Cap.IV: Il “dramma” dei profughi in fuga da Tripoli La cacciata della comunità italiana dalla Libia di Gheddaf
IV.1. L’Italia, la Libia e Gheddafi: la nuova politica e il decreto di espulsione dei coloni italian
Veniamo adesso ad un caso diverso da quello trattato nel capitolo precedente, cioè la cacciata delle comunità italiane dalla Libia nel 1970. Questa era uno Stato indipendente già dal 1952, e tale autonomia, sebbene non conferisse una completa indipendenza dai paesi occidentali183,
permetteva senza dubbio una maggiore possibilità di manovra rispetto alla Somalia dell’Afis. Nello specifico, mentre nel caso precedente si verificò un “ritorno” delle comunità italiane, indipendentemente dal fatto che fossero ben volute o meno che fossero dalle popolazioni locali, in Libia si verificò invece una cacciata violenta184. Mentre negli anni Cinquanta ci si poteva ancora
permettere di tornare, anche se sotto il velo del mandato fiduciario, nel 1970 la Libia dimostrò che l’epoca del colonialismo era del tutto finita e che si dovesse provvedere alla completa eliminazione anche gli ultimi residui di un passato non troppo spesso ricordato. La vicenda della Libia, nel periodo che va dall’indipendenza fino al 1970, fu contrassegnata dalla volontà continua di liberarsi della presenza occidentale, sia in campo economico sia politico e militare.
La già menzionata risoluzione n° 289 decretò la creazione in Libia di uno Stato indipendente e sovrano, non più tardi del 1° gennaio 1952. La Libia sarebbe diventata una monarchia costituzionale, guidata dal sovrano Idris-al-Sanusi. Nel 1951 l’Assemblea nazionale della Libia promulgò la costituzione: lo Stato federale, guidato da una monarchia ereditaria, avrebbe avuto due capitali
183Anzi, come abbiamo visto, la Libia fu dipendente dagli aiuti occidentali per gli anni successivi all’indipendenza fino alla scoperta del petrolio e all’arrivo di Gheddafi . Cfr. M.Cricco, F. Cresti, Storia della Libia contemporanea, Carocci editore, Roma, 2015, pp. 165-188.
184 Sui motivi che il governo rivoluzionario addusse per giustificare questa espulsione, cfr. A. Del Boca, Gheddafi. Una
sfida dal deserto, Laterza, Roma-Bari, 2010, pp.XIV e 45-51; oppure, sempre dello stesso autore Italiani, brava gente? ,
Neri Pozza Editore, Vicenza, 2005 e Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi, vol.II, Mondadori, Milano, 2010; oppure Cricco, Cresti, Storia della Libia contemporanea, cit., pp.209-217.
113 (Tripoli e Bengasi) con l’Islam come religione di Stato. La concentrazione dei poteri in mano al re era tale da rasentare quasi una monarchia assoluta185.
Lo Stato libico si presentava come poverissimo e fin da subito fu costretto a chiedere sussidi economici alle potenze occidentali. a partire da Gran Bretagna e USA, che gli concessero gli aiuti solo in cambio del mantenimento di due basi militari, a Wheelus Field e El Adem. Oltre a ciò, la Gran Bretagna inserì anche dei funzionari inglesi di alto livello all’interno della burocrazia libica. Nel 1955, con l’acutizzarsi della Guerra fredda, in Libia entrò in scena anche l’Urss: la monarchia infatti cercò aiuto nel blocco sovietico, perché gli aiuti americani non erano sufficienti a sostenerla economicamente. Queste trattative vennero tuttavia vanificate da nuovi accordi stipulati con gli Usa, che avevano il fine di tagliare fuori dall’area la presenza sovietica.
Anche l’Italia strinse un accordo economico con la Libia, nel 1956, con il quale – in cambio di aiuti dall’Italia - la monarchia si impegnava a proteggere e a garantire l’inviolabilità della comunità italiana ivi residente e il diritto di quest’ultima a disporre delle proprietà e dei beni. Dall’indipendenza fino all’ascesa di Gheddafi, la politica estera italiana fu improntata al mantenimento di buoni rapporti con tutti i paesi del Mediterraneo e anche con le potenze occidentali che qui agivano.
La scoperta del petrolio tra il 1956 e il 1957 attirò investimenti e compagnie occidentali sul territorio libico: lo Stato divenne una grande fonte di approvvigionamento di questa materia prima per le compagnie straniere. Oltretutto la Libia non faceva parte dell’Opec e non si trovava nella sfera di influenza di Nasser: era quindi totalmente esposta alle ingerenze delle potenze occidentali. Nel 1963, tuttavia, l’elezione del primo ministro al-Fikhini determinò un cambio di rotta nella politica estera: questi dichiarò che la nuova politica della Libia avrebbe puntato all’affrancamento da qualsiasi aiuto esterno.
Dalla seconda metà degli anni Sessanta, divenne sempre più evidente l’insofferenza, soprattutto da parte delle generazioni più giovani, nei confronti della presenza occidentale in Libia. Sull’onda delle parole indipendentiste e terzomondiste di Nasser, anche la Libia si mosse verso l’emancipazione dalla presenza occidentale, ottenendo in prima battuta il ritiro della base militare inglese nel 1966. Vale la pena sottolineare come, dopo la chiusura del canale di Suez a causa della Guerra dei sei
114 giorni, l’Italia si trovò a dipendere sempre di più dalla Libia per quanto riguarda il proprio approvvigionamento energetico.
Alla fine degli anni Sessanta, la Libia affrontò una crisi di governo e della monarchia, cioé il cosiddetto “biennio dell’incertezza”, verificatosi tra il 1968 e il 1969: in questo periodo il governo modernizzatore di al-Bakkush cadde - forse per volontà di re Idris186 - e sembrava che solo l’esercito
fosse in grado di prendere il potere. Anche l’esercito, tuttavia, era diviso in due schieramenti in contrasto tra loro: da una parte vi erano gli ufficiali superiori, esponenti di famiglie conservatrici e filo-occidentali; dall’altra, il nucleo appena formatosi degli Ufficiali Liberi, un gruppo di ispirazione nasseriana, i cui membri facevano parte delle classi medie e popolari, escluse dalla vita politica del paese.
Per prevenire il colpo di stato che gli ufficiali di grado più alto stavano preparando sotto la guida del colonnello al-Shalhi, il colonnello Muhammar Gheddafi organizzò e mise in atto un colpo di stato “preventivo”, che gli consentì di prendere possesso della Libia il 1° settembre 1969. Appena insediatosi, il nuovo governo degli Ufficiali Liberi fu riconosciuto dall’Urss: di conseguenza, le potenze occidentali (Italia compresa), furono obbligate a riconoscere il governo, per evitare che i sovietici imponessero la loro influenza sulla Libia187.
Il progetto politico di Gheddafi era basato sul concetto di restituire la Libia ai libici: negli anni successivi infatti, questo si concretizzò nello smantellamento delle basi militari americane e inglesi, considerate dei retaggi coloniali e degli ostacoli al perseguimento degli accordi commerciali ed economici tra la Libia e queste due potenze. Il colonnello affermò inoltre che la libertà della Libia non sarebbe stata completa fino al momento in cui il suo territorio fosse stato occupato, anche in minima parte, dalle potenze europee.
Dopo il colpo di stato, si conclusero i trattati tra la Libia, Gran Bretagna e USA, vale a dire le due potenze occidentali che di fatto avevano istallato il potere monarchico di Idris. La definitiva liquidazione delle basi e degli interessi angloamericani in Libia avvenne nel 1969: questo avvenimento portò grandi preoccupazioni all’Italia, che senza le basi miliari delle due potenze occidentali veniva privata del grande sostegno a protezione dei propri interessi nazionali. Nonostante i provvedimenti libici, l’allora ministro degli Esteri Aldo Moro decise comunque di
186 Ibid. pp.194-198.
187 Per una trattazione più precisa degli eventi, cfr. anche A. Varvelli, l’Italia e l’ascesa di Gheddafi. La cacciata degli
115 portare avanti una politica di collaborazione con la Libia e di dialogo diretto con il governo, non più mediato dagli interessi di Stati Uniti e Gran Bretagna. La politica di Moro fu improntata soprattutto a presentare l’Italia come “paese amico” e a instaurare con la Libia un rapporto privilegiato: il suo scopo era quello di tornare a rivestire lì, dopo la perdita della colonia nel 1941, un ruolo importante. Con i nuovi mezzi della tecnologia e della cooperazione allo sviluppo, l’Italia ambiva a riempire il vuoto lasciato dagli Usa e dalla Gran Bretagna e a proporsi, inoltre, come un paese rinnovato, democratico e distante dalla politica coloniale fascista degli anni Trenta e Quaranta.
Nonostante la rassicurazione che l’Italia avrebbe rivestito per la Libia un polo economico di una certa importanza, motivo presente nelle dichiarazioni dell’ambasciatore Calenda188, tuttavia in Libia si
ebbero i primi segnali che potevano far pensare ad una svolta nella politica di sostanziale indifferenza libica: questi provvedimenti furono la libicizzazione delle banche italiane e il divieto di vendita delle proprietà immobiliari. In realtà, sembrava che il governo libico intendesse colpire le attività facenti capo alla vecchia comunità italiana, risalente alle immigrazioni del periodo fascista, mentre invece si dimostrava più accondiscendente nei confronti delle nuove attività italiane, con le quali aveva stretto rapporti in tempi più recenti. Quella parte della comunità che possiamo definire “nostalgica”, in realtà, risultava essere piuttosto esigua: molte delle famiglie che vi si erano stabilite durante il regime avevano già lasciato l’ex colonia al momento del colpo di stato.
Il ministro degli Esteri Aldo Moro, comunque, riteneva che i presupposti fossero buoni per il mantenimento di saldi rapporti tra Italia e Libia: l’ambasciatore italiano incaricato di dialogare con il ministro degli esteri SalahBuessir faceva leva sulla manodopera e la tecnologia italiane che rivestivano, a suo parere, una grande importanza nei rapporti italo-libici e sul fatto che l’Italia dipendesse fortemente dalle forniture di gas nordafricano, sebbene tale apporto fosse sopravvalutato189.
Tuttavia, l’astio nei confronti degli italiani presenti in Libia provato da Gheddafi, espresso in un discorso a Misurata durante il 58° anniversario della conquista di Tripoli (9 luglio 1912), avrebbe dovuto far presagire alla classe politica italiana un cambiamento di rotta rispetto a quella dei governi precedenti. Gheddafi vedeva gli italiani di Tripoli come i depositari della cultura della passata occupazione fascista e li identificava con quegli stessi italiani che avevano creato i campi di
188 Ibid. p.62 189 Ibid. p.63.
116 concentramento e avevano sterminato la popolazione della Cirenaica190. Il colonnello nutriva
sentimenti di odio verso la consistente comunità italiana, poiché aveva perso alcuni familiari a causa dell’occupazione italiana: due cugini uccisi dallo scoppio di una mina, per il quale anch’esso era rimasto ferito e altri familiari uccisi dall’esercito italiano negli anni dell’occupazione fascista191.
Nel frattempo, nel periodo che va dal 1 settembre 1969 al gennaio del 1970, molti italiani avevano già lasciato la Libia, perché il governo rivoluzionario aveva messo in atto provvedimenti tesi a rendere difficile la vita degli italiani e degli agricoltori. Negli ultimi mesi del regno di Idris si era acuito il senso di disagio provato da una comunità che aveva sempre vissuto, volutamente, racchiusa nella propria identità e si era rifiutata – salvo rare eccezioni - di mescolarsi ai libici e di impararne la lingua. Dopo il discorso riferito alla comunità italiana, il governo si allertò immediatamente e inviò l’ambasciatore Borromeo a stemperare gli animi in Libia: l’ambasciatore rivelò dei vizi di forma presenti nel discorso di Gheddafi (le scuole italiane non erano 32, ma un numero molto inferiore) e dichiarò che il governo italiano sarebbe stato favorevole alla costruzione di moschee, scuole e centri culturali libici in Italia e dichiarava inoltre che avrebbe favorito permessi di lavoro ai libici senza difficoltà. La difficoltà per l’Italia di affrontare al meglio la questione libica era rappresentata dal fatto che fosse in corso una crisi di governo, che portò il 6 luglio 1970 alle dimissioni del governo presieduto da Mariano Rumor. La situazione venne comunque sottovalutata e considerata una situazione seria ma non grave192.
I provvedimenti anti-italiani non tardarono ad essere emessi: il 21 luglio 1970, l’annuncio improvviso dell’espulsione della comunità italiana residente in tutta la Libia e la seguente confisca dei beni colsero di sorpresa il governo italiano, che dovette correre ai ripari per garantire (o almeno favorire) un ritorno dignitoso in Italia dei connazionali. Il decreto di espulsione prevedeva la restituzione delle proprietà immobiliari degli italiani, senza indennizzo, per colmare così le perdite che il popolo libico aveva subito durante il colonialismo. La comunità italiana era molto consistente e constava di 15000 persone circa: la partenza significava una grande perdita economica per la Libia stessa e un grande problema per l’Italia, che si trovava a dover reintegrare economicamente i profughi. Tutte le
190 Su questo tema, vedi i già citati Del Boca, Italiani brava gente?, dello stesso autore e Gheddafi, una sfida del deserto
e Gli italiani in Libia. Dal fascismo a Gheddafi. (sempre dello stesso autore).
191 Del Boca, Gheddafi, una sfida,cit. pp. XIV-XV e 45-51 e per alcuni dati sulla presenza di mine nei territori libici, cfr.
dello stesso autore, Gli italiani in Libia,cit. p.310.
117 ambasciate arabe espressero solidarietà nei confronti dell’Italia, ritenendo il gesto di Gheddafi una manovra ingiusta e ingiustificata.
La risposta tardiva della Farnesina, che nominò con grave ritardo una commissione per risolvere in modo bilaterale gli accordi italo-libici del 1956, concesse il tempo al governo militare di revocare unilateralmente quegli accordi e portare avanti la politica di espulsione e confisca dei beni. Moro si impegnò per fare chiarezza sulle relazioni italo-libiche, perché era convinto che il provvedimento avrebbe danneggiato non solo l’Italia, ma anche la Libia stessa. Si pensò anche a misure di ritorsione economica, scartandole poi perché avrebbero avuto una scarsa incidenza sull’economia libica e sarebbero invece risultate dannose per l’Italia stessa.
Nei giorni successivi all’emanazione del decreto, la vita per i profughi fu resa sempre più difficile dalle autorità libiche: in prima battuta, queste impedirono il rientro degli italiani e si resero colpevoli di violenze sulla comunità in fuga. Il governo si assunse quindi il compito di tutelare il rientro della comunità italiana, favorendone un rimpatrio controllato e non violento. La preoccupazione principale andò quindi a quegli italiani il cui ritorno era stato impedito dalle autorità libiche: Moro cercò di coinvolgere le Nazioni Unite nella soluzione della situazione, considerandola una minaccia per la pace, e di stabilire un contatto tra i governi di Tripoli e Roma. L’incontro tra Moro e Buessir il 1° agosto 1970 a Beirut si risolse in una conferma da parte del ministro degli esteri libico delle parole del colonnello, mentre Moro era intento a smentire qualsiasi nostalgia del colonialismo da parte dell’Italia. Il risultato dell’incontro non fu il ritiro del decreto, ma almeno la facilitazione del rimpatrio della comunità.
Dopo il definitivo allontanamento della comunità italiana, i rapporti commerciali tra Libia e Italia ripresero regolarmente: il decreto di espulsione e l’astio di Gheddafi erano infatti rivolti contro quegli italiani che erano rimasti in Libia fin dalla riconquista fascista, perché (a suo dire), rappresentavano il volto dell’Italia ancora ancorato al passato, un volto imperialista e violento. Solo le società Eni e Fiat si salvarono dalla confisca dei beni e delle attività italiane. Il 5 maggio 1971, il ministro degli esteri Moro si recò in Libia a Tripoli, per discutere con il colonnello sui futuri accordi commerciali tra Roma e Tripoli. Questi dovevano prevedere una forma di accordo privilegiato con l’Italia, che avrebbe dovuto fornire aiuto economico per lo sviluppo della Libia. In cambio, l’Italia avrebbe avuto dei vantaggi nell’approvvigionamento del petrolio libico. L’Italia, oltre agli aiuti economici, fornì delle armi al regime. Comunque, la politica libica nei confronti dell’Italia, per tutti gli anni ’70 e dopo il decreto del 1971, si caratterizzò per una grande ambiguità: da un lato,
118 l’espulsione era stata seguita da continue richieste di indennizzi, risalenti al periodo del dominio fascista; dall’altro invece, la Libia continuava a proporre accordi economici e di fornitura di armi, ponendo l’Italia come partner privilegiato nell’approvvigionamento del petrolio.