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Contro il mercato: le ragioni di un divieto

Le argomentazioni di coloro che si oppongono all’istituzione di un mercato degli organi possono essere raggruppate in due categorie: da un lato ci sono le critiche rivolte alle conseguenze della compravendita degli organi; dall’altro troviamo quelle dirette ai principi utilizzati dai sostenitori del mercato per affermarne la legittimità.

49 MARZIANI, Il corpo condiviso cit., pp. 128 e ss.

50 J. D. MAHONEY, Altruism, Markets, and Organ Procurement, “Law and Contemporary Problems”, 72

Secondo le critiche della prima tipologia, all’istituzione del mercato seguirebbe un incremento delle ingiustizie sociali: a causa della disuguaglianza con cui le risorse sono distribuite nelle società contemporanee, solo i più abbienti potranno beneficiare del mercato, con il rischio che le persone con un reddito basso diventino semplicemente delle “riserve di organi”. Inasprendo le disuguaglianze sociali, il mercato degli organi impedirebbe la realizzazione dall’ideale egualitario su cui si fonda la medicina dei trapianti51.

Neanche la proposta di un “mercato etico” sembra essere una valida soluzione, poiché va incontro a due principali obiezioni. Come visto sopra, l’eticità del mercato proposto da Harris ed Erin deriva dal fatto che esso sarebbe controllato da un unico compratore, il servizio sanitario nazionale, che provvede a distribuire gli organi in modo indipendente dalle possibilità finanziarie dei pazienti. Harris ed Erin, però, non spiegano che cosa garantisca che un monopsonio statale tuteli le persone più povere52 dalla coercizione o dallo sfruttamento. Non è automatico, infatti, che un mercato gestito a livello statale sia “etico”: per esempio, faremmo fatica a considerare “etico” un mercato controllato da uno stato promotore di politiche socioeconomiche che hanno portato alcuni cittadini a vendere i propri organi53.

La seconda critica rivolta alla proposta di Harris ed Erin è che essa può funzionare solo localmente: se il mercato etico venisse applicato su larga scala, i compensi finanziari differirebbero da paese a paese, favorendo un “turismo dei trapianti”. Molto probabilmente, i cittadini dei paesi in via di sviluppo diventerebbero delle riserve di organi per quelli degli stati più ricchi54.

Alcuni autori, tra cui Giovanni Berlinguer, hanno espresso la preoccupazione che un mercato di organi, anche se regolato, porterebbe all’affermazione di un vero e proprio “diritto di comprare”, basato sulla presunzione che tutto possa essere scambiato per denaro55. Di conseguenza, secondo Berlinguer, si arriverebbe al punto di pagare per

51 Questa posizione è stata sostenuta da diversi autori, tra i quali ricordiamo: G. BERLINGUER, Il corpo

come merce o come valore, in AA. VV., Questioni di bioetica, a cura di S. Rodotà, Editori Laterza, Roma-

Bari 1993, pp. 74-99; A. NAQVI and A. RIZVI, Against Paid Organ Donation, “Transplantation Proceedings”, 33 (2001), p. 2628; J. KOPLIN, Assessing the Likely Harms to Kidney Vendors in Regulated

Organ Markets, “The American Journal of Bioethics”, 10 (2014), pp. 7-18.

52 Qualcuno potrebbe obiettare che, se è la povertà ad essere un problema, allora si potrebbe legittimare il

mercato degli organi solo per chi si trova al di sopra di una certa soglia della povertà. Se l’obiettivo è incrementare il numero di organi disponibili questa, però, non sarebbe una soluzione efficace: così facendo si escluderebbe la categoria di persone da cui proviene la maggior parte dei venditori di organi, dato che una persona in salute e con un reddito medio difficilmente opterebbe per la vendita di un organo.

53 S. J. KERSTEIN, Are Kidney Markets Morally Permissible if Vendors do not Benefit?, “The American

Journal of Bioethics”, 10 (2014), pp. 29-30, qui p. 30.

54 S. J. WIGMORE et al., Defending the Indefensible?, “The British Medical Journal”, 325 (2002), pp. 835-

836, qui p. 835.

sottrarre un organo vitale ad un’altra persona o, addirittura, ad acquistare un corpo nella sua totalità: si favorirebbe, così, una “nuova schiavitù”, in cui bambini o persone del terzo mondo verrebbero comprati per essere usati come operai nei paesi industrializzati56.

Altri autori, facendo riferimento alla legislazione italiana, sostengono che, una volta che il corpo venisse paragonato ai beni economici e fosse ammessa la vendita delle sue parti, ad esso potrebbe essere applicato il concetto di “espropriabilità per pubblica utilità”. Ciò significa che, data la loro scarsità, gli organi sarebbero sottoposti alle pretese della collettività e immessi in una sorta di mercato obbligatorio nei confronti dello stato. In questo modo, non si rispetterebbe l’autonomia degli individui, ma la soddisfazione di una “pubblica utilità e necessità”, ovvero l’aumento del numero delle vite salvate, costituirebbe una motivazione sufficiente per giustificare tale pratica57.

Gli ultimi due argomenti rischiano di rientrare nella fallacia del “pendio scivoloso”: essi affermano che l’istituzione del mercato porterebbe, in modo inevitabile o quasi, a delle conseguenze riprovevoli ma, al tempo stesso, non forniscono ragioni a sostegno di questa inevitabilità. Sembra che questi argomenti, soprattutto quello di Berlinguer, si basino, in realtà, sul sentimento di ripugnanza che abbiamo sviluppato nei confronti della vendita di noi stessi e degli altri, “un sentimento che non c’è verso il dono di sé”58. È necessario,

però, distinguere questo sentimento, seppur condivisibile, da una effettiva ragione morale che possa giustificare l’illiceità di questa pratica59.

Assumiamo che dal mercato degli organi non derivino le conseguenze invocate dai suoi oppositori: chiediamoci, quindi, ci sono altre ragioni per cui esso non sia una soluzione moralmente accettabile. Adottando una prospettiva utilitarista, saremmo portati a rispondere negativamente: legittimare la vendita di parti del corpo, infatti, consentirebbe l’aumento del numero degli organi disponibili per i trapianti e, quindi, del numero di vite salvate. Ciò permetterebbe anche una diminuzione generale dei costi per la società, poiché le risorse utilizzate per permettere la dialisi dei pazienti in lista d’attesa o le loro cure a lungo termine potrebbero essere dirottate altrove.

Inoltre, l’istituzione di un mercato degli organi permetterebbe al singolo di decidere liberamente cosa fare dei propri organi: questo avverrebbe soprattutto nel caso in cui fosse promosso un sistema “misto”, che consentisse ai cittadini di scegliere, alternativamente, per la donazione o per la vendita degli organi. Secondo alcuni, questo schema avrebbe l’effetto di aumentare le donazioni, perché i cittadini considererebbero di grande valore

56 Ivi, pp. 89-90.

57 MARZIANI, Il corpo condiviso cit., pp. 132 e ss. 58 BERLINGUER, Il corpo come merce cit., p. 79. 59 SOMMMAGGIO, Merci umane?, pp. 99-100.

morale donare qualcosa che può essere, altrimenti, venduto60. Dall’altro lato, chi decidesse di vendere i propri organi riceverebbe, in cambio, del denaro con cui poter realizzare gli obiettivi che reputa importanti per la propria vita. Apparentemente, l’introduzione del mercato comporterebbe dei consistenti benefici sia al singolo cittadino sia alla società nel suo complesso.

In realtà, come fa notare Eugenio Lecaldano, chi sostiene la vendita degli organi compie un errore già all’inizio del proprio ragionamento, poiché utilizza in modo improprio il concetto di “proprietà”. Quella di “proprietà” è, secondo Lecaldano, una nozione convenzionale, utilizzata arbitrariamente per indicare il rapporto con un bene “esterno”, ovvero un rapporto soggetto a contrattazione. Risulta, però, difficile istituire una simile contrattazione con il proprio corpo: scegliamo di possedere o meno qualcosa, ma non scegliamo di avere un corpo61. La relazione con il nostro corpo è “intrinseca”, poiché esso non è una cosa come le altre, che possiamo scambiare o convertire, bensì è ciò che contribuisce a manifestare la nostra identità62. Di conseguenza, non è possibile giustificare la vendita degli organi sulla base del fatto che ogni individuo possiede il suo corpo.

Questo non significa che non si possa disporre del proprio corpo, ma, semplicemente, che questa disponibilità non deve essere considerata come una forma di proprietà63. “È evidente – sostiene l’autore - che, pure sostenendo che in generale, gli esseri umani possano disporre del proprio corpo, si può poi benissimo sottoscrivere l’affermazione che sia doveroso disporne secondo quelli che si ritengono dei principi morali relativi al suo uso”64. Di conseguenza, possiamo disporre del nostro corpo donando

le sue parti, ma non scambiandole per denaro.

Come abbiamo visto nel caso di Engelhardt, coloro che sostengono una concezione proprietaria del corpo si richiamano, in genere, al principio di autonomia, intendendolo come “piena sovranità” sul corpo. Ciò rende, secondo Lecaldano, la loro posizione ulteriormente fallace: essi, infatti, non riconoscono le problematiche insite nell’affermare che il soggetto che decide di vendere i propri organi agisce in modo autonomo. Il principio di autonomia si realizza nel momento in cui il soggetto agente è in grado di comprendere la situazione e, sulla base di ciò, di agire in modo intenzionale e libero, ovvero indipendente

60 SOMMAGGIO, Merci umane? cit., pp. 110 e ss.

61 E. LECALDANO, Bioetica: le scelte morali, Editori Laterza, Roma-Bari 1999, pp. 294-295.

62 A quanto detto si connette il problema, che ci limitiamo ad accennare, di stabilire se esista e quale sia la

sede corporea della nostra identità, ovvero quella parte del corpo la cui perdita comporterebbe la perdita della nostra identità. L’ipotesi più accreditata è che l’identità abbia sede nel cervello e che la rottura della continuità dell’io si verifichi nel momento in cui avviene la perdita della continuità fisica del cervello. Come abbiamo già avuto modo di sottolineare, però, questa posizione presenta diverse problematiche (cfr. p. 138, nota 30).

63 LECALDANO, Bioetica cit., pp. 291 e ss. 64 Ivi, p. 291.

da qualsiasi manipolazione o influenza coercitiva65. Nel caso di una persona che venda un proprio organo perché spinta dalla necessità di avere immediatamente in cambio del denaro, risulta difficile affermare che non siano presenti delle costrizioni implicite alla sua libertà di scelta e, quindi, delle limitazioni alla sua autonomia66. Sarebbe ingenuo ritenere

che chi opta per una decisione così drastica come quella di vendere una propria parte del corpo non versi in condizioni disperate e non abbia un’alternativa. Solitamente, infatti, i venditori di organi versano in condizioni di indigenza o vivono sotto la soglia della povertà, svolgono lavori sottopagati e sono, spesso, privi di un’educazione. Inoltre, essi vengono contattati da intermediari che difficilmente forniscono loro tutte le informazioni relative all’operazione a cui si sottopongono e alle sue conseguenze: tutto ciò mette decisamente in dubbio il fatto che il loro consenso sia libero e informato e che, quindi, questo gesto sia espressione della loro autonomia67.

Inoltre, non bisogna sottostimare l’istinto di conservazione che abbiamo nei confronti del nostro corpo, il quale rende psicologicamente difficile affrontare la perdita di una sua parte. Esso viene superato nelle donazioni da vivente, ma queste presentano delle caratteristiche tali da non poter essere paragonate alla vendita di un organo. Il prelievo di sangue e di midollo osseo coinvolge un materiale rigenerabile e non può essere paragonato al prelievo di un organo, il quale si configura, fisicamente e giuridicamente, come una mutilazione. Nel caso delle donazioni da vivente “standard”, il prelievo dell’organo è giustificato sulla base del legame di consanguineità o d’affetto tra donatore e ricevente: esso si configura come un atto di beneficenza nei confronti delle persone care. La donazione samaritana viene legittimata, nella sua eccezionalità, sulla base della relazione di interdipendenza tra gli esseri umani. In tutti questi casi, inoltre, ci si accerta che la decisione del donatore sia libera, informata e spontanea.

La maggior parte di queste caratteristiche non si applicano alla donazione post- mortem, ma ciò non significa che sia automaticamente possibile affermare la legittimità di un mercato degli organi da cadavere: come visto sopra, infatti, le proposte di incentivi finanziari post-mortem vanno incontro a delle problematiche che sembrano minare proprio l’autonomia del singolo.

65 BEAUCHAMP e CHILDRESS, Principi di etica biomedica cit., pp. 127 e ss.

66 “È infatti difficile non ammettere che da un punto di vista etico sia preferibile la situazione in cui l’espianto

viene eseguito senza minimamente costringere chi dà l’organo, ovvero la situazione in cui chi decide a favore della cessione dell’organo lo fa in piena autonomia. Ma proprio questa impostazione deve portarci a rifiutare una situazione in cui gli organi necessari sono stati procurati attraverso un acquisto diretto per denaro da persone che li hanno venduti. Ciò perché dobbiamo ritenere che c’è qualcosa che non va sotto il profilo dell’autonomia con la decisione di qualcuno di dare un proprio organo in cambio di denaro” (LECALDANO,

Bioetica cit., p. 292).

67 A. ADAIR and S. J. WIGMORE, Paid Organ Donation: the Case Against, “Annals of the Royal College

Nel caso in cui, per ipotesi, il gesto del venditore fosse consapevole e consensuale, sussisterebbe comunque un elemento che ci impedirebbe di legittimare il mercato degli organi sulla base del principio di autonomia: la vendita di un organo, infatti, ha come conseguenza quella di compromettere l’effettivo esercizio dell’autonomia dell’individuo agente. La maggior parte dei venditori di organi ha bisogno di denaro per ripagare i propri debiti, ma quello ricavato dalla vendita dell’organo spesso non è sufficiente per migliorare la situazione economica delle persone: dopo aver estinto i debiti, essi rimangono privi del denaro necessario per assicurarsi condizioni di vita migliori e finiscono per indebitarsi nuovamente. Nella maggior parte dei casi, inoltre, il venditore non viene sottoposto a follow-up post-operatorio o, comunque, non viene curato in modo adeguato: di conseguenza, in seguito al prelievo dell’organo si verifica un consistente deterioramento delle condizioni di salute del venditore. Ciò significa che l’individuo in questione spesso non è più in grado di svolgere un lavoro e, quindi, al deterioramento delle condizioni fisiche conseguono la riduzione del reddito familiare e un forte disagio psicologico68.

Affermare che la vendita degli organi garantisce il rispetto dell’autonomia dell’individuo è problematico e probabilmente fallace, poiché proprio l’esercizio di questa autonomia comporta una riduzione della capacità di agire autonomamente. Di conseguenza, vietare il commercio degli organi, limitando l’autonomia dei cittadini, sembra essere lo strumento necessario per garantire la preservazione dell’autonomia stessa. Fatte le opportune distinzioni, il divieto del commercio di organi può essere paragonato a quei divieti quotidiani (es. non guidare senza cintura o senza casco) che, sulla base del principio di non-maleficenza, hanno l’obiettivo di proteggere l’individuo da un danno che egli stesso potrebbe arrecarsi.

Alle critiche presentate fin qui, ne aggiungiamo un’ultima, la quale si ricollega alla riflessione sul dono fatta in precedenza. Come abbiamo visto, nella logica del mercato il legame sociale è semplicemente un mezzo in vista dello scambio dei beni: alla fine di questo scambio, i contraenti rimangono dei perfetti estranei, cioè non vengono arricchiti dall’incontro con l’altro. Nell’ottica del mercato, quindi, l’individuo viene considerato come un atomo e la sua relazione con gli altri un mero accordo contrattuale: il mercato, cioè, non sembra essere in grado di cogliere la specifica condizione ontologica dell’uomo, che è da sempre immerso in una complessa rete di relazione che determina la sua identità.

È stata proprio la dimensione relazionale dell’uomo che ci ha permesso di comprendere e di legittimare l’atto di cessione gratuita del proprio corpo, specialmente quello indirizzato a sconosciuti. Questa dimensione relazionale viene colta e mantenuta

dalla logica del dono, che ha come fine il legame, cioè ciò che contribuisce a renderci ciò che siamo. È Il dono che, ben lungi dall’acquisire il suo significato solo in quanto opzione alternativa al mercato, ci consente di comprendere l’esperienza del trapianto.

Conclusioni

Si è soliti riferirsi ai trapianti nei termini del “dono”, ma si tende a farlo in modo acritico, dando per scontato che questo concetto sia valido per descrivere tutte le diverse situazioni che si verificano in questo ambito. Questo lavoro si è posto come obiettivo quello di valutare la validità del paradigma del dono nell’ambito della medicina dei trapianti, in modo da mettere in luce le problematiche ad esso connesse.

Nella prima parte si è provveduto a fornire un inquadramento storico, scientifico e legislativo rispettivamente delle trasfusioni di sangue, del trapianto di cellule staminali emopoietiche e di quello di organi e tessuti. Questa analisi ha permesso di comprendere le ragioni storiche e scientifiche della nascita della medicina dei trapianti, l’evoluzione delle norme che ne hanno definito i confini e le sue caratteristiche attuali. L’analisi di questi elementi ha permesso, inoltre, di capire in che modo si è iniziato a parlare di “dono” in riferimento ai trapianti e quali sono le problematiche ad esso connesse. Tali problematiche sono di diversa natura: giuridica (es. l’ambiguità della legge 91/99 che disciplina attualmente i trapianti di organi e di tessuti); medica (es. le varie implicazioni immunologiche derivanti dal trapianto di organi o di cellule staminali emopoietiche); filosofica (es. il dibattito intorno ai criteri neurologici di accertamento della morte).

Nella seconda parte è stato analizzato il paradigma del dono, ed è stato posto l’accento sulle sue caratteristiche principali: la gratuità, intesa non come assenza di una restituzione bensì, rispettivamente, come spontaneità del donatore, assenza di un’utilità evidente e di un calcolo dei rischi e dei benefici alla base del gesto del dare; la doppia libertà, riferita sia al donatore sia al ricevente; la dimensione relazionale, che fa sì che il dono sia veramente fecondo nel momento in cui dona all’altro la possibilità di donare a sua volta.

Proprio la dimensione relazionale ci ha permesso di comprendere perché si possa parlare di “dono” in riferimento all’esperienza dei trapianti. La donazione di organi da vivente viene giustificata, infatti, sulla base del rapporto di consanguineità o d’affetto che intercorre tra donatore e ricevente. La donazione di sangue e di midollo osseo, generalmente indirizzate a sconosciuti, vengono giustificate sulla base della complessa rete di interdipendenze nella quale l’uomo è, da sempre, inserito e che contribuisce a determinare la sua identità. Il dono fatto ad un estraneo si inserisce nel flusso dei doni che vengono scambiati all’interno di questa rete di relazioni: esso rappresenta il modo in cui l’individuo restituisce alla collettività ciò che gli è stato donato nel corso della sua vita. La

donazione post-mortem rientra nel concetto di dono solo nel caso in cui il soggetto abbia deciso in vita, autonomamente e spontaneamente, di donare i propri organi dopo la sua morte: solo in questo caso, infatti, vengono conservate le caratteristiche del dono. Quando sono i familiari del paziente a decidere la futura destinazione degli organi, da un lato viene a mancare il consenso effettivo del donatore, cioè la sua decisione spontanea; dall’altro, è assente la dimensione “personale” che caratterizza il rapporto tra il donatore e il dono che egli fa.

In alcuni casi, il dono di sé fa sorgere delle cruciali problematiche bioetiche. É il caso dei Testimoni di Geova, che rifiutano il dono del sangue sulla base di motivazioni religiose: questo “dono rifiutato” comporta, infatti, un conflitto di interessi tra il diritto all’autodeterminazione del paziente e la responsabilità del medico. È il caso, inoltre, del “dono incondizionato” del donatore samaritano, il quale decide di donare, in vita, un organo ad uno sconosciuto. Secondo alcuni, tale gesto deriverebbe da un’instabilità psicologica del donatore, il quale, cioè, non sarebbe in grado di fornire il proprio consenso informato; secondo altri, poiché l’altruismo non è una motivazione abbastanza forte per giustificare questo atto, il donatore riceve in cambio, di nascosto, un compenso economico: di conseguenza, questa pratica favorirebbe la compravendita degli organi.

Un ulteriore problema sorgerebbe nel momento in cui entrasse in vigore il criterio del silenzio-assenso, previsto dalla legge 91/99 come strategia per aumentare il numero di organi disponibili per i trapianti. Sulla base di questo criterio, chi non avesse dichiarato le proprie volontà in merito alla donazione post-mortem sarebbe automaticamente considerato, dopo la sua morte, un “donatore” di organi. Tale criterio interferirebbe in modo discutibile con il diritto dell’individuo all’autodeterminazione di sé: da un lato,