

La scoperta fondamentale fu sicuramente quella del sistema HLA (Human Leukocyte

Antigen, il complesso maggiore di istocompatibilità dell’uomo), che permise di comprendere i

meccanismi che regolano la compatibilità tissutale tra gli individui25 e, di conseguenza, di

effettuare trapianti di midollo osseo aventi una maggiore probabilità di successo. La scoperta del sistema HLA avvenne ad opera di numerosi studiosi in diverse parti del mondo: per citarne alcuni, Dausset (Francia), van Rood (Olanda), Payne, Rolfs e Amos (USA), Ceppellini e van Rood (Italia)26. Un contributo fondamentale a questa scoperta arrivò dagli studi compiuti sui complessi maggiori di istocompatibilità (o MHC, Major Histocompatibility

Complex) di diverse specie animali, tra cui cani e topi. Da questi studi emerse che, in tutte le

22 Il fegato, insieme alla milza, è uno degli organi maggiormente emopoietici del feto.

23 Dick van Bekkum aveva osservato che nei topi sottoposti ad un trapianto allogenico di midollo osseo il tasso

di mortalità era decisamente più alto rispetto a quello dei topi sottoposti a trapianto singenico o autologo. Nella maggior parte dei casi la morte era dovuta a questa “seconday disease”, successivamente definita GvHD (Graft-

versus-Host Disease), i cui sintomi erano diarrea, perdita di peso, necrosi epatica e rush cutanei

(VRIESENDORP and HEIDT, History of Graft-versus-Host Disease cit., pp. 675-677).

24 Si stima che fino al 1966 furono compiuti circa 417 trapianti allogenici di midollo osseo e che, di questi, solo 3

avevano avuto successo (PERRY and LINCH, The History of Bone Marrow Transplantation cit., p. 216).

25 Cfr. pp. 32 e ss.

26 M. T. DE LA MORENA and R. A. GATTI, A History of Bone Marrow Transplantation,

specie in cui era presente, il MHC era costituito da un insieme di geni posti in loci strettamente collegati tra loro27, ovvero ereditabili “in blocco”.

Una conseguenza di questa scoperta fu che, a partire dagli anni ’70, la maggior parte dei trapianti venne eseguita tra gemelli omozigoti o fratelli HLA-compatibili. Pioniere in questo campo fu E. Donnal Thomas, il quale, insieme al suo gruppo di colleghi al “Fred Hutchinson Cancer Research Centre” di Seattle, individuò alcuni miglioramenti da apportare alla tecnica del trapianto di midollo osseo.

Innanzitutto, Thomas e colleghi si resero conto che elevate dosi di radioterapia non erano sempre efficaci nel trattamento della leucemia, come all’epoca si riteneva. Da un lato, la radioterapia da sola non riusciva ad eradicare le cellule leucemiche, infatti, in molti pazienti sottoposti a questo tipo di terapia avveniva comunque una ricaduta della malattia. Dall’altro, anche alcuni dei linfociti sani del paziente permanevano nonostante la radioterapia e questo significava l’aumento della possibilità di rigetto del midollo osseo allogenico che sarebbe stato trapiantato successivamente28. Di conseguenza, il regime di condizionamento venne migliorato, affiancando la chemioterapia alla radioterapia29. Inoltre, diversamente da quella che era la pratica standard di quel periodo, si iniziarono ad effettuare trapianti solo durante la fase di remissione della leucemia o ai primi sintomi di una ricaduta.

Thomas e colleghi individuarono, inoltre, alcune tecniche da adottare per tentare di superare i due principali ostacoli relativi al trapianto di midollo allogenico, ovvero il rigetto e la cosiddetta GvHD (Graft-versus-Host Disease)30. Una di queste “strategie”, come detto

sopra, fu quella di eseguire trapianti tra gemelli omozigoti o tra fratelli HLA-compatibili; un’altra consistette nell’introduzione di agenti immunosoppressori (es. Methotrexate) da utilizzare prima e dopo il trapianto, in modo tale da “disattivare” il sistema immunitario del ricevente per evitare il rigetto del midollo osseo del donatore31.

Ai miglioramenti introdotti da Thomas, si aggiunsero anche quelli delle cure di supporto fornite durante la fase aplastica del trapianto, grazie all’introduzione di nuovi antibiotici, antivirali e antifungini32.

L’aumento del tasso di trapianti di midollo osseo coronati da successo, dovuto allo sviluppo delle conoscenze e delle tecniche, permise di comprendere sempre meglio la portata

27 VRIESENDORP and HEIDT, History of Graft-versus-Host Disease cit., p. 679. 28 PERRY and LINCH, The History of Bone Marrow Transplantation cit., p. 216.

29 Il miglioramento del regime di condizionamento permise, nel corso degli anni ’80, la ripresa del trapianto

autologo. L’uso combinato di radioterapia e chemioterapia era, infatti, più efficace della sola radioterapia nel trattamento delle cellule neoplastiche e consentiva, quindi, di effettuare con maggiori probabilità di successo l’infusione del midollo osseo autologo prelevato in precedenza. Per approfondimenti sul condizionamento, cfr. p. 39.

30 Cfr. p. 41.

31 VRIESENDORP and HEIDT, History of Graft-versus-Host Disease cit., p. 678. 32 Cfr. pp. 40-41.

di quella conseguenza del trapianto allogenico definita “Graft-versus-Host Disease” (GvHD). In numerosi pazienti, dopo un iniziale attecchimento del midollo trapiantato, facevano la loro comparsa gli inequivocabili sintomi33 del rigetto dell’intero organismo ricevente da parte dei linfociti T del donatore, infusi endovena durante il trapianto. Gli studi di van Bekkum e dei suoi colleghi, pubblicati nel corso degli anni ’80, portarono all’individuazione di alcune delle variabili che potevano causare l’insorgenza della GvHD. Tra queste, comparivano: il grado di compatibilità HLA tra donatore e ricevente; il numero di linfociti infusi per kg di peso del ricevente; l’uso di immunosoppressori dopo il trapianto34.

La comprensione più approfondita dei meccanismi della GvHD, insieme al miglioramento delle cure di supporto, permise di individuare due tecniche efficaci contro l’insorgenza della GvHD: l’uso di immunosoppressori e ciclosporina (utilizzata anche nei trapianti d’organo) e un’elevata compatibilità HLA tra donatore e ricevente35.

Il successo dei trapianti tra fratelli o familiari HLA-compatibili (donatori aploidentici) portò ad interrogarsi sulle possibili soluzioni da offrire a coloro, circa l’80% dei pazienti, che non disponevano di un familiare compatibile. Conseguenza di ciò fu che, nel corso degli anni ’80, si assistette alla nascita di numerosi registri nazionali e internazionali36, i quali

raccoglievano i dati dei potenziali donatori di midollo osseo, previamente sottoposti all’esame di tipizzazione tissutale37. Lo scopo principale di questi registri era di allargare il pool dei potenziali donatori, in modo da aumentare la probabilità di trovare un donatore compatibile anche per quei pazienti privi di fratelli HLA-identici o donatori aploidentici. Inoltre, l’introduzione dei registri consentiva di coordinare l’attività internazionale legata ai trapianti e di condurre analisi statistiche utili per effettuare previsioni sulle conseguenze dei trapianti.

Fu in questi stessi anni che si giunse alla scoperta di due nuove possibili fonti di cellule staminali emopoietiche38: il sangue periferico e il sangue cordonale.

Alcuni studi condotti su topi, cani e primati non-umani avevano mostrato la presenza di una piccola percentuale (0,01%-0,1%) di cellule staminali emopoietiche nel sangue oltre che nel midollo osseo. Dato che il loro numero non era sufficiente per eseguire un trapianto, numerosi sforzi vennero compiuti per tentare di incrementarlo: una soluzione a questo

33 Cfr. p. 44, nota 23. 34 Ivi, pp. 682-683.

35 F. BARRIGA et al., Hematopoietic Stem Cell Transplantation: Clinical Use and Perspectives, “Biological

Research”, 45 (2012), pp. 307-316, qui p. 309.

36 In questi anni nacquero, per esempio, l’International Bone Marrow Transplant Registry, l’European Bone and

Marrow Transplant Group e, in Italia, l’Italian Bone Marrow Donor Registry.

37 Cfr. p. 33.

38 La scoperta di due nuove fonti di cellule staminali emopoietiche fu alla base dello spostamento terminologico

dal “trapianto di midollo osseo” al più generico “trapianto di cellule staminali emopoietiche”. Tuttavia, ancora oggi il primo termine viene indebitamente usato per indicare anche il trapianto di cellule staminali emopoietiche provenienti da fonti diverse dal midollo osseo.

problema fu rinvenuta nei cosiddetti “fattori di crescita emopoietici”, normalmente prodotti dall’organismo, i quali rendevano più rapida la crescita delle cellule staminali nel midollo osseo e ne facilitavano il passaggio nel sangue periferico.

L’altra nuova fonte di cellule staminali emopoietiche fu rinvenuta nel sangue cordonale, ovvero nel sangue placentare residuo prelevabile dopo il parto dal cordone ombelicale. Data la bassa percentuale di cellule staminali emopoietiche presenti nel sangue cordonale (0,04%-0,1%), inizialmente i trapianti vennero effettuati solo in pazienti pediatrici, per i quali era sufficiente un numero minore di cellule staminali infuse e, solo successivamente, vennero sperimentati su pazienti adulti. Il successo di questo tipo di trapianti portò alla creazione di numerose banche per la raccolta di sangue cordonale, secondo lo stesso principio che aveva portato alla nascita dei registri dei potenziali donatori di midollo osseo: le banche nascevano, infatti, con l’intento di raccogliere le unità di sangue cordonale donate e di conservarle per scopi terapeutici.

Verso la fine degli anni ’80 e nel corso degli anni ’90 si assistette all’aumento della percentuale di trapianti di cellule staminali emopoietiche effettuati, anche grazie ad ulteriori miglioramenti introdotti in questo campo. In questo periodo, infatti, si iniziò a sperimentare il trapianto di cellule staminali emopoietiche come terapia anche per malattie non-neoplastiche (come, ad esempio, immunodeficienze, talassemia e anemia falciforme) o come terapia di recupero dopo terapie sovramassimali contro tumori solidi39.

Furono introdotte, inoltre, nuove tecnologie per la tipizzazione del sistema HLA, in modo da scoprire una varietà sempre maggiore di combinazioni genotipiche possibili e allargare, così, il pool dei potenziali donatori non-familiari40.

La seconda metà degli anni ’90 vide la crescita dell’interesse verso il cosiddetto “effetto GvL”, ovvero la reazione immunologica dei linfociti T del donatore contro le cellule leucemiche o neoplastiche del ricevente (GvL è l’acronimo di Graft-versus-Leukemia)41. Lo

studio approfondito della GvL permise lo sviluppo di un regime di condizionamento “ad intensità ridotta”, ovvero non basato tanto sugli effetti della chemioterapia quanto sull’azione dei linfociti del donatore: questi, infatti, una volta infusi, riconoscono come estranee non solo le cellule sane ma anche quelle neoplastiche e le distruggono. Tutto ciò ha significato la possibilità di sottoporre al trapianto anche quei pazienti che non sono in grado di sopportare,

39 In quest’ultimo caso, il midollo osseo non è il bersaglio diretto della cura e la sua distruzione è dovuta a dosi

molto elevate di radio e/o chemioterapia dirette contro altri tessuti. L’aggettivo “sovramassimale” si riferisce proprio al fatto che questo tipo di terapie non consente un recupero ematologico spontaneo, il quale è permesso solo da un trapianto di cellule staminali emopoietiche.

40 E. D. THOMAS, A History of Haemopoietic Cell Transplantation, “British Journal of Haematology”, 105

(1999), pp. 330-339, qui p. 334.

per ragioni legate all’età o per la presenza di altre patologie, il regime di condizionamento “standard”42.

Quanto riportato fin qui mostra come, negli ultimi cinquant’anni, il trapianto di cellule staminali emopoietiche si sia gradualmente affermato come una valida terapia per la cura di diverse patologie, ematologiche e non. Nonostante questi sviluppi, rimane, però, un ambito in cui c’è ancora molta ricerca da fare. Alcuni degli obiettivi futuri riguardano, per esempio: la comprensione approfondita dei meccanismi della “nicchia emopoietica”, i quali regolano la differenziazione delle cellule staminali emopoietiche43; lo sviluppo di metodi per “riprogrammare” le cellule staminali emopoietiche, in modo da renderle efficaci contro una specifica patologia o per correggere quelle geneticamente difettate. A questi si aggiunge lo sviluppo di metodi che rendano possibile la conservazione in vitro delle cellule staminali emopoietiche, allo scopo sia di permettere la continuazione della ricerca sia di aumentare il numero delle cellule necessarie per la cura di diverse patologie44.

Attualmente45, il registro italiano di donatori di midollo osseo (IBMDR) conta 381.898 potenziali donatori iscritti e 34.500 unità di sangue cordonale, disponibili per la ricerca di donatori compatibili sia in Italia sia all’estero, a fronte dei 29.389.035 potenziali donatori e delle 724.007 unità cordonali disponibili nel mondo. Nel corso del 2016, sono stati eseguiti in Italia 779 trapianti da non consanguineo, di cui 29 da sangue cordonale, 240 da midollo osseo e 510 da sangue periferico46.