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Cap.IV: Il “dramma” dei profughi in fuga da Tripoli La cacciata della comunità italiana dalla Libia di Gheddaf

IV.3. Il decreto di espulsione, l’Italia e i profughi: analisi dei quotidian

IV.3.3. Tra elogio e critica: la comunità italiana in Libia

Il decreto di espulsione coglie – come detto - impreparati i giornalisti, perché, secondo loro, i rivoluzionari non hanno tenuto conto dell’opera degli italiani in Libia, delle infrastrutture, strade, scuole costruite, contribuendo così alla crescita economica e alla coltivazione di aree desertiche, avrebbe dovuto addirittura ringraziare gli italiani invece che cacciarli.

Secondo gran parte dei giornalisti, infatti, la Libia avrebbe dovuto dimostrarsi grata di fronte ai miglioramenti apportati dagli italiani immigrati, che avevano trasformato lo “scatolone di sabbia” in una terra rigogliosa e ne migliorarono anche il livello di istruzione, con la costruzione di scuole. Scriveva a questo proposito il giornalista Marino Bon Valsassina nel numero del 26 luglio su “La Nazione”:

Anzitutto, va sgomberato il campo dall’amena trovata, secondo cui l’Italia dovrebbe “restituire” qualcosa al popolo libico. Di nulla furono spossessati i libici, a seguito dell’occupazione italiana, poiché nulla possedevano, all’infuori della miseria ancestrale dei loro deserti; (…) neppure della sovranità furono privati, poiché essa apparteneva alla Sublime porta e non esisteva, né mai era esistita una nazione libica – e nemmeno tripolina o cirenaica - avente una sua individualità culturale e politica. (…) Sarebbe interessante che, uscendo dal generico, il governo libico elencasse i beni di cui i suoi connazionali, individualmente o collettivamente, sarebbero stati

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spogliati dall’Italia (…) a meno di mettere nel conto le lande desertiche, mai coltivate da alcuno e la cui valorizzazione agricola ad opera del capitale e del lavoro italiano cambiò la faccia del paese. (…) L’Italia spese in Libia molto di più di quello che incassò, costruì scuole (…) abitazioni non di fango e di strame (…) e mentre rispettò sempre la religione e le costumanze locali, impartì una istruzione, diffuse una mentalità, formò un ceto abbastanza colto ed evoluto, che consentirono ai libici di ottenere l’indipendenza fin dal 1951, quando per la generalità dei paesi africani quello era un traguardo ritenuto lontano. (…) Ci furono certamente errori ed abusi, ma l’attivo – intendo per i colonizzati- superò il passivo214.

L’articolo mantiene un evidente tono di superiorità nei confronti dei libici, nel momento in cui dice che i libici non possedevano nemmeno la propria sovranità, perché si trovavano all’interno dell’impero ottomano al momento della conquista italiana. Ma si tratta di un falso storico gonfiato dalla retorica apologetica di un giornalista di destra (fu consigliere comunale a Roma dal 1971 fino al 1981, prima per l’MSI) il territorio che comprendeva le regioni della Tripolitania, Cirenaica e Fezzan era stato difficile da conquistare anche dall’Impero ottomano, così come lo fu anche per l’Italia, che non venne certamente accolta come una “potenza salvatrice”, ma come un altro nemico da combattere215. Tutt’altro che una “provincia dormiente”, quindi. Anzi, per quanto riguarda la

resistenza libica, la letteratura libica (poco conosciuta e troppo spesso ignorata), ha meso in evidenza la combattività del suo popolo al momento dell’arrivo degli italiani di Giolitti prima e di Mussolini poi216.

L’ennesimo errore risiede nel dire che l’Italia avesse fornito alla Libia delle scuole talmente avanzate da poter costruire una classe dirigente in grado di guidare il paese dopo il conferimento dell’indipendenza: le scuole che c’erano tenevano insegnamenti solo per gli italiani e la classe dirigente libica non venne affatto formata dagli italiani. Niente a che vedere con una moderna classe dirigente occidentalizzata e costruita dalla potenza occupante. Non si capisce nemmeno come mai il giornalista metta a confronto questa colonia con il resto dei paesi africani, evidenziandone il lavoro positivo svolto dagli italiani: forse il giornalista si è dimenticato anche dell’opera italiana in Somalia e di quanto abbia causato i successivi scontri e l’insediamento del regime di Siad Barré?

Il giornalista riteneva inoltre che i libici, prima dell’arrivo degli italiani, fossero un popolo primitivo: lo dimostra il disprezzo con cui diceva che gli italiani avevano costruito delle vere case, non quelle

214 Misura iniqua, in «La Nazione», 27 luglio 1970.

215Cfr. A. Baldinetti, The Origins of the Lybian Nation. Colonial legacy, exile and the emergence of a new nation-state.

Routledge, 2013.

216Sull’argomento, cfr. E. Diana, Storia della letteratura della Libia contemporanea. Dall’epoca coloniale ai giorni nostri,

129 «di fango e di strame» dei libici. I libici, a suo avviso, non sapevano nemmeno coltivare le terre, prova ne era il fatto che non esistevano giardini né orti, ma la terra era tutta desertica. D’altra parte, la superiorità dimostrata dal giornalista è quella stessa che possedeva la comunità italiana nei confronti dei libici: la chiusura in se stessa, la distanza mantenuta con i nordafricani e il parlarne in termini negativi, non faceva altro che accentuare le differenze tra “noi” e “loro”.

Un altro articolo mette in evidenza il carattere del lavoro “agricolo” che gli italiani avevano intrapreso in Libia: non una politica di sfruttamento delle risorse, come avevano fatto gli americani e gli inglesi con la costruzione di basi per l’estrazione del petrolio, ma il persistere nella coltivazione di alberi da frutto e orti: «gli italiani smisero per molto tempo di occuparsi del petrolio libico (…). Americani e inglesi sfruttarono gli studi di ricerca che noi, agricoltori-poeti, avevamo abbandonato, contentandoci d’aver fatto fiorire nel deserto pomodori, arance, pesche e ulivi217». Il giornalista

cercava di giustificare il fatto che gli italiani non dovessero restituire niente ai libici, ma anzi dovessero essere elogiati per non aver nemmeno sfruttato le risorse petrolifere della Libia, chiamandosi appunto “agricoltori poeti”., un ulteriore appellativo da aggiungere alla descrizione della stessa comunità come “brava gente”.

Il lavoro italiano costituiva anche un deterrente per giustificare le violenze italiane. Scriveva a tal proposito il giornalista Domenico Bartoli: «Di quegli avvenimenti (…), dalla spedizione che Giolitti volle nel 1911 fino alla perdita della colonia (…), non abbiamo ragione di vergognarci. È una pagina tormentata, dove le pagine della dura riconquista si alternano agli episodi positivi come la costruzione di grandi strade e la tenace coltivazione di zone prima infeconde». Più avanti il giornalista ribadiva che l’Italia non aveva privato di niente la Libia: «non si deve dimenticare che, prima della conquista italiana, Tripolitania e Cirenaica erano province addormentate dell’impero turco e non paesi sovrani ei quali noi avessimo cancellato la indipendenza”218».

Come già detto in precedenza, sono d’altronde i profughi stessi che sostenevano di aver reso fertile una terra che prima non lo era: ne «La Stampa» infatti, una profuga diceva che «siamo riusciti a trasformare la sabbia in terra fertile219».

Il riferimento al lavoro italiano in termini positivi viene ribadito da un articolo in cui si sostiene che gli italiani fossero andati in Libia solo per cercare lavoro: «solo ai poveri tocca questo: è la disgrazia

217 Nelle casse della Libia 200 miliardi italiani, in «La Nazione», 31 luglio 1970. 218 Epilogo, in «La Nazione» 2 agosto 1970.

130 che grava su chi va in altri paesi alla ricerca di lavoro220». Ritorna con questa frase il tema della Libia

come una colonia di popolamento e come sbocco per i disoccupati, tematica largamente sfruttata anche dal governo Giolitti per giustificare l’invasione del 1911-1912.

In un articolo firmato da Filippo Paliotta e apparso su «Il Popolo», il giornalista affermava che la popolazione italiana «ha sempre guardato al popolo libico con fraterna amicizia, traducendo costantemente tali sentimenti in iniziative civili a vantaggio di quelle popolazioni221».

Sempre secondo un articolo del quotidiano «La Stampa», si sostiene che la storia debba essere riletta a partire da uno sguardo più generale, senza concentrarsi sul particolare del colonialismo: «Chi guarda spassionatamente, ha alcuni ricordi dei governi coloniali (…) Ma se esamina un più ampio arco di tempo, la storia di otto o nove secoli, non riesce a scorgere gli europei nella parte dei reprobi e gli arabi nella parte delle vittime222». La considerazione espressa dall’autore cerca di

ribaltare la situazione: la vittima, infatti, sul lungo periodo è proprio l’Italia (e anche l’Europa), non la Libia.

In un articolo dello stesso quotidiano, alle accuse mosse dalla sinistra alla comunità italiana, che sosteneva che fosse stata giustamente punita da Gheddafi, «Il Popolo» risponde che «invece di ricordare solo l’”imperialismo straccione” dovrebbero riconoscere lo spirito decisamente anti- coloniale e quindi egualitario che sta alla base dei nostri rapporti con l’Africa e il Terzo mondo, tanto nei rapporti statuali, quanto i quelli individuali: il che fa di noi un popolo umano e civile». Per il giornalista si doveva quindi mettere da parte il passato e guardare all’opera italiana in Africa. In un altro articolo de «Il Popolo», alle critiche rivolte da Gheddafi alla comunità italiana, il quotidiano risponde così: «per molti anni (…) la comunità italiana ha collaborato non in maniera occulta ma in modo aperto e concreto con l’amico popolo libico e con vantaggio di quest’ultimo223».

Dunque, ancora una volta, un lavoro civilizzatore quello degli italiani, che pretende di aver creato dei legami di amicizia indissolubile con i libici.

Anche «Panorama» si esprime sul lavoro italiano e segna una differenza tra gli italiani, operai laboriosi, e i libici, scansafatiche opportunisti, in cerca delle ricchezze più grandi che si ricavavano dal petrolio. Gli italiani in Libia «formavano la spina dorsale della sparuta borghesia locale (…) le

220 Sulla nave assieme agli italiani che lasciano Tripoli e il colera, in «La Stampa», 21 agosto 1970. 221 L’ingiusta decisione di Gheddafi, in «Il Popolo», 24 luglio 1970.

222 Via da Tripoli , in «La Stampa», 29 luglio 1970.

131 classi medie locali rifuggono dal lavoro manuale, attratte dal miraggio del petrolio e spinte da una certa atavica repulsione». Ogni elogio andava ai lavoratori italiani, che «hanno messo a coltura 250 mila dei 2 milioni e mezzo di ettari fruttiferi della Libia224».

Anche «Il Corriere della sera» si esprime a proposito del lavoro agricolo dell’Italia in Libia. Al riguardo, scrive: «i libici affermano che, all’epoca della colonizzazione, gli italiani presero per sé le terre migliori. Si può anche pensare che sia stato il lavoro a rendere migliori quelle terre225».

Una diversa prospettiva viene presentata dall’ «Espresso», che legge sotto una luce nuova il lavoro italiano in Libia: gli italiani infatti «hanno continuato a muoversi nelle stesse attività avviate dal regime fascista, cioè l’agricoltura, l’edilizia e il commercio, sulle quali ha seguitato a ruotare la vita sociale dei nostri connazionali, completamente avulsa dalla realtà della Libia di oggi (…); gli americani (…) sopravanzavano sempre le nostre iniziative industriali, mentre la collettività italiana continuava a coltivare le zolle e a girare attorno ai suoi piccoli interessi, divisa come sempre dalla popolazione araba». In questo estratto il lavoro italiano viene descritto come poco all’avanguardia ed erede di un retaggio fascista: in pratica, il contrario di quello che gli altri articoli hanno detto finora. Inoltre, il settimanale sostiene che «molti peccati originali della nostra presenza in Libia potevano essere corretti nei vent’anni trascorsi fra la scoperta del petrolio e la rivoluzione dello scorso autunno (…); a questo punto la comunità italiana sarebbe divenuta in Libia una maglia molto bene annodata con il resto del paese, e molto difficile dunque da disfare». Per l’Italia quindi «conta di più il rammarico di aver sprecato ancora una volta una occasione facile e utile giocando così male le nostre carte in Libia (…) dove la presenza italiana ha avuto ben sessant’anni di tempo per esprimersi in modo serio ed utile, e non c’è riuscita226». «L’Espresso» si lancia dunque in una critica

di come l’Italia non abbia saputo sfruttare le opportunità che erano presenti in Libia e critica la comunità stessa, attaccando, questa volta, il modo in cui i «contadini-poeti» menzionati ne «La Nazione» avessero compiuto un errore grave a rimanere attaccati al sostentamento dell’agricoltura. Non è un vanto, secondo il settimanale, se gli italiani vogliono essere definiti degli agricoltori. È vero, lo sono stati, ma di certo non era il settore agricolo quello su cui si doveva investire. Salvo poi giustificarsene descrivendo il lavoro agricolo come parte del carattere italiano e della sua identità.

224 Hanno lasciato in Libia molti ricordi e 50 miliardi, in «Panorama», 6 agosto 1970. 225 Tutto assurdo, in «Corriere della sera», 31 luglio 1970.

132 Dagli articoli letti emerge la descrizione di un italiano in cui è connaturata una propensione al lavoro onesto e povero dei campi. L’italiano è portato al lavoro di fatica e per sua natura non ha voluto sfruttare l’opportunità datagli dall’estrazione del petrolio. Giustificazione che va in due sensi, cioè in quello di aver apportato dei miglioramenti ai terreni desertici, ma che va anche nella direzione di una giustificazione per essere considerati degli ospiti più pacifici e meno sfruttatori degli inglesi e americani, che, come noto, hanno sfruttato la Libia estraendone il petrolio.

Quanto emerge dalla stampa dei primi anni Settanta non era, però, un’invenzione recente. A partire dai primi del ‘900 aveva cominciato a diffondersi una volgata per cui la comunità italiana era stata artefice prima dello sviluppo agricolo della Libia.

Prima dell’invasione della Libia del primo decennio del ‘900, gli italiani non erano stati molto interessati alla Libia e vi si erano trasferiti in pochissimi. Nessuno vi vedeva uno sbocco commerciale e pochi erano gli esploratori che vi si erano recati alla ricerca di un sito ricco di risorse da sfruttare per arricchire la madrepatria. Gli unici esploratori che vi arrivano, lo fecero per caso, come agostino Cervelli e Paolo Della Cella. Quest’ultimo in particolare scrisse un saggio in cui discuteva sulla possibilità di convertire la Libia in terreno agricolo e in luogo di immigrazione per gli italiani. I punti principali del suo saggio sarebbero stati in seguito largamente sfruttati per i vari programmi di espansione227. Tuttavia, questa minoranza di esploratori spinse sui governi affinché si creassero

occasioni di espansione e cercò inoltre di sensibilizzare l’opinione pubblica per la causa coloniale, anche se ben si sapeva che i problemi che l’Italia doveva affrontare erano altri, l’unificazione su tutti. Tuttavia, anche dopo il taglio dell’istmo di Suez e l’apertura del canale, la Libia non era ancora un obbiettivo italiano, come lo era invece la Tunisia.

Il primo a guardare seriamente alla Libia fu Manfredo Camperio, fondatore della rivista di argomento coloniale l’Esploratore e di una società di esplorazioni in Africa, che si recò prima in Tripolitania e poi in Cirenaica, spinto anche dagli inviti a colonizzare questa zona che arrivavano da Francia e Inghilterra. In particolare, furono le parole dell’esploratore tedesco Frederick Gerhard Rohlfs, pubblicate sulla rivista di Camperio, a muoverlo a esplorare i territori della Tripolitania e della Cirenaica. Dalle prime esplorazioni negli anni ’80 dell’Ottocento, l’esploratore redasse una relazione che menzionava le grandi e ricche risorse delle due regioni e sul fatto che avrebbero fruttato molto se prese in mano da un europeo. Si pensò per la prima volta, grazie alle parole di Camperio, alla Libia

133 come una “terra promessa” e, come sostiene Del Boca, con i suoi scritti si iniziò a descrivere questo territorio con toni iperbolici: i terreni della Libia, secondo i suoi successori, erano “fertilissimi”. La comunità italiana era comunque già presente in Libia, anche se alla fine dell’Ottocento era ancora piuttosto esigua: moltissimi italiani, nonostante si inizi a parlare di Libia come terra promessa, erano ancora restii ad emigrare in questi territori. Nonostante questo, vennero create delle scuole elementari a Tripoli nel 1876 (divenute statali con il decreto di Crispi del 1888, per il quale tutte le scuole italiane all’estero diventano di proprietà dello stato), successivamente estese ad altre città della Tripolitania e della Cirenaica, come Homs, Derna e Bengasi

Con l’inizio del Novecento, come ho già sostenuto nel primo capitolo, i circoli nazionalisti in Italia spinsero il governo alla conquista della Libia: in particolare, per quello che ci interessa, è stato il libro di Gualtiero Castellini, un nazionalista, intitolato “Tunisi e Tripoli”, che presentava la Libia come una terra promessa, piena di risorse come estremamente appetibili per gli italiani. Questo libro costituì la base degli ideali dietro al progetto di conquista per la Tripolitania. La sua conquista, inoltre, secondo lo scrittore, era sostanzialmente priva di grandi difficoltà. La Libia, secondo Castellini, doveva costituire uno sbocco per la disoccupazione e la sovrappopolazione dell’Italia, costituendo una meta ideale per l’emigrazione italiana. Importantissime in questo senso furono le dichiarazioni di Enrico Corradini, che in vari congressi dedicati al lavoro, emigrazione e alla Tripolitania, sosteneva che la conquista di questa regione e l’espropriazione dei beni non sarebbe stata una manovra violenta e illegale: i libici infatti non si erano mai costituiti in stato nazionale ed erano popoli che per indole si sottomettevano agli invasori. Inoltre, Corradini ribadiva che la Tripolitania era una terra rigogliosa e fertile, adatta per l’emigrazione dei contadini italiani e sarebbe potuta diventare anche una colonia di popolamento e di sfruttamento. Inoltre, l’Italia sarebbe dovuta tornare in Libia per istituire una continuità con le conquiste romane: le varie spedizioni archeologiche avevano infatti fatto riaffiorare moltissimi di epoca romana. Questi ritrovamenti bastavano a stabilire una continuità tra l’Italia della Roma imperiale e quella dei governi liberali228.

Anche la stampa di informazione si spese per convincere governo e opinione pubblica a invadere la Libia, sostanzialmente per gli stessi motivi per i quali si erano mossi i nazionalisti: la Libia era la terra promessa e talmente ricca di risorse da poter ingelosire anche altre potenze europee (per questo bisogna anche muoversi in fretta) ed era quindi una potenziale colonia di emigrazione, l’Italia poteva

134 controllare meglio le sue coste con l’occupazione della Libia, attraverso la quale si poteva difendere anche dalle richieste e dalle ingerenze degli ottomani, infine che l’occupazione sarebbe stata semplice perché i libici non aspettavano altro che di liberarsi dalla dominazione turca e avrebbero accolto gli italiani come salvatori. Non tutti i quotidiani italiani parteciparono alla “febbre” per la Tripolitania. In particolare, la Voce e l’Unità si impegnarono a smascherare le falsità dietro alle innumerevoli esaltazioni poste nei quotidiani a proposito della Libia.

Il tema dell’agricoltura e della rigogliosità della Libia iniziò così ad entrare nell’immaginario collettivo e molti italiani nullatenenti o poveri vennero sedotti da questa promessa di ricchezza nell’Oltremare. Dopo la riconquista della Libia attuata negli anni Venti e dopo il fallimento della politica degli Statuti, l’Italia iniziò a chiedere i tributi ai libici. Sotto il governatorato di Volpi, si creò una distinzione “razziale” tra italiani e libici, nei riguardi delle mansioni a ciascuno affidate: i libici vennero esclusi da qualsiasi mansione direttiva o di ufficio e relegati a quelle posizioni più umili. In pratica, Volpi eliminò tutti gli indigeni dalle posizioni negli uffici pubblici. Oltre a questa distinzione, il governatore si dedicò anche allo sviluppo agricolo della Tripolitania, contemporaneamente alla politica di espansione e di riconquista: il suo programma consisteva nell’esproprio, attraverso tre decreti di legge, di tutte le terre giudicate inutilizzate da più di tre anni, che divenivano così di proprietà demaniale. Volpi fece acquisire così al governo circa 68 mila ettari di terreno che erano in mano alle tribù e ai clan, dando solamente in casi estremi un piccolissimo indennizzo ai libici. Secondo Del Boca, l’azione di Volpi doveva essere considerata una vera e propria frode, compiuta su persone che non erano in grado di opporvisi, sia per il loro status giuridico di sudditi, sia perché impossibilitati ad agire dagli stessi decreti.

Sotto il governatorato di Volpi si decise di installare nei terreni espropriati un’economia di tipo capitalistico- industriale e a non dar vita quindi ad una colonia di popolamento, adottando il