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Le colonie dopo le colonie. L'istituzione dell'Afis in Somalia e l'espulsione degli italiani dalla Libia nella stampa italiana

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Indice

Introduzione

Cap.I. Le colonie italiane dal periodo liberale alla Repubblica

I.1. L’Italia liberale e le colonie pre-fasciste

I.2. La fine dei governi liberali e la politica coloniale del Fascismo

I.3.La guerra di Etiopia: dalla costruzione dell’impero fascista alla sua distruzione I.4. Dalle ceneri dell’Impero alla Repubblica

I.3.1. L’Eritrea e l’Etiopia I.3.2. La Libia

I.3.3. La Somalia

I.4. Le ex colonie e la politica italiana dopo il 1960

Cap. 2: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia

II.1. L’Italia liberale e i primi storici

II.2. Dal periodo liberale agli anni Trenta: la storiografia militare e propagandistica II.2.1. Gli storici militari

II.2.2. Storiografia e propaganda II.2.3. Raffaele Ciasca

II.3. Gli anni Cinquanta e gli “storici coloniali” II.4. Roberto Battaglia: una svolta nella ricerca storica II.5. La storiografia negli anni Settanta

II.5.1. Il colonialismo italiano, Giorgio Rochat

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2 II.6. Gli studi postcoloniali e le nuove prospettive

Cap.III. I periodici italiani e il passaggio di poteri nella capitale somala

III.1. Dalla sofferta risoluzione n. 289 al 1°aprile 1950: la nascita dell’Afis III.2. La stampa italiana negli anni del “centrismo”

III.3. Un esercito di “brava gente”. I quotidiani e la rimozione delle colpe III.3.1. Il ritorno in Africa dei “bravi italiani”

III.3.3. I somali: un razzismo pervasivo III.4. I quotidiani e l’Afis: un bilancio

Cap.IV: Il “dramma” dei profughi in fuga da Tripoli. La cacciata della comunità

italiana dalla Libia di Gheddafi

IV.1. L’Italia, la Libia e Gheddafi: la nuova politica e il decreto di espulsione dei coloni italiani IV.2. La stampa italiana negli anni Settanta

IV.3. Il decreto di espulsione, l’Italia e i profughi: analisi dei quotidiani IV.3.1. Il decreto di espulsione: una storia “a tre voci”

IV.3.2. L’incredulità di fronte alle accuse libiche IV.3.3. Tra elogio e critica: la comunità italiana in Libia IV.4. Un Bilancio

Conclusioni

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Introduzione

La colonizzazione italiana dell’Africa ebbe inizio come penetrazione pacifica, con l’acquisto della baia di Assab il 4 luglio 1882: dietro la spinta dei circoli espansionisti, anche l’Italia postunitaria decise di lanciarsi nell’agone coloniale in Africa, dove le potenze europee si erano già battute per la conquista dei territori. Il cosiddetto scramble for Africa – come ricorda Nicola Labanca, una vera e propria “zuffa” per l’Africa1 - si era da poco concluso e tutte le potenze europee si erano ormai spartite le

terre africane.

L’acquisto della baia di Assab viene oggi considerato l’atto di nascita del colonialismo italiano: l’accordo prevedeva che la società Rubattino cedesse all’Italia il territorio, acquistato nel 1869 da Giuseppe Sapeto, il rappresentante della stessa società. Qualche anno più tardi, nel 1885, il Ministro degli esteri Pasquale Stanislao Mancini tenne un discorso alla Camera, nel quale dichiarò che era arrivato il tempo per un atto di conquista del Corno d’Africa: questa regione fu definita come la “chiave del Mar Rosso”, cioè un territorio cruciale per i traffici commerciali italiani.

Portata avanti da una rinnovata volontà di presentarsi come una potenza coloniale, l’Italia occupò, nel febbraio dello stesso anno, il porto di Massaua con un’azione militare. Nell’operazione risultò fondamentale l’aiuto della Gran Bretagna, che ne favorì la penetrazione sia nel porto che nell’entroterra. Sempre nello stesso anno, l’Italia stipulò trattati di amicizia con il sultano di Zanzibar, gettando così le basi per una futura occupazione della regione. L’occupazione del porto di Massaua nascondeva delle mire espansionistiche più grandi, che guardavano all’intero territorio etiopico: gli italiani volevano inserirsi nei giochi di potere tra Menelik e il negus Giovanni IV e riuscirono a conquistare nuovi territori proprio grazie allo scontro tra i due sovrani. Le battaglie italiane contro gli eserciti etiopici proseguirono e nemmeno la strage di Dogali del 1887 impedì che i progetti di conquista e la guerra andassero avanti. La giornata di Dogali sarebbe stata mitizzata dagli storici e sfruttata dal regime fascista per la propaganda a favore dell’espansionismo.

Il nuovo negus Menelik II, succeduto a Giovanni IV dopo la morte di quest’ultimo, sottoscrisse con l’Italia il Trattato di Uccialli, un accordo commerciale tra le due potenze. Il Trattato è rimasto nella storia per la duplice interpretazione dell’articolo 17: secondo la traduzione italiana, con questo trattato si sarebbe istituito un protettorato sull’Etiopia, mentre in amarico risultava che l’Italia

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4 potesse (e non dovesse) intercedere presso le potenze europee per conto dell’Etiopia. Questo fatto contribuì ad inasprire i rapporti tra Italia ed Etiopia.

Mentre si raffreddavano ulteriormente i rapporti tra gli italiani e gli etiopici, nell’agosto dello stesso anno veniva occupata Asmara e fondata la colonia Eritrea, ufficializzata soltanto nel 1890.

Nel frattempo in Somalia, nel 1891, i popoli dell’Ogaden, continuamente pressati dalle incursioni degli etiopici, accettarono di divenire protettorato e richiesero la protezione dell’esercito italiano contro gli attacchi portati avanti dall’Etiopia. Nel 1895, dopo la denuncia da parte di Menelik del Trattato di Uccialli, ripresero le ostilità tra Etiopia e Italia: il conflitto culminò nella sconfitta di Adua del 1896, la più catastrofica subita da un esercito europeo durante lo scramble. Anche la battaglia di Adua, come quella di Dogali, sarebbe stata utilizzata dal regime fascista, quale esempio di atto di coraggio dei soldati italiani.

Dopo la tragica sconfitta, che colpì intensamente l’opinione pubblica, l’Italia fu restia a intraprendere nuovamente delle conquiste coloniali. Una nuova iniziativa si ebbe quasi dieci anni dopo, grazie al Banco di Roma: l’istituto di credito fu incaricato dal governo, nel 1905, di operare investimenti e crediti in Libia. Da questo momento, il governo iniziò a pensare alla Libia come un possibile sbocco per la popolazione povera dell’Italia. Il territorio venne inoltre ritenuto di facile conquista. Nel 1911, il governo italiano presieduto da Giolitti decise di occupare la Libia, che allora era controllata dall’Impero ottomano: con la pace di Ouchy del 1912, siglata con l’Impero, l’Italia annesse Tripolitania e Cirenaica, senza averle ancora del tutto conquistate.

Con l’avvento del fascismo, il colonialismo subì un nuovo impulso: i progetti di Mussolini di riconquistare la Libia - la maggior parte dei territori libici erano de facto fuori controllo - e di conquistare l’Etiopia, furono promossi da un’intensa propaganda. La Cirenaica – dove la confraternita della Senussia mise in atto una resistenza tenace all’espansione italiana, fu sottomessa definitivamente dall’Italia nel 1931, con la cattura e l’esecuzione di Omar al-Mukthar, capo della resistenza. In questo periodo si consolidarono inoltre i possedimenti in Somalia, i cui territori settentrionali vennero conquistati definitivamente nel 1927.

Il progetto più importante portato avanti dal regime fu la guerra contro l’Etiopia di Hailé Selassié, nel biennio 1935-1936. Iniziata con un divieto da parte della Società delle Nazioni, di cui l’Etiopia era diventata membro, la guerra si concluse con la proclamazione dell’Impero e del re Vittorio Emanuele a Imperatore d’Etiopia.

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5 Durante gli anni Quaranta, il colonialismo italiano giunse ad una fine repentina: la Gran Bretagna attaccò i possedimenti italiani in Africa a partire dal 1941 e in pochissimo tempo conquistò tutto il territorio che precedentemente era stato in mano italiana. L’Africa orientale italiana cadde definitivamente nel novembre dello stesso anno. Nel 1943, anche la Tripolitania cadde in mano inglese. Tutti i possedimenti italiani vennero posti sotto amministrazione britannica fino agli anni Cinquanta.

Rovesciato il regime fascista nel 1943 e terminata la guerra, con il Trattato di Parigi del 1947 l’Italia perse tutte le sue colonie e rinunciò a tutti i diritti su quei territori. Il governo italiano tuttavia si impegnò per riacquisire almeno quelle colonie non fasciste. La strenua battaglia portò al solo conferimento di un mandato fiduciario decennale da esercitare per conto dell’Onu in Somalia, che si sarebbe insediato nel territorio a partire dal 1950. In sede Onu si decise inoltre che la Libia sarebbe diventata uno stato indipendente e sovrano entro il 1952. Il destino dell’Eritrea sarebbe stato deciso l’anno successivo: lo Stato eritreo avrebbe costituito una federazione con l’Etiopia.

Come possiamo notare da questo breve insieme di notizie, la fase colonialista dell’Italia si è conclusa molto tempo fa: tuttavia, una serie di segnali – anche recenti – lasciano intendere che gli italiani non siano ancora venuti a conoscenza del proprio passato coloniale.

Ci sono molti esempi che sono la prova lampante di una scarsa conoscenza del passato coloniale e che testimoniano la presenza nella cultura italiana di immagini e paradigmi che risultano essere un’eredità coloniale. La mancanza di conoscenza e di riflessione sui fatti appartenenti al nostro passato, infatti, portano a una rappresentazione superficiale delle dinamiche storiche e ad una storia ricostruita in modo parziale. Ciò fa sì che l’opinione pubblica non risulti troppo sconvolta se per la costruzione nel 2012 ad Affile di un mausoleo intitolato a Rodolfo Graziani, originario del paese, oppure se l’Italia si sia rifiutata di restituire fino al 2006 all’Etiopia la stele di Axum, che ha dimorato fin dal 28 ottobre 1937 nel centro di Roma, sebbene il Trattato di pace di Parigi del 1947 avesse decretato che l’Italia avrebbe dovuto restituire all’Etiopia qualsiasi oggetto espropriato come bottino di guerra3.

Oltre a questo, sussistono numerosi concetti di retaggio colonialista: studi recenti hanno dimostrato come alcuni manifesti pubblicitari, per esempio, mostrino ancora uno spiccato razzismo, che ricalca forme e modelli di rappresentazione (razzialmente gerarchizzata) del corpo femminile nero che

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6 risalgono al periodo fascista4. Il colonialismo è entrato anche nel linguaggio: ne è un esempio la

parola “Ambaradan”, che a prima vista potrebbe sembrare quasi uno scioglilingua, quando invece in pochissimi sanno che è il nome di un altopiano etiopico, l’Amba Aradan, attorno al quale si svolse una sanguinosa battaglia5.

L’importanza che riveste la cultura nella storia e nel colonialismo in particolare viene spiegata da Ania Loomba nel suo saggio Colonialismo/postcolonialismo6: secondo la scrittrice è possibile

pensare la storia come un processo in cui rientrino anche i fattori culturali. Quello che sostiene Loomba, a partire dal pensiero di Gramsci, è che il colonialismo, oltre che un sistema economico globale, abbia costituito anche un’ideologia e che abbia contribuito a fissare determinati concetti e modi di pensare nell’immaginario occidentale. Il colonialismo, inteso come fenomeno culturale, ha contribuito a creare, per esempio, il concetto di alterità: con questo termine ci si riferisce alla costruzione dell’identità dell’uomo che viene colonizzato, l’altro appunto. L’identità viene costruita dal punto di vista dell’uomo bianco e colonizzatore, che parte dall’assunto della propria superiorità razziale. Anche il colonialismo italiano non è stato da meno: sia che i modelli di alterità siano stati importati dall’estero, sia che siano stati creati in loco7, questi modelli razzisti sono presenti tutt’oggi

nelle istituzioni, nei mass media e nella società. La nostra cultura è permeata da “orientalismi” e da stereotipi basati su costruzioni di stampo coloniale dell’alterità.

Alcuni studiosi postcoloniali, come ci ricorda Loomba, hanno lamentato il fatto che la storia dei paesi colonizzati sia stata costruita dai colonizzatori, in particolare per quanto riguarda il periodo precedente all’arrivo delle popolazioni europee. È la stessa cosa che succede nella rappresentazione dell’Africa fatta dalla propaganda liberale e fascista in Italia prima dell’occupazione delle colonie: questa rappresentazione era basata su fantasie, che facevano dell’Africa un paese affascinante e misterioso. Possiamo dire infatti che, alla luce degli studi sul post-colonialismo, l’Europa ha inventato la storia dell’Africa.

Come avrò modo di spiegare meglio all’interno della tesi, gli studi postcoloniali hanno messo in evidenza come non sia solo il mondo dei colonizzati ad essere modificato dal colonialismo (sia agli occhi deli europei sia agli occhi dei colonizzati stessi), ma anche la metropoli stessa ha subito delle

4 Cfr. S. Sabelli, L’eredità del colonialismo nelle rappresentazioni contemporanee del corpo femminile nero, in

“Zapruder”, n. 23, 2010, pp. 106-115.

5 La Stampa, Ambaradan, quando una parola nasce da un genocidio, 15 febbraio 2017. 6 A. Loomba, Colonialismo/postcolonialismo, Meltemi editore srl, Roma, 2000.

7 Su questo argomento, cfr. G. Proglio, Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, le Monnier, Firenze, 2016,

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7 variazioni a seguito dello sviluppo di una mentalità coloniale. Così, contemporaneamente alla costruzione dell’alterità, si è definita anche una nuova identità italiana in relazione all’altro. Nella costruzione dell’identità dell’altro, infatti, accade che ci si voglia distanziare da questo, che risulta razzialmente e culturalmente inferiore: in questo modo è inevitabile che si finisca per costruire anche se stessi, proprio per differenziarsi dall’altro8.

La costruzione dell’identità degli italiani non è un fenomeno che si può ricondurre solo al processo dell’Unità d’Italia o al periodo fascista: in ogni occasione in cui gli italiani si rapportano alle ex colonie, si assiste ad una ridefinizione di se stessi, tesa a stabilire una lontananza dall’altro funzionale a costruire una distanza per proteggere se stessi.

L’incontro/scontro con le popolazioni era già avvenuto durante la colonizzazione delle terre e da questo incontro è scaturita una conoscenza delle popolazioni, dei territori e della loro cultura che privilegia il punto di vista degli italiani. L’ “altro” colonizzato era conosciuto solamente come una razza inferiore da sottomettere, carente nella cultura e bisognoso di una guida, che lo portasse sulla strada della civiltà. Sull’alterità si è costruita una politica di propaganda, fascista e liberale. Ancora oggi, infatti, non ci siamo del tutto affrancati da questo modello di pensiero.

I due eventi che ho deciso di trattare in questa tesi sono due esempi di incontro/scontro9 tra due

culture e attraverso le quali gli italiani si sono ridefiniti come identità nazionale: il primo è l’insediamento dell’Amministrazione fiduciaria in Somalia nel 1950; mentre il secondo è la cacciata degli italiani dalla Libia di Gheddafi. Questi due episodi saranno ricostruiti attraverso l’analisi della stampa italiana coeva. Ciò che emerge è che i quotidiani e i settimanali da me analizzati rimandano ad uno specifico modo di vedere la realtà, un prisma chiaramente influenzato da una mentalità coloniale, orientalista, financo razzista.

L’obiettivo della mia tesi è analizzare in che modo i quotidiani abbiano riletto questi due avvenimenti per vedere se e come abbiano riportato in auge motivi che erano già presenti nel periodo coloniale: lo scopo del mio elaborato è, in definitiva, quello di vedere se – e fino a che punto - ricompaiano negli articoli analizzati elementi dell’immaginario che sono stati creati durante il colonialismo. Per far questo, ho deciso di suddividere la mia tesi in quattro capitoli.

8 Il libro di Cristina Lombardi-Diop e di Gaia Giuliani, che citerò nella mia tesi, ricostruisce approfonditamente la storia

della costruzione dell’alterità e dell’identità nazionale in Italia, dal periodo liberale fino al fascismo. Cfr. G. Giuliani, C. Lombardi-Diop, Bianco e nero. Storia dell’identità razziale degli italiani, Le Monnier, Firenze, 2013.

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8 Nel primo capitolo tratterò brevemente una storia generale delle colonie italiane: partirò dalla penetrazione pacifica degli anni Ottanta dell’Ottocento, fino alla proclamazione dell’Impero. Mi soffermerò poi sulla perdita dell’Impero e il tentativo di recuperare almeno quelle colonie che erano state conquistate prima del Fascismo. Farò infine alcuni accenni all’istituzione dell’Afis in Somalia e della politica italiana nei confronti delle ex colonie fino agli anni Novanta.

Nel secondo fornirò una panoramica della storiografia sul colonialismo italiano, dalle origini fino ad oggi: è importante vedere come, anche nel campo della storiografia, le colonie siano state un argomento spinoso e delicato fino almeno agli anni Sessanta e Settanta: prima di questa data la storia delle colonie era in mano a pochi studiosi che si erano formati durante il regime e risultava essere un racconto autoassolutorio. Gli studi sulle colonie si svilupparono soprattutto in concomitanza con le prime battaglie condotte in Africa orientale: sulla scia delle battaglie di Dogali e soprattutto di Adua, nacquero i primi storici militari, la cui funzione era quella di descrivere l’andamento della battaglia, per evitare di ripetere in futuro gli stessi errori. Alla storiografia su Adua seguì quella del regime fascista, il cui scopo era quello di fare di Adua un racconto eroico e mitico. La storiografia di questo periodo (totalmente asservita al regime) si caratterizzò anche per la creazione di falsi miti riguardo alle origini del colonialismo italiano. La storiografia dei primi anni dell’Italia repubblicana non fece altro che riproporre quasi gli stessi temi della storiografia fascista, o comunque si dimostrò di scarso valore storiografico. Fa eccezione solamente Roberto Battaglia, che si distinse per aver sfatato i miti sorti attorno alla sconfitta di Adua. Come vedremo, fu negli anni Settanta che gli studi di Giorgio Rochat e di Angelo Del Boca costituirono uno spartiacque rispetto alla storiografia precedente. L’ultima parte del capitolo è infine dedicata agli sviluppi della storiografia più recente: l’influsso dei cultural studies, infatti, con l’importanza che hanno conferito al ruolo della cultura nell’imperialismo, ha permesso la commistione tra le materie storiche con altre discipline umanistiche.

Il terzo e quarto capitolo sono dedicati all’analisi della stampa. Il terzo capitolo tratta di come i quotidiani italiani hanno interpretato l’istituzione dell’Afis nel 1950, mentre il quarto di come i quotidiani hanno trattato l’espulsione dei coloni dalla Libia. Ho optato per una suddivisione tematica, per cui per ciascun capitolo ho identificato alcuni temi chiave che mettono in luce – a mio avviso – la presenza di una mentalità coloniale anche in piena decolonizzazione.

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Cap. I. Le colonie italiane dal periodo liberale alla Repubblica

I.1. L’Italia liberale e le colonie pre-fasciste

L’età dell’imperialismo viene comunemente riconosciuta come quella fase che va dalla Conferenza di Berlino del 1884-1885 fino al 1914: in quegli anni si parla di colonialismo «formale» per distinguerlo dal precedente «informale», un fenomeno presente fin dal XVII secolo, che consisteva in una serie di accordi bilaterali commerciali stretti tra potenze europee e autorità locali degli stati extraeuropei10. Nicola Labanca ci propone di ripensare queste date, collocando l’inizio

dell’imperialismo negli anni ‘70 dell’Ottocento e la sua conclusione nel 1913, alla vigilia della prima guerra mondiale11.

In questo periodo, le potenze europee si gettarono in una vera e propria corsa per accaparrarsi il maggior numero di territori. Le motivazioni dietro a quest’ansia di conquista spaziavano da politico-strategiche ad economiche a culturali: si passava da un’ottica ideologica di supposta superiorità culturale, alle motivazioni economiche di sfruttamento delle risorse e di mercati per i propri prodotti, al prestigio della propria nazione, come nel caso francese12. Il cosiddetto scramble for

Africa, cioè la gara tra le potenze europee per accaparrarsi una fetta del continente, iniziò con lo

scontro tra Francia e Gran Bretagna, per poi proseguire con la partecipazione di altre potenze europee, soprattutto la Germania.

Anche l’Italia si dedicò all’impresa coloniale, anche se a differenza delle altre potenze, vi si gettò quando l’era del colonialismo inteso nel senso classico stava per concludersi13 : i suoi possedimenti

territoriali furono piuttosto contenuti rispetto a quelli delle altre potenze, tutto sommato poveri, e non fruttarono grandi guadagni bensì richiesero sempre ingenti spese per il mantenimento sia economico che militare14; per di più, non furono mai del tutto conquistati. Ci si potrebbe convincere

che non è giusto parlare del colonialismo italiano sullo stesso piano degli altri colonialismi europei, poiché le differenze tra questi due sono tante. A ben vedere tuttavia, si rischia di scadere nella giustificazione che tende a minimizzare l’operato italiano in Africa: si deve quindi di sicuro fare dei

10 N. Labanca, Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, Bologna, il Mulino 2002, pp.19-23. 11 . Ibid, pp. 20-21.

12 Cfr. J. Thobie et al., Histoire de la France coloniale. 1914-1990, Armand Colin, Parigi, 1990. 13 Labanca, Oltremare, cit. p.21.

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10 distinguo tra i diversi colonialismi, ma questo non deve essere una giustificazione per considerare il colonialismo italiano come un fenomeno le cui conseguenze sui territori e popoli africani siano trascurabili. Questa giustificazione che tende a scagionare il colonialismo italiano dalle sue responsabilità come atto di conquista e sopraffazione, è stata adottata da gran parte degli storici almeno fino agli anni Settanta15.

Delle tre colonie possedute, alla vigilia della Prima guerra mondiale Roma poteva dire di avere in mano in modo effettivo solo le zone costiere, mentre la resistenza anticoloniale dette filo da torcere per ancora molto tempo nelle zone interne, che rimasero fuori controllo. Labanca ci riferisce come l’esperienza coloniale italiana fu un’avventura, quando per le altre potenze fu un’intensificazione di esperienze più antiche: l’Italia infatti, aveva avuto fin dall’antichità dei contatti con le popolazioni africane, ma mai dei possedimenti16.

Come noto, la nascita delle colonie viene legata ad una motivazione economica, sebbene non sia ritenuta la motivazione preponderante: armatori e commercianti, dopo l’apertura del canale di Suez, videro nelle terre del Mar Rosso un’occasione di investimento e spinsero il governo italiano, come dirò più avanti, a concedere sovvenzioni statali per finanziare i progetti commerciali. Complessivamente comunque, nel colonialismo italiano, più che le motivazioni economiche, che furono importanti soprattutto nel primo periodo, pesarono le politiche nazionaliste di prestigio e di gestione della sovrappopolazione e della povertà. Non a caso, il colonialismo italiano viene spesso definito «demografico»17).

Inizialmente, sorsero all’interno delle società geografiche circoli espansionisti, ristretti gruppi di avventurieri, pubblicisti ed esploratori che incitarono all’acquisizione di colonie come motivo di prestigio per lo stato Questi spingevano ad esplorare territori che ancora non erano stati occupati dalla Gran Bretagna e dalla Francia. Complessivamente, quindi, le motivazioni che concorsero allo sviluppo di una politica coloniale furono molteplici e non ci fu un orientamento prevalente18.

I primi contatti tra Italia e Africa ebbero luogo prevalentemente all’inizio dell’Ottocento e nei primi decenni dell’Unità e furono di tipo individuale e non politico. Prima della formazione di uno Stato unitario, infatti, i piccoli Stati della penisola non erano abbastanza potenti da formare un impero

15 Labanca, Oltremare, cit. pp.440-448. 16 Ibid., cit. p 17.

17 G. Calchi novati, P. Valsecchi, Africa, la storia ritrovata. Dalle prime forme politiche alle indipendenze nazionali,

Carocci, Roma, 2005, p.235.

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11 coloniale. L’interesse per i territori africani, in questi decenni, investì una cerchia ristretta di viaggiatori ed esploratori, armatori, missionari cattolici e personaggi eccentrici, che vennero inoltre identificati nel periodo fascista come i precursori del colonialismo italiano vero e proprio19. Essi

diedero un notevole contributo all’orientalistica italiana e incentivarono, con i loro resoconti, la conoscenza di una parte di Africa fino ad allora sconosciuta e a convincere i governi a mettere in piedi dei progetti per la colonizzazione di quelle terre. A seguito delle prime esplorazioni, nacquero le società geografiche e le associazioni degli esploratori, che furono utili anche a livello politico e governativo per l’organizzazione delle spedizioni in Africa: la Reale società geografica italiana, fondata nel 1867, fu importante per l’organizzazione di spedizioni a carattere prevalentemente scientifico (ma, di fatto, politico) in Tunisia e in Africa orientale. Di fatto, anche se la conoscenza che l’Italia aveva dell’Africa all’inizio dell’Ottocento era molto approfondita, l’esplorazione era però condotta in aree non strategicamente importanti dal punto di vista coloniale: come sostiene Labanca, la conoscenza dell’Africa era molto erudita, ma ancora poco coloniale20.

Anche le vicende di politica internazionale influirono sulla determinazione degli obbiettivi di conquista. La politica intrapresa da Bismarck, che riallineò le potenze europee, mise in isolamento l’Italia, accentuato inoltre dall’imposizione francese di un protettorato sulla Tunisia nel 1881. Roma considerava Tunisi un porto strategicamente importante per il commercio. A seguito della politica tedesca e dello smacco subito in Tunisia a causa della Francia, che vi impose un protettorato nel maggio del 1881, l’Italia fu costretta a rivedere la sua posizione diplomatica e si passò dalla politica delle “mani nette”, che difendeva il mantenimento dello status quo in Europa come nel Mediterraneo, ad una più attiva. Per prima cosa, l’Italia strinse un patto, la Triplice Alleanza, nel 1882, con Austria e Germania, che aveva il solo risvolto positivo di togliere l’Italia dall’isolamento diplomatico in cui era stata cacciata. Per il resto, il trattato di alleanza conteneva comunque molti risvolti negativi, quale quello di allearsi a due imperi conservatori: il ministro degli esteri Pasquale Stanislao Mancini cercò quindi, come contrappeso, di trovare un’alleanza con la Gran Bretagna21.

Il governo italiano permise alla società Rubattino - che aveva individuato nelle coste del Mar Rosso, dopo l’apertura del canale di Suez, un’occasione di investimento - di rioccupare Assab. Dopo il

19 A. Del Boca,Gli italiani in Africa Orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano, 2015, pp.3-4. 20 Labanca, Oltremare, p.38.

21 G. Mammarella, P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo stato unitario ai giorni nostri, Laterza, Roma-Bari 2006,

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12 fallimento degli accordi del 187022, la società Rubattino strinse un nuovo accordo con un signorotto

locale il 15 marzo 1880, sotto la supervisione della Gran Bretagna, presente sul posto con la cannoniera Sea Gull, che aiutò l’Italia ad insediarsi nel suo possedimento ad Assab. Inoltre, il 16 febbraio 1882, in risposta alle obiezioni turche ed egiziane, fu firmata una convenzione bilaterale tra Gran Bretagna e Italia, che riconosceva lo stato di cose che si era venuto a creare. L’acquisto della baia di Assab era importante non tanto in quanto prima colonia italiana, ma perché metteva in luce la special relationship tra Gran Bretagna e Italia. La presenza costante della Gran Bretagna a spalleggiare l’Italia, infatti, fruttò a quest’ultima i suoi primi possedimenti.

Dopo l’acquisto del primo piccolissimo possedimento italiano in Africa, il governo italiano attuò la svolta che consentì, a partire dalla conquista di Massaua, di occupare l’intero territorio dell’Eritrea e fondare infine la sua prima colonia. Il ministro degli esteri Pasquale Stanislao Mancini convinse la maggioranza parlamentare presentando un programma di occupazione piuttosto ambiguo, i cui risvolti negativi si ripercossero sulla riuscita dell’intera operazione. Il ministro parlò infatti di occupazione commerciale della costa ma senza alludere a espansioni territoriali interne, propose la preparazione di un piccolo esercito e vendette la spedizione come un’occasione per l’Italia di acquisire prestigio con una tale politica di conquista. Il ministro tuttavia, dovette dimettersi in quello stesso anno, per problemi di ordine interno e non inerenti al territorio africano.

Infatti, l’arrivo dei militari a Massaua non aveva generato grandi scompigli, un po’ perché quei territori erano costantemente esposti agli appetiti dei vicini, ma sostanzialmente perché l’Italia si inserì nella compagine etnica senza creare grandi scompigli a livello dell’autorità locale. Fu il governo stesso che fece fallire la spedizione, organizzandola in modo frettoloso e inviando un esercito raffazzonato e sguarnito addirittura di cartine topografiche e di interpreti della lingua locale, con l’artiglieria inutilizzabile al momento, perché mal sistemata all’interno delle navi che la trasportavano.

Ci fu inoltre una grande discordanza tra le alte cariche dell’esercito: non tutti erano concordi sull’apertura di un fronte coloniale e molti non riuscivano a spiegarsi il perché di una spedizione nel mar Rosso e non nel Mediterraneo. L’ambiguità della natura della spedizione viene al pettine

22 A metà dell’Ottocento, l’armatore Rubattino si era interessato all’area del Mar Rosso, perché qui colse l’opportunità

di poter sfruttare l’apertura del Canale per cercare collegamenti commerciali con i possedimenti inglesi in India. Avendo stabilito nel 1869 un accordo con il capo-villaggio di Assab, ma non avendone tratto un guadagno e trovandosi di fronte ad un possibile fallimento economico, Rubattino decise di chiedere aiuti e sovvenzioni al governo: tuttavia, non essendosi ancora costruito un solido rapporto tra interessi politici ed economici, le imprese non furono

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13 allorché si interpreti il programma di Mancini, che sembrava non prevedere l’occupazione delle terre interne. I militari di stanza a Massaua sfruttarono quindi questa ambiguità per inoltrarsi verso l’interno, verso l’Etiopia: da Roma giunse il sostegno all’operazione, ma i militari vennero per la prima volta a confliggere con i capi locali, cadendo in un’imboscata a Dogali e lasciando sul terreno molti connazionali. La notizia venne gonfiata a dismisura – da allora in poi si parlò dell’eccidio di Dogali - e distorta dai quotidiani e andò ad ingrassare le fila della retorica nazionalista, che avrebbe avuto fortuna anche durante il fascismo.

Roma preparò infatti un grande esercito: la nuova spedizione iniziò con un eccessivo ottimismo verso la preparazione e la potenza delle proprie armate e la debolezza di quelle etiopiche. La nuova spedizione arrivò il 27 ottobre 1887 a Massaua e conflisse con le armate etiopiche di Giovanni IV, che arretrò e costrinse le armate italiane a ritirarsi. Fece così sperare agli italiani di avere la situazione in pugno e di potersi infiltrare nei giochi di potere tra capi etiopici per rivoltarli a proprio favore.

Gli anni della conquista della prima colonia furono caratterizzati dal primo incontro con la logica della conquista coloniale e con le sue caratteristiche salienti, per esempio quella della formazione di due diverse linee di pensiero riguardo all’espansione: quella diplomatica, detta “scioana”, portata avanti dall’esploratore e diplomatico Pietro Antonelli e quella “tigrina”, che prevedeva un intervento militare e lo scontro con le truppe del negus. Nel frattempo, era salito al governo Crispi, che espresse l’intenzione di portare avanti una politica di potenza e di prestigio in Africa e seguì alternativamente la linea più conveniente di volta in volta. Entrambe le linee però erano destinate all’insuccesso: quella scioana fallì con l’aggiramento del trattato di Uccialli, un trattato di amicizia stipulato il 2 maggio 1889 con il negus di Etiopia Menelik II, successore di Giovanni IV, con il quale Roma pensava di poter stendere un protettorato sull’Etiopia, sfruttando un articolo dall’interpretazione ambigua. Menelik II però denunciò il tentativo di protettorato alle cancellerie europee, che condannarono il fatto.

Nonostante l’insuccesso, il 1°gennaio 1890 i Reali possedimenti d’Africa furono rinominati “Colonia Eritrea”.

La linea tigrina invece, portata avanti dal generale Baldissera, fallì perché con troppo ottimismo si era prefissato di affrontare le truppe di Menelik II, sovrano modernizzatore e accentratore, che avrebbe sconfitto in seguito, ripetutamente, le armate italiane. Le truppe italiane si spinsero fino a Macallé, che venne riconquistata dal negus, che affrontò e sconfisse l’esercito italiano, in un

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14 villaggio nei pressi di Adua il 1° marzo 1896: tale sconfitta, la peggiore subita da un esercito europeo in tutto lo scramble for Africa, costrinse Crispi a dimettersi dall’incarico governativo. Questa grande sconfitta generò il “complesso di Adua”, dopo il quale passarono degli anni prima che l’Italia si dedicasse nuovamente alle conquiste. Il trattato di pace del 26 ottobre 1896 concluse per il momento la vicenda etiopica.

Nello stesso periodo, gli interessi italiani si diressero anche verso la Somalia, dove però non ci fu un intenso impegno del governo a queste terre e non vi si investì come si era fatto per l’Eritrea. Labanca definisce la sua conquista come un accidente delle politiche di occupazione dell’Eritrea e dell’Etiopia, cioè come evento collaterale accaduto come conseguenza di azioni più importanti. La colonia somala nacque come chartered company: non vi si fondò, cioè, uno Stato coloniale, ma vi si stabilì una società, la “Filonardi & C.”, che ricevette dal governo il diritto di amministrare i territori per i quali aveva stretto accordi con i capi locali (Zanzibar, Obbia e Migiurtinia) per tre anni, con l’aiuto di sovvenzioni statali pari a 300mila lire. La società Filonardi pagava l’affitto ai sultani e con i restanti soldi pagava funzionari e militari italiani nei territori sotto la sua amministrazione. Era un tipo di colonialismo indiretto, esercitato attraverso una comunità privata, di cui le altre potenze europee avevano già fatto esperienza e che avrebbe funzionato nel momento in cui vi fossero stati investimenti e guadagni certi: la compagnia lucrò invece sui fondi statali e allo stesso modo si comportò la società a cui lo stato dette, successivamente, i propri fondi, la Società anonima commerciale del Benadir, nella Somalia del sud.

Nel frattempo, l’alternanza di governi in Italia impedì che si prestasse attenzione alla gestione dei territori somali e la questione passò in secondo piano, mentre invece in Somalia crebbe il malcontento delle popolazioni Bimal, per sfociare in una rivolta e si instaurò una resistenza anticoloniale anti-italiana e anti-inglese, fomentata da un capo somalo musulmano, Muḥammad ibn ῾Abdallāh ibn Ḥasan. Nonostante le difficoltà che stavano sorgendo nella colonia, l’Italia ampliò i protettorati sulla costa e il 9 ottobre 1905 venne istituito il Commissariato della Somalia italiana settentrionale. Nello stesso anno, venne inoltre tolta la gestione della Somalia del sud alla compagnia del Benadir già citata, per cattiva gestione dei fondi statali: la regione somala venne unita al Commissariato al nord e andò a formare la colonia della Somalia italiana.

Dopo la cocente sconfitta subita ad Adua del 1896, la politica coloniale italiana entrò in una fase di stallo; allo stesso tempo si affermò la decisione comune di non lasciare la colonia Eritrea. L’obbiettivo di un tempo rimaneva sempre l’Etiopia, per la quale nel 1906 fu stretto un accordo tra

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15 Francia, Gran Bretagna e Italia, l’”Accordo tripartito”, un impegno a non violare l’unità etiopica e una spartizione delle zone di influenza.

Tuttavia, all’inizio del ‘900, quando lo scramble si era definitivamente concluso nel 1899 con l’accordo tra Francia e Gran Bretagna che sancì le rispettive aree di influenza nell’area sudanese e nel Sahara occidentale, in Italia, complice anche la ripresa economica, si ebbe una ripresa dell’afflato nazionalistico e imperialistico: i circoli colonialisti rinacquero e si dedicarono con più cura all’indottrinamento della popolazione in merito all’impresa coloniale, quegli stessi che avevano anche sostenuto l’avventura coloniale con Crispi, per una “più grande Italia”.

Rinacque quindi la politica coloniale italiana e si decise di puntare alla Libia, in particolare alla Tripolitania, unico territorio rimasto libero, già possedimento dell’Impero ottomano, il “grande malato d’Europa”, in procinto di sfaldarsi. In preparazione all’attacco, Roma avviò una serie di trattative con Gran Bretagna, Francia, Impero russo, per evitare che qualcuna di queste potenze mirasse alla Tripolitania; decise infine di intervenire quando la Germania, per dimostrare la potenza del suo esercito, causò la seconda crisi marocchina (1911-1912). Per paura che lo status quo del Mediterraneo venisse alterato e che le sue mire verso la Tripolitania fossero ostacolate, Roma decise tempestivamente di attaccare questo territorio nell’ottobre del 191123.

L’attacco alla Libia si svolse in tre fasi: nella prima vennero compiute operazioni di disturbo nei confronti dell’impero ottomano nell’Adriatico, poi la Marina bombardò i forti di Tobruk, Bengasi, Homs, Derna. I turchi non si arresero e combatterono contro l’invasione italiana e anche la popolazione araba non accolse gli italiani come dei salvatori, ma organizzò movimenti di resistenza molto agguerriti.

L’esercito italiano comunque ebbe grosse difficoltà a conquistare Tripolitania e Cirenaica. Ne sono un esempio le imboscate tese dalle truppe turche in due quartieri di Tripoli a pochi giorni di distanza l’uno dall’altra. I massacri di Sciara-sciat e di El-Messri fecero in totale 600 vittime tra i soldati italiani. La reazione dell’esercito italiano fu violenta (fu proclamata la legge marziale e migliaia di tripolini furono deportati in Italia o uccisi) e l’operato del governo venne criticato sia dall’opinione pubblica interazionale, sia dalle cancellerie delle maggiori potenze europee, che criticarono inoltre Roma per la sua incapacità di venire a capo della situazione in Libia.

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16 Per mettere a tacere le critiche delle altre potenze europee, il governo italiano fece firmare al re un regio decreto di immediata annessione della Tripolitania e della Cirenaica. Il decreto apriva la seconda fase dei conflitti, in cui la guerra non era più di posizione, ma di movimento: l’esercito puntò verso Homs, Derna, Tobruk , Bengasi e al-Machbez.

Il 15 ottobre 1912 l’Italia concordò con l’impero ottomano un preliminare trattato di pace ad Ouchy, firmato poi il 18 ottobre da entrambe le potenze. Con tale trattato, firmato a Losanna, l’impero ottomano abdicava alla sovranità su Tripolitania e Cirenaica, anche se di fatto erano state annesse all’Italia, con eccessiva fretta: il 5 novembre 1911 Giolitti fece firmare un regio decreto di immediata annessione di Tripolitania e Cirenaica, perfezionato poi il 25 febbraio 1912, con il quale il governo intendeva prevenire le critiche delle cancellerie europee, ma costituiva di fatto un atto azzardato e prematuro, dato che la resistenza libica non era ancora stata fiaccata e gran parte dei territori non era ancora stata conquistata. L’Italia quindi annesse come territorio coloniale la Libia: anche se il potere ottomano non sussisteva più nella regione, rimanevano comunque in Libia la resistenza araba, i notabili delle città e la resistenza senussita in cirenaica.

In generale, secondo Labanca, la colonia libica fu un successo per l’Italia, ma non lo fu del tutto, perché appena conquistata scoppiò la Grande Guerra e l’interesse per la colonia passò in secondo piano. Al contempo, la presenza italiana avrebbe dovuto stabilizzarsi in Libia, invece si radicò l’opposizione araba anti-italiana e le roccaforti italiane presero a cadere una dopo l’altra. Alla metà del 1915, i domini italiani erano ridotti alle città della costa. Nel frattempo, la crisi senussita, che portò Mohamed Idris a diventare il loro capo, spinse Roma e Bengasi a ritenere possibile un accordo con questa regione.

Il 26 aprile 1915, fu firmato in segreto il patto di Londra che prevedeva generiche concessioni di territori nell’Oltremare all’Italia. L’articolo 13 in particolare recitava che, nel caso in cui Francia e Gran Bretagna avessero accresciuto i propri domini in Africa a spesa della Germania, l’Italia avrebbe potuto reclamare un generico e non meglio precisato “equo compenso” per le proprie questioni coloniali, cioè lo stabilimento delle frontiere tra le colonie italiane e quelle delle due potenze. Dopo la guerra, il governo italiano aveva predisposto due programmi per una futura espansione coloniale, detti “piano minimo” e “piano massimo” e si continuò a guardare all’Altopiano abissino come meta della prossima espansione italiana. L’Italia non riuscì ad ottenere nuovi territori dalla spartizione delle ex colonie tedesche alla conferenza di pace di Parigi del 1919 e si dovette accontentare di definizioni minime di confini. Il programma di espansione verso l’Etiopia fallì perché

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17 Gran Bretagna e Francia non volevano che uno stato come l’Italia si insediasse lì, anche se era una regione non di primaria importanza, ma dove entrambe avevano interessi da tutelare.

I.2. La fine dei governi liberali e la politica coloniale del Fascismo

Il periodo che va dalla prima Guerra Mondiale e arriva più o meno fino alla fine del secondo conflitto vede la trasformazione delle politiche coloniali. Il cambiamento si verificò sia a livello europeo, sia in Italia. Con la conferenza di Versailles del 1919, Francia e Gran Bretagna, potenze vincitrici, si erano suddivise i vecchi possedimenti della Germania e avevano accresciuto di un’enorme percentuale i propri possedimenti coloniali, arrecando una nuova fisionomia ai territori africani. Nel periodo tra le due guerre quindi le grandi potenze i dedicarono al mantenimento dello status quo e alla valorizzazione dei possedimenti e al rafforzamento della loro presenza.

Esula dagli obiettivi di questa tesi riflettere sulle ragioni che portarono alla conquista del potere da parte del fascismo: tuttavia possiamo accennare al fatto che la marcia su Roma è stato un evento sul quale a lungo si è dibattuto, a causa della sua ambiguità24. A consentire l’ascesa del fascismo nel

1922 fu certamente la crisi dei partiti liberali, che avevano mostrato indecisione nella gestione di problematiche interne ed estere e nella stessa politica coloniale. L’opinione politica interna si dimostrò infatti divisa sul colonialismo: i nuovi partiti di massa, come per esempio il partito socialista, si dimostrarono totalmente contrari al mantenimento delle colonie e la divisione era anche all’interno della stessa maggioranza di governo. Alcuni liberali infatti ritenevano che si dovessero fare dei cambiamenti nella politica coloniale: secondo Giovanni Amendola, non si doveva più combattere la resistenza, ma cercare l’accordo con gli indigeni e ridimensionare il potere dei militari.

La divisione all’interno del partito liberale fece sì che calasse la fiducia nello stesso governo e che fallisse la sua politica coloniale adottata per la Libia, la cosiddetta “politica degli accordi”. Alla fine della guerra, in Libia, che era sotto controllo italiano solo limitatamente alle città della costa, si rianimò la resistenza araba: dopo il 1911, in Tripolitania venne formata la Giumhurriya et-Trabulsia,

24 Tra i tanti volumi che possiamo citare in proposito, vedi G.Albanese, La marcia su Roma, Laterza, Roma -Bari, 2006,

oppure i precedenti A.Aquarone, L’organizzazione dello stato totalitario, Tomo primo, Einaudi Editore, Torino, 1965 e R. De Felice, Mussolini il Duce. Gli anni del consenso (1929-1936), vol.I, Einaudi Editore, Torino, 1974.

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18 cioè la Repubblica Tripolitana, e Roma non optò per uno stroncamento violento della resistenza, ma per un accordo. Nel 1919 infatti fu stipulato il Patto fondamentale, meglio conosciuto come Statuto Libico, che conferì più libertà alle popolazioni della Tripolitania. La cosiddetta politica degli statuti continuò in Cirenaica, dove l’Italia firmò un patto a el-Regima il 25 ottobre 1920, grazie al quale la Senussia venne a riconoscere la presenza nella regione dello stato italiano25. Tuttavia, la politica

degli accordi fallì in poco tempo, sia per le lotte interne alla resistenza, sia perché i funzionari coloniali preferirono non attuarne la politica, per sfruttare invece le divisioni interne alla classe dirigente libica: gli statuti erano una forma di amministrazione progressista, destinata a rimanere sulla carta.

La firma degli accordi fu male accolta in Italia e ricevette critiche dalla parte nazionalista e colonialista della classe dirigente, che la considerava l’ennesima capitolazione dell’”Italietta”. Nel frattempo in Tripolitania, la mancata attuazione dello Statuto, spinse la resistenza a distanziarsi dall’amministrazione italiana e ad avvicinarsi alla Senussia: nel 1921, in una riunione dei capi della resistenza delle due regioni, ci si accordò per un unico programma che prevedeva l’unione delle due regioni sotto lo stesso emiro. Contemporaneamente all’unificazione della resistenza, erano risorte le ostilità tra italiani e libici.

A seguito di questi fatti, in Italia la classe dirigente incitava ad una reazione aggressiva, anche se i governi delle amministrazioni coloniali erano titubanti sulla riuscita di un’operazione condotta con un esercito sguarnito a causa della smobilitazione delle truppe. Il governo italiano preferì comunque condurre un’operazione militare: fu inviato in Tripolitania come amministratore coloniale Giuseppe Volpi, che procedette alla conquista di Misurata, ultimata nel gennaio del 1922. Questo attacco decretò la fine della politica degli accordi e l’inizio della riconquista della Libia: alla metà del 1922, il governo presieduto dal liberale Giovanni Amendola fece avanzare le truppe a sud ovest di Tripoli. Le azioni in Libia, iniziate dai governi liberali, furono portate a termine nel 1923 da Mussolini, che poté dire di aver riconquistato la Tripolitania settentrionale.

La marcia su Roma insediò al governo Mussolini, che avrebbe condotto una politica coloniale diversa da quella dei suoi predecessori, per tono e per scopi: le colonie sarebbero diventate uno dei temi principali della politica estera fascista, che puntava al prestigio nazionale e a mettere l’Italia al pari delle altre potenze europee. Eppure, nei primi anni del governo fascista, l’Italia dette vita ad una

25 F.Cresti, M.Cricco, Storia della Libia contemporanea, Carocci, Roma, 2015, pp.84-90. Cfr. anche S. Berhe, Notabili

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19 politica diplomatica non aggressiva, anche se ci furono dei cambiamenti di poco conto per i possedimenti italiani e che in sostanza furono concessioni delle altre potenze. La politica fascista del primo periodo si attestò su posizioni attendiste, che amalgamavano elementi di continuità con i precedenti governi liberali a elementi di novità, che mostravano una politica nei fatti aggressiva e di revisione dell’ordine internazionale stabilito dopo Versailles.

La politica di Mussolini si incentrò sullo stato forte e corporativo e sulla critica della Società delle nazioni e sul revisionismo dell’ordine istituito a Versailles26. Durante il fascismo, ministro delle

colonie fu nominato Luigi Federzoni, uno dei maggiori esponenti della politica nazionalista e colonialista del periodo liberale. Nell’opera di propaganda portata avanti con i mezzi della stampa, il fascismo promosse il mito della Roma imperiale e dell’«Africa che era già stata romana», che riuscì a pervadere anche le frange più arretrate del popolo. La fascinazione per l’Oltremare sconosciuto ed esotico trovava terreno fertile all’interno di quelle frange del popolo meno acculturate e poco sensibile alla cultura americana, che durante il regime fascista non raggiungeva le case dei cittadini. Un aspetto interessante che riguardò il periodo fascista fu anche il sostegno che la Chiesa cattolica dette al progetto di aggressione all’Etiopia, anche se inizialmente Pio XI aveva manifestato una ferma contrarietà verso un’aggressione allo stato africano: il conflitto infatti, secondo il Papa, da lì sarebbe dilagato in Europa, avrebbe permesso l’avvicinamento tra Mussolini e Hitler e impedito l’opera di missione per la propagazione della fede dell’Italia. I cattolici manifestarono la loro adesione alla guerra per l’Impero nel momento in cui l’Italia ricevette le sanzioni dalla Società delle Nazioni, a seguito dell’aggressione del 1935. Da quel momento, il sostegno del mondo cattolico alle imprese africane fu totale27. Dalla guerra in Etiopia la chiesa cattolica ebbe un peso all’interno delle

colonie, che ebbero ciascuna la sua prefettura o il vicariato apostolico28. In connessione alla politica

coloniale, il fascismo utilizzò, in funzione anti-ingese, l’espediente retorico della “spada” islamica: la Roma fascista voleva con questo porsi come protettrice dei popoli islamici, sfruttando il fatto che le tre colonie conquistate erano di religione a maggioranza musulmana e allo stesso tempo, consapevole del grande ruolo che la Gran Bretagna rivestiva in Medio Oriente, il Duce voleva che l’Italia fascista fosse considerata paladina di tutti quei popoli islamici che avessero voluto distruggere la pax britannica in Medio Oriente. I piani del sottosegretario alla guerra e capo di stato maggiore Alberto Pariani prevedevano infatti un attacco italiano alla Gran Bretagna, che andasse

26 S.Duranti, La politica estera fascista tra storia politica e storia diplomatica, in «Studi storici», gennaio-marzo 2014. 27 L. Ceci, L’interesse superiore. Il Vaticano e l’Italia di Mussolini, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 182-194.

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20 dalla Libia fino al Canale di Suez, che avrebbe destabilizzato la posizione di Londra in quella zona. La politica filo-islamica del fascismo voleva far dimenticare la violenza usata dagli italiani contro la resistenza anticoloniale libica. La politica mussoliniana nei confronti delle popolazioni arabe consisteva nel considerare la civiltà italiane quella araba come “complementare”, simili dal punto di vista culturale, in quanto paesi uniti dalla stessa cultura mediterranea, vittime della politica estera inglese. Una politica contraddittoria, di un paese che si presentava contemporaneamente come colonialista e anticolonialista, che si autoproclamava «“protettrice” dell’Islam»29.

Il fascismo si dedicò dal 1925 al 1929 al mantenimento dell’equilibrio interno delle colonie e alla riconquista della Somalia e della Libia. Complici le circostanze internazionali, nello sgretolamento dell’ordine creato a Versailles e nel pieno della crisi economica del 1929, all’Italia fu possibile portare avanti una politica coloniale aggressiva e mettere finalmente in campo i piani per la riconquista dell’Etiopia, sfruttando inoltre la crisi che stava attraversando la Società delle Nazioni. Una serie di piani segreti ben mostrano quali fossero le intenzioni del Duce: un piano del ministro delle colonie Federzoni, che risaliva al 1928, proponeva di unire i territori del nord africa per arrivare al Golfo di Guinea e ottenere il Camerun; altri piani volevano scalzare la Gran Bretagna dall’Egitto, sempre per realizzare la continuità dell’impero; infine, quello più sospirato era di conquistare l’Etiopia30. Questi

piani non avevano la forza di sovvertire l’ordine internazionale, ma certo ne avevano abbastanza per logorarlo.

Dalla seconda metà degli anni ’20, la questione delle colonie assunse sempre maggiore importanza e diventò un argomento di centrale importanza per il governo: lo stesso Mussolini e i reali compirono per la prima volta una visita nei territori d’Oltremare(Mussolini nel 1926 fu a Tripoli, nel 1928, invece, Umberto di Savoia si recò in Eritrea e in Somalia, nello stesso anno Vittorio Emanuele III in Tripolitania; quest’ultimo infine visitò l’Eritrea nel 1932, la Cirenaica nel 1933 e la Somalia nel 193431), il ministero delle Colonie assunse sempre più importanza e autonomia e Mussolini,

accentrando sempre più il potere nella sua persona, riallacciò rapporti sempre più stretti con le amministrazioni coloniali e pretese che corrispondessero direttamente a lui.

29 Sulla politica fascista nei confronti delle popolazioni arabe, cfr. R. De Felice, Il fascismo e l’Oriente: arabi ebrei e

indiani nella politica di Mussolini, Bologna il Mulino 1988, pp.40-65 e A. Marzano, Onde fasciste. La propaganda araba di Radio Bari (1934-1943), Carocci editore, Roma 2015, pp.144-163.

30 Labanca, Oltremare, pp.169-170. 31 Ibid. pp.168-169.

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21 L’inversione di tendenza della politica coloniale si manifestò anche nelle colonie. Al suo arrivo infatti Mussolini dichiarò definitivamente decaduta in Libia la politica degli Statuti. Nel 1923 riuscì a sedare la maggior parte della resistenza tripolitana e nel 1925 gli italiani arrivarono a controllare la Tripolitania settentrionale. In Cirenaica, Roma interruppe ogni accordo e trattativa con la Senussia. Nel 1928 Tripolitania e Cirenaica furono riunificate con la legge del 3 dicembre 1934 nell’unica Libia e sottoposte al governatore generale Italo Balbo. Ma le cose non erano così semplici: mancava ancora la conquista della Tripolitania del sud e di gran parte della Cirenaica, la cui resistenza senussita non era ancora stata piegata. Le operazioni iniziarono nel 1925 e si concentrarono in un primo momento nel nord e, dopo due rastrellamenti ravvicinati nel tempo nel Gebel, la resistenza senussita iniziò a dare segni di cedimento. D’altra parte, la stessa Roma dovette ridurre l’impegno militare per ragioni di bilancio. La resistenza non dava comunque segni di cedimento, per cui Mussolini ritenne di dover inviare in Libia il generale Badoglio, che attuò una strategia violenta per placare la resistenza. Inizialmente tentò la via della diplomazia, prima con un negoziato indiretto (aprile-maggio 1929), per poi passare ad un accordo diretto con Omar al-Mukhtar. Nel frattempo, il vicegovernatore di Bengasi fu sostituito da Graziani, il 13 marzo 1930. Il nuovo vicegovernatore avviò una politica di espropriazione delle proprietà delle zavie senusse (i luoghi di culto e di insegnamento religioso dei musulmani32) e ad una politica che portò all’istituzione dei campi di

concentramento: le popolazioni seminomadi furono mobilitate dal Gebel fino alla costa e internate, dal giugno 1930 all’aprile1931. Nel 1932, cioè quando i campi vennero smantellati, più di un quarto della popolazione della Cirenaica aveva perso la vita. Grazie a questa politica violenta e senza scrupoli, fu possibile catturare e poi condannare a morte Omar al-Mukhtar.

Anche in Somalia fu avviata una politica di riconquista, guidata da Cesare Maria de Vecchi, che condusse una politica violenta e spregiudicata, senza alcuna volontà di comprensione delle realtà locali. De Vecchi avviò una politica di fascistizzazione della colonia, rafforzando la sua componente bianca e decise inoltre di avviare una politica di disarmo delle popolazioni somale. L’operazione di riconquista della Somalia e del disarmo delle popolazioni somale resistenti, prese avvio il 1° ottobre 1925, con l’attacco al sultanato di Obbia. La riconquista avvenne sotto il segno della violenza, che avrebbe visto coinvolti anche i civili concessionari di Genale, i quali si lasciarono andare ad episodi di inaudita violenza. Nel gennaio-febbraio 1927, de Vecchi dichiarò la pax coloniale con la sottomissione della Migiurtinia (anche se di fatto fu veramente piegata il 6 novembre 1927). Nel

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22 periodo successivo, la colonia dovette affrontare problemi di ordine economico, che furono affrontati dal governatore Corni e poi dal suo sostituto Rava.

Inizialmente, con Addis Abeba fu stabilito un accordo commerciale e politico, perché all’Etiopia veniva garantito un accesso al mare e una zona franca ad Assab e delle armi e all’Italia veniva concessa una strada camionabile all’interno dell’Etiopia che andava da Assab a Dessiè. Ma nel frattempo si procedeva a militarizzare l’Eritrea e a comporre piani segreti di aggressione contro l’Etiopia.

I.3. La guerra di Etiopia: dalla costruzione dell’impero fascista alla sua distruzione

Le motivazioni che indussero Mussolini a dichiarare guerra all’Etiopia furono sia di ordine interno che esterno. Per quanto riguarda la politica interna, una guerra coloniale avrebbe consolidato il consenso al regime, poiché ampie fette della popolazione avrebbero goduto dei frutti della conquista, dal proletario all’industriale. La seconda motivazione riguardava invece le relazioni internazionali: la politica aggressiva avrebbe accresciuto l’importanza dell’Italia di fronte alle altre potenze europee (quella che sarebbe stata definita dagli storici una “politica di prestigio”)33. La

guerra avrebbe dovuto essere breve, per impedire che la Società delle nazioni intervenisse per riportare la pace tra le potenze e impedisse la sottomissione dell’Etiopia. Per prima cosa, Mussolini avviò una politica diplomatica che andava alla ricerca dell’accordo con le altre potenze europee, le quali acconsentirono perché così credevano di deviare il bellicismo italiano fuori dall’Europa e far sì che nazismo e fascismo non si alleassero (cosa che invece fecero). La prima mossa dell’Italia si concretizzò il 7 gennaio 1935 con un accordo con la Francia, sottoscritto da Mussolini e Laval: grazie ad esso, Roma ottenne – o credette di ottenere – l’assenso francese per le azioni italiane in Etiopia. La Francia fu seguita a ruota dalla Gran Bretagna.

Per l’aggressione, il Duce volle mobilitare gran parte delle forze armate, nella previsione che quella in Etiopia sarebbe stata una guerra totale e coloniale. La preoccupazione maggiore dell’Italia comunque era legata alla Gran Bretagna, che con la sua flotta avrebbe potuto destabilizzare gli equilibri del Mediterraneo e compromettere la guerra d’Africa fascista.

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23 Il casus belli sfruttato per attaccare l’Etiopia si verificò nella località di Ual Ual, ricca di pozzi e contesa tra Italia ed Etiopia e venne preso a pretesto dall’Italia per evitare che si accusasse di essere uno stato aggressore. Dal 1934 era presente su questo confine una commissione anglo-etiopica, che venne malamente accolta in questa località e minacciata con voli di ricognizione italiani. I combattimenti iniziarono il 5 dicembre 1934 e da qui Roma potette scatenare la guerra contro l’Etiopia. Immediatamente dopo l’incidente, l’Etiopia, in quanto membro della Società delle Nazioni, si appellò subito per invocare le sanzioni previste nel caso in cui fossero sorti problemi tra due potenze che facevano parte dell’organizzazione, e in un primo momento, la denuncia etiopica non venne presa in considerazione dagli altri membri della SdN. Con l’aggressione allo stato africano, l’Italia inferse un grosso colpo alla Società delle Nazioni34. La causa della destabilizzazione dell’ordine

internazionale non era da imputare solamente alle decisioni prese in seno alla Lega, ma anche dalla politica dell’appeasement: adottata dalle altre potenze europee, lasciò via libera all’azione aggressiva di Mussolini. L’Italia venne ufficialmente denunciata alla Società delle nazioni il 6 ottobre 1935: in un primo momento, per risolvere il conflitto, si optò prima per una spartizione dell’Etiopia tra Londra, Parigi e Roma (rifiutata dalla stessa Etiopia) e infine si arrivò ad imporre allo stato aggressore delle blande sanzioni, che non concorsero a fermarne l’avanzata in Africa e che furono abolite alla fine di questo conflitto.

L’Italia schierò in Africa un esercito molto grande. Di fronte a questo il negus utilizzò una tattica tradizionale, decidendo di affrontare l’esercito nemico in grandi battaglie, invece di darsi alla guerriglia. Tuttavia, questa strategia fu fallimentare e portò alla sconfitta.

L’attacco fu condotto su due diversi fronti: a nord le truppe del generale De Bono che dall’Eritrea puntavano verso Addis Abeba, e a sud Graziani, proveniente dalla Somalia, con una funzione di contenimento delle armate del negus, ma non offensiva. La prima fase della guerra, con l’esercito al comando di de Bono, fruttò all’Italia la conquista di Adua (il 6 ottobre), Axum (14 ottobre) e Macallé (7 novembre). La previsione di un’avanzata più rapida portò Mussolini a decidere di sostituire de Bono con il maresciallo Badoglio. Badoglio si dedicò meticolosamente alla revisione della strategia di aggressione e della composizione delle armate, mentre Mussolini lo spingeva ad effettuare un’azione drastica che lo portò ad acconsentire all’utilizzo di gas nelle retrovie. In generale, non si sortirono grandi risultati e molta risonanza fu invece data dalla stampa all’operato

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24 di Graziani in Somalia, che vinse la battaglia del Ganale Doria (11-15 gennaio 1936). In tutto, all’inizio del 1936 ancora non si aveva nessun risultato definitivo.

Dopo il gennaio 1936, si ebbero varie grandi battaglie campali, in cui vennero battute le armate etiopi, fino alla battaglia decisiva di Mai Ceu (29 -31 marzo), quando finalmente l’esercito guidato dallo stesso negus finì per essere sconfitto dalle armate di Badoglio. Dopo aver stroncato la resistenza etiopica con l’uso dei gas, dichiarati illegali dal protocollo di Ginevra, finalmente l’esercito italiano riuscì ad entrare ad Addis Abeba il 5 maggio, e Mussolini dichiarò la fondazione dell’Impero il 9 maggio, anche se ancora gran parte della colonia, annessa in tutta fretta, rimaneva fuori controllo e da pacificare35.

La guerra fu totale e fascista, perché decisa e strutturata tutta dallo stesso Mussolini. La guerra avvenne alla Società delle nazioni e al protocollo di Ginevra sottoscritto dalle potenze uscite traumatizzate dalla Prima guerra mondiale nel 1925, che vietava l’utilizzo dei gas nei conflitti. Oltretutto, l’Italia utilizzò i gas in violazione della Convenzione di Ginevra, perché impiegati dove e quando non fu necessario, cioè nelle retrovie e quando era chiaro che la resistenza poteva essere battuta anche con il solo esercito. La guerra dei sette mesi fu inoltre la più propagandata e la più protetta da censura, cosa che condizionò non solo l’opinione pubblica italiana, ma anche quella estera.

La particolarità dell’impero che era appena stato acquisito era che era giuridicamente indefinibile, poiché non si sapeva quali territori ne facessero effettivamente parte. Questo era indice del fatto che Mussolini guardasse in modo strumentale all’impero d’Oltremare e solo come una questione di prestigio dell’Italia e tralasciava l’importanza della difficoltà di una colonizzazione e di tutte le conseguenze di una conquista.

La guerra del 1935-1936, denominata la “guerra dei sette mesi” per la sua brevità, fu la più grande campagna di conquista coloniale mai attuata, a causa della grandezza dell’esercito messo in campo: nelle previsioni di Emilio de Bono, la guerra avrebbe dovuto essere breve e moderna, con un grande dispiegamento di mezzi e uomini e del potente e moderno mezzo dell’aeronautica. Fu l’ultima campagna coloniale dell’Europa e fu una guerra anacronistica, condotta quando tutte le altre potenze avevano ormai consolidato i propri domini e in contemporanea allo sviluppo e alla

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25 radicalizzazione dei nazionalismi. La guerra ebbe anche l’effetto di dimostrare l’inconsistenza del sistema di sicurezza collettivo creato a Versailles.

La guerra fu nazionale, perché investì ogni frangia della popolazione nella sua preparazione e fu una guerra fascista: coinvolse infatti tutta la gerarchia del regime, dagli intellettuali ai semplici civili, che si arruolarono in gran numero come volontari all’interno della milizia volontaria. Fu inoltre una guerra “genuinamente fascista”, perché condotta dal solo regime, che l’aveva interamente organizzata e condotta senza l’aiuto di alleati. Nel conflitto, grande importanza venne assunta dalla stampa, grazie alla quale le imprese dell’esercito (soprattutto quelle della milizia volontaria, anche se nella maggior parte dei casi i racconti sono gonfiati e infarciti di retorica) assunsero enorme visibilità.

Il conflitto, tuttavia, ebbe delle notevoli conseguenze: l’isolamento in cui era piombata l’Italia dopo l’aggressione, la spinse ad allearsi con la Germania. A livello nazionale, le conseguenze furono nefaste, anche se non immediatamente visibili: la vittoria contro l’esercito di un nemico più debole e tradizionale, fece credere ai vertici del regime di avere la giusta forza per riuscire a sostenere delle successive campagne di conquista e a Mussolini di possedere il dono di essere un grande capo di guerra (cosa che lo porterà a compiere errori molto gravi durante il conflitto mondiale). L’enorme sforzo di riarmo, infine, rallentò la produzione economica, rallentando lo sviluppo.

Dopo la conquista e l’annuncio della fondazione dell’impero, la colonia etiopica non si poteva comunque dire pacificata. Anzi, si assistette alla rinascita e all’evoluzione della resistenza etiopica. Da Roma Mussolini richiedeva che il governatore Graziani conquistasse tutto il territorio, non redendosi conto di quanto fosse ampio. Graziani, nel periodo che va dal 1936 al 1937, si dedicò alla sottomissione di tutta la classe notabile tradizionale e a “grandi operazioni di polizia coloniale”: all’esercito fu data carta bianca e fu protagonista di episodi di inaudita violenza. Con queste operazioni, i più noti ras e gran parte della resistenza fu eliminata. In vari casi gli italiani si macchiarono di delitti atroci, come la rappresaglia a seguito dell’attentato a Graziani e il massacro di Debra Libanos36. Nel frattempo, la guerriglia etiopica andava migliorando le proprie tecniche ed

evolvendosi.

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26 Nel novembre 1937, Graziani fu sostituito dal duca Amedeo di Savoia Aosta. Con lui si ebbe una svolta nella politica coloniale, dal momento che quest’ultimo non portò avanti la politica di repressione inaugurata dal suo predecessore.

Nel frattempo, dal 1934 la Libia era sotto il governatorato di Italo Balbo. Balbo incitò il regime a considerare la colonia come parte integrante dell’Italia, e tale venne dichiarata il 6 gennaio 1939. Questa mossa ebbe una grande risonanza propagandistica, perché presentava l’impero italiano come moderno e ben disposto verso l’integrazione delle popolazioni arabe, superando il modus

operandi delle altre potenze come la Francia in Algeria, anche se in realtà, come riferisce Labanca,

l’integrazione non fu mai portata avanti ed il decreto rimase del tutto formale37. Balbo operò alcuni

miglioramenti alla colonia, come la costruzione di scuole, di una strada litoranea (che non completò). Oltre alle sopracitate opere di modernizzazione, si dedicò inoltre alla cosiddetta “spedizione dei Ventimila”, una colonizzazione non diluita nel tempo e regolata e condotta dal regime, in cui un grande numero di contadini italiani si trasferì nella colonia. Si dedicò inoltre alla preparazione alla guerra che stava per scoppiare nelle colonie, come conseguenza di quella che stava per iniziare in Europa, militarizzando la costa e fortificando il confine tunisino. E progettò piani di aggressione contro la Gran Bretagna e quindi di rifornimento e modernizzazione delle truppe: ma il governatore ricevette solo uomini e mezzi non adeguati e vecchi.

Nel 1939 l’Italia entrò in guerra in Europa a fianco della Germania e nelle colonie decise di dare il via all’offensiva contro il Somaliland per realizzare l’unione della Somalia nell’agosto del 1940. Nello stesso anno iniziò a riorganizzarsi la resistenza etiopica e gli inglesi diressero un contrattacco contro l’esercito italiano nel 1941, che tolse uno ad uno, in pochi giorni, tutti i possedimenti italiani, finché l’esercito britannico non arrivò sino ad Addis Abeba il 5 maggio 1941. L’impero italiano si era praticamente dissolto, anche se rimasero a combattere ancora alcune armate, in breve distrutte. In Africa settentrionale le armate italo-tedesche dovettero subire gli attacchi inglesi e decisero di abbandonare la Libia, che venne persa nel 1943.

I.4. Dalle ceneri dell’Impero alla Repubblica

Con la caduta del fascismo nel 1943, ogni questione riguardante l’Africa orientale italiana scomparve dalle discussioni in Italia, tanto che nel “manifesto di Verona” il piano per il governo della Repubblica

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