Cap II: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia
II.3. Gli anni Cinquanta e gli “storici coloniali”
Contemporaneamente alle scelte ambigue di governo, per cui Roma, dopo il fallimento del Compromesso Bevin-Sforza passò da una posizione filo-coloniale ad una anti-coloniale, rimase nel discorso politico e culturale una posizione che finiva per giustificare il colonialismo italiano e per assolverlo dalle colpe e dalle violenze perpetrate ai danni dei colonizzati: il mancato dibattito sul colonialismo italiano e tutte le conseguenze che questo ebbe sulla coscienza storica degli italiani sono state imputate anche agli storici, colpevoli di non aver trattato il discorso coloniale con la giusta criticità e di obiettività e di aver contribuito ad affermare il mito del “bravo italiano”.
La fine della seconda guerra mondiale e la perdita delle colonie avrebbe dovuto favorire la nascita di un discorso critico sul passato coloniale, ma non fu così: come ho già scritto nel primo capitolo, l’Italia del secondo dopoguerra si imbatté in una strenua battaglia diplomatica con le potenze europee vincitrici e con l’Onu per riuscire a mantenere il controllo sulle sue -ormai- ex colonie. La
86 Ibid., p 35. 87 Ibid. p.36. 88 Ibid., p.524.
61 politica tenace e ambigua portata avanti da De Gasperi si concluse con l’istituzione dell’Afis in Somalia negli anni Cinquanta e con la dissoluzione del Mai e dei suoi organi e archivi. Tuttavia, il colonialismo era lungi dal trovare una vera e propria conclusione, dato che molte personalità che avevano lavorato come funzionari del regime riottennero le loro cariche, seppur all’interno di organi con una denominazione diversa, ma dai presupposti ambigui: da ricordare di nuovo a questo proposito, è il caso dell’Afis, in cui si tentò di inserire degli ex gerarchi fascisti.
Un momento chiave per comprendere tale atteggiamento fu il ruolo rivestito dall’onorevole Brusasca, oltre che nell’istituzione dell’Afis, anche nella gestione delle relazioni diplomatiche tra Italia ed ex colonie e nella dissoluzione progressiva del Mai.
In questo contesto, nacque il progetto del Comitato per la documentazione dell’opera dell’Italia in Africa, istituito con il decreto ministeriale n°140 dell’11 gennaio 1952, che venne chiuso per decreto ministeriale nel 1984. Lo scopo principale di questo organo era quello di stilare un bilancio dell’operato italiano in Africa, dall’Ottocento fino ai giorni nostri. Il comitato produsse un’opera monumentale, formata da una serie disparata di sezioni scientifico- storico-culturali (anche se il risultato finale contenne meno argomenti rispetto al progetto iniziale). Vi erano una sezione scientifico-culturale, che conteneva notizie sulle scoperte archeologiche nelle colonie, notizie sui popoli e sulle culture dei colonizzati; una serie storica, che era suddivisa in una parte introduttiva e su una sostanzialmente basata sulla documentazione italiana e africana; una serie storico-militare, una giuridico- amministrativa, una civile e una economico-agraria89.
La sezione di nostro interesse, quella storica, finì per coprire solo un piccolo periodo del colonialismo italiano e arrivò fino agli anni ’90 del 1800. La caratteristica principale di questi volumi era che gli storici che se ne occuparono non erano figure nuove, ma gli stessi storici che avevano lavorato alle dipendenze del regime dopo la guerra di Etiopia: alcuni volumi infatti sono curati da nomi già conosciuti, quali Carlo Giglio, Enrico de Leone, Giacomo Perticone; oltre a questi del progetto fecero parte anche alcuni ex funzionari coloniali ed ex dipendenti del Mai, in netta continuità di intenti e di interpretazione con il passato fascista.
Nonostante le buone intenzioni di creare un nuovo rapporto tra Italia e Africa, la produzione del Comitato fu inutile, incompleta e nostalgica90. La descrizione dell’operato dell’Italia in Africa
89 A.M. Morone, I custodi della memoria, in Zapruder, n°23, anno 2010, p.37.
90 Ibid., p.oppure cfr. M. Lenci, Dalla storia coloniale alla storia dell’Africa, in «Africa: rivista trimestrale di studi e
62 avrebbe dovuto descrivere criticamente il colonialismo italiano, le sue violenze e le conseguenze che ebbe sulle società colonizzate: si trovò invece il modo di non parlare del colonialismo italiano, pur dovendolo descrivere, ricorrendo all’escamotage di trovare e di mettere in evidenza i lati positivi dell’esperienza italiana in Africa. Non una parola sulle violenze ai danni degli africani viene spesa in questi volumi, sebbene ormai il regime fosse caduto da un bel pezzo e gli storici non fossero ormai più controllati dagli occhi della censura. L’intento sembra dunque celebrare i meriti del colonialismo italiano, in particolare l’aver incentivato l’economia grazie allo stabilimento di industrie e imprese e grazie anche all’apporto di nostri tecnici. Inoltre, venivano messe in evidenza le quantità di opere e infrastrutture costruite dal regime e la modernità che gli italiani avrebbero saputo portare nelle colonie. I meriti dell’Italia in Africa erano sottolineati dall’entusiasmo con cui viene accolto in Etiopia il sottosegretario agli Esteri Brusasca, durante la sua visita nel 1951, segno che l’apporto dell’Italia in Africa è stato sicuramente positivo.
Un esempio di quello che sto sostenendo a proposito degli storici coloniali si vede nel volume
L’impresa di Massaua”, di Carlo Giglio, pubblicato nel 1955, a distanza di dieci anni dalla fine della
guerra e a cinque anni dalle discussioni in sede Onu sulla sorte delle colonie italiane. Eppure, anche questo libro presenta nella sua introduzione dei riferimenti nostalgici e autoassolutori alla dominazione italiana in Africa.
Il volume fa parte di una serie storica più ampia, curata dallo storico e dedicata alle imprese di conquista italiane: in particolare si riferisce al periodo che va dall’ottobre 1884 al giugno 1885 e si basa quasi esclusivamente su fonti archivistiche. Nell’introduzione lo scrittore si premura di mettere in evidenza che la sua ricerca storica si è basata su tutta la documentazione fruibile all’epoca e che la ricerca è stata scritta con totale distacco: «dunque, opera non celebrativa o esaltativa la presente, secondo la moda di ieri, ma neanche il contrario, accusatrice, demolitrice, secondo certa moda di oggi. L’opera non è pro o contro l’impresa d Massaua, pro o contro il colonialismo91». Potrebbe di primo acchito essere considerato un racconto oggettivo e distaccato
delle imprese italiane in Africa: tuttavia, l’intento di distacco appena sostenuto dall’autore va a infrangersi solo due righe oltre, quando sostiene che «quella qui narrata è una delle pagine più importanti dell’opera svolta in Africa dall’Italia, di quell’opera che, tutto sommato, fa onore al nostro paese, che ha dato all’Africa più di quanto non abbia ricevuto»92.
91 C.Giglio, L’impresa di Massaua, Istituto italiano per l’Africa, Roma, 1955, p. V. 92 Ibid, p. VI.
63 In poche righe, l’autore si dimostra in grado di contraddirsi e di fare apologia di un periodo storico che solo tre anni dopo sarebbe stato reinterpretato dal collega Roberto Battaglia. L’espansione coloniale italiana è ancora vista sotto una luce positiva e, per questo, viene celebrata come una pagina importante della storia italiana. Quello che cerca di mettere in luce Giglio è che secondo lui gli eventi vanno letti proiettandosi nel tempo i cui furono avvenuti: credo si possa ritenere questo un escamotage per sostenere la bontà dell’espansione coloniale.
L’espansione inoltre è messa a confronto con gli altri colonialismi europei: Giglio sostiene che quello italiano non utilizzò metodi così diversi e che l’esigua espansione italiana fu tale perché avversata da alcune circostanze particolari. Una di queste circostanze si può ricondurre alla
mancanza di volontà da parte dei governi liberali di gettarsi nell’impresa africana, perché occupati con i problemi economici e sociali che derivavano dall’unità: era presente sì popolazione in
eccesso, ma la mancanza di capitali e la povertà diffusa disincentivavano i progetti per le imprese. Il problema principale dunque risiedeva nella classe politica, che si rifiutava di espandersi in Africa perché era cresciuta sugli ideali risorgimentali di libertà e indipendenza dei popoli, anche se di popolazioni arretrate si trattava e per questo non ci si doveva fare scrupoli per annetterle93.
Non distaccandosi dall’opinione degli storici di regime, Giglio afferma quanto i governi liberali avrebbero potuto sfruttare le imprese dei «coraggiosi esploratori94». Come Ciasca, afferma che
l’interessamento per l’impresa coloniale esisteva già prima dell’unità: ribadisce infatti che era noto l’interessamento di Cavour alla stipula di un trattato di amicizia con un influente capo abissino. Tre anni più tardi, lo storico Battaglia avrebbe dimostrato che era una notizia falsa. Secondo Giglio, quindi, le premesse c’erano e i governi non ebbero le capacità o la volontà di sfruttare queste condizioni favorevoli all’Italia.
Ci troviamo ancora, quindi, di fronte ad un linguaggio altisonante, eredità del regime (si parla ancora della «scaltra Albione95») e a formule autocelebrative e apologetiche, quando già da un
decennio le altre potenze europee stavano lavorando per condurre le loro colonie all’indipendenza.
93 Ibid., p.10. 94 Ivi. 95 Ibid. p.49.
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II.4. Roberto Battaglia: una svolta nella ricerca storica
Nel monopolio esercitato dagli storici coloniali, sia sulle fonti che nelle ricerche, poche voci fuori dal coro tentarono di rompere questo isolamento degli studi, proponendo una visione critica e nuova delle colonie. Il libro di Roberto Battaglia, intitolato La prima guerra d’Africa e pubblicato nel 1958, si vuole distanziare dalla visione che possiamo ben definire “egemone” e che si era imposta fin dall’epoca del regime, tentando di proporne un’interpretazione nuova, meno edulcorata e celebrativa, tesa a coglierne tutti gli aspetti negativi. Il periodo che prende in considerazione è quello del primo colonialismo italiano, considerato come l’inizio di tutti i miti sul colonialismo italiano. La sua critica si rivolge in primis a quegli stessi personaggi del periodo liberale e fascista che per primi si dedicarono alla storiografia coloniale, il cui compito era quello di trovare a tutti i costi dei precursori. A questo proposito esibisce come esempio il fatto che sia stato erroneamente attribuito a Cavour il primo progetto di creazione delle colonie in Africa. Ad una lettura attenta dei documenti, si evince infatti che il progetto non era partito da Cavour, ma da Cristoforo Negri, che ben prima dell’unità aveva proposto al ministro del Regno di Sardegna di creare un avamposto italiano in Africa Orientale. La corrispondenza tra il Conte e Negri risale al 1857-1859, quando il secondo aveva chiesto a Cavour di stipulare un trattato con un principe locale per creare una base commerciale in Abissinia. L’imperativo degli storici fascisti era stato quello di cercare un evento che “ufficializzasse” la nascita del colonialismo italiano: attribuendo appunto il primo progetto di colonialismo a Cavour, si voleva rivestire di importanza il primissimo atto del colonialismo italiano, cioè l’acquisto delle basi commerciali, perché si voleva dimostrare come questo atto di “conquista” si trovasse anche nei progetti di una personalità che prese parte all’unificazione dello stato. Senza l’autorità conferitagli dal (falso) progetto di Cavour, l’origine del colonialismo italiano risultava poco chiara e senza soggetti a cui attribuirla: senza quel (presunto) progetto di atto di compravendita della base commerciale, la popolazione italiana non avrebbe prestato troppo interesse ai nuovi progetti di espansione coloniale. Il colonialismo, quindi, avrebbe rivestito ben poca importanza nella scala delle problematiche della politica estera italiana.
Cavour fu solo informato sulla possibilità di porre una base commerciale, ma non è da credere né che abbia acconsentito a mettere in pratica il progetto, né che sia stato il promotore della missione. Secondo Battaglia, il progetto dipendeva da un funzionario che voleva aprire basi ovunque. Battaglia
65 inoltre sfata anche l’assurda teoria di Naldoni, che sosteneva che Cavour avesse messo in piedi un programma coloniale molto ambizioso, di cui la spedizione in Crimea rappresentava la prima tappa (anche se non presentava alcuna documentazione che avvalorasse questa tesi).
Battaglia basa la sua critica su un concetto interessante: per lo storico è importante che si leggano i documenti come si presentano, senza interpretarli stravolgendone il significato perché li vogliamo addurre a prova per dimostrare qualcosa. In questo modo si creerebbero delle leggende, proprio come è avvenuto sulle origini del colonialismo italiano, miti che sono sopravvissuti per mezzo secolo. Come dice lo scrittore: «i documenti diplomatici esistono, oltre che per essere portati a sostegno delle proprie tesi, anche per essere letti e definiti nel loro autentico significato: e basta appunto una lettura un po’ più attenta (…) per dimostrare a che cosa si riduca in realtà questo tanto celebrato “atto di nascita” del colonialismo italiano96».
Di fronte ad un documento inviato a Cavour da padre Leone des Avancheres, si può sostenere che Cavour avesse seguito le vicende inerenti ai territori africani e le trattative per acquisirli in modo attento, ma non si può dimenticare che la sua risposta conteneva una critica al missionario per aver avviato delle trattative per l’acquisizione di una base commerciale di scarso valore, a cui il Regno di Sardegna non poteva dedicarvisi. L’intento principale di Cavour era quello di non impegnarsi in Africa e in nessuna regione dell’Abissinia, per evitare di causare incidenti diplomatici con l’Inghilterra, per colpa oltretutto di un missionario che aveva agito in modo avventato97.
Lo storico si dedica a sfatare anche il mito dei cosiddetti “precursori”, i vari esploratori e missionari che esplorarono l’Africa prima dell’unità d’Italia. Questa compagine eterogenea di personaggi si recò in Africa senza l’ausilio da parte dello Stato e per iniziativa propria: certamente il loro scopo non era quello di stabilire le basi di una futura dominazione italiana. Questi personaggi non erano, volontari animati dall’amore patriottico, come invece sostiene Ciasca: anche se qualcuno era animato da spirito risorgimentale, altri come Piaggia erano invece spinti dalla sete della scoperta. Altri esploratori come Romolo Gessi, dimostrarono un interesse utilitaristico per il territorio africano, prevedendone la trasformazione e il futuro sfruttamento98. Emergono quindi delle
personalità che concepivano l’esplorazione dell’Africa in modi diversi e per scopi diversi. Per lo storico,
96 R.Battaglia, La prima guerra d’Africa, Einaudi, Torino, 1958, p.58. 97 Ibid., p.65.
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le vicende dei primi viaggiatori italiani in Africa, per quanto siano diverse nell’origine e nella conclusione, hanno una caratteristica comune: quella di essere nulla di più che “vicende individuali” le quali si svolgono su un piano storico quanto mai remoto da quello in cui si svolge il nostro risorgimento. (…) troppo impegnativa è la lotta per l’unità e l’indipendenza nazionale perché essa possa tollerare un qualsiasi margine in cui inserire l’argomento della penetrazione europea in Africa. Il Risorgimento può influire sui viaggiatori determinandone la mentalità (…): ma una volta usciti dalla sua orbita, essi sono sospinti nel vasto mondo dovendo contare solo sulle proprie forze, senza poter più stabilire, se non dopo il ’70, qualche più consistente legame con la madre patria99.
L’acquisto della Baia di Assab è un evento molto importante per la creazione della retorica colonialista, perché sancì la sua creazione: la retorica coloniale celebrava la conquista della colonia quella che in realtà era solo l’acquisto di una base commerciale. La retorica e l’entusiasmo impedirono di avere una visione chiara della realtà e fecero sì che in politica estera venissero prese delle scelte avventate: «è sorta la prima colonia italiana e con essa, indivisibile compagna, la retorica del colonialismo che sin da questo momento impedisce di vedere le cose come stanno e fa ignorare le difficoltà100.” Nei discorsi che seguirono al rientro in Italia della nave Africa di Rubattino, si parlò
di quanto questa società avrebbe contribuito a riportare in auge le antiche glorie del commercio italiano.
Battaglia si impegna inoltre a sfatare i miti sorti intorno alla vicenda di Dogali. Interessante notare come dia spazio alla visione che gli etiopici ebbero di Dogali: a differenza di quanto la vittoria etiopica avrebbe potuto far pensare, i canti popolari raccontavano di un giorno funesto in cui vennero perse moltissime vite101. Nella stessa pagina afferma infatti: «che il nome di Dogali dovesse
divenire non solo per Ras Alula, ma anche per i suoi guerrieri, un funesto ricordo, è dimostrato dall’unico canto etiopico che conosciamo sull’argomento, canto di dolore e non di gioia (…). Ascoltiamolo subito, anche per riconoscere subito nell’avversario i lineamenti di una comune umanità”. Per la prima volta gli etiopici non sono presentati né come delle bestie sanguinarie, come fecero gli storici del regime, né come dei buoni selvaggi, ma come una popolazione dotata di una propria storia e una propria civiltà.
La leggenda della sconfitta di Dogali risiedeva nei racconti dei militari che vi avevano partecipato, che nascosero le proprie colpe con racconti di gesta leggendarie. Per esempio, nel resoconto della
99 Ibid. p.57. 100 Ibid. p.87. 101 Ibid. p.235.
67 battaglia del generale Tanturri, sulla base della vulgata per cui molti soldati feriti sul campo fossero stati brutalmente uccisi dagli etiopici, che fecero scempio dei cadaveri e che non lasciarono scampo a nessuno. Questo resoconto in realtà è falso, perché fu lo stesso Tanturri ad andarsene frettolosamente dal campo di battaglia, senza offrire soccorso ai caduti italiani102.
Per quanto riguarda Adua, lo storico mette in chiaro che l’opinione pubblica era largamente contraria a qualsiasi nuova spedizione in Africa dopo la sconfitta di Dogali. Le proteste del dopo Adua erano delle proteste che non erano nate per il dispiacere della sconfitta: si erano invece formate durante tutto il periodo crispino. È vero che tutti si coalizzarono contro Crispi per cercare un capro espiatorio e per sentirsi sollevati dalle colpe di una tale sconfitta. Secondo lo storico inoltre, le dimissioni di Crispi furono indotte dal re, perché quest’ultimo voleva salvare il regime: in questo modo si evitò che la crisi politica diventasse crisi istituzionale.
Battaglia dedica invece poca attenzione al contributo dell’impresa coloniale alla costruzione della coscienza nazionale, basata – sugli altri aspetti – sul fascino enorme suscitato dagli abitanti misteriosi e dai luoghi inesplorati dell’Africa nera. La popolazione italiana, irritata con la classe politica e contraria a prendersi la rivincita in Africa, venne attratta nel ventennio fascista con la riproposizione del fascino misterioso che l’Africa esercitò sui primi esploratori. Gli italiani venivano invitati a tornare in Africa per inseguire le “veneri africane”, le donne affascinanti, attraenti e di facili costumi che solo lì era possibile trovare: «la immaginazione erotica e la commozione sentimentale s’intrecciano in questi primi “scritti di propaganda”, il cui ricordo sarebbe rimasto persistente fino alla canzone più famosa della seconda guerra d’Abissinia, “faccetta nera”103.»
Per la prima volta, Battaglia dipinge gli etiopici non come un popolo sanguinario o bellicoso, come del resto aveva fatto Ciasca nel suo manuale, ma come un popolo che si deve difendere.
L’ espansione italiana ci viene presentata come un evento “a più voci”: una storia completa di quel periodo non può non prendere in considerazione anche il punto di vista etiopico, non può essere solo la storia dei vincitori. Battaglia anticipa così quelli che saranno gli sviluppi più recenti della ricerca storica sul colonialismo, cioè la storia dal punto di vista dei “conquistati”. La prima cosa di cui si deve tenere conto per parlare del punto di vista dei vinti è quello di citare e analizzare le stesse
102 Del Boca dice che i morti per mancati soccorsi furono circa 200. In Del Boca, Dall’Unità alla marcia, cit. p.243. 103 Battaglia, La prima guerra, cit. p.252.
68 fonti etiopiche. Dallo studio dei resoconti dei cronisti africani si viene a conoscenza di una nuova storia, parallela a quella dei conquistatori.