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End of waste: da rifiuto a risorsa. Una Leonia differente è possibile?

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di laurea

End of waste: da rifiuto a risorsa.

Una Leonia differente è possibile?

Il Candidato: Il Relatore: Luisa Ciulli Prof.ssa Ilaria Lolli

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“Nulla si crea, nulla si distrugge,

tutto si trasforma”

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INDICE

INTRODUZIONE ... 4

CAPITOLO PRIMO RIFIUTI 1. Definizione di rifiuto ... 7

2. Classificazione dei rifiuti ... 10

3. Principi della gestione dei rifiuti ... 18

3.1. Gerarchia della gestione dei rifiuti ... 26

3.1.1. Prevenzione della produzione dei rifiuti ... 30

3.1.2. Riutilizzo di prodotti e preparazione per il riutilizzo dei rifiuti ... 35

3.1.3. Riciclaggio e recupero dei rifiuti ... 38

3.1.4. Smaltimento dei rifiuti ... 43

4. Economia circolare ... 45

CAPITOLO SECONDO END OF WASTE 1. Definizione di End of Waste ... 52

2. Il recupero dei rifiuti secondo il decreto legislativo 5 febbraio 1997 n. 22 (Decreto Ronchi) ... 53

3. La normativa di attuazione del decreto Ronchi: il d.m. 5 febbraio 1998 ... 57

4. Il recupero dei rifiuti secondo l’art. 181 del decreto legislativo n. 152/2006 nella sua versione originaria ... 59

5. Il recupero dei rifiuti secondo l’art. 181 e 181-bis del decreto legislativo n. 152/2006 a seguito delle modifiche introdotte con il decreto legislativo n. 4/2008 ... 61

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6. Il recupero dei rifiuti secondo l’art. 184-ter del d.lgs. n. 152/2006: le

modifiche apportate dal d.lgs. n. 205/2010 ... 65

7. L’art. 184-ter del d.lgs. n. 152/2006 e le modifiche intervenute dopo il 2010 ... 67

8. Il caso Contarina Spa: le sentenze TAR Veneto, sez. III, n. 01422/2016 e Consiglio di Stato, sez. IV, n. 1229 del 28 febbraio 201869 9. La Sentenza C-60/18 del 28 marzo 2019 della Corte di giustizia dell’Unione Europea ... 76

10. L’art. 184-ter nel decreto c.d. “Sblocca cantieri” (decreto legge n. 32 del 18 aprile 2019) ... 82

11. L’art. 184-ter nella legge n. 128 del 2 novembre 2019 ... 85

12. Sottoprodotti ... 91

13. Sottoprodotti ed End of Waste: confronto tra le due discipline ... 98

CAPITOLO TERZO AUTORIZZAZIONI E CONTROLLI PER L’END OF WASTE 1. Art. 184-ter comma 1. Le Linee Guida SNPA ... 100

2. Art. 184-ter, comma 2: il controllo dei rifiuti come recupero ... 105

3. Art. 184-ter, comma 3: i criteri per il rilascio delle autorizzazioni in assenza di norme comunitarie o di decreti del MATTM ... 106

4. Linee guida SNPA: Criteri condivisi per attività di supporto tecnico alle agenzie in fase di istruttoria nel rilascio dell’autorizzazione ... 109

4.1. Aspetti tecnico-impiantistici e gestionali da valutare in fase di istruttoria ... 111

4.2. Adempimenti previsti dalla normativa in materia di sostanze chimiche e prodotti ... 115

4.3. Attività sperimentali per la definizione della cessazione della qualifica di rifiuto ... 117

5. Linee guida SNPA: Criteri condivisi per l’attività di controllo ... 119

5.1. Preparazione dell’ispezione ... 121

5.2. Esecuzione dell’ispezione ... 122

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5.3. Controlli sul processo di recupero ... 127

5.4. Controlli sui prodotti in uscita ... 130

CAPITOLO QUARTO REGOLAMENTI E DECRETI END OF WASTE 1. Regolamenti europei end of waste ... 137

1.1. Rottami metallici (regolamento 333/2011/UE) ... 137

1.2. Vetro (regolamento 1179/2012/UE) ... 141

1.3. Rame (regolamento 715/2013/UE) ... 147

2. Decreti ministeriali emanati dal Ministero dell’Ambiente specifici per l’end of waste ... 150

2.1. Combustibile solido secondario (D.M. 14/02/2013 n. 22) ... 151

2.2. Conglomerato bituminoso (D.M. 28/03/2018 n. 69) ... 161

2.3. Prodotti assorbenti per la persona (D.M. 15/05/2019 n.62) ... 164

2.4. Gomma vulcanizzata (D.M. 182/2019) ... 167

3. Prossimi decreti end of waste ... 172

CONCLUSIONI 1. L’end of waste apre le porte ad una Leonia differente... 177

BIBLIOGRAFIA ... 185

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INTRODUZIONE

Ne “Le città invisibili” Italo Calvino parla di Leonia come di una città in cui ogni giorno vengono gettati via quantitativi enormi di rifiuti per far spazio ad oggetti nuovi al fine di dimostrarne l’opulenza, in più, Calvino stesso si interroga se il vero motivo sia quello o il ripulirsi la coscienza da una qualche impurità.

Leonia è un luogo in cui non ci si chiede dove vadano a finire i rifiuti, ma si vuole soltanto che chi se ne occupa li faccia sparire dalla città.

Se rapportiamo questa storia a ciò che accade oggi, potremmo pensare all’effetto “NIMBY” (not in my back yard) che Treccani definisce come «opposizione di uno o più membri di una comunità locale a ospitare opere di interesse generale sul proprio territorio, pur riconoscendone, a volte, la desiderabilità sociale» (ad esempio impianti di recupero dei rifiuti), infatti a Leonia non c’è interesse a gestire in maniera virtuosa il ciclo dei rifiuti, ma c’è interesse solo a sbarazzarsene e ad allontanarli dal proprio giardino. Nell’ottica di un’economia circolare e di uno sviluppo sostenibile, non possiamo far altro che ricondurci al settore dei rifiuti ed analizzarne la disciplina, in particolar modo esaminando l’ambito del recupero ed il momento in cui un rifiuto cessa di essere tale e torna ad avere un ruolo

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utile per la società, evitando quello che viene comunemente definito “spreco di risorse”.

Questo elaborato intende analizzare il processo di recupero dei rifiuti, nello specifico la casistica dell’end of waste, trattando inizialmente che cosa è un rifiuto e come viene gestito, in particolare soffermandosi sui principi e sulla gerarchia.

Successivamente entra nel vivo della disciplina dell’end of waste, ricostruendone l’iter legislativo dagli anni ’90 ad oggi, partendo dal decreto legislativo n. 22/1997 (Decreto Ronchi), passando per il decreto legislativo n. 152/2006 (testo unico ambientale), con annesse modifiche dei decreti legislativi n. 4/2008, n. 205/2010, del decreto legge n.32/2019 (Sblocca cantieri) ed arrivando alla legge n. 128/2019, per poi analizzare il processo di ottenimento delle autorizzazioni per aprire centri di recupero dei rifiuti e le indicazioni che devono seguire le autorità per svolgere i controlli. Infine troviamo i regolamenti europei ed i decreti italiani emanati sino ad oggi per specifiche tipologie di rifiuti.

Le motivazioni che mi hanno spinta ad approfondire tale tema nascono da un interesse sviluppato durante il mio percorso di studi in cui mi sono avvicinata al settore ambientale e l’ho amato grazie alla passione che mi è stata trasmessa dai vari docenti; inoltre, le vicende che stanno colpendo il nostro pianeta negli ultimi anni mi hanno portata a chiedermi quale fosse

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il contributo che avrei potuto offrire e come avrei potuto far vedere anche agli altri una risorsa dove spesso non viene visto altro che un rifiuto. Possiamo trovare un valore in un bene di cui ci disfiamo? Può qualcosa che non è più utile per qualcuno diventare un’immensa risorsa per qualcun altro?

A queste domande proveremo a trovare risposta nel corso del lavoro che segue.

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CAPITOLO PRIMO

RIFIUTI

1. Definizione di rifiuto

La normativa che disciplina i rifiuti a livello nazionale è il decreto legislativo del 3 aprile 2006 n. 152, precisamente la Parte Quarta, intitolata “Norme in materia di gestione dei rifiuti e di bonifica dei siti inquinati”, a cui si affiancano disposizioni specifiche conformi ai principi di tale parte ed adottate in attuazione delle direttive comunitarie che disciplinano la gestione di determinate categorie di rifiuti.

Ai sensi dell’art. 183, comma 1, lett. a) del d.lgs. n. 152/2006 si intende per rifiuto «qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o abbia l'obbligo di disfarsi».

Tale definizione riprende quella riportata nella Direttiva 2008/98/CE all’art. 31, che deve essere letta alla luce della finalità generale della

normativa sui rifiuti, secondo cui occorre limitare le conseguenze negative e i danni collegati ai rifiuti stessi tutelando la salute umana e l’ambiente.

1 Tale articolo, al paragrafo 1, dispone che “ai fini della presente direttiva si intende per: 1) «rifiuto» qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”.

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Dalla lettura di tale articolo si possono evincere tre criteri: - Criterio fattuale: il disfarsi

- Criterio soggettivo: avere l’intenzione di disfarsi - Criterio normativo: l’avere l’obbligo di disfarsi

Il «termine "disfarsi" (da sempre utilizzato dal legislatore europeo) è diverso da quello di "abbandono", inizialmente utilizzato dal legislatore italiano del 1982 per definire il rifiuto ( D.P.R. 10 settembre 1982, n. 915, art. 2); e tuttavia per quanto il primo termine evochi meglio il concetto della inutilità della cosa che non risponde più alle esigenze e agli interessi del suo detentore, ciò nondimeno la giurisprudenza della Corte di Cassazione non ha mancato di evidenziare la sostanziale equivalenza dei due termini, nel senso che "oggetto abbandonato o destinato all'abbandono" deve essere a inteso non nel senso civilistico di "res nullius" o di "res derelicta", disponibile all'apprensione di chiunque, sebbene di oggetto ormai inservibile, dismesso o destinato ad essere dismesso da colui che lo possiede, anche mediante un negozio giuridico2».

Dunque, secondo il criterio fattuale, per “disfarsi” è da intendersi un comportamento materiale oggettivamente apprezzabile.

Ancora sul punto soccorre la Cassazione: «Indice rivelatore dell'intenzione di disfarsi – ove essa non si sia sostanziata, in modo di per

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sé incompatibile con un altro diverso atteggiamento della volontà, in un abbandono da parte del detentore e nella conseguente perdita di ogni possibilità di suo controllo su detti beni – potrà essere, oltre alla tipologia di essi, la modalità con la quale i detti materiali sono depositati. È, infatti, di tutta evidenza che un deposito di materiali che già hanno esaurito la loro utilità principale secondo modalità che non fanno ritenere che gli stessi siano più suscettibili di fornirne una ulteriore, lascia legittimamente presumere all'interprete che di questi il detentore si sia in tal modo disfatto ovvero abbia l'intenzione di disfarsene3».

L’intenzione di disfarsi riguarda il criterio soggettivo, per cui siamo di fronte ad un comportamento non ancora giunto all’azione del disfarsi. Per interpretare la disposizione di cui all’art. 183 del d.lgs. 152/2006, si potrebbe richiamare l’art. 56 del codice penale, che, come è noto, disciplina il delitto tentato4. Utilizzando gli stessi criteri previsti dalla

norma penalistica, si potrebbe infatti concludere che l’intenzione di disfarsi si realizza quando il detentore del rifiuto compia un atto idoneo e diretto in modo non equivoco a disfarsi di una sostanza o un oggetto5.

3 Cassazione Penale, sez. III, 8/07/2015, n. 29069

4 Art. 56 codice penale, comma 1 «Chi compie atti idonei, diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, risponde di delitto tentato, se l'azione non si compie o l'evento non si verifica»

5 Come sottolinea De Francesco nel manuale di diritto penale, DE FRANCESCO G., Diritto penale 2. Forme del reato, Torino, G. Giappichelli editore, 2013, pp. 80 ss. il tentativo si configura come fattispecie in cui la sfera oggettiva è rimasta incompleta, perché, al di là della volontà colpevole, l'ipotesi delittuosa prevista dalla norma è realizzata solo in parte. Tale situazione diventa punibile al ricorrere dei due requisiti: idoneità e univocità.

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L’obbligo di disfarsi riguarda, invece, il criterio normativo, per cui vi è una norma che obbliga il detentore a disfarsi di una sostanza o un oggetto. L’art. 183, comma 1, lett. a) parla di detentore, ossia, secondo la lettera h) il «produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso». A sua volta leggendo quest’ultima in combinato disposto con la lettera f), il produttore è «il soggetto la cui attività produce rifiuti e il soggetto al quale sia giuridicamente riferibile detta produzione (produttore iniziale) o chiunque effettui operazioni di pretrattamento, di miscelazione o altre operazioni che hanno modificato la natura o la composizione di detti rifiuti (nuovo produttore)».

2. Classificazione dei rifiuti

Ai sensi dell’art. 184, comma 1, del d.lgs. n. 152/2006 i rifiuti vengono classificati in base all’origine ed in base alle caratteristiche di pericolo, per cui «Ai fini dell'attuazione della parte quarta del presente decreto i rifiuti sono classificati, secondo l'origine, in rifiuti urbani e rifiuti speciali e,

Per idoneità, si intende che gli atti posti in essere dal soggetto devono essere in grado di causare offesa al bene giuridico tutelato.

Per univocità si intende che l'azione o l'omissione devono far trasparire con certezza l'intento delittuoso e che le modalità di attuazione devono integrare in maniera non equivoca un fatto tipico o costituire almeno un atto collegato e di anticipazione certa di fatti rientrati nel disegno criminoso del soggetto.

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secondo le caratteristiche di pericolosità, in rifiuti pericolosi e rifiuti non pericolosi».

Per quanto riguarda la classificazione in base all’origine, il comma 2 dell’art. 184 del d.lgs. n. 152/2006 prevede che «sono rifiuti urbani:

a) i rifiuti domestici, anche ingombranti, provenienti da locali e luoghi adibiti ad uso di civile abitazione;

b) i rifiuti non pericolosi provenienti da locali e luoghi adibiti ad usi diversi da quelli di cui alla lettera a), assimilati ai rifiuti urbani per qualità e quantità, ai sensi dell'articolo 198, comma 2, lettera g);

c) i rifiuti provenienti dallo spazzamento delle strade;

d) i rifiuti di qualunque natura o provenienza, giacenti sulle strade ed aree pubbliche o sulle strade ed aree private comunque soggette ad uso pubblico o sulle spiagge marittime e lacuali e sulle rive dei corsi d'acqua;

e) i rifiuti vegetali provenienti da aree verdi, quali giardini, parchi e aree cimiteriali;

f) i rifiuti provenienti da esumazioni ed estumulazioni, nonché gli altri rifiuti provenienti da attività cimiteriale diversi da quelli di cui alle lettere b), c) ed e)».

A sua volta, secondo quanto prevede il comma 3, «sono rifiuti speciali:

a) i rifiuti da attività agricole e agro-industriali, ai sensi e per gli effetti dell’art. 2135 c.c.;

b) i rifiuti derivanti dalle attività di demolizione, costruzione, nonché i rifiuti che derivano dalle attività di scavo, fermo restando quanto disposto dall'articolo 184-bis;

c) i rifiuti da lavorazioni industriali; d) i rifiuti da lavorazioni artigianali; e) i rifiuti da attività commerciali; f) i rifiuti da attività di servizio;

g) i rifiuti derivanti dalla attività di recupero e smaltimento di rifiuti, i fanghi prodotti dalla potabilizzazione e da altri trattamenti delle acque e dalla depurazione delle acque reflue e da abbattimento di fumi;

h) i rifiuti derivanti da attività sanitarie».

Per quanto concerne la classificazione in base alle caratteristiche di pericolo, il comma 4 dell’art. 184 del d.lgs. n. 152/2006 dispone che «sono rifiuti pericolosi quelli che recano le caratteristiche di cui all’allegato I

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della parte quarta del presente decreto», da leggere in combinato disposto con l’Allegato III della direttiva 2008/98/CE6 con cui sono individuate le

caratteristiche di pericolo attribuite ai rifiuti ed i criteri per la loro valutazione, per cui vengono definiti:

- «HP 1 «Esplosivo»:

rifiuto che può, per reazione chimica, sviluppare gas a una temperatura, una pressione e una velocità tali da causare danni nell'area circostante. Sono inclusi i rifiuti pirotecnici, i rifiuti di perossidi organici esplosivi e i rifiuti autoreattivi esplosivi.

- HP 2 «Comburente»:

rifiuto capace, in genere per apporto di ossigeno, di provocare o favorire la combustione di altre materie.

- HP 3 «Infiammabile»:

- rifiuto liquido infiammabile rifiuto liquido il cui punto di infiammabilità è inferiore a 60 °C oppure rifiuto di gasolio, carburanti diesel e oli da riscaldamento leggeri il cui punto di infiammabilità è superiore a 55 °C e inferiore o pari a 75 °C;

- rifiuto solido e liquido piroforico infiammabile rifiuto solido o liquido che, anche in piccole quantità, può infiammarsi in meno di cinque minuti quando entra in contatto con l'aria;

- rifiuto solido infiammabile rifiuto solido facilmente infiammabile o che può provocare o favorire un incendio per sfregamento;

- rifiuto gassoso infiammabile rifiuto gassoso che si infiamma a contatto con l'aria a 20 °C e a pressione normale di 101,3 kPa;

- rifiuto idroreattivo rifiuto che, a contatto con l'acqua, sviluppa gas infiammabili in quantità pericolose;

- altri rifiuti infiammabili aerosol infiammabili, rifiuti autoriscaldanti infiammabili, perossidi organici infiammabili e rifiuti autoreattivi infiammabili.

- HP 4 «Irritante - Irritazione cutanea e lesioni oculari»:

rifiuto la cui applicazione può provocare irritazione cutanea o lesioni oculari.

- HP 5 «Tossicità specifica per organi bersaglio (STOT)/Tossicità in caso di aspirazione»:

rifiuto che può causare tossicità specifica per organi bersaglio con un'esposizione singola o ripetuta, oppure può provocare effetti tossici acuti in seguito all'aspirazione.

- HP 6 «Tossicità acuta»:

rifiuto che può provocare effetti tossici acuti in seguito alla somministrazione per via orale o cutanea, o in seguito all'esposizione per inalazione.

- HP 7 «Cancerogeno»:

rifiuto che causa il cancro o ne aumenta l'incidenza. - HP 8 «Corrosivo»:

rifiuto la cui applicazione può provocare corrosione cutanea. - HP 9 «Infettivo»:

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rifiuto contenente microrganismi vitali o loro tossine che sono cause note, o a ragion veduta ritenuti tali, di malattie nell'uomo o in altri organismi viventi.

- HP 10 «Tossico per la riproduzione»:

rifiuto che ha effetti nocivi sulla funzione sessuale e sulla fertilità degli uomini e delle donne adulti, nonché sullo sviluppo della progenie.

- HP 11 «Mutageno»:

rifiuto che può causare una mutazione, ossia una variazione permanente della quantità o della struttura del materiale genetico di una cellula.

- HP 12 «Liberazione di gas a tossicità acuta»:

rifiuto che libera gas a tossicità acuta (Acute Tox. 1, 2 o 3) a contatto con l'acqua o con un acido.

- HP 13 «Sensibilizzante»:

rifiuto che contiene una o più sostanze note per essere all'origine di effetti di sensibilizzazione per la pelle o gli organi respiratori.

- HP 14 «Ecotossico»:

rifiuto che presenta o può presentare rischi immediati o differiti per uno o più comparti ambientali.

- HP 15 «Rifiuto che non possiede direttamente una delle caratteristiche di pericolo summenzionate ma può manifestarla successivamente». Il rifiuto che contiene una o più sostanze contrassegnate con una delle indicazioni di pericolo o con una delle informazioni supplementari sui pericoli figuranti nella tabella 9 è classificato come rifiuto pericoloso con il codice HP 15, a meno che si presenti sotto una forma tale da non potere in nessun caso manifestare caratteristiche esplosive o potenzialmente esplosive. Tabella 9 — Indicazioni di pericolo e informazioni supplementari sui pericoli per i componenti di rifiuti ai fini della classificazione dei rifiuti come rifiuti pericolosi di tipo HP 15».

Al comma 5 del d.lgs. n. 152/2006 è disposto che «l’elenco dei rifiuti di cui all’allegato D alla parte quarta del presente decreto include i rifiuti pericolosi e tiene conto dell’origine e della composizione dei rifiuti e, ove necessario, dei valori limite di concentrazione delle sostanze pericolose. Esso è vincolante per quanto concerne la determinazione dei rifiuti da considerare pericolosi. L’inclusione di una sostanza o di un oggetto nell’elenco non significa che esso sia un rifiuto in tutti i casi, ferma restando la definizione di cui all’ articolo 183. Con decreto del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, da adottare entro

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centottanta giorni dalla data di entrata in vigore dalla presente disposizione, possono essere emanate specifiche linee guida per agevolare l’applicazione della classificazione dei rifiuti introdotta agli allegati D e I.»

L’allegato D è a leggere in combinato disposto con la direttiva 2014/955/UE che ha introdotto il «Nuovo Elenco Europeo dei Rifiuti», per cui i rifiuti vengono identificati, a cura del produttore, mediante un codice a sei cifre7. Ogni rifiuto ha un codice specifico, che lo segue dal

momento in cui viene prodotto, al momento in cui arriva alla sua destinazione finale. I rifiuti pericolosi sono contrassegnati da un asterisco (ad esempio: XX.YY.ZZ*), a meno che non si applichi l’art. 208 della

direttiva 2008/98/CE che disciplina l’applicazione di semplificazioni nell’applicazione delle disposizioni normative per quanto riguarda i rifiuti pericolosi prodotti da nuclei domestici.

Per identificare il rifiuto è necessario seguire delle fasi, così suddivise: - Fase 1: Identificazione della fonte che genera il rifiuto consultando

i capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 per risalire al codice a sei cifre

7 Codice CER o EER

8 Art. che così dispone «Gli articoli 17, 18, 19 e 35 non si applicano ai rifiuti non differenziati prodotti da nuclei domestici. Gli articoli 19 e 35 non si applicano alle frazioni separate di rifiuti pericolosi prodotti da nuclei domestici fino a che siano accettate per la raccolta, lo smaltimento o il recupero da un ente o un’impresa che abbiano ottenuto l’autorizzazione o siano registrati in conformità degli articoli 23 o 26.»

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riferito al rifiuto in questione, ad eccezione dei codici dei suddetti capitoli che terminano con le cifre 99.

- Fase 2: Se nessuno dei codici dei capitoli da 01 a 12 o da 17 a 20 si presta per la classificazione di un determinato rifiuto, occorre esaminare i capitoli 13, 14 e 15 per identificare il codice corretto. - Fase 3: Se nessuno dei codici precedenti risulta adeguato, occorre

definire il rifiuto utilizzando i codici di cui al capitolo 16.

- Fase 4: Se un rifiuto non è classificabile neppure con i codici del capitolo 16, occorre utilizzare il codice 99 (rifiuti non specificati altrimenti), preceduto dalle cifre del capitolo che corrisponde all’attività identificata nella Fase 1.

La decisione 955/2014/UE dispone che per la valutazione delle caratteristiche di pericolo dei rifiuti, per le caratteristiche di pericolo HP 4, HP 6 e HP 8, ai fini della valutazione si applicano i valori soglia per le singole sostanze come indicato nel regolamento 1357/2014/UE.

Se una sostanza è presente nei rifiuti in quantità inferiori al valore soglia non viene presa in considerazione.

Nel caso in cui una caratteristica di pericolo di un rifiuto sia stata valutata sia tramite prova, sia utilizzando la concentrazione di sostanze pericolose, come indicato nel regolamento, prevale il risultato della prova.

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Per alcuni rifiuti l’elenco dei codici prevede i «codici a specchio», ossia la possibilità che al rifiuto sia assegnato un codice di rifiuto pericoloso o non pericoloso. In questo caso:

- L’iscrizione di una voce nell’elenco di rifiuti contrassegnata come pericolosa, con un riferimento specifico o generico a “sostanze pericolose”, è opportuno soltanto quando questo rifiuto contiene sostanze pericolose pertinenti che determinano nel rifiuto uno o più caratteristiche di pericolo da HP 1 a HP 8 e/o da HP 10 ad HP 15. La valutazione della caratteristica di pericolo HP 9 “Infettivo” deve essere effettuata conformemente alla legislazione pertinente o ai documenti di riferimento negli Stati membri.

- Una caratteristica di pericolo può essere valutata utilizzando la concentrazione di sostanze nei rifiuti, come specificato nell’Allegato III della direttiva 2008/98/CE, o, se non diversamente specificato nel regolamento CE n. 1272/2008, eseguendo una prova conformemente al regolamento CE n. 440/2008 o altri metodi di prova e linee guida riconosciuti a livello internazionale, tenendo conto dell’art. 7 del regolamento CE n. 1272/20089 per quanto

riguarda la sperimentazione animale e umana.

9 «1. Quando sono realizzate nuove prove ai fini del presente regolamento, le prove su animali ai sensi della direttiva 86/609/ CEE sono effettuate soltanto se non esistono alternative che offrano adeguata attendibilità e qualità dei dati.

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- I rifiuti contenenti dibenzo-p-diossine e i dibenzofurani policlorurati (PCDD/PCDF), DDT, clorano, esaclorocicloesani, dieldrin, endrin, eptacloro, esaclorobenzezene, clordecone, aldrin, pentaclorobenzene, mirex, toxafene esabromobifilene e/o PCB in quantità superiori ai limiti di concentrazione indicati nell’Allegato IV del Regolamento (UE) 2019/1021, che ha rifuso il previgente regolamento CE n. 850/2004, richiamato dalla normativa sui rifiuti, devono essere classificati come pericolosi.

- I limiti di concentrazione di cui all’Allegato III della direttiva 2008/98/CE non sono applicabili alle leghe di metalli puri in forma massiva (non contaminati da sostanze pericolose). I residui di leghe che sono considerati rifiuti pericolosi sono indicati nell’Allegato della Decisione 955/2014/UE e sono contrassegnati con un asterisco.

- Se occorre, nel momento di stabilire le caratteristiche di pericolo dei rifiuti, possono essere prese in considerazione le note 1.1.3.1. e 1.1.3.2. contenute nell’Allegato VI del Regolamento CE n. 1272/2008.

3. Ai fini del presente regolamento non sono effettuate prove su esseri umani. I dati ricavati da altre fonti, quali studi clinici, possono tuttavia essere utilizzati ai fini del presente regolamento.»

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Tutte le altre voci nell’elenco dei rifiuti sono considerate rifiuti non pericolosi.

Inoltre, ai sensi dell’art.184 comma 5-ter «la declassificazione da rifiuto pericoloso a rifiuto non pericoloso non può essere ottenuta attraverso una diluizione o una miscelazione del rifiuto che comporti una riduzione delle concentrazioni iniziali di sostanze pericolose sotto le soglie che definiscono il carattere pericoloso del rifiuto».

3. Principi della gestione dei rifiuti

L’art. 178 del d.lgs. n. 152/2006 afferma che la gestione dei rifiuti deve essere effettuata in modo conforme ai principi di:

- precauzione - prevenzione - sostenibilità - proporzionalità

- responsabilizzazione e cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo dei beni da cui originano i rifiuti

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La stessa disposizione prevede inoltre, che la gestione sia effettuata secondo «criteri di efficacia, efficienza, economicità, trasparenza, fattibilità tecnica ed economica, nonché nel rispetto delle norme vigenti in materia di partecipazione e di accesso alle informazioni ambientali». Il principio di precauzione nasce negli anni ’70 con i primi movimenti ambientalisti ed ecologisti e verrà poi inserito fra i principi della Dichiarazione di Rio dei Janeiro, adottata in seno alla Conferenza sull’Ambiente e sullo Sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite di Rio de Janeiro del 1992. Al Principio 15 della Dichiarazione si legge infatti che «al fine di proteggere l'ambiente, gli Stati applicheranno largamente, secondo le loro capacità, il Principio di precauzione. In caso di rischio di danno grave o irreversibile, l'assenza di certezza scientifica assoluta non deve servire da pretesto per differire l'adozione di misure adeguate ed effettive, anche in rapporto ai costi, dirette a prevenire il degrado ambientale».

L’ Unione Europea, nel 2000, con la Comunicazione della Commissione sul principio di precauzione afferma che «il principio di precauzione non è definito dal trattato che ne parla esplicitamente solo in riferimento alla protezione dell’ambiente, ma la Commissione ritiene che la sua portata sia, in pratica, molto più ampia e si estenda anche alla salute umana, animale e vegetale. La Commissione sottolinea che il principio di

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precauzione dovrebbe essere considerato nell’ambito di una strategia strutturata di analisi dei rischi, comprendente valutazione, gestione e comunicazione del rischio stesso […]».

Sempre secondo la Commessione «Il principio di precauzione trova applicazione qualora i dati scientifici siano insufficienti, inconcludenti o incerti e la valutazione scientifica indichi che possibili effetti possano essere inaccettabili ed incoerenti con l’elevato livello di protezione prescelto dall’Unione Europea».

Tale principio consiste in una strategia di gestione del rischio nei casi in cui si evidenzino indicazioni di effetti negativi sull’ambiente o sulla salute degli esseri umani, degli animali e delle piante, ma non vi siano dati disponibili che consentano una valutazione completa del rischio.

L’applicazione del principio di precauzione richiede tre elementi cardine: - Identificare i rischi potenziali;

- Effettuare una valutazione scientifica basata su tutti i dati esistenti; - Mancanza di una certezza scientifica che permetta l’esclusione

ragionevole della presenza dei rischi identificati.

Inoltre, le misure adottate possono essere varie, ma devono essere proporzionate al livello di protezione ricercato e prese a seguito dell’esame dei vantaggi e degli oneri che ne derivano e di un’analisi costi/benefici.

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Tali misure sono mantenute finché non ci sono dati scientifici sufficienti e sono ritenute provvisorie e modificabili10.

Il principio di prevenzione, contrariamente al principio di precauzione, trova applicazione nel momento in cui vi siano la certezza o un rischio probabile di un danno alla salute umana o all’ambiente in caso di mancato intervento.

In materia di gestione dei rifiuti l’applicazione del principio di prevenzione, secondo quanto prevede l’art.180, dovrebbe evitare, a monte, la produzione dei rifiuti o a ridurne la pericolosità11. Sul punto torneremo

(v. infra par. 3.2).

Il principio di sostenibilità è stato definito per la prima volta nel “Rapporto Brundtland” del 1987 e poi ripreso dalla Conferenza mondiale sull’ambiente e sullo sviluppo sostenibile dell’ONU per cui «lo sviluppo sostenibile è uno sviluppo che soddisfa i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri bisogni».

Nel d.lgs. n. 152/2006 tale principio è disciplinato nell’art. 3-quater secondo cui «ogni attività umana giuridicamente rilevante ai sensi del presente codice deve conformarsi al principio dello sviluppo sostenibile,

10 BLASIZZA E. (a cura di), Ambiente 2019. Manuale normo – tecnico., Blasizza Erica, Milano, Wolters Kluwer, 2019, pp. 31-33

11 DE LEONARDIS F., Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Rivista quadrimestrale di diritto dell'ambiente, 2/2011

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al fine di garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non possa compromettere la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future.

Anche l'attività della pubblica amministrazione deve essere finalizzata a consentire la migliore attuazione possibile del principio dello sviluppo sostenibile, per cui nell'ambito della scelta comparativa di interessi pubblici e privati connotata da discrezionalità gli interessi alla tutela dell'ambiente e del patrimonio culturale devono essere oggetto di prioritaria considerazione.

Data la complessità delle relazioni e delle interferenze tra natura e attività umane, il principio dello sviluppo sostenibile deve consentire di individuare un equilibrato rapporto, nell'ambito delle risorse ereditate, tra quelle da risparmiare e quelle da trasmettere, affinché nell'ambito delle dinamiche della produzione e del consumo si inserisca altresì il principio di solidarietà per salvaguardare e per migliorare la qualità dell'ambiente anche futuro».

Inoltre, nel 2015, l’Assemblea generale delle Nazioni unite ha adottato, all’unanimità, l’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile in cui sono stati inseriti 17 obiettivi di sviluppo sostenibile e 169 sotto-obiettivi che

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riguardano tutte le dimensioni della vita umana e del pianeta che dovranno essere raggiunti da tutti i paesi del mondo entro il 203012.

Il principio di proporzionalità dispone che ogni provvedimento utilizzato dalla pubblica amministrazione deve essere necessario e commisurato al raggiungimento dello scopo prefissato dalla legge, per cui quando sia possibile operare una scelta tra più mezzi alternativi, tutti ugualmente idonei al raggiungimento dello stesso scopo, va preferito quello che determini un minor sacrificio per il destinatario.

Tale principio è disciplinato dall’art. 5 del Trattato sull’Unione Europea per cui «in virtù del principio di proporzionalità, il contenuto e la forma dell'azione dell'Unione si limitano a quanto necessario per il conseguimento degli obiettivi dei trattati.

Le istituzioni dell'Unione applicano il principio di proporzionalità conformemente al protocollo sull'applicazione dei principi di sussidiarietà e di proporzionalità».

Il principio di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell'utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti dispone che la responsabilità per la corretta gestione dei rifiuti grava su tutti i soggetti coinvolti nella loro produzione,

12 L’obiettivo che riguarda da vicino gli argomenti in trattazione è l’Obiettivo n. 12, che, «in attuazione del quadro decennale dei programmi su modelli di consumo e di produzione sostenibili mira alla gestione ecologica dei prodotti chimici e di tutti i rifiuti, nonché a una sostanziale riduzione della produzione di rifiuti attraverso misure quali il riciclaggio.»

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detenzione, trasporto e smaltimento e tale principio va letto in combinato disposto con il principio del “chi inquina paga” e con l’art. 188 del d.lgs. n. 152/2006 per cui «il produttore iniziale o altro detentore di rifiuti provvedono direttamente al loro trattamento, oppure li consegnano ad un intermediario, ad un commerciante, ad un ente o impresa che effettua le operazioni di trattamento dei rifiuti, o ad un soggetto pubblico o privato addetto alla raccolta dei rifiuti, in conformità agli articoli 177 e 179. Fatto salvo quanto previsto ai successivi commi del presente articolo, il produttore iniziale o altro detentore conserva la responsabilità per l’intera catena di trattamento, restando inteso che qualora il produttore iniziale o il detentore trasferisca i rifiuti per il trattamento preliminare a uno dei soggetti consegnatari di cui al presente comma, tale responsabilità, di regola, comunque sussiste» (v. art.178-bis).

Quindi, i soggetti che si occupano della gestione dei rifiuti se ne assumono la responsabilità, ricoprendo una posizione di garanzia, per cui, violando le regole sulla corretta gestione sono esposti a conseguenze penali ed amministrative.

Il principio del “chi inquina paga” compare per la prima volta nel 1972 nella legislazione comunitaria e viene ripreso al Principio 16 della

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Dichiarazione di Rio de Janeiro13. Secondo tale principio, chi causa danni

all’ambiente deve sostenere i costi per riparare o rimborsare tali danni e la politica ambientale dei vari Paesi dovrebbe essere finanziata dagli stessi responsabili dell’inquinamento, ove identificabili.

Negli anni ’70 il principio fu recepito in modo restrittivo per cui era finalizzato alla prevenzione e riduzione del danno ma non comprendeva la possibilità di risarcire il danno arrecato, cosa che cambiò nel 1981 con il terzo Programma d’azione con cui la Comunità Europea affermò che «l’addebito dei costi destinati alla protezione dell’ambiente a chi causa l’inquinamento incita quest’ultimo a ridurre l’inquinamento provocato dalle proprie attività ed a ricercare prodotti e tecnologie meno inquinanti». Con il quarto Programma d’azione, nel 1987, il principio è divenuto il riferimento anche per la costruzione di una responsabilità civile in relazione a danni causati all’ambiente.

Tale principio lo ritroviamo nel Considerando 26 della direttiva 2008/98/CE per cui «il principio “chi inquina paga” è un principio guida a livello europeo e internazionale. Il produttore di rifiuti e il detentore di rifiuti dovrebbero gestire gli stessi in modo da garantire un livello elevato di protezione dell’ambiente e della salute umana».

13 «Le autorità nazionali dovranno adoprarsi a promuovere l'"internalizzazione" dei costi per la tutela ambientale e l'uso di strumenti economici, considerando che, in linea di principio, è l'inquinatore a dover sostenere il costo dell'inquinamento, tenendo nel debito conto l'interesse pubblico e senza alterare il commercio e le finanze internazionali.»

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Nella normativa italiana lo troviamo nell’art. 3-ter del d.lgs. n. 152/2006 secondo cui «la tutela dell’ambiente e degli ecosistemi naturali e del patrimonio culturale deve essere garantita da tutti gli enti pubblici e privati e dalle persone fisiche e giuridiche pubbliche o private, mediante una adeguata azione che sia informata ai principi della precauzione, dell’azione preventiva, della correzione, in via prioritaria alla fonte, dei danni causati all’ambiente, nonché al principio del “chi inquina paga”, che, ai sensi dell’articolo 174, comma 2, del Trattato delle unioni europee, regolano la politica della comunità in materia ambientale14».

3.1. Gerarchia della gestione dei rifiuti

La gestione di rifiuti deve avvenire secondo una precisa gerarchia che è indicata all’art. 179 del d.lgs. n. 152/2006:

a) prevenzione;

b) preparazione per il riutilizzo; c) riciclaggio;

d) recupero di altro tipo, per esempio il recupero di energia; e) smaltimento.

14 BLASIZZA E. (a cura di), Ambiente 2019. Manuale normo – tecnico., Blasizza Erica, Milano, Wolters Kluwer, 2019 pp. 23-25

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La gerarchia stabilisce, in generale, un ordine di priorità di ciò che costituisce la migliore opzione ambientale. Nel rispetto della gerarchia di cui al comma 1, devono essere adottate le misure volte a incoraggiare le opzioni che garantiscono, nel rispetto degli articoli 177, commi 1 e 4, e 178, il miglior risultato complessivo, tenendo conto degli impatti sanitari, sociali ed economici, ivi compresa la fattibilità tecnica e la praticabilità economica.

Sempre secondo quanto prevede l’art. 179 del d.lgs. n. 152/2006 con riferimento a singoli flussi di rifiuti è consentito discostarsi, in via eccezionale, dall’ordine di priorità di cui al comma 1 qualora ciò sia giustificato, nel rispetto del principio di precauzione e sostenibilità, in base ad una specifica analisi degli impatti complessivi della produzione e della gestione di tali rifiuti sia sotto il profilo ambientale e sanitario, in termini di ciclo di vita, che sotto il profilo sociale ed economico, ivi compresi la fattibilità tecnica e la protezione delle risorse.

L’art. 179, comma 5 prevede che «Le pubbliche amministrazioni perseguano, nell'esercizio delle rispettive competenze, iniziative dirette a favorire il rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti di cui al comma 1 in particolare mediante:

a) la promozione dello sviluppo di tecnologie pulite, che permettano un uso più razionale e un maggiore risparmio di risorse naturali;

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b) la promozione della messa a punto tecnica e dell'immissione sul mercato di prodotti concepiti in modo da non contribuire o da contribuire il meno possibile, per la loro fabbricazione, il loro uso o il loro smaltimento, ad incrementare la quantità o la nocività dei rifiuti e i rischi di inquinamento;

c) la promozione dello sviluppo di tecniche appropriate per l'eliminazione di sostanze pericolose contenute nei rifiuti al fine di favorirne il recupero;

d) la determinazione di condizioni di appalto che prevedano l'impiego dei materiali recuperati dai rifiuti e di sostanze e oggetti prodotti, anche solo in parte, con materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi;

e) l'impiego dei rifiuti per la produzione di combustibili e il successivo utilizzo e, più in generale, l'impiego dei rifiuti come altro mezzo per produrre energia».

L’art. 179 al comma 6 prevede che «Nel rispetto della gerarchia del trattamento dei rifiuti le misure dirette al recupero dei rifiuti mediante la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio o ogni altra operazione di recupero di materia sono adottate con priorità rispetto all'uso dei rifiuti come fonte di energia».

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Ancora l’art 179, al comma 7 prevede che «Le pubbliche amministrazioni promuovono l’analisi del ciclo di vita dei prodotti sulla base di metodologie uniformi per tutte le tipologie di prodotti stabilite mediante linee guida dall’ISPRA, eco-bilanci, la divulgazione di informazioni anche ai sensi del decreto legislativo 19 agosto 2005, n. 195, l’uso di strumenti economici, di criteri in materia di procedure di evidenza pubblica, e di altre misure necessarie».

Sempre l’art. 179, comma 8 prevede che «Le Amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».

La gerarchia si fonda sul concetto del ciclo di vita, dunque sulla necessità di considerare l’impatto ambientale di un prodotto durante il corso della sua intera vita, dall’estrazione delle risorse allo smaltimento finale.

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3.1.1. Prevenzione della produzione dei rifiuti

La prevenzione della produzione dei rifiuti è disciplinata dall’art. 180 del d.lgs. n. 152/2006, il quale specifica che «al fine di promuovere in via prioritaria la prevenzione e la riduzione della produzione e della nocività dei rifiuti, le iniziative di cui all'articolo 179 riguardano in particolare:

a) la promozione di strumenti economici, eco-bilanci, sistemi di certificazione ambientale, utilizzo delle migliori tecniche disponibili, analisi del ciclo di vita dei prodotti, azioni di informazione e di sensibilizzazione dei consumatori, l'uso di sistemi di qualità, nonché lo sviluppo del sistema di marchio ecologico ai fini della corretta valutazione dell'impatto di uno specifico prodotto sull'ambiente durante l'intero ciclo di vita del prodotto medesimo; b) la previsione di clausole di bandi di gara o lettere d'invito che

valorizzino le capacità e le competenze tecniche in materia di prevenzione della produzione di rifiuti;

c) la promozione di accordi e contratti di programma o protocolli d'intesa anche sperimentali finalizzati alla prevenzione ed alla riduzione della quantità e della pericolosità dei rifiuti».

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«Gli Stati membri adottano misure volte a evitare la produzione di rifiuti. Tali misure quanto meno:

a) promuovono e sostengono modelli di produzione e consumo sostenibili;

b) incoraggiano la progettazione, la fabbricazione e l’uso di prodotti efficienti sotto il profilo delle risorse, durevoli (anche in termini di durata di vita e di assenza di obsolescenza programmata), riparabili, riutilizzabili e aggiornabili;

c) riguardano prodotti che contengono materie prime critiche onde evitare che tali materie diventino rifiuti;

d) incoraggiano il riutilizzo di prodotti e la creazione di sistemi che promuovano attività di riparazione e di riutilizzo, in particolare per le apparecchiature elettriche ed elettroniche, i tessili e i mobili, nonché imballaggi e materiali e prodotti da costruzione;

e) incoraggiano, se del caso e fatti salvi i diritti di proprietà intellettuale, la disponibilità di pezzi di ricambio, i manuali di istruzioni, le informazioni tecniche o altri strumenti, attrezzature o software che consentano la riparazione e il riutilizzo dei prodotti senza comprometterne la qualità e la sicurezza;

f) riducono la produzione di rifiuti nei processi inerenti alla produzione industriale, all’estrazione di minerali, all’industria

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manifatturiera, alla costruzione e alla demolizione, tenendo in considerazione le migliori tecniche disponibili;

g) riducono la produzione di rifiuti alimentari nella produzione primaria, nella trasformazione e nella fabbricazione, nella vendita e in altre forme di distribuzione degli alimenti, nei ristoranti e nei servizi di ristorazione, nonché nei nuclei domestici come contributo all’obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite di ridurre del 50 % i rifiuti alimentari globali pro capite a livello di vendita al dettaglio e di consumatori e di ridurre le perdite alimentari lungo le catene di produzione e di approvvigionamento entro il 2030;

h) incoraggiano la donazione di alimenti e altre forme di ridistribuzione per il consumo umano, dando priorità all’utilizzo umano rispetto ai mangimi e al ritrattamento per ottenere prodotti non alimentari;

i) promuovono la riduzione del contenuto di sostanze pericolose in materiali e prodotti, fatti salvi i requisiti giuridici armonizzati relativi a tali materiali e prodotti stabiliti a livello dell’Unione e garantiscono che qualsiasi fornitore di un articolo quale definito al punto 33 dell’articolo 3 del regolamento (CE) n. 1907/2006 del Parlamento europeo e del Consiglio ( 6 ) fornisca le informazioni di cui all’articolo 33, paragrafo 1, del suddetto regolamento

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all’Agenzia europea per le sostanze chimiche a decorrere dal 5 gennaio 2021;

j) riducono la produzione di rifiuti, in particolare dei rifiuti che non sono adatti alla preparazione per il riutilizzo o al riciclaggio;

k) identificano i prodotti che sono le principali fonti della dispersione di rifiuti, in particolare negli ambienti naturali e marini, e adottano le misure adeguate per prevenire e ridurre la dispersione di rifiuti da tali prodotti; laddove gli Stati membri decidano di attuare tale obbligo mediante restrizioni di mercato, provvedono affinché tali restrizioni siano proporzionate e non discriminatorie;

l) mirano a porre fine alla dispersione di rifiuti in ambiente marino come contributo all’obiettivo di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite per prevenire e ridurre in modo significativo l’inquinamento marino di ogni tipo; e

m) sviluppano e supportano campagne di informazione per sensibilizzare alla prevenzione dei rifiuti e alla dispersione dei rifiuti».

Sia la normativa europea che quella nazionale mirano a ridurre sin dall’origine la produzione del rifiuto. Peraltro, la riduzione delle quantità di materiali prodotti e immessi in commercio consentirebbe anche di ottenere un risparmio delle risorse naturali.

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La prevenzione nella produzione del rifiuto può attuarsi secondo due approcci: uno negativo ed uno positivo.

L’approccio negativo consiste nel fatto di indurre ad un “non fare” che si traduce in un non produrre sostane od oggetti che poi diventerebbero rifiuti, adottando misure di messa al bando15, oppure introducendo una

tassazione sui prodotti ritenuti dannosi per l’ambiente.

L’approccio positivo, invece, consiste nell’incoraggiare forme di sviluppo che puntino ad una produzione più virtuosa e rispettosa nei confronti dell’ambiente; questo approccio può peraltro essere inteso in tre modi diversi:

- la prevenzione “a monte” del processo produttivo; - la prevenzione “durante” il processo produttivo; - la prevenzione “a valle” del processo produttivo16.

La prevenzione “a monte” consiste nella produzione realizzata sulla base di una progettazione ecologica, che può avvenire anche allargando la responsabilità del produttore per cui chiunque produca o venda prodotti potrebbe essere chiamato ad occuparsi dei costi dello smaltimento dei prodotti che ha messo in commercio, come già avviene, ad esempio, per

15 come ad esempio è successo nel 2011 con l’introduzione del divieto di commercializzare sacchi non biodegradabili per l’asporto delle merci

16 DE LEONARDIS F., Principio di prevenzione e novità normative in materia di rifiuti, in Rivista quadrimestrale di diritto dell'ambiente, 2/2011

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gli oli; oppure introducendo gli appalti verdi per le pubbliche amministrazioni, per cui si prevede che le pubbliche amministrazioni determinano condizioni di appalto che prevedano l’impiego dei materiali recuperati dai rifiuti e di sostanze e oggetti prodotti, anche solo in parte, con materiali recuperati dai rifiuti al fine di favorire il mercato dei materiali medesimi.

La prevenzione “durante” il processo produttivo consiste nella valorizzazione dei residui di produzione, per cui questi vengono utilizzati invece di essere scartati (siamo nel campo dei c.d. sottoprodotti).

Infine, la prevenzione “a valle” del processo produttivo consiste nel fatto che, nel momento in cui ormai il rifiuto è stato creato, trattandolo, sia comunque possibile farlo tornare ad essere un bene utilizzabile, cioè end of waste17.

3.1.2. Riutilizzo di prodotti e preparazione per il riutilizzo dei rifiuti L’art. 180-bis del d.lgs. n. 152/2006, al comma 1, dispone che: «le pubbliche amministrazioni promuovono, nell’esercizio delle rispettive competenze, iniziative dirette a favorire il riutilizzo dei prodotti e la

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preparazione per il riutilizzo dei rifiuti. Tali iniziative possono consistere anche in:

a) uso di strumenti economici;

b) misure logistiche, come la costituzione ed il sostegno di centri e reti accreditati di riparazione/riutilizzo;

c) adozione, nell’ambito delle procedure di affidamento dei contratti pubblici, di idonei criteri, ai sensi dell’ articolo 83, comma 1, lettera e), del decreto legislativo 12 aprile 2006, n. 163, e previsione delle condizioni di cui agli articoli 68, comma 3, lettera b), e 69 del medesimo decreto; a tale fine il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare adotta entro sei mesi dalla data di entrata in vigore della presente disposizione i decreti attuativi di cui all’ articolo 2 del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare in data 11 aprile 2008, pubblicato nella G.U. n. 107 dell'8 maggio 2008;

d) definizione di obiettivi quantitativi; e) misure educative;

f) promozione di accordi di programma».

Sempre l’art. 180 bis, Al comma 1-bis prevede che: «ai fini di cui al comma 1, i comuni possono individuare anche appositi spazi, presso i centri di raccolta di cui all'articolo 183, comma 1, lettera mm), per

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l'esposizione temporanea, finalizzata allo scambio tra privati, di beni usati e funzionanti direttamente idonei al riutilizzo. Nei centri di raccolta possono altresì essere individuate apposite aree adibite al deposito preliminare alla raccolta dei rifiuti destinati alla preparazione per il riutilizzo e alla raccolta di beni riutilizzabili. Nei centri di raccolta possono anche essere individuati spazi dedicati alla prevenzione della produzione di rifiuti, con l'obiettivo di consentire la raccolta di beni da destinare al riutilizzo, nel quadro di operazioni di intercettazione e schemi di filiera degli operatori professionali dell'usato autorizzati dagli enti locali e dalle aziende di igiene urbana».

L’art. 183 del D.lgs. n. 152/2006, alla lettera q) specifica che per preparazione per il riutilizzo si intendono «le operazioni di controllo, pulizia, smontaggio e riparazione attraverso cui prodotti o componenti di prodotti diventati rifiuti sono preparati in modo da poter essere reimpiegati senza altro pretrattamento» mentre alla lettera r) per riutilizzo si intende «qualsiasi operazione attraverso la quale prodotti o componenti che non sono rifiuti sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti».

Il riutilizzo comporta un risparmio di energia e di risorse naturali, rispetto al riciclo. Riusare significa allungare la vita utile degli oggetti, usare nuovamente una sostanza, un prodotto o un materiale prima che diventi

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rifiuto. Come si legge sul sito del Ministero dell’Ambiente «Il riutilizzo, infatti, è definito come qualsiasi operazione attraverso la quale i prodotti o componenti di un prodotto, che non sono rifiuti, sono reimpiegati per la stessa finalità per la quale erano stati concepiti, senza alterarne in maniera significativa la forma fisica. Preparare al riutilizzo significa effettuare attività di controllo, smontaggio, pulizia o riparazione per consentire ad una sostanza, ad un prodotto o alle componenti di un prodotto diventati rifiuti di essere reimpiegati senza altro pretrattamento. La preparazione al riutilizzo, così come osserva la stessa Commissione europea, contribuisce al medesimo scopo perseguito dalla prevenzione, avendo a che fare, però, con prodotti di cui gli ultimi proprietari si sono disfatti, e per questo risultano formalmente rifiuti»18.

3.1.3. Riciclaggio e recupero dei rifiuti

L’art. 181 del d.lgs. n. 152/2006 dispone che «al fine di promuovere il riciclaggio di alta qualità e di soddisfare i necessari criteri qualitativi per i diversi settori del riciclaggio, sulla base delle indicazioni fornite dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, le regioni

18 PRISCA - Progetto pilota per il recupero dei rifiuti a partire dai flussi di rifiuti ingombranti, reperibile al sito https://pdc.minambiente.it

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stabiliscono i criteri con i quali i comuni provvedono a realizzare la raccolta differenziata in conformità a quanto previsto dall’articolo 205. Le autorità competenti realizzano, altresì, entro il 2015 la raccolta differenziata almeno per la carta, metalli, plastica e vetro, e ove possibile, per il legno, nonché adottano le misure necessarie per conseguire i seguenti obiettivi:

a) entro il 2020, la preparazione per il riutilizzo e il riciclaggio di rifiuti quali, come minimo, carta, metalli, plastica e vetro provenienti dai nuclei domestici, e possibilmente di altra origine, nella misura in cui tali flussi di rifiuti sono simili a quelli domestici, sarà aumentata complessivamente almeno al 50% in termini di peso;

b) entro il 2020 la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio e altri tipi di recupero di materiale, incluse operazioni di colmatazione che utilizzano i rifiuti in sostituzione di altri materiali, di rifiuti da costruzione e demolizione non pericolosi, escluso il materiale allo stato naturale definito alla voce 17 05 04 dell’elenco dei rifiuti, sarà aumentata almeno al 70 per cento in termini di peso.

Fino alla definizione, da parte della Commissione europea, delle modalità di attuazione e calcolo degli obiettivi di cui al comma 1, il Ministero dell'ambiente, della tutela del territorio e del mare può adottare decreti che determinino tali modalità.

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Con uno o più decreti del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, di concerto con il Ministero dello sviluppo economico, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, sono adottate misure per promuovere il recupero dei rifiuti in conformità ai criteri di priorità di cui all’articolo 179 e alle modalità di cui all’articolo 177, comma 4, nonché misure intese a promuovere il riciclaggio di alta qualità, privilegiando la raccolta differenziata, eventualmente anche monomateriale, dei rifiuti.

Per facilitare o migliorare il recupero, i rifiuti sono raccolti separatamente, laddove ciò sia realizzabile dal punto di vista tecnico, economico e ambientale, e non sono miscelati con altri rifiuti o altri materiali aventi proprietà diverse.

Per le frazioni di rifiuti urbani oggetto di raccolta differenziata destinati al riciclaggio ed al recupero è sempre ammessa la libera circolazione sul territorio nazionale tramite enti o imprese iscritti nelle apposite categorie dell’Albo nazionale gestori ambientali ai sensi dell’articolo 212, comma 5, al fine di favorire il più possibile il loro recupero privilegiando il principio di prossimità agli impianti di recupero.

Al fine di favorire l’educazione ambientale e contribuire alla raccolta differenziata dei rifiuti, i sistemi di raccolta differenziata di carta e plastica negli istituti scolastici sono esentati dall’obbligo di autorizzazione in

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quanto presentano rischi non elevati e non sono gestiti su base professionale.

Le amministrazioni interessate provvedono agli adempimenti di cui al presente articolo con le risorse umane, strumentali e finanziarie disponibili a legislazione vigente, senza nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica».

All’art. 183, d.lgs. n. 152/2006, comma 1, lettera u) per riciclaggio si intende «qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i rifiuti sono trattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il trattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento». Riciclare i rifiuti significa valorizzarli, in quanto questa attività riduce il consumo di materie prime, l’utilizzo di energia e l’emissione di gas serra associati, ottenendo un notevole risparmio di materie prime e sottraendo i rifiuti al conferimento in discarica.

L’art. 183 del d.lgs. n. 152/2006 al comma 1, lettera t) definisce invece il recupero come «qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile, sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all'interno

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dell'impianto o nell'economia in generale. L'allegato C della parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo di operazioni di recupero».

Alcuni esempi che troviamo nell’Allegato C sono:

- «R1 Utilizzazione principalmente come combustibile o come altro mezzo per produrre energia

- R2 Rigenerazione/recupero di solventi

- R3 Riciclaggio/recupero delle sostanze organiche non utilizzate come solventi (comprese le operazioni di compostaggio e altre trasformazioni biologiche) - R4 Riciclaggio/recupero dei metalli e dei composti metallici

- R5 Riciclaggio/recupero di altre sostanze inorganiche - R6 Rigenerazione degli acidi o delle basi

- R7 Recupero dei prodotti che servono a ridurre l’inquinamento - R8 Recupero dei prodotti provenienti dai catalizzatori

- R9 Rigenerazione o altri reimpieghi degli oli

- R10 Trattamento in ambiente terrestre a beneficio dell’agricoltura o dell’ecologia

- R11 Utilizzazione di rifiuti ottenuti da una delle operazioni indicate da R1 a R10

- R12 Scambio di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate da R1 a R11

- R13 Messa in riserva di rifiuti per sottoporli a una delle operazioni indicate nei punti da R1 a R12 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».

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3.1.4. Smaltimento dei rifiuti

Lo smaltimento dei rifiuti è disciplinato dall’art. 182 del d.lgs. n. 152/2006 secondo cui, al comma 1, «lo smaltimento dei rifiuti è effettuato in condizioni di sicurezza e costituisce la fase residuale della gestione dei rifiuti, previa verifica, da parte della competente autorità, della impossibilità tecnica ed economica di esperire le operazioni di recupero di cui all'articolo 181. A tal fine, la predetta verifica concerne la disponibilità di tecniche sviluppate su una scala che ne consenta l'applicazione in condizioni economicamente e tecnicamente valide nell'ambito del pertinente comparto industriale, prendendo in considerazione i costi e i vantaggi, indipendentemente dal fatto che siano o meno applicate o prodotte in ambito nazionale, purché vi si possa accedere a condizioni ragionevoli».

L’art. 182, comma 2 dispone che «I rifiuti da avviare allo smaltimento finale devono essere il più possibile ridotti sia in massa che in volume, potenziando la prevenzione e le attività di riutilizzo, di riciclaggio e di recupero e prevedendo, ove possibile, la priorità per quei rifiuti non recuperabili generati nell’ambito di attività di riciclaggio o di recupero». Sempre l’art. 182, al comma 3 vieta di smaltire i rifiuti urbani non pericolosi in regioni diverse da quelle dove gli stessi sono prodotti,

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facendo salvi eventuali accordi regionali o internazionali, qualora ciò consenta di raggiungere livelli ottimali di utenza servita.

L’art. 183 del d.lgs. n. 152/2006, al comma 1, lettera z) definisce come smaltimento «qualsiasi operazione diversa dal recupero anche quando l’operazione ha come conseguenza secondaria il recupero di sostanze o di energia. L’Allegato B alla parte IV del presente decreto riporta un elenco non esaustivo delle operazioni di smaltimento».

L’Allegato B indica alcuni esempi di smaltimento:

- D1 Deposito sul o nel suolo (ad esempio discarica),

- D2 Trattamento in ambiente terrestre (ad esempio biodegradazione di rifiuti liquidi o fanghi nei suoli),

- D3 Iniezioni in profondità (ad esempio iniezioni dei rifiuti pompabili in pozzi, in cupole saline o faglie geologiche naturali),

- D4 Lagunaggio (ad esempio scarico di rifiuti liquidi o di fanghi in pozzi, stagni o lagune, ecc.),

- D5 Messa in discarica specialmente allestita (ad esempio sistematizzazione in alveoli stagni, separati, ricoperti o isolati gli uni dagli altri e dall’ambiente), - D6 Scarico dei rifiuti solidi nell’ambiente idrico eccetto l’immersione, - D7 Immersione, compreso il seppellimento nel sottosuolo marino,

- D8 Trattamento biologico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli che vengono eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12,

- D9 Trattamento fisico-chimico non specificato altrove nel presente allegato, che dia origine a composti o a miscugli eliminati secondo uno dei procedimenti elencati nei punti da D1 a D12 (ad esempio evaporazione, essiccazione, calcinazione, ecc.),

- D10 Incenerimento a terra, - D11 Incenerimento in mare,

- D12 Deposito permanente (ad esempio sistemazione di contenitori in una miniera),

- D13 Raggruppamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D12,

- D14 Ricondizionamento preliminare prima di una delle operazioni di cui ai punti da D1 a D13 e

- D15 Deposito preliminare prima di uno delle operazioni di cui ai punti da D1 a D14 (escluso il deposito temporaneo, prima della raccolta, nel luogo in cui sono prodotti)».

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Tutte queste operazioni rappresentano l’ultima scelta disponibile essendo collocate nell’ultimo gradino della gerarchia della gestione dei rifiuti.

4. Economia circolare

Il concetto di economia circolare si ispira all’idea secondo la quale tutto deve essere riutilizzato e niente perso, perciò l’economia dovrebbe imitare la natura e riconoscere l’esistenza di limiti invalicabili che impongono il riutilizzo dei beni.

Mentre l’economia lineare si basa su un modello che prevede la produzione di un bene, il suo utilizzo ed infine il suo abbandono, cosa che comporta un elevato spreco di risorse ed un forte impatto ambientale, nell’economia circolare i materiali e l’energia utilizzati per fabbricare i prodotti mantengono il loro valore il più a lungo possibile, i rifiuti sono ridotti al minimo e si utilizzano meno risorse possibili19.

Nel suo saggio sull’economia circolare, De Leonardis fa presente che «una volta accantonata definitivamente la red economy (l'economia tradizionale che prende a prestito dalla natura, dall'umanità e dai beni

19 DE LEONARDIS F., Economia circolare: saggio sui tre diversi aspetti giuridici. Verso uno stato circolare?, in Diritto amministrativo, marzo 2017, fasc. 1, p.4

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comuni senza preoccuparsi di come ripagare il debito se non consegnandolo al futuro e in cui i rifiuti sono considerati delle res derelictae), si è passati dalla green economy che è quella che richiede alle imprese di investire di più e ai consumatori di spendere di più per preservare anche l'ambiente (ma che vede l'ambiente come un “costo”, certamente nobile, ma pur sempre costo per le imprese e, quindi, un aggravio e un peso per l'economia) alla blue economy che è, appunto, quella dell'economia circolare, che “affronta le problematiche della sostenibilità al di là della semplice conservazione e il cui scopo non è semplicemente quello di investire di più nella tutela dell'ambiente ma invece quello di spingersi verso la rigenerazione” e per la quale l'ambiente è un vero e proprio driver dello sviluppo economico e istituzionale (in questo caso l'ambiente non viene considerato un costo ma un'opportunità ed è ciò che consente alle imprese di fare profitto)20».

Da sottolineare che la blue economy non si esaurisce nella gestione dei rifiuti ma si estende ad ambiti più ampi, proprio perché i rifiuti rappresentano soltanto una parte del circuito economico.

Per comprendere appieno il concetto di economia circolare, secondo De Leonardis, esso va analizzato secondo tre prospettive:

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- la prima è quella che mette in relazione l’economia circolare con la gerarchia dei rifiuti,

- la seconda è la prospettiva che parte dal fondo, dal fine vita del prodotto e

- la terza è la bioeconomia, che parte dall’origine dei prodotti.

Nella prima prospettiva l’interesse a cui è finalizzata l’economia circolare è soltanto quello della tutela ambientale, infatti nella gerarchia della gestione dei rifiuti la volontà del legislatore è quella di preferire la prevenzione, la preparazione per il riutilizzo, il riciclaggio e di scoraggiare il conferimento in discarica.

Nella seconda prospettiva si sottolinea come la diminuzione dello smaltimento non solo sia finalizzata ad eliminare rifiuti ma anche a produrre materie prime di seconda generazione. Qui non compare solo un interesse ambientale, ma anche un interesse economico, dal momento che il riciclo viene visto come una modalità con la quale il prodotto usato torna ad essere, alla fine della sua vita, una materia riutilizzabile. Secondo questa visione ciò che costituisce rifiuto per qualcuno, può essere rigenerato e diventare risorsa per qualcun altro.

Come sottolinea De Leonardis «ecco dunque il passaggio dei rifiuti da esternalità negative, da costi, da oneri per il sistema a vere e proprie

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