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Cap.IV: Il “dramma” dei profughi in fuga da Tripoli La cacciata della comunità italiana dalla Libia di Gheddaf

IV.3. Il decreto di espulsione, l’Italia e i profughi: analisi dei quotidian

IV.3.1. Il decreto di espulsione: una storia “a tre voci”

Per la compilazione di questo paragrafo, ho deciso di soffermarmi sull’analisi dei quotidiani che sono stati pubblicati nel periodo di luglio e agosto del 1970, dall’annuncio del decreto di espulsione fino ai primi rimpatri. La prima caratteristica che salta agli occhi è l’incredulità con cui i giornalisti commentarono le decisioni del colonnello, ma soprattutto le giustificazioni addotte al decreto di espulsione e i duri giudizi sugli italiani di Libia.

121 Con il discorso di Misurata 9 luglio 1970 e con le dichiarazioni contenute nel decreto di espulsione, l’Italia si trovò davanti, a distanza di circa trent’anni dalla caduta del regime, alle critiche di un regime rivoluzionario, che la accusò di aver compiuto stragi che hanno dimezzato la popolazione e di aver dato luogo ad uno sfruttamento intensivo delle ricchezze della Libia.

Non è la prima volta che gli italiani che risiedevano nelle colonie furono presi di mira; basti ricordare l’eccidio di Mogadiscio o il terrorismo in Eritrea condotto dagli sciftà. Ma è forse il primo momento in cui si venne a sapere che cosa pensava la Libia della comunità italiana: l’identificazione degli italiani che vivevano in Libia con i fascisti che la invasero negli anni Venti, di una comunità che, fin dall’indipendenza, aveva vissuto una vita tranquilla nella ex colonia, costrinse, infatti, i quotidiani a riflettere concretamente sulle vicende del colonialismo italiano e sulle sue conseguenze.

Il soggetto attorno al quale ruotano gli articoli e i commenti dei giornalisti nelle varie testate è proprio la comunità italiana. Ogni quotidiano segue le vicende della comunità mettendo in luce tre diversi punti di vista: quello del popolo libico e del governo di Gheddafi; quello della comunità; infine, quello dei giornalisti. Si può dire, infatti, che la storia raccontata dalle testate è nella maggior parte dei casi “a tre voci”: i quotidiani, infatti, concedono molto spazio alle interviste dei profughi e alle dichiarazioni del governo rivoluzionario, due aspetti che influenzano i pensieri dei giornalisti. Come abbiamo già detto, il decreto di espulsione colse impreparata la classe politica, che sottovalutò i segnali contenuti nel discorso di Misurata: gli italiani, in patria come nella ex colonia, si dovettero misurare con le dichiarazioni dei libici e con un decreto che esternava una violenza verso la comunità italiana che questa fino ad allora non aveva sperimentato.

Dopo aver trascritto i testi dei vari decreti emessi dal governo (dalla confisca dei beni, alla chiusura delle attività, all’espulsione), i quotidiani riportano le dichiarazioni di Gheddafi sugli italiani: per Gheddafi l’espulsione era «il risultato della colonizzazione italiana per la quale il popolo libico subì danni incalcolabili; (…) il governo libico si riserva il diritto di chiedere il risarcimento per i danni subiti dal suo popolo all’epoca dell’occupazione italiana»194. “ Il leader del governo rivoluzionario

dichiarava anche che «essi, la comunità italiana, vivevano con superbia e disprezzavano i figli di questo popolo e calpestavano le nostre cose sacre195». In linea con le affermazioni di Gheddafi, il

ministro degli Esteri libico dichiarò nei colloqui che ebbe con l’ambasciatore italiano in Libia Borromeo: «l’atteggiamento della comunità italiana non è cambiato dall’epoca del fascismo (…)

194 Confiscati in Libia i beni italiani, in «La Nazione», 22 luglio 1970 i 195 Offensivi giudizi del leader libico sul lavoro italiano, in «Il Popolo»,

122 nonostante la buona volontà della Libia». Inoltre, come si riporta più avanti nello stesso articolo: «se l’opinione pubblica italiana (…) non approva la decisione libica, il governo può facilmente mostrare e proiettare le foto delle atrocità e dei massacri compiuti dai nazisti italiani196». Buessir

inoltre disse che l’Italia si era comportata «in modo inumano durante il periodo dell’occupazione coloniale197». Gli italiani avevano conservato «la stessa mentalità di prima: non hanno mai voluto

imparare l’arabo né assumere cittadinanza libica: si sono sempre ritenuti una casta superiore a noi. Tutto quello che c’era, di case e di terre, era nelle loro mani pur essendo di nostra proprietà. Oggi la Libia (…) vede in questa minoranza (…) la vecchia Italia coloniale». In riferimento ai coloni italiani, Gheddafi sostenne anche che “i beni accumulati da questi (…) furono il risultato della colonizzazione italiana198”.

Per la prima volta, inoltre, a Tripoli si tennero delle manifestazioni in appoggio al decreto governativo: come riporta la Nazione, «sui muri della città sono apparsi dei manifesti che parlano dei “misfatti” dell’occupazione italiana199». In un articolo successivo, sempre sullo stesso

quotidiano, il giornalista Gian Franco Vené commentava come, a suo avviso, in Libia «l’odio per gli italiani comincia a serpeggiare in ogni strato sociale200», tanto più che – prosegue il quotidiano - solo

i vecchi che non hanno subito il lavaggio del cervello da parte di Gheddafi non provano odio contro gli italiani.

Anche la stampa libica si accanì contro la comunità italiana: ne «La Stampa» è presente un articolo in cui si riporta che i quotidiani libici definivano la comunità italiana «un tumore maligno201», una

piaga lasciata aperta dal fascismo: si scrive inoltre che «mentre l’Italia fascista fu spazzata via dalla seconda guerra mondiale, i sentimenti ispirati al colonialismo sono rimasti intatti» e «nessuno dei componenti di questa collettività dà prova di comportamento sincero nei confronti del popolo libico, giacché tutti nutrono, nel loro animo, sentimenti “colonialisti e fascisti”». Inoltre, «in quanto erede del fascismo, l’Italia non ha diritto di protestare». Secondo alcune dichiarazioni di Gheddafi, inoltre, gli italiani non sono altro che dei «soldati travestiti202».

196No libico all’Italia, in «La Nazione», 24 luglio 1970; «Il Popolo», 24 luglio 1970. 197 Nuove aspre critiche, in «Il Popolo», 1 agosto 1970

198 Energica azione degli italiani in Libia, in «Il Popolo», 23 luglio 1970. 199 No libico all’Italia, in «La Nazione», 24 luglio 1970..

200 Gli italiani in Libia. Triste arrivo dei profughi a Napoli, in «La Nazione», 29 luglio 1970. 201 La comunità italiana è un “tumore maligno”, La Stampa, 25 luglio 1970.

123 Anche «Il Popolo» riporta altri estratti tratti dal discorso di Buessir a proposito delle motivazioni della confisca: «il colonialismo italiano s’era introdotto nel nostro paese in un modo che non potrà mai essere cancellato dalla nostra memoria. Esso aveva conquistato le proprietà libiche e si era conquistato una posizione di privilegio (…) questo fatto costituiva un ostacolo allo slancio del nostro popolo. Dopo sessanta anni di colonialismo italiano, il nostro popolo si trova in condizione di prendersi la rivincita (…) di fronte agli usurpatori». La comunità italiana era l’erede del fascismo e quindi responsabile delle stragi compiute durante l’occupazione

L’unica voce fuori dal coro, tra la stampa analizzata, che parla in modo negativo della comunità italiana e finisce quindi per dare ragione alle dichiarazioni dei libici è quella dell’«Espresso», dove il giornalista sostiene che gli italiani si comportarono in Libia in maniera tutt’altro che positiva e aperta, «mai integrandosi, in nessun senso, con la gente araba». L’italiano è sempre rimasto «rigorosamente segregato dal mondo libico che l’avvolgeva».

Di tutt’altro avviso era la comunità italiana, che, intervistata all’indomani dell’espulsione e della confisca dei beni, si era trovata improvvisamente spogliata di tutti i suoi averi e costretta quindi a emigrare per non subire ritorsioni. I profughi dipingono se stessi come una comunità di lavoratori dediti al sacrificio, come una comunità tranquilla e operosa: al rientro a Napoli, una profuga diceva: «noi abbiamo trasformato i deserti in poderi e giardini meravigliosi203». Quello della coltivazione

della terra è, come vedremo nelle prossime pagine, un motivo ricorrente negli elogi che i quotidiani tessono per la comunità italiana.

La comunità italiana si dimostrò inoltre delusa e amareggiata di fronte alle decisioni di Gheddafi e protestò per le accuse di fascismo rivolte loro. Alcuni profughi commentavano così le decisioni di Gheddafi sulla «Nazione»: «è una vergogna che il governo libico ci abbia tolto tutto», oppure «lavoravo in Libia da una quarantina di anni (…) abbiamo civilizzato la Libia, vi abbiamo lasciato il nostro sangue, il nostro sudore e ci hanno trattati come nemici» dice un elettrauto di Foggia. Anche se le maggiori accuse degli italiani, dalle interviste raccolte, si rivolgono al governo, come diceva una signora al giornalista Gian Franco Vené: «noi siamo quindicimila, ci pensi il governo di Roma», a proposito dell’espropriazione, infatti, gli italiani si rivolsero al governo, sperando che avrebbe saputo gestire l’emergenza. Oppure, un’altra testimonianza (un industriale italiano di Tripoli): «la Libia non ce l’ha con me (…) attraverso me ha confiscato i miei beni in quanto beni italiani (…) tocca

124 all’Italia risarcirmi204». Come possiamo notare, nelle interviste i profughi criticavano anche il

governo di Roma, perché sapevano che non sarebbero stati tutelati a dovere contro il decreto di confisca.

Un’altra profuga diceva: «l’odio per gli italiani comincia a serpeggiare in tutti gli strati sociali: è un fatto di contagio. Soltanto i vecchi (…) hanno pianto nel vederci maltrattare fino all’ultimo205».

Oppure c’era anche qualcuno che sosteneva che «gli arabi (sono) gran brava gente. Ci proteggevano quando i ragazzacci all’uscita delle scuole andavano a tirar sassi contro le finestre degli italiani206».

Non tutti gli italiani sono nostalgici, e lo dimostra un anziano che dice, riferendosi a Gheddafi «ma è lui la più bella caricatura del duce nel mondo arabo207».

Dalla breve analisi delle dichiarazioni e delle interviste emergono due visioni che sono diametralmente opposte a proposito della comunità italiana. La chiusura nei confronti dell’esterno e del “diverso”, cioè degli abitanti libici, e l’aria di superiorità che aveva assunto la comunità italiana erano il risultato della sedimentazione di un immaginario coloniale veicolato dalla propaganda liberale e fascista. Anche se i coloni non si dicevano più fascisti, nei loro discorsi sussistevano evidenti tracce di un passato che si credeva rimosso, ma che al contrario era presente attraverso le parole.

Contemporaneamente ai (e a causa dei) progetti di espansione in Libia e alla fondazione della colonia nel periodo liberale - e durante la riconquista fascista e l’occupazione poi - in Italia si era delineato un ripensamento dei valori identitari della nazione italiana. Come ho già sostenuto nel capitolo precedente, nella conquista della colonia si era profilato un conflitto e un incontro tra i colonizzatori e i colonizzati. In un primo momento, fantasioso e affidato all’immaginazione: la retorica propagandata all’indomani della prima guerra in Tripolitania si affidava sostanzialmente a pochissime notizie provenienti da esploratori pre e post unitari. Ben poco infatti si conosceva della Libia e la maggior parte delle notizie erano inventate o gonfiate all’inverosimile. Si pensi, per esempio, alla retorica secondo la quale la Libia era uno Stato enormemente rigoglioso e fertile, per questo terra promessa per i contadini italiani nullatenenti. La guerra del 1911-1912 e i successivi programmi di colonizzazione agricola avrebbero dimostrato che quelle previsioni erano tutt’altro

204 La sfida di Gheddafi, in «La Nazione», 1 agosto 1970.

205 Gli italiani in Libia. Triste arrivo dei profughi a Napoli, in «La Nazione», 29 luglio 1970. 206 La sfida di Gheddafi, in «La Nazione, 1 agosto 1970».

125 che veritiere, ma gonfiate da una retorica nazionalista che voleva condurre una politica di potenza alla stregua di quelle delle altre potenze europee.

Parallelamente, si venne costruendo un “nuovo italiano”, nel momento in cui la nazione rafforzava la propria unità di fronte ad un nemico e quindi definiva la propria identità di fronte all’altro che andava colonizzando. Le problematicità derivate dall’incontro-scontro con il diverso riproducevano peraltro in scala minore quanto avveniva all’interno della penisola: esisteva infatti il divario tra il nord e le plebi sottosviluppate del mezzogiorno, autentico doppio del dissidio tra colonizzatore e colonizzato208.. Era necessario quindi unire l’Italia di fronte ad un nemico comune: per far questo

vennero delineati i caratteri del nuovo italiano e venne formata anche l’immagine di una nuova donna italiana, bianca, occidentale e civilizzata.

Lo studio di Barbara Spadaro, ad esempio, dimostra come la comunità italiana nei primi decenni della colonizzazione e durante il fascismo rappresentasse se stessa con un’immagine parziale e restrittiva: le fotografie e i documenti ufficiali ritraevano solo i membri della borghesia italiana, nel momento in cui erano intenti a compiere azioni di beneficienza e atti patriottici. Ogni altro soggetto veniva espunto da questa rappresentazione, cosa che sedimentò probabilmente questa rappresentazione parziale della comunità italiana come patriottica e portatrice di civiltà209.