• Non ci sono risultati.

Cap II: Gli sviluppi della storiografia coloniale in Italia

II.5. La storiografia negli anni Settanta

II.5.1. Angelo Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale

Poco dopo la pubblicazione del volume di Rochat, anche un altro storico che ho già citato precedentemente, Angelo Del Boca, dette alla stampa nel 1976 il primo dei cinque volumi sulla storia del colonialismo italiano. Il periodo coperto dal primo volume va dai primi esploratori italiani che nell’Ottocento si recarono in Africa orientale ai rapporti che l’Italia ebbe con le sue ex colonie, fino alla caduta del regime di Syad Barre in Somalia negli anni ‘80.

Il volume, dal titolo Gli italiani in Africa Orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, si apre con una precisazione sugli scopi dell’imponente lavoro:

essa si propone di dimostrare, essenzialmente, che il colonialismo italiano dell’ultimo quarto dell’800 e dei primi due decenni del ‘900 non è stato “diverso”, cioè più umano, più illuminato, più tollerante, degli altri colonialismi europei coevi e del tardo colonialismo fascista. Intende anche provare che lo Stato liberale, che è l’artefice dell’espansionismo italiano in Africa, ha trasmesso senza ombra di dubbio alcune pericolose eredità del fascismo: una grande carica

73

aggressiva, non frustrata neppure dalle sconfitte, la pratica del genocidio, il disprezzo per i popoli di colore, gli uomini per ritentare le imprese una prima volta fallite113.

L’intento di Del Boca è quello di analizzare il colonialismo italiano uscendo dal punto di vista a tratti limitato e infarcito di stereotipi degli “storici coloniali” e mostrare l’espansione in Africa quale fu veramente, senza le mitizzazioni che ne hanno accompagnato il racconto fino ad allora. La caratteristica di questa serie, come degli altri suoi lavori e anche di quelli di Rochat, è quella di denunciare le atrocità compiute dall’Italia in Africa e di polemizzare sul ritardo con cui sono state affrontate queste problematiche dalla prima Repubblica.

Nel primo volume, Del Boca segue dunque le orme e le basi fornitegli da Battaglia nel volume citato precedentemente e smonta le mitizzazioni che erano sorte con il fascismo e il suo dogma di trovare a tutti i costi dei precursori delle origini per il colonialismo. I primi viaggiatori non sono infatti i precursori dell’espansione, ma

una compagine estremamente eterogenea di personaggi, ai quali con molta disinvoltura verrà data la qualifica - specie dagli storici dell’epoca fascista - di “nostri precursori coloniali”. Una galleria di personaggi tutti indistintamente glorificati, senza la minima istruttoria, il minimo esame dei moventi, dei risultati, ma col solo fine di dare alla filosofia dell’espansionismo italiano le origini più antiche e le fondamenta più solide. Una galleria di nobili antenati per un colonialismo che non sfuggirà ugualmente alla definizione di “straccione”114.

Nell’eterogeneità degli intenti dei vari personaggi che si recarono in Africa settentrionale e orientale, non figurano di certo l’amore per la patria o questioni di prestigio nazionale: al contrario, questi primi viaggiatori si mossero per lo più per motivi professionali, scientifici ed economici (alcuni esploratori esplorarono alcune zone del Sudan per intercettare dei carichi di avorio, non per tenere alto il nome del Paese). Il solo beneficio che secondo Del Boca si può imputare a questi esploratori è stato quello di aver composto opere che illustravano le caratteristiche di quelle terre ancora inesplorate e di aver suscitato curiosità nel pubblico italiano letterato. Quello che è importante è che non si trattò di esploratori animati da amore per la patria.

Inoltre, Del Boca smentisce che i missionari impegnati in Africa tra il 1840 e il 1850 possano essere annoverati tra i precursori dell’espansione, dato che erano sì interessati ad un’espansione religiosa e politica, ma i loro progetti contano sull’appoggio della Francia115. E non è un precursore nemmeno

113 Del Boca, Dall’Unità alla marcia, cit.p.I 114 Ibid., p.3-4.

74 Cavour, come già sostenuto da Battaglia, al quale invece viene attribuita la paternità del progetto di espansione. Il suo progetto viene celebrato come l’ «atto di nascita del colonialismo italiano», quando invece questo deve essere attribuito a Cristoforo Negri, come già detto nei paragrafi precedenti. La risposta di Cavour testimonia di come il suo unico interesse per il Mar Rosso fosse non rovinare il lavoro diplomatico portato avanti in Europa con grande impegno, con azioni affrettate nel Mar Rosso. L’interesse per zona, che pure era significativa per Cavour per il taglio dell’istmo di Suez, non era tale da spingere ad azioni coloniali, così come lo stesso progetto di Negri di stabilire contatti commerciali in Abissinia, che non avrebbe avuto seguito per 11 anni116.

Del Boca racconta anche come sono nati i miti della battaglia di Dogali e del massacro di Adua. La battaglia di Dogali è stata resa leggendaria perché se ne sono tramandati solo specifici episodi, alcuni dei quali palesemente falsi, ma sui quali si è costruita la leggenda di un esercito di 500 uomini massacrato da 45 mila abissini, in un paesaggio fatto di gole e montagne, che si era battuto fino alla morte, sacrificandosi per la patria. I rapporti dell’epoca raccontavano però una realtà diversa: il paesaggio non era affatto come fu descritto nelle canzoni e nei racconti successivi all’evento, ma era formato da basse colline e pianure; gli abissini in armi erano stimati in un numero che si aggirava tra le 5000 e le 10000 unità; l’esercito italiano perse perché la battaglia fu condotta male dal comandante de Cristoforis, che prese decisioni strategiche suicide. Il comandante decise di non ritirarsi appena saputo il numero dei nemici, quando era ancora possibile ritirarsi perché questi non avevano ancora iniziato ad attaccare ed erano piuttosto lontani per dare il via ad un accerchiamento. Inoltre, non era vero che gran parte degli uomini furono orrendamente trucidati alla fine della battaglia, ma almeno 91 soldati riuscirono a raggiungere le linee italiane e molti soldati (quasi 200, anche se la cifra sembra esagerata), morirono per mancanza di soccorsi (come confessò anche il generale Tanturri, la spedizione di soccorso da lui comandata fu senza dubbio affrettata117).

Infine, Del Boca si occupa della battaglia di Adua e del significato di questa sconfitta, che pesò terribilmente sulla politica estera italiana e decretò una pausa dell’espansione italiana fino all’inizio del Novecento. Anche in questo caso, l’apertura degli archivi e la consultazione dei documenti permette a del Boca di trarre delle conclusioni diverse per quanto riguarda il trattamento dei prigionieri da parte degli Abissini: il popolo contadino mostrò sempre pietà e non odio nei confronti dell’esercito nemico che cercava di sottometterli e offrì cibo e ricovero ai prigionieri118. La lettura

116 Ibid. p.18. 117 Ibid., pp. 242-243. 118 Ibid. p.693.

75 dei documenti presenta il popolo etiopico sotto una luce diversa, dotato di una propria dignità: gli etiopici non sono più il popolo sanguinario che aveva descritto Ciasca e tutti gli altri storici coloniali, ma appunto un popolo umano.

Le colpe della sconfitta di Adua ricadono su Baratieri, su Crispi e gli altri ministri che mal gestirono la conduzione del conflitto. Lo storico sfata il mito secondo cui a condurre la battaglia di Adua furono alcuni ufficiali europei che si infiltrarono tra le fila etiopiche e li condussero alla schiacciante vittoria: ciò venne affermato al tempo, probabilmente perché in Italia non si accettava la vittoria da parte etiopica e i giornali continuavano a pubblicare articoli con teorie strampalate per giustificare la vittoria del nemico.

Nel tracciare il bilancio coloniale, Del Boca mette in discussione anche altri miti: che le imprese in Africa non avessero mai goduto del consenso popolare, cioè i governi che si erano succeduti in Italia e che avevano portato avanti l’espansione coloniale erano stati guidati più dalle lobby colonialiste che da una volontà popolare.

Rochat intende anche dimostrare come il colonialismo dell’Italia liberale non fosse stato affatto più umano: il governo liberale

in periodo di pace, ha utilizzato su scala generale il lavoro coatto, ha legalizzato il furto delle migliori terre, ha abolito lo schiavismo solo sulla carta, ha conservato come strumento di disciplina la fustigazione, ha mantenuto di proposito le popolazioni indigene nella più completa ignoranza. In periodo di guerra o durante le ribellioni (…) ha usato tutte le armi del terrore (…) i metodi impiegati da Baldissera e da Baratieri non sono diversi da quelli utilizzati da Badoglio e da Graziani119.

Non manca inoltre di fare un riferimento al fascismo e di come questo avesse strumentalizzato i “precursori” dell’espansione degli anni ’30 e ci ricorda che vennero utilizzati anche dai governi liberali, per giustificare l’espansione come un tributo di sangue da offrire per il sacrificio di questi precursori immolati per la conoscenza e per la patria. Dice Del Boca: « (ed) i personaggi in questione (…) furono tutti indistintamente idealizzati, innalzati alla gloria degli altari patriottici, definiti tout

court eroi (…). Non eroi, dunque, ma in gran parte squallidi avventurieri o profittatori (…) altri

ancora, come Bottego, ad un serio processo storico non riuscirebbero oggi a sottrarsi all’accusa di essersi comportati come autentici criminali120».

119Ibid. p.879. 120 Ibid., p..879-880.

76 Infine, per sottolineare la contiguità tra un passato troppo spesso interpretato come innocuo e il periodo del regime, Rochat sostiene che molte caratteristiche del periodo liberale sono state trasmesse proprio al regime fascista, che ne ereditò la carica aggressiva, la pratica del genocidio e il disprezzo per le popolazioni di colore, oltre a lasciare in eredità delle sconfitte da vendicare e dei tributi di sangue da esigere, soprattutto in Etiopia. Il fascismo sostanzialmente non inventò niente di nuovo, ma mise in pratica quello che già era stato messo in piedi dal governo liberale.

Ricapitolando, le novità apportate da Del Boca sono l’aver utilizzato testimonianze dirette e una grande quantità di documenti; l’aver dimostrato la continuità tra politica espansionistica e retorica coloniale dei governi liberali e quelle del fascismo; l’aver presentato il periodo liberale sotto una luce nuova, dandone un’interpretazione meno stereotipata e privandolo delle leggende che avvolgevano i conflitti.