• Non ci sono risultati.

Cap II: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia

II.5. La storiografia negli anni Settanta

II.5.1. Il colonialismo italiano di Giorgio Rochat

Negli anni Settanta, la svolta negli studi sul colonialismo italiano, in reazione alla “decolonizzazione mancata” di queste ricerche, fu favorita (?) dall’apertura degli archivi di stato: la progressiva apertura degli archivi del Ministero degli affari esteri permise agli studiosi di pervenire finalmente ad una documentazione prima praticamente irreperibile e “tenuta in ostaggio” da pochi storici. I telegrammi tra Mussolini e Badoglio che autorizzavano l’utilizzo dei gas in Etiopia e quelli che documentavano la repressione attuata da Graziani in Cirenaica misero davanti agli occhi degli storici gli orrori dell’espansione italiana, sui quali per decenni secoli si era taciuto.

Un libro fondamentale che consentì la svolta negli studi degli anni ’70 fu Il colonialismo italiano di Giorgio Rochat, pubblicato nel 1973. Il piccolo volume racconta la storia del colonialismo italiano, di cui vengono presi in esame solo gli avvenimenti più importanti. Nell’introduzione lo storico spiega e giustifica la novità del proprio lavoro: la linea di sviluppo del testo prende le distanze dai precedenti lavori degli storici coloniali, giudicati in gran parte inutili perché privi di un’interpretazione critica degli eventi. Per quanto riguarda le opere composte durante il Ventennio, ad esempio, Rochat sostiene come fossero pervase dai temi della retorica coloniale, frutto del lavoro della propaganda fascista che non lasciava spazio alla libera attività degli studiosi: ci troviamo dunque davanti a progetti inutili e a tratti retorici e fantasiosi.

Rochat, nello spiegare la novità del suo lavoro, vuole anche fare un punto della situazione sugli studi storici e sulla consapevolezza del passato coloniale dell’Italia durante gli anni Settanta. Nell’introduzione si lamenta del fatto che il mito del cosiddetto “bravo italiano” è sopravvissuto fino agli anni Settanta, anche nei libri di scuola, dove si raccontava degli italiani «soldatini eroici e

69 devoti104», che vennero massacrati nella battaglia di Adua: alla fine, questi soldati sembravano più

aver preso parte a un’avventura più che a una guerra.

La situazione per quanto riguarda gli studi organici sull’intero periodo dell’espansione coloniale era critica. Gli studi generali erano piuttosto esigui e mal documentati: l’unico manuale, era il già citato “storia coloniale dell’Italia contemporanea” di Ciasca, documentato e dettagliato, ma intriso di una notevole propaganda fascista. Rochat comunque non manca di citare il libro di Battaglia, in qualità di importante studio sul primo colonialismo italiano. Rochat ci dice anche di come fosse difficile per gli studiosi cercare di comporre un’opera sul colonialismo anche per il fatto che la documentazione era di difficile reperimento: gli archivi del Ministero dell’Africa Italiana, poi trasferiti al Ministero degli Affari Esteri, erano aperti solo fino al 1922 e si disponeva degli Atti Parlamentari solo fino all’inizio del Novecento, cioè fino a quando il parlamento fu esautorato. Nello stato di cose come si presentavano negli anni Settanta, quindi, non era possibile pensare a opere generali, ma solo settoriali, che trattavano cioè un argomento particolare.

Per quanto riguarda la struttura, ogni capitolo del libro è composto da una parte introduttiva e da una parte “documentaria”, in cui si fa utilizzo in maggioranza delle fonti italiane e in piccolissima parte di quelle africane: questo perché Rochat sosteneva che il primissimo e unico possibile contributo che per il momento l’Italia poteva dare alla storia del colonialismo era quello di analizzare il periodo solo dal punto di vista italiano, forse per gettare dei punti fermi e per sfatare definitivamente i miti che dall’inizio hanno accompagnato l’interpretazione del colonialismo. Il volume vuol essere, inoltre, il punto di inizio per la formazione di una coscienza storica per il lettore, che viene fornito degli strumenti critici per affrontare questo passato ancora pieno di ombre. Seppur non dettagliato - come sarebbe stata l’imponente opera di Del Boca in cinque volumi, pubblicata dal 1975 al 1981, su cui tornerò successivamente – questo volume segna uno spartiacque rispetto alle opere dei cosiddetti storici coloniali, a partire dalla polemica sullo stato di arretratezza degli studi sul colonialismo italiano e sulla coscienza ancora “dormiente” degli italiani. Dopo il volume di Battaglia, Il colonialismo italiano è un’opera che vuole ripensare in modo critico questo periodo.

Il vero elemento di novità dell’opera è caratterizzato dall’attenzione alle stragi perpetrate dall’Italia sotto il regime fascista: Rochat dedica attenzione alla repressione della Cirenaica durante la

70 riconquista della Libia. Nel 1930 la conduzione delle operazioni venne affidata al maresciallo Graziani, che decise di piegare la resistenza internando la popolazione del Gebel per due anni nei campi di concentramento, distruggendo inoltre enormi quantità di bestiame. In aperta polemica con il governo italiano, lo storico si lamenta del fatto che non possono essere condotti studi approfonditi sull’argomento perché, per il momento, si dispone di cifre assai generiche sulle vittime del massacro e sostiene che «sarebbe augurabile che l’Italia democratica trovasse l’onestà ed il coraggio morale di pubblicare le cifre attualmente sepolte negli archivi»105.

Rochat fa anche delle considerazioni sull’esercito italiano, che era ormai simile in tutto e per tutto ad un esercito moderno, a differenza di quello abissino, che era ancora ottocentesco:

Più che alle guerre dell’Ottocento, la guerra d’Etiopia, per quanto riguarda la partecipazione italiana, va paragonata alle guerre recenti d’Algeria e del Vietnam, che hanno visto l’impiego in massa di eserciti modernamente equipaggiati e condotti- con la differenza fondamentale che l’esercito abissino era ancora in tutto un esercito ottocentesco, per armamento e mentalità, incapace quindi di condurre una guerriglia di popolo, ma convinto di dovere e potere affrontare battaglie campali che si risolsero in massacri terrificanti106.

Uno dei più grandi contributi allo studio del colonialismo italiano che ha dato Rocaht è il suo aver dimostrato come durante la campagna di Etiopia fossero stati utilizzati gas asfissianti: «l’Italia ha il triste vanto di essere l’unica nazione ad aver fatto largo uso di gas malgrado le proibizioni internazionali (…), per di più contro truppe prive di qualsiasi possibilità di difesa e di ritorsione; si capisce quindi l’ondata di sdegno che percorse l’opinione pubblica mondiale, malgrado l’impiego dei gas fosse smentito più volte ufficialmente (è largamente documentato dalle stesse fonti ufficiali)107». Inoltre l’uso dei gas ebbe una parte importante, ma non decisiva, nella guerra del ‘35-

‘36. L’uso dei gas asfissianti quindi, non essendo necessari ai fini della vittoria, dimostrava la volontà di portare avanti un’azione rapida e di immediato successo: «il fatto che i generali ne abbiano proposto e predisposto l’impiego, che Mussolini lo abbia espressamente autorizzato e che i gas siano stati effettivamente usati a più riprese (e saranno usati anche nella successiva repressione antipartigiana) dimostra l’importanza accordata alla rapidità e al clamore della vittoria, il disprezzo per l’opinione pubblica mondiale e per i tradizionali valori morali (…), il razzismo implicito in ogni guerra coloniale108». Tra i documenti che Rochat porta alla luce, viene infatti pubblicata

105 Ibid. p. 101. 106 Ibid., p. 143. 107 Ibid., p. 144. 108 Ivi.

71 l’autorizzazione di Mussolini all’utilizzo dei gas in Etiopia e al sistematico ricorso al terrore da parte italiana contro la popolazione inerme109

Tra i documenti che figurano nel capitolo dedicato all’aggressione all’Etiopia, è inserito anche un estratto molto importante sulla concezione italiana del lavoro forzato nelle colonie. Il volume riporta, infatti, un estratto contenuto in un opuscolo scritto nel 1933 dal segretario del partito fascista in Somalia negli anni 1929-1930 Marcello Serrazzanetti. Questi testimonia come la schiavitù dopo la conquista non solo non fosse abolita, ma venisse addirittura tollerata per non creare disordini. Serrazzanetti si poneva a favore della perpetrazione della schiavitù, di cui ne condivideva i presupposti razzisti, ma contro gli sprechi portati avanti dalla dominazione italiana, che ne macchiavano l’operato. A suo avviso, infatti, la riduzione in schiavitù del somalo era necessaria almeno all’inizio, perché il somalo doveva necessariamente essere educato al lavoro. Tale documento dimostra come fosse solo mera retorica propagandistica l’idea che l’espansione italiana avvenisse con l’obiettivo dell’abolizione della schiavitù, perpetrata dai popoli “barbari” dell’Africa orientale.

Sullo stesso tema, Rochat mette in luce l’ambiguità della Chiesa cattolica, che prese a pretesto la pretesa del fascismo di liberare i popoli africani conquistati dalla schiavitù per sostenere, anche moralmente, l’espansione italiana. Lo storico sottolinea dunque la colpevolezza della Santa Sede nell’aver sostenuto l’operazione in Etiopia e dei crimini che si portò dietro, con una dubbia giustificazione morale al seguito: «quello di dilatare il bene (…), solleva la colonizzazione nella sfera dell’ideale, verso cui l’uomo si sente attratto e viene spinto dalla legge innata della solidarietà umana110», oppure l’idea per cui «una guerra intrapresa per la difesa degli innocenti deve

equipararsi a una guerra difensiva. Dunque la sua giustificazione deve logicamente derivare dal diritto naturale di legittima difesa, in virtù del quale l’uomo può respingere l’attentato contro la sua vita e i suoi diritti, fino all’uccisione dell’avversario, se non gli si presenta altra via e altro modo per stornare il pericolo imminente»111.

Rochat riflette anche sulle caratteristiche della guerra in Etiopia, dicendo che era una guerra fomentata dalla propaganda e che era servita solo a rilanciare il prestigio del regime tra le folle. Tale caratteristica si evince dal fatto che, dopo il 1936, il tema delle colonie passa completamente in

109 Ibid. pp.168-170. 110 Ibid. p. 172. 111 Ibid. p.73.

72 secondo piano nella propaganda. Altrettanto propagandistico era stato l’annuncio della cessazione delle ostilità il 5 maggio, quando i militari erano entrati con Badoglio ad Addis Abeba: le ostilità invece non erano affatto cessate, perché la resistenza etiopica era ancora forte e l’Etiopia ancora lungi dall’essere conquistata.

Tra i documenti di questo capitolo è inserita anche la testimonianza dell’eccidio di Debra Libanos, che faceva parte di una serie di rapporti finemente dettagliati sulle esecuzioni portate avanti dall’esercito in Etiopia (fortemente volute da Mussolini112). L’inflazionata immagine

dell’affascinante maresciallo Graziani e quella del buon soldato italiano, incapace di fare del male, viene smentita e smascherata da questi documenti che provano la raffinata crudeltà dell’ esercito e dei suoi comandanti, che si lanciarono in operazioni criminali contro una popolazione inerme. L’intento del libro di Rochat era proprio questo: quello cioè di smentire lo stereotipo degli italiani “brava gente”.