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Cap II: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia

II.6. Gli studi postcoloniali e le nuove prospettive

Gli anni Novanta hanno visto in Italia il fiorire di studi settoriali sul colonialismo, che si sono concentrati su un periodo limitato o su una zona particolare dell’ex impero italiano in Africa. Alcuni scrittori comunque si sono dedicati a opere generali, come Nicola Labanca: in mezzo agli studi settoriali, il suo Oltremare. Storia dell’espansione coloniale italiana, uscito nel 2007, ha lo scopo di dare una visione generale sul colonialismo italiano, dalle origini alla perdita delle colonie. Un importante capitolo viene dedicato alla storiografia coloniale: Labanca analizza il percorso degli studi sulle colonie, dal periodo liberale fino agli anni Ottanta, ponendo particolare attenzione al ritardo con cui si è passati da una storiografia “celebrativa” ad una “critica”.

Secondo Marco Lenci, la mole di lavori e ricerche comparse in questi ultimi decenni hanno contribuito a colmare le lacune sia nella storia del colonialismo sia nella storia dell’Africa, ponendo finalmente la questione da una molteplicità di punti di vista e studiando il fenomeno del colonialismo in modo più accurato e profondo121. In questi ultimi anni infatti, possiamo dire che la

storiografia italiana è riuscita a riallinearsi con quella internazionale, che già da anni si misurava con i cosiddetti “studi postcoloniali”.

77 Questi studi sono nati all’estero tra la fine degli anni Quaranta e gli anni Settanta, quando presero avvio nei paesi africani e asiatici le lotte per l’indipendenza dal dominio europeo: la raggiunta indipendenza permise finalmente ai popoli indigeni di emanciparsi non solo dalla sottomissione politica, istituzionale, economica e sociale a cui erano relegati, ma anche quella culturale. Il raggiungimento dell’indipendenza permetteva finalmente alle popolazioni extraeuropee di poter esprimere la propria voce. I lavori di Franz Fanon, Aime Césaire e Edward Said, successivamente, aprirono la strada ad un nuovo filone di ricerca e, si può dire, ad una nuova storia. Il fenomeno del colonialismo cominciò ad essere decostruito “dal basso”, cioè analizzato da un nuovo punto di vista, quello di chi era stato sottomesso per secoli, e si andava ad aggiungere alla storiografia “egemone”, che aveva inteso il colonialismo solo come la storia delle campagne europee e delle conquiste in Asia e Africa. Non solo, ma cambiava anche la definizione stessa di colonialismo: un fenomeno molto più complesso che non comprendeva solo risvolti politici ed economici, ma rappresentava un “incontro/scontro” tra culture e popoli diversi e prevedeva la formazione di un “pensiero coloniale”, destinato a influenzare (in modi diversi), non solo i popoli indigeni, ma anche le stesse madrepatrie. Visto da una nuova angolatura, il colonialismo non è più un semplice fenomeno causa-effetto, ma un processo non delimitabile spazialmente e cronologicamente: quando si parla di cultura, infatti, è difficile riuscire a delimitare razionalmente quando un modo di pensare viene definitivamente accantonato. Non ci troviamo davanti ad un rivolgimento economico o politico: quando si parla di cultura si è di fronte ad un concetto “liquido”, i cui elementi si sedimentano nelle coscienze e, anche se possono sembrare ormai sorpassati e anacronistici, tendono a ripresentarsi nel tempo, se non rielaborati ed esaminati a dovere. In questo senso, gli studi postcoloniali e gli studi culturali si occupano di “scovare” il “rimosso” all’interno del presente.

Il colonialismo è stato un fenomeno che ha influito profondamente sulle strutture sociali, politiche, economiche e culturali dei popoli, sia quelli assoggettati, sia quelli dominanti e che ha determinato uno sconvolgimento della geopolitica mondiale. È stato perciò molto profondo l’impatto a livello mondiale che alcune sue caratteristiche si sono imposte e permangono ancora oggi: il pensiero coloniale, motore e prodotto dell’espansione, si è imposto andando a determinare i modi di pensare. Il discorso coloniale ha infatti determinato la differenza tra “razze” e ha segnato le caratteristiche dell’“alterità” rispetto all’identità nazionale.

A proposito della complessità del fenomeno “colonialismo”, si è detto precedentemente che non è delimitabile spazialmente: questo significa che, rimanendo all’interno dell’ambito studiato dai

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cultural studies e riprendendo quanto già detto precedentemente, il pensiero coloniale ha influito

sia sui popoli assoggettati sia su quelli dominanti e per questo. Uno studio attento deve riuscire a considerare entrambi i punti di vista e riuscire a capire in che modo questo incontro/scontro tra due popoli abbia influito su entrambi.

I nuovi studi che compaiono in Italia si sono affiliati ai cultural studies e studiano l’immaginario coloniale, in particolare come questo si sia legato alla costruzione dell’identità nazionale. L’immaginario è un insieme di concetti e immagini mentali che si sono affermati in Italia grazie alla propaganda espansionistica, sia durante il periodo liberale sia durante il fascismo. L’immaginario coloniale viene studiato anche in rapporto alla memoria che ne possediamo, vale a dire rispetto a quanto la nostra cultura oggi conservi elementi risalenti al periodo coloniale.

Alcuni convegni sono stati dedicati negli ultimi anni a questo tema, per esempio quello del settembre 2014, organizzato all’interno delle attività della SISSCO, da cui è stato tratto il volume

Quel che resta dell’impero. La cultura coloniale degli italiani, curato da Alessandro Pes e Valeria

Deplano.

Il volume è importante per fare un “punto della situazione” sulle ultime ricerche condotte in Italia sul colonialismo e sulla memoria coloniale. Questo mette in evidenza quanto sia importante esaminare non solo il periodo dell’effettiva espansione italiana, cioè dall’acquisto della baia di Assab alla perdita delle colonie negli anni Quaranta, ma anche il periodo successivo alla perdita, per capire gli effetti stessi dell’espansione. In particolare, gli interventi vogliono dimostrare il legame tra colonialismo e identità nazionale nella storia d’Italia. IL libro è diviso in quattro sezioni tematiche diverse: la prima è dedicata all’aiuto fornito dalla scienza all’impero, la seconda all’educazione coloniale dedicata all’infanzia, la terza ai legami tra pensiero coloniale, costruzione dell’identità nazionale e genere, la quarta ai modi in cui l’Italia ha “mostrato” l’impero e l’ultima al rapporto tra l’Italia e le ex colonie.

La prima parte del volume contiene ricerche che si interrogano sul rapporto tra la scienza e la propaganda di regime, cioè si chiedono quanto la scienza abbia fornito aiuto nel determinare le caratteristiche discriminanti tra “noi” e l’”altro”. Ne emerge che le scienze come l’etnografia e l’antropologia sono state necessarie per la definizione dell’identità nazionale come superiore e quindi differente rispetto al colonizzato, barbaro e incivile e che su queste si è basata anche la gestione burocratica delle colonie. La seconda parte dedicata all’educazione, fornisce alcuni esempi attraverso i quali il fascismo si è dedicato all’indottrinamento dei più piccoli: dalle copertine dei

79 quaderni all’insegnamento dedicato ai territori conquistati, l’intento del regime era quello di creare l’”italiano nuovo”, che costruisse la sua identità sui valori della superiorità razziale. La terza parte risulta interessante perché interamente dedicata alla fotografia: come sostiene Alessandro Volterra nel suo capitolo dedicato al processo e alla condanna a morte di Omar al-Mukthar, la fotografia rappresenta un elemento determinante nella ricerca, perché -in questo caso- è in grado di confermare (o smentire) in maniera chiara e immediata quanto sostenuto nei documenti122. La

fotografia dà inoltre una rappresentazione più chiara del contesto ed è più esplicita di un documento scritto. La sezione procede con altri due esempi di indottrinamento per le masse affidati alle mostre fotografiche, ai musei e alle esposizioni universali: questi non erano altro che alcuni dei canali utilizzati dal regime per diffondere il pensiero coloniale.

La quarta sezione viene poi dedicata al genere, un tema decisamente esplorato in profondità negli ultimi decenni (poiché è uno dei temi fondamentali del post colonialismo, come studio dei gruppi umani subalterni): ne emerge una visione della donna che si lega strettamente sia alla definizione dell’altro, sia all’identità nazionale. Vengono infatti esaminati molti documenti che si dedicano alla definizione della morale che devono tenere le maestre che vanno ad insegnare nelle colonie, le quali devono fornire un’immagine di loro stesse morigerata, casta e nubile, quale donna che ha rinunciato al matrimonio per l’insegnamento. Le insegnanti dovevano attenersi a questo comportamento per restituire un’immagine proba della nazione italiana agli occhi del mondo.

L’ultimo contributo del volume è dedicato interamente alla memoria coloniale e alle vicende affrontate dall’Italia dopo il ’45 in merito alle colonie. È il capitolo dove in sostanza si spiega il perché della cosiddetta “decolonizzazione mancata”, sia degli studi sia delle coscienze: le colonie non sono mai state volontariamente abbandonate dall’Italia e di questo ne ha risentito la presa di coscienza su questa perdita, su cui di fatto si è riflettuto poco. Ne è un esempio l’accoglienza riservata dall’Italia ai primi visitatori provenienti dalle ex colonie, nello specifico agli studenti somali a cui era stata data la possibilità di usufruire di borse di studio in Italia negli anni Ottanta: le reazioni dei vari interlocutori con cui gli studenti han interagito, per esempio gli affittuari degli alloggi che dovevano occupare, non sono state di un esplicito razzismo, ma una sorta di “disabitudine” a concepire l’altro come un “pari”.Il recente volume di Gabriele Proglio, Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e

122 A. Volterra, Morì, siccome ‘n topo. Le fotografie dei processi a Omar al-Mukthar e ai resistenti libici, in Quel che

resta dell’Impero. La cultura coloniale degli italiani, a cura di V. Deplano e A. Pes, Mimesis, Milano-Udine, 2014,

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italianità123, si propone di rispondere al seguente quesito: quali legami ci sono tra la costruzione

dell’identità nazionale e la mentalità coloniale durante la guerra in Libia del 1911-1912? Per dirlo in modo più chiaro: è possibile che l’identità nazionale possa costruirsi anche grazie al confronto/scontro con l’”alterità”, cioè che possa definire le proprie caratteristiche, sempre positive, sulla base del confronto con un altro soggetto, un popolo che ne possiede di negative e antitetiche rispetto a quelle?

La propaganda per creare consenso alla campagna di conquista, per riuscire nel suo intento, doveva compattare la nazione intorno ad un nucleo identitario solido e sicuro e porsi in contrasto con il “nemico” del nord Africa: facendo propria la lezione di Traverso124,Proglio spiega che la nazione

riesce a compattarsi se si individua un “nemico comune”, definito da valori e caratteristiche psico- fisiche antitetiche a quelle del popolo italiano.

Utilizzando il lessico postcoloniale e degli studi culturali, Proglio cerca di rispondere al quesito sul come e fino a che punto la propaganda liberale riuscì a raggiungere la popolazione e a compattarla nel consenso all’espansione. L’intento della propaganda coloniale era quello di creare unità nel paese e di riuscire a livellare le varie differenze, tra cui quella di classe: nei libri di storia si può leggere che la campagna in Libia riscosse molto successo tra le masse, che riempirono le piazze trasportate da ideali nazionalisti. Le differenze però continuavano a sussistere all’interno dell’Italia: se la propaganda non riuscì a creare unità, creò però unitarietà: sebbene le differenze non fossero state livellate, la popolazione finì per parlare lo stesso “linguaggio coloniale”, quindi aveva fatto proprio l’immaginario colonialista (e nazionalista).

L’immaginario coloniale era costituito da una serie di immagini mentali e convinzioni sull’identità italiana e sull’Oltremare, che possedevano sia il singolo, sia il gruppo. Vari mezzi furono mobilitati dal governo liberale per diffondere questo “linguaggio”, tra cui la stampa e la scuola, che veicolavano immagini e discorsi che andavano a colpire, appunto, il singolo e il gruppo, modificandone il modo di pensare e di agire, nei confronti sia della propria identità nazionale, sia nei confronti del “nemico africano”.

Proglio esamina quattro diversi tipi di fonte e vi dedica a ciascuno una sezione: la prima è dedicata ai discorsi dei nazionalisti, la seconda alle omelie ai caduti, la terza all’indottrinamento nelle scuole

123 G. Proglio, Libia 1911-1912. Immaginari coloniali e italianità, Le Monnier, Firenze, 2016. 124 Cfr. E.Traverso, La violenza nazista. Una genealogia, il Mulino, Bologna, 2002.

81 e per l’infanzia, la quarta alla letteratura coloniale e agli intellettuali che si espressero su questo argomento.

Il primo capitolo esamina quali caratteristiche del discorso coloniale emergano dai discorsi dei nazionalisti, ovvero come ci si convinse in politica, dopo il disastro di Dogali e Adua, a ritentare l’impresa coloniale. In Italia non si possedeva conoscenza alcuna di quella terra e si dedicò, per prima cosa, ai racconti di quelle terre basati sui racconti di pochi esploratori e su leggende e invenzioni: la Libia fu conquistata prima a parole e poi nei fatti125. L’espansione in Libia accolse consensi perché

quella terra sembrava la risposta ai nodi irrisolti della penisola: era vista come una “terra promessa”, che poteva consentire l’arricchimento del contadino italiano, ridotto alla fame e alla povertà nel mezzogiorno dell’Italia. In quanto terra promessa, costituiva anche una rivalsa degli emigranti italiani, che non sarebbero più stati sfruttati come nelle Americhe, ma si sarebbero potuti stabilire in una terra ricca, fertile e di proprietà dell’Italia e vi avrebbero agito non più da immigrati di serie b, ma da coloni e proprietari. La ricchezza delle colonie dell’Oltremare avrebbero compattato l’Italia e livellato le differenze tra il Nord e il Sud, risolvendo una questione che si protraeva dall’unità d’Italia. La Libia servì inoltre per dare un orizzonte mitico comune agli italiani, fatto del racconto del passato eroico e risorgimentale che si sarebbe fatto valere nell’impresa in Libia. In questo senso, gli italiani ebbero modo di ripensare il paese mentre, contemporaneamente, costruivano la colonia. I militari che avrebbero combattuto in Libia sarebbero stati accomunati agli eroi risorgimentali, che tanto coraggiosamente avevano dimostrato il valore dell’Italia: per traslazione, quegli stessi valori incarnati dai militari erano presenti anche nei civili e nel popolo italiano intero, che potevano sentirsi adesso come parte della comunità. Anche nell’ambito religioso, le omelie ai caduti impiegavano la memoria culturale per elaborare il riconoscimento dell’individuo nella comunità: i militari italiani hanno combattuto per la patria e da morti diventano i suoi simboli, entrando nell’universo eroico dei caduti. Lo scopo di questo capitolo è di dimostrare come omelie sfruttassero lo stesso universo simbolico in tutta Italia.

Il capitolo seguente si occupa, invece, dei mezzi utilizzati per la diffusione del pensiero coloniale nei confronti dell’infanzia: la scuola, i giornalini per l’infanzia, i giocattoli furono, infatti, i canali attraverso i quali si diffuse tra i più piccoli (e non solo) una nuova concezione della guerra, dell’insegnamento, dell’identità italiana e dell’”altro africano”. Gli adulti raccontarono la guerra ai bambini, determinando appunto un modo diverso di intendere la guerra e l‘infanzia stessa: il mondo

82 infantile non avrebbe più dovuto rimanere puro e incontaminato, lontano dalla politica e dalla guerra: al contrario, il bambino rappresentava adesso l’”italiano di domani” e doveva essere educato da subito ai valori dell’eroismo in guerra e all’amore per la propria patria. I giornalini per bambini raccontano inoltre l’Africa nera attraverso i fumetti: nelle due storia portate come esempio, i due protagonisti, un servo di colore e un bambino abissino, ci forniscono un’immagine stereotipica dell’africano, che in quanto tale è poco civilizzato, parla nella nostra lingua ma solo con i tempi all’infinito, la sua unica aspirazione è quella di servire gli italiani, sia in guerra sia nella quotidianità. Siamo davanti quindi alla costruzione dell’alterità con un implicito rimando alla superiorità razziale italiana.

La terza sezione è adibita all’opinione degli intellettuali sulla guerra in Libia e alla definizione della “geografia del dominio”. Attraverso la letteratura è possibile, secondo lo storico, ricostruire quali furono i presupposti della conquista. La geografia del dominio è il racconto leggendario dei luoghi che saranno protagonisti della futura conquista: per giustificare l’aggressione alla Libia, si disse che quei paesaggi erano già stati conquistati dagli antenati della nuova Italia, cioè gli antichi romani. L’aggressione all’impero Ottomano non era ingiustificata, ma serviva a riprendere possesso di un territorio già appartenuto all’Italia e che di questo passato ne portava i segni (basti vedere quanti reperti archeologici dell’antica Roma vi sono presenti). La geografia del dominio consiste quindi in una “risignificazione” dei luoghi: la Libia viene raccontata in modo diverso per organizzare il consenso. Proprio questa geografia del dominio è presente anche nelle opere di alcuni intellettuali dell’epoca: Proglio esamina in particolare i lavori di d’Annunzio, Pascoli, Marinetti e altri letterati, che descrivono la Libia con le immagini del classicismo oppure con i canoni del futurismo. Secondo Marinetti, per esempio, la Libia era il luogo da conquistare e civilizzare non solo con la superiorità culturale e della razza, ma anche con le armi della tecnologia italiana.

Seppur in ritardo rispetto agli studi internazionali, pertanto, anche nella storiografia italiana, soprattutto degli ultimi due decenni, si è verificata una progressiva presa di coscienza della questione coloniale, unita ad una maggiore consapevolezza della problematicità dell’argomento. Si è passati infatti da una storiografia “celebrativa” ad una “critica e revisionista”, per giungere infine ad una “decostruttivista”. Tale sviluppo è dovuto certamente al cambiamento del contesto storico, ma anche - se non soprattutto - al modo in cui sono state lette le fonti storiche: come ha sostenuto Battaglia infatti, un testo si deve leggere senza preconcetti, per cercare di capire che cosa significhi, non per piegarlo ai propri scopi. La storiografia degli anni Cinquanta faticava a prendere coscienza

83 dei tempi che cambiavano, come del resto fecero i governi italiani dell’immediato secondo dopoguerra, con la questione del “ritorno in Africa”. Come abbiamo visto, Carlo Giglio faticava a non dire la propria opinione in merito al colonialismo e ai nuovi studi revisionisti. Sul finire degli anni Sessanta, alcuni volumi fortemente innovativi hanno fatto da battistrada ai futuri studi postcoloniali degli anni Novanta, sebbene in ritardo rispetto all’ondata di rinnovamento che in quegli anni veniva portata avanti da Franz Fanon. Infine, gli studi postcoloniali hanno permesso di studiare diversamente il colonialismo, dando uno sguardo più consapevole alla realtà quotidiana: la decostruzione del discorso coloniale e lo studio del passato hanno infatti permesso di trovare il “rimosso” che persiste ancora oggi nella società, nella cultura e nella politica.

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Cap. 3: “Sui tetti di Mogadiscio gli italiani piangevano”: i periodici italiani