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Dizionario dei temi letterari, vol. II F-O

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Academic year: 2021

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F

Fabbrica.

1. Dal vocabolo lat. fa˘ber («artigiano» poi «fabbro»), che mostra una probabile connessione con la radice del verbo facio (fare), e` derivato il termine fabrica, col significato di «arte del costruire, mestiere dell’artigia-no», poi con il senso piu` specifico di «fucina, officina». Dal vocabolo latino sono derivati l’it. fabbrica; lo sp. fra`-gua, il fr. fabrique; l’ingl. factory e il ted. Fabrik. Dal lat. opificı¯na (da ops, opis, «lavoro» congiunto alla radice di facere) sono derivate la voce dotta officina, indicante la bottega o la parte dell’arsenale per i lavori di legname e ferro, e l’allotropo popolare fucina. Un termine contiguo e` quello di arsenale (fr. arsenal; ingl. arsenal; ted. Das Arsenal) che deriva dall’antico veneziano arzana`, che, at-traverso la parola genovese da`rsena (darsana`), deriva dal-l’espressione araba dar-sin-‘a, che significava «fabbrica, casa del mestiere». Anche la parola industria, dal lat. struere (elaborare, pianificare), che indicava all’inizio una capacita` di compiere certe attivita`, ma anche la diligenza e l’impegno, passa poi ad indicare la struttura, l’insieme degli opifici, dei grandi edifici produttivi (fr. industrie; ingl. industry).

2. L’immagine mitica del fabbro e della sua forza, del potere di fondere e di gittare, rappresenta la fede nel progresso, nelle sue tecniche e nei nuovi materiali mal-leabili col fuoco. Le prime figure della mitologia legate all’industria sono quelle dei Dactili. I Dactili, che perso-nificano le dita, erano fabbri e furono i primi a scoprire e a lavorare il ferro nel vicino monte Berecinzio (Diodoro Siculo, V, 64; Apollonio Rodio, I, 509). Ovidio, nelle Metamorfosi (ca. 3-8 d.C.; IV, 281) ricorda che uno di loro, Celmi, fu trasformato in ferro perche´ aveva osato insultare Rea, patrona dei fabbri. Anche i Telchini fu-rono fabbricatori di utensili: essi forgiafu-rono il tridente per Posidone e il falcetto con cui Crono castro` il padre suo Urano. La letteratura sul fabbro si lega anche agli strumenti usati, ad es. la sega che il mito attribuisce a Dedalo. L’archetipo mitico della fabbrica compare in Omero, nell’Iliade (secc. IX-VIII a.C.; Libro XVIII, 394-409), con la descrizione della costruzione delle armi di Achille nell’officina di Efesto. La fucina di Efesto, o Vul-cano, il dio fabbro, aveva venti mantici che soffiavano giorno e notte. Efesto fu messo in rapporto con le fucine di Vulcano nelle Isole Lipari perche´ la principale sede del suo culto, Lemno, era anch’essa un’isola vulcanica e un getto di gas naturale che sgorgava dalla vetta del monte Moschilo. Anche Platone nel Crizia (sec. IV a.C.) evoca l’officina di Vulcano. Nei suoi lavori metallurgici, Efesto veniva aiutato dai Ciclopi. Questi vengono de-scritti come monocoli anche perche´ i fabbri ferrai spesso si coprivano un occhio con una benda per ripararlo dalle scintille (cfr. Robert Graves, I miti Greci, 1955, 3, 2).

Sempre Platone nel Politico (sec. IV a.C.; 279b-308d) offre l’immagine di una proto-industria nella metafora della tessitura e del tessitore che eseguono i lavori. A Roma, le fabbriche artigianali e le piccole industrie na-scevano e si sviluppavano grazie alle disponibilita` finan-ziarie delle famiglie ricche. Plutarco, in Numa (secc. I-II d.C.; XVII, 13), ricorda le associazioni e le piccole indu-strie di artigiani, soprattutto orafi, costruttori, bronzisti e ceramisti. Le grandi imprese industriali, come la tessi-tura, rimangono legate alla ricchezza terriera. Cicerone parla di associazioni di opifices (Pro Flacco, sec. I a.C.; 18). Esistevano in Roma anche officine servili, ossia offi-cine di schiavi prigionieri che costituivano una minaccia per gli artigiani delle piccole imprese.

3. L’eredita` germanica e celtica offrı` al Medioevo il pre-stigio dell’artigiano magico e della metallurgia. Fabbri erano personaggi come Sant’Eligio, la cui Vita (sec.VII) sottolinea che fu fabbro e orafo valentissimo. La figura del fabbro magico compare nel poemetto anglosassone Il lamento di Deor (sec. V d.C.). Nelle prime due strofe e` rievocato Weland, il mitico fabbro ricordato anche nel Beowulf (secc. VII-VIII), abile nel forgiare gioielli e armi, e costretto a lavorare per il re Nithhad che gli ha reciso i tendini delle ginocchia perche´ non fugga. Un’altra figura di fabbro e` quella di Regin nella norvegese Saga dei Vol-sunghi (sec. XIII). Il fabbro di Finlandia che costruisce la spada dell’eroe Kalevide compare nelle leggende finni-che del Kalevipoeg, raccolte e pubblicate tra il 1836 e il 1861. Al mito germanico attinge anche Richard Wagner per la figura del fabbro Mime nell’Oro del Reno (1853). Il nano Alberich rapisce alle figlie del Reno l’oro che esse custodivano e se ne fa forgiare dal fabbro Mime l’anello e la spada. Wotan e Loge scendono nelle viscere della terra, dove i Nibelunghi hanno le loro fucine (Ni-belheim), per recuperare l’anello. Diciotto incudini pre-scritte dalla partitura, situate entro le scene (9 piccole; 6 piu` grandi e 3 molto grandi), con alternanza di figura-zioni, picchiano e ribadiscono il leitmotiv dei Nibelun-ghi: e` il «tema della fucina», che riproduce il ritmo mar-tellante dei fabbri al lavoro nelle fucine (atto II). In Sig-frido c’e` un’altra scena significativa, costruita sul «tema della spada». Sigfrido recupera i frammenti della spada Nothung, raduna nella fucina una grande quantita` di car-bone, l’accende e comincia il lavoro di ricomposizione dei frammenti della spada. La scena e` costruita musical-mente sul tema del «lavoro», intervallato dal suono del martello sull’incudine. L’atto stesso del lavorare, fati-cando, sudando, viene esaltato come evento magico, ca-pace di trasformare la materia (atto I).

4. Per esprimere il movimento tumultuoso dei dannati e dei demoni della bolgia dei barattieri (Inferno, XXI,

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1-21), Dante Alighieri fa riferimento ai gesti frenetici dei lavoratori delle fabbriche dell’arsenale di Venezia. L’am-pia similitudine dell’«Arzana` de’ Veneziani» esprime una realta` vista e osservata nei suoi particolari tecnici. In particolare, la «pece» o «pegola» spessa e vischiosa e ardente e` immagine tratta dalle grandi caldaie di pece che bollivano giorno e notte nell’arsenale. Nel Medioevo, si registrano le prime situazioni di conflitto sull’uso e il controllo della tecnologia per la produzione. In un cele-bre passo del romanzo Ivano o il cavaliere del leone (ca. 1180), Chre´tien de Troyes mostra le sventurate tessitrici di seta sfruttate nel castello della «Pesme-Aventure» (la pessima avventura) da colui per il quale lavorano. Nel primo Rinascimento si sviluppano anche le prime indu-strie minerarie di una certa consistenza. Georg Agricola nel suo De re metallica (1556) sottolinea il bisogno di costruire utensili metallici per potere scavare nelle pro-fondita` della terra a cercare minerali nascosti. All’uopo illustra la necessita` di potenziare i mulini e le segherie a energia idraulica. Le grandi macchine con ingranaggi di-ventano cosı` parti necessarie delle nuove industrie e cen-tri focali attorno a cui si vengono organizzando e istitu-zionalizzando nuove forme di vita quotidiana. La mecca-nicizzazione del mondo come schema concettuale aveva alla base l’istituzionalizzazione della tecnologia della macchina come parte integrante del nuovo modello eco-nomico. Nello stesso torno di anni Heinrich Cornelius Agrippa nel De incertitudine et vanitate scientiarum (1527) ripete critiche morali contro le attivita` minerarie. John Evelyn nel suo Fumifugium (1661) manifesta una consapevolezza per l’aumento dei vapori fuligginosi e su-dici causati dalla combustione del carbon fossile che ser-viva alle attivita` economiche nelle loro fucine e forni. Nel sec. XVII l’immagine tradizionale dell’industria umana e` fortemente condizionata dalle nuove idee meccanicisti-che meccanicisti-che formulano il bisogno di penetrare nei recessi e fessure della natura alla ricerca dei suoi segreti, nell’in-tento di migliorare la sorte dell’uomo. Nella Nuova At-lantide (1627) di Francis Bacon, la Casa di Salomone di-venta un modello di un centro di ricerca che mantiene laboratori separati per lo studio dell’arte mineraria, dei metalli. Le origini del sistema di fabbrica intesa in senso moderno, come complesso industriale, si trovano gia` verso la fine del sec. XVII nella concentrazione e nell’or-ganizzazione del lavoro nelle fabbriche di seta e nella meccanizzazione della filatura per mezzo di mulini a ruota idraulica. Ma soltanto quando lo scozzese James Watt costruisce i primi modelli di macchina a vapore (tra il 1781 e il 1782) la fabbrica raggiunge il suo potenziale industriale.

5. La fabbrica acquista uno spazio consolidato, regolare e continuo nella letteratura a partire dalla seconda meta` del Settecento, quando in Inghilterra si sviluppa la cosid-detta Rivoluzione industriale. A questo riguardo, sono significativi i diari dei viaggiatori nella Londra indu-striale. Le Lettere odeporiche (1780) di Angelo Gualan-dris, le Lettere sopra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda (1790) di Luigi Angiolini e le Relazioni sui progressi delle manifatture in Europa di Marsilio Mandriani hanno un illuministico entusiasmo per la potenza e per la prospe-rita` britanniche e si occupano in modo programmatico delle novita` e curiosita` industriali provenienti dalle aree britanniche e del nord Europa. Nel Giornale del viaggio d’Inghilterra negli anni 1787-88 (1817, postumo) di Carlo Gastone della Torre di Rezzonico, si registrano i feno-meni maggiori della Rivoluzione industriale: non solo la vastita` e varieta` dell’attivita` manifatturiera e delle fab-briche di «acciari», non solo l’esistenza di nuovi centri,

come Birmingham, esclusivamente fondati sulle fabbri-che fabbri-che crescono con vertiginosa rapidita`, ma anfabbri-che il fenomeno della meccanizzazione della produzione indu-striale. Rezzonico (vol. IV, pp. 106-108) per descrivere le localita` dominate dalle fonderie e dalle fabbriche metal-lurgiche ricorre a immagini virgiliane e dantesche in modo da trasformarle in paesaggi infernali; immagini mi-tiche che cercano in qualche modo di assimilare lo choc della novita` e della bruttezza.

6. Nella prima meta` dell’Ottocento la societa` e l’econo-mia dell’Europa occidentale subiscono una trasforma-zione profonda per opera della Rivolutrasforma-zione industriale. L’elemento che finisce per diventare essenziale nel nuovo processo di produzione e` il sistema della fabbrica accen-trata, dove gli operai nella fabbrica lavorano insieme, con l’ausilio di mezzi meccanici. Le condizioni di lavoro e di vita della massa sempre crescente di operai salariati fu-rono un fatto nuovo che ebbe enorme importanza nella vita sociale e politica. La concentrazione sul luogo di la-voro, la vita in comune in grandi agglomerati urbani fa-vorirono la solidarieta` operaia e le prime forme di orga-nizzazione. I moti che si manifestarono nel 1811 con as-salti alle fabbriche e distruzione delle macchine presero il nome di luddismo dal loro capo e organizzatore, Ned Ludd. Uno degli aspetti piu` rilevanti della nuova indu-stria fu lo sfruttamento indiscriminato della massa ope-raia. Robert Owen fu tra i primi a richiamare l’attenzione sui danni irreparabili arrecati allo sviluppo fisico e men-tale dei bambini da un prolungato orario di lavoro nello stabilimento di New Lanark. Le condizioni degli operai erano aggravate dal fenomeno dell’urbanesimo, cioe` della vita fuori dalle fabbriche. Nel 1844 Friedrich En-gels pubblica la sua denunzia delle condizioni delle classi lavoratrici in Inghilterra (La situazione della classe ope-raia in Inghilterra), richiamando l’attenzione sulle strut-ture urbane inadeguate ad assicurare un livello decente di vita alle famiglie degli operai delle fabbriche londinesi. Charles Fourier ne Il Nuovo mondo industriale e societa-rio (1829) e La falsa industria (1836) propone come mo-dello della nuova organizzazione della societa` i «falanste-ri», utopistiche comunita` che avrebbero dovuto realiz-zare l’armonia sociale, dedicandosi alle attivita` agricole. Nel sottolineare il pericolo dell’alienazione insito nello sviluppo del mondo industriale, Fourier anticipava im-portanti concetti di psicologia sociale. Nel 1841, Louis Blanc pubblica L’organizzazione del lavoro, in cui pro-spetta l’istituzione di fabbriche finanziate dallo Stato e gestite dai lavoratori. Karl Marx e Friedrich Engels nel Manifesto del partito comunista (1848) denunciano il pro-cesso di crescente impoverimento cui era sottoposta la grande massa dei lavoratori delle fabbriche e il loro as-servimento al padrone della fabbrica.

7. Se la fabbrica indica sia il complesso delle attivita` re-lative alla produzione di beni che i problemi e le trasfor-mazioni sociali ad essa connesse, alla facile mitizzazione dell’industrialismo s’affianca ben presto un dibattito cri-tico che svela i risvolti negativi del progresso tecnologico. In Sibilla o le due nazioni (1845), il romanzo del futuro primo ministro conservatore Benjamin Disraeli, l’unione in matrimonio tra Egremont, l’aristocratico illuminato, e Sybil, che soltanto in teoria e` una figlia del popolo ma in realta` e` un’aristocratica spogliata dei suoi beni, celebra l’unione tra proprieta` agricola e industriale. Shirley (1849) di Charlotte Bro¨nte si svolge nel periodo delle lotte luddiste e racconta la furia devastatrice delle masse operaie. Alla Bro¨nte interessa mostrare non tanto la na-scita della societa` industriale che trasforma i rapporti tra operaio e fabbrica, quanto la dimensione apocalittica

FABBRICA

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connessa alla distruzione dell’ordine sociale, qui rappre-sentata dalle finestre della fabbrica che nella scena del-l’assalto notturno vanno in frantumi. Alla figura del capo della rivolta, Moses Barraclough, predicatore luddista, che guida operai ribelli non coscienti dei propri diritti, si contrappone la figura dell’operaio William Farren, uomo pieno di dignita` ma ligio al dovere, intelligente e intra-prendente, ma non violento. Fra i romanzi che hanno come tema di fondo la vita industriale c’e` il celebre Tempi difficili (1854) di Charles Dickens, ambientato tra le fabbriche di Coketown. Nel romanzo, c’e` un evidente linea di metaforizzazione della tecnologia, in senso orro-rifico: dalle ciminiere delle fabbriche escono mostruosi serpenti di fumo (monstruous serpents of smoke); e le stesse macchine di produzione appaiono come elefanti presi da follia malinconica. Elizabeth Gaskell invece e` mossa da un diverso atteggiamento e pone al centro del suo romanzo Mary Barton (1848) la figura di un operaio e non la terribile immagine della folla anonima. Anche George Eliot, nel romanzo Felix Holt (1866), opponen-dosi all’equazione che persisteva nell’eta` vittoriana tra classi lavoratrici e ritorno alla barbarie, attribuisce al pro-tagonista Felix il ruolo di portavoce degli operai «illumi-nati».

8. I romanzi che affrontano il tema della fabbrica si pro-pagano di nazione in nazione con il diffondersi dello svi-luppo tecnologico. In Francia, il problema sociale con-nesso allo sviluppo del capitalismo industriale porta le classi lavoratrici a vivere in condizioni miserevoli in grossi e degradanti agglomerati urbani. E´mile Zola ne L’ammazzatoio (1877) mostra gli effetti devastanti di un lavoro servile e ripetitivo, il degrado fisico e morale del-l’individuo, ridotto a mera appendice della macchina. La metafora meccanico-industriale torna in un altro suo ce-lebre romanzo, Germinale (1885), ambientato nel mondo «estremo» della miniera, un vero e proprio mo-stro che si nutre di carne umana. Ne L’inferno sociale (1882) di Yves Guyot, gli operai in rivolta sono trascinati dal provocatore Le`chepigne alla distruzione delle mac-chine. Anche il romanzo popolare di Hector-Henri Ma-lot, In famiglia (1893), tratta dei problemi sociali con-nessi al lavoro in fabbrica. Nel villaggio di Maraucourt, dove tutti gli abitanti sono, chi piu` chi meno, occupati nelle fabbriche del signor Paindavoine, la protagonista cerca di sensibilizzare il padrone al problema dell’assi-stenza operaia, in quei tempi molto trascurata. In Ger-mania, nel romanzo di Wilhelm Raabe Il pastore della fame (1864), la fame simbolica di verita` del protagonista si specchia nella fame autentica degli operai. Quando tre operai vengono uccisi in una dimostrazione, il protago-nista Hans, precettore di un ricco proprietario di fabbri-che, protesta tanto vivamente da essere licenziato. In In-cudine e martello (1869) Friedrich Spielhagen segue la redenzione di Giorgio Harwick che in prigione sotto la guida del direttore delle carceri impara a conoscere il valore del lavoro. Una volta libero, divenuto padrone e direttore di una fabbrica, trasforma in maniera radicale il rapporto che intercorre tra datore e prestatore di lavoro, rendendo gli operai partecipi degli utili. Principale espo-nente di una letteratura proletaria nata intorno all’ultimo ventennio dell’Ottocento e` Max Kretzer, primo operaio-scrittore della letteratura tedesca. Il suo Meister Timpe (1888) e` la storia di un proprietario di una modesta fab-brica, della lotta impari delle braccia contro le macchine e delle incerte aspirazioni del socialismo nascente. Sulle vicende degli operai della fabbrica di Dreissiger in lotta contro la fame e la miseria e` il dramma Tessitori (1892) di Gerhart Hauptmann.

9. Per quasi tutto l’Ottocento, l’Italia si trova in una con-dizione di ritardo rispetto agli altri paesi industrializzati dell’Occidente. Giacomo Leopardi, nella Palinodia al marchese Gino Capponi, pone «l’Anglia [...] con le mac-chine sue», il vapore, l’industria navale e tessile e quella delle armi al centro di una parodica celebrazione: l’indu-stria e` lo strumento che dara` agli uomini la «felicita`» che consiste nella prosperita` economica, ma al contempo consentira` al male di estrinsecarsi in nuove e piu` temibili forme: guerre, epidemie. La rappresentazione delle fab-briche della seta ne I promessi sposi (1822-40) di Alessan-dro Manzoni rimanda piuttosto ad un’attivita` paleo-in-dustriale. La seta rende possibile l’ambientazione rurale di base delle vicende del romanzo e, nello stesso tempo, proprio in quanto industria, quell’elemento di proie-zione verso il futuro. La raffiguraproie-zione dell’industria se-rica lombarda e` filtrata attraverso le vicende dei protago-nisti, le cui occupazioni ben rappresentano le condizioni del lavoro. Sul finire dell’Ottocento si affermano le prime figure di imprenditori, operai ed emigranti. Portafoglio d’un operaio (1871) di Cesare Cantu` narra le vicende la-vorative di Sabino, primo meridionale operaio emigrato al Nord, inserito nel piccolo esercito di operai di una moderna manifattura. In Cecchino dal zero al milione. Romanzo industriale (1889), Lauro Bernardi eleva un or-fanello napoletano, Cecchino, da operaio al rango di in-dustriale che arriva a fondare una propria fabbrica. Cantu` e Bernardi celebrano l’anima eroica con cui il la-voro porta l’operaio a diventare padrone di una fabbrica e fanno da contraltare ai fallimenti degli industriali nei romanzi di Emilio De Marchi.

10. Dal punto di vista dell’iconografia, il tema della rap-presentazione della fabbrica inizia in Inghilterra gia` nel XVIII secolo. Lavoro e neghittosita` (1747) si intitola una serie di incisioni di William Hogarth dedicate agli im-prenditori e proprietari di fabbriche nella Londra della prima meta` del Settecento. Quelle di Joseph Wright sono pitture attente alla novita` della fabbrica e dei suoi rapporti con la vita, non descrivono gli strumenti opera-tivi ma piuttosto rappresentano una condizione sociale. Tra gli esempi di rappresentazione del lavoro in fabbrica nella pittura ottocentesca, citiamo Ferro e carbone (1860) di William Bell Scott, che raffigura al centro del quadro operai che sollevano grossi martelli sullo sfondo di ferro-vie e fabbriche della citta` di Northumberland, impor-tante cantiere industriale. Adolph Menzel e` uno dei primi a guardare con meraviglia all’interno di una fab-brica metallurgica, in Laminatoio e fonderia (1875, con-servato a Berlino, Nationalgallerie). Egli inventa, per ce-lebrare il cinquantenario delle fonderie Krupp, l’allego-ria dell’Industl’allego-ria, con le ali e con in mano lo scettro capace di governare la nuova forza e il nuovo benessere e con ai suoi piedi due cannoni (1912). Altre celebri tele di soggetto industriale sono Il tessitore bretone (1888) di Paul Se´rusier, che rappresenta gli impianti della tessi-tura; I molatori (1885) di Ferdinand Gueldry (conservato a St. Etienne, Muse´e d’art et industrie) e il dipinto La fonderia (1899, Otterlo, Risjksmuseum Kro¨ller-Mu¨ller) di Maximilian Luce, con la rappresentazione dell’acciaie-ria e della fondedell’acciaie-ria di Charleroi, in Belgio. Altre celebri rappresentazioni industriali si trovano nella pittura di Umberto Boccioni (Officina a Porta Romana, 1908; Stu-dio di periferia, 1909) e Guido Balsamo Stella (Officina, 1910; Fabbrica a Magdeburgo, 1912). Nella pittura meta-fisica di Giorgio De Chirico gli elementi della civilta` in-dustriale acquistano lo stesso valore delle antichita` gre-che: le torri delle officine equivalgono a colonne doriche, le fabbriche nella loro simmetria sono simili a strutture

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classiche greco-romane. In tempi recenti, la Pop-Art ha tentato un assorbimento estetico dei materiali di alto-forno, rottami di ferro, scarti di lavorazione siderurgica, risultati di processi di fusione e altri oggetti industriali. 11. All’aprirsi del Novecento, l’esplicita volonta` del fu-turismo di offrire una risposta valida a integrare uomo e industria trova una significativa espressione nel Poema non umano dei tecnicismi (1940) di Filippo Tommaso Marinetti. La fabbrica, considerata nell’ambito del suo processo meccanico, vive come scena di un rito che coin-volge esclusivamente i processi della materia e relega l’uomo («gli 11 operai visibili») alla funzione di spetta-tore o di elemento impassibile. I ritmi di lavoro e di pro-duzione nell’officina vengono antropomorfizzati e la ma-teria industriale diviene essere vivente: la fabbrica e` cosı` la sola e assoluta protagonista del processo produttivo. Secondo il fondatore del Futurismo, la letteratura ha il compito di cantare la fabbrica (luogo ideale dove lavo-rano «fierissimi fucinatori» e «falange dell’industria») e i prodotti del lavoro industrializzato: «canteremo il vi-brante fervore notturno degli arsenali e dei cantieri in-cendiati da violente lune elettriche [...] le officine appese alle nuvole pei contorti fili dei loro fumi». Una immagine negativa e distruttiva della fabbrica compare in La giun-gla (1906) di Upton Sinclar. Il romanzo segue la parabola di una famiglia di lituani scagliati nel vortice di una Chi-cago degli anni tra Ottocento e Novecento. In primo piano, campeggia la gigantesca fabbrica dei macelli: una citta` dentro la citta`, se non addirittura la citta`-fabbrica che ingloba e contiene la citta`. La fabbrica dei macelli di Chicago rappresenta la quintessenza dello sviluppo in-dustriale di una America da poco divenuta grande po-tenza capitalistica. I macelli avrebbero ispirato Henry Ford e la sua «catena di montaggio» strutturata all’inse-gna della massima razionalita` e produttivita`, su cui torna in pagine di violenta dissacrazione e denuncia il Viaggio al termine della notte di Luis Ferdinad Ce´line. Il ro-manzo ... & C. (1917) di Jean-Richard Bloch, fortemente segnato dalle esperienze della guerra franco-tedesca del 1870, racconta l’epopea della famiglia ebreo-alsaziana Si-mler che trasporta la sua fabbrica in Normandia, sce-gliendo la Francia sconfitta come patria. A Gustave Geoffroy, che ne L’apprendista (1904) e Cecile Pommier (1923) ritrae le figure di piccole operaie, si riallaccia, alla fine degli anni ’30, la corrente del «romanzo populista» il cui capolavoro e` l’Albergo del Nord (1929) di Euge`ne Dabit. L’albergo che da` il titolo al romanzo ospita gli operai di una fabbrica le cui esistenze sembrano confon-dersi, a causa delle condizioni di lavoro identiche per tutti, in un’unica routine meccanica: alzarsi, andare in fabbrica, mangiare, coricarsi. Nel romanzo I poveri (1917), Heinrich Mann rappresenta i rapporti tra capita-listi e operai, mettendo alla berlina la societa` tedesca del periodo guglielmino, attaccando tanto l’aristocraticismo quanto l’ideologia piccolo-borghese. Franz Biberkopf, il protagonista di Berlin Alexanderplatz (1929) di Alfred Do¨blin, realizza la propria integrazione sociale solo nella completa remissione alla volonta` della fabbrica e non at-traverso i piccoli lavori autonomi che aveva dapprima intrapreso. L’ultima opera di Thomas Mann, Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (1955), e` una parodia dell’Europa anteriore al 1914: il cavaliere d’industria Krull vi svolge il ruolo di ultima incarnazione dell’uomo-artista catapultato nelle contraddizioni del mondo capi-talistico.

12. Nell’Unione Sovietica degli anni ’20 l’arte, funzionale al processo di produzione, ha il compito di avvicinare il lettore al processo di industrializzazione e di

collettiviz-zazione. Il capolavoro della «prosa produttivistica» e` Ce-mento (1925) di Fe¨dor Vası´l’evic Gladko´v, in cui un ope-raio comunista reduce di guerra, vincendo l’inerzia dei contadini, degli altri operai e le lentezze burocratiche, rimette in funzione il cementificio da cui dipende il be-nessere dell’intera comunita`. L’opera che affronta in ma-niera piu` completa e problematica i processi storici attra-verso le vicende di una fabbrica e` L’affare degli Artamo-nov (1925) di Maksim Gor’kij. L’ascesa e la caduta di una famiglia russa nel volgere di tre generazioni, dal pe-riodo delle riforme di Alessandro II (1860) alla rivolu-zione russa del 1917, e` la metafora delle tre fasi del capi-talismo russo, dalla fine del regime feudale all’afferma-zione dell’idea rivoluzionaria. La fabbrica ha ispirato anche opere di fantascienza. Lo scrittore ceco Karel Cˇa-pek, nel romanzo La fabbrica dell’assoluto (1922), narra della distribuzione nelle fabbriche di una macchina ca-pace di scomporre la materia e di liberare il cosiddetto Assoluto; nel dramma RUR (1920) ripropone, invece, il topos della rivolta degli operai, con la differenza che qui siamo in presenza di uomini artificiali (i robot) che si ribellano contro il direttore della fabbrica che li produce. La presenza della fabbrica si fa allusiva o allegorica nel romanzo di Hermann Kasack, La citta` oltre il fiume (1947), figurazione per assurdo della societa`: ad una fab-brica che costruisce le pietre ne e` affiancata una che la pietre le spacca per fornire materiale alla prima. 13. Il romanzo italiano opera interessanti incursioni nel mondo industriale. Inaugura la rappresentazione dei personaggi dell’industria nella narrativa il romanzo Tre operai (1934) di Carlo Bernari. Qui, i protagonisti sono fortemente individuati nei loro problemi personali, e la fabbrica vi compare sullo sfondo, come luogo di lotta e di conflitti. La fabbrica, invece di essere il luogo di ag-gregazione degli operai, e` il punto di riferimento esterno al romanzo di situazioni che riguardano angosce, dubbi, debolezze, crisi esistenziali. In Il capofabbrica (1935) di Romano Bilenchi, la fabbrica conserva l’immagine disu-mana nella quale la confina il marxismo. Nel racconti giovanili di Cesare Pavese, la citta` e` dominata da fabbri-che enormi fabbri-che sovrastano le masse grigie delle case emettendo un fumo torbido che si addensa (Trilogia delle macchine, in Lotte di giovani, 1928). In Paesi tuoi (1941), si racconta lo scontro tra la modernita` del lavoro meccanico nella grande citta` e i segreti e i miti ancestrali della campagna. In un altro suo romanzo, Il compagno (1947) invece, Pavese rappresenta il mondo operaio, le officine meccaniche di Roma, citta` per molti aspetti an-cora lontana dal grande sviluppo industriale del Nord. L’industria e` rappresentata nei romanzi di Ottiero Ot-tieri: Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959). Nel primo romanzo, siamo ancora nei termini di una rivoluzione industriale alla vigilia dell’automazione in cui si racconta la situazione delle operaie poste di fronte ai problemi dei tempi sempre piu` ridotti di lavoro e di cottimo, con le inevitabili proteste e lo sciopero. Nel secondo, si assiste al drammatico scontro fra l’organizza-zione razionale del lavoro in fabbrica e la forza istintiva e lo slancio vitale di Donnarumma. La fabbrica e` vista dal di fuori, come luogo di produzione industriale da ren-dere sempre piu` rapida, mentre Donnarumma si con-trappone alla razionalizzazione dei processi di produ-zione per lui incomprensibili. In altri romanzi a sfondo industriale come Il capofabbrica di Romano Bilenchi, Il capolavoro (1961) di Davı`, La costanza della ragione (1963) di Vasco Pratolini e Il padrone (1965) di Gof-fredo Parise, la fabbrica e` vista come il microcosmo di tutte le esperienze umane necessarie per giungere alla

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maturita`. Appartengono alla letteratura anche testimo-nianze documentaristiche come Operai del Nord (1957) di Elio Vallini, Inchiesta alla FIAT (1960) di Giovanni Carocci, o il numero della rivista «Il Menabo`» diretta da Italo Calvino e Elio Vittorini su letteratura e industria, che ospita una vasta rassegna di autori (n. 4, 1961). Nelle descrizioni delle fabbriche e delle centrali termoelettri-che ne Le meraviglie d’Italia - Gli anni (1964) e nelle pagine di divulgazione tecnica di Carlo Emilio Gadda, si trovano connessioni tra l’esercizio delle macchine in fab-brica e l’umano, in cui intervengono fattori di empatia tra uomo e macchina.

14. Nella piena eta` del «romanzo industriale», il Franco Fortini di Per una storia dell’industria (1965) da un lato e il Pier Paolo Pasolini delle Poesie in forma di rosa (1961-64) dall’altro si collocano in una zona intermedia che se-para il mito delle buone qualita` borghesi dalla storia della sua sconfitta, la fede nel futuro capitalista dalla sfiducia nella tecnica e nel suo pervertibile uso. L’incontro tra industria e poesia costituisce uno dei motivi portanti della visione di Leonardo Sinisgalli. Egli accosta sugge-stivamente la fabbrica e le grandi basiliche (L’operaio e la macchina, in «Pirelli», n. 2, 1949). La sua esperienza, affidata a testi come Quaderno di geometria (1936), Ri-tratti di macchine (1937), Furor mathematicus (1944) e agli interventi sulle riviste «Pirelli» e «Civilta` delle mac-chine», si pone come spartiacque tra i due universi, quello poetico e quello tecnologico. Il tentativo di avvi-cinare l’universo della poesia e della tecnologia e porre le basi per una utopica comunita` fu compiuto da Adriano Olivetti, in Citta` dell’uomo (1960): un’utopia tesa a coin-volgere la fabbrica e l’organizzazione del lavoro in un progetto che includesse anche l’ordine sociale e fami-liare. Nel poemetto Una visita in fabbrica (1958) di Vit-torio Sereni, la fabbrica non appare nella sua oggettivita` tecnica ed economica, quanto nel riflesso soggettivo dello sconforto e della speranza degli operai. Gli scenari della fabbrica rappresentano uno sfondo ideale per rive-lare lo stato psicologico di chi opera al suo interno. Na-talia Ginzburg, ne Le voci della sera (1961), mette in scena la storia di una famiglia di industriali, ritratti non nella specificita` del lavoro in fabbrica e delle operazioni di produzione, ma nei caratteri, nelle debolezze e nelle sconfitte esistenziali, in quella condizione individuale che e` fuori della fabbrica, anche se nasce dalla condi-zione sociale e di lavoro dei personaggi. Molti romanzi di Paolo Volponi sono ambientati nel mondo delle fabbri-che. Albino Saluggia, protagonista del romanzo Memo-riale (1962), e` la figura di un irriducibile al sistema del-l’industria. Contro la modernita` razionale della fabbrica, Albino oppone la tradizione contadina da cui proviene. La fabbrica e` il luogo dell’organizzazione piu` attenta del sistema perfettamente ordinato alla produzione e al be-nessere dei dipendenti in funzione di tale ritmo produt-tivo, ma tra la vita e la fabbrica ci sono conflitti e di con-seguenza l’industria finisce per creare una realta` innatu-rale in cui l’uomo perde se stesso. Il volto distruttivo dell’industria compare in Corporale (1974). Qui, l’indu-stria e` vista come una mostruosa organizzazione mon-diale di oppressione e di sfruttamento. Ne Le mosche del capitale (1989), la fabbrica finisce per essere un termine emblematico di opposizione e il protagonista, che e` un uomo dell’industria, si propone come il nemico che, co-noscendo i particolari meccanismi del sistema, cerca di danneggiare, di sabotare il funzionamento di questa dal-l’interno.

15. Per la cinematografia, la fabbrica appare un tema ricco di sviluppi, soprattutto per la loro connessione con

il tema degli operai. Due importanti opere lo dimo-strano: Metropolis (1927) di Fritz Lang (tratto dal ro-manzo di Thea von Harbou) e Tempi moderni (1936) di Charlie Chaplin, che battono soprattutto sul motivo del-l’alienazione del lavoro degli operai. Nel primo turbe di uomini-schiavi attendono macchinari giganteschi e co-lossali; nel secondo, Charlot e` un operaio di un grande complesso industriale che, estenuato dal ritmo frenetico del lavoro, perde la ragione. Sciopero (1925) di Sergeji Eisenstein inaugura il filone delle ingiustizie patite dagli operai, che trovano una redenzione sociale nell’abbrac-cio del leninismo. In una fabbrica della Russia pre-rivo-luzionaria, il suicidio di un operaio ingiustamente punito provoca lo sciopero degli operai, gia` da tempo in agita-zione per l’esiguita` dei salari. L’episodio Renzo e Luciana (1962) di Mario Monicelli, nel film Boccaccio ’70, rac-conta le problematiche familiari degli operai (la vicenda e` tratta dal racconto L’avventura di due sposi di Italo Cal-vino, collaboratore alla sceneggiatura, del 1962). Lo stesso regista torna su temi «operaistici» nel film storico sul protosocialismo dell’Ottocento, ambientato in una fabbrica tessile di Torino: I compagni (1963). In Deserto rosso (1964) di Michelangelo Antonioni, la fabbrica as-sume la valenza di elemento mostruoso del paesaggio prodotto dalla societa` contemporanea e assieme diventa l’emblema stesso dell’alienazione dell’uomo. Il film, con le lunghe analitiche riprese del paesaggio industriale di Ravenna, dimostra il mutamento radicale che l’industria ha portato, costituendo nuove prospettive paesistiche. Ludovico Massa, detto Lulu`, operaio in una fabbrica me-talmeccanica, e` il protagonista de La classe operaia va in paradiso (1971) di Elio Petri, con Gian Maria Volonte`. Lulu`, impegnato come gli altri compagni in una frenetica lotta coi tempi di lavorazione, sogna di un muro da ab-battere oltre il quale c’e` il paradiso della classe operaia. Una lettura grottesca della vita degli operai offre il film Mimı` metallurgico ferito nell’onore (1972) di Lina Wert-mu¨ller, con Giancarlo Giannini. Norma Rae (1979) di Martin Ritt e` un film di denuncia delle condizioni di vita degli operai di una fabbrica tessile dell’Alabama. La gio-vane protagonista si batte per la costituzione di un sin-dacato e finisce in prigione per un gesto di rivolta com-piuto nella fabbrica. Anche il documentario Roger e Io (1989) di Michael Moore e` una inchiesta sulla disastrosa chiusura della grande fabbrica di automobili di Flint, nel Michigan, ad opera di Roger Smith, presidente della Ge-neral Motors. Da ricordare, infine, Dancer in the Dark (2000) di Lars Von Trier, incentrato sulla storia di una giovane operaia, Selma, a cui vengono rubati i risparmi accumulati nel tempo con turni notturni e di massacranti ore di lavoro straordinario.

n Opere citate: Opere anonime: Beowulf (secc. VII-VIII); «Civilta` delle macchine», rivista (1953-1979); Il lamento di

Deor (Deor’s Complaint, sec. V d.C.); «Il Menabo`», rivista

(1959-1967); «Pirelli», rivista (1948-1972); Saga dei Volsunghi (Vo¨lsungasaga, sec. XIII).

Agricola, G., De re metallica (1556); Agrippa, H.C., De

incerti-tudine et vanitate scientiarum (1527); Angiolini, L., Lettere so-pra l’Inghilterra, la Scozia e l’Olanda (1790); Antonioni, M., De-serto rosso, cinema (1964); Bacon, F., La nuova Atlantide (The New Atlantis, 1627); Bernardi, L., Cecchino dal zero al milione. Romanzo industriale (1889); Bernari, C., Tre operai (1934);

Bi-lenchi, R., Il capofabbrica (1935); Blanc, L., L’organizzazione del

lavoro (L’organisation du travail, 1841); Bloch, J.-R., ...& C.

(...Et Cie, 1917); Boccioni, U., Officina a Porta Romana, pittura (1908); Boccioni, U., Studio di periferia, pittura (1909); Bro¨nte, C, Shirley (1849); Calvino, I., L’avventura di due sposi (1962); Cantu`, C., Portafoglio d’un operaio (1871); Cˇapek, K., La

fab-brica dell’assoluto (1922); Cˇapek, K., RUR (Rossum’s Universal Robots, 1920); Carocci, G., Inchiesta alla FIAT (1960); Ce´line,

(6)

L.F., Viaggio al termine della notte (Voyage au bout de la nuit, 1932); Chaplin, C., Tempi moderni, cinema (Modern Times, 1936); Chre´tien de Troyes, Ivano o il cavaliere del leone (Yvain

ou le Chevalier au lion, sec. XII); Cicerone, M.T., Pro Flacco

(sec. I a.C.); Dabit, E., Albergo del Nord (Hoˆtel du Nord, 1929); Dante Alighieri, La divina commedia (1306-21); Davı`, L., Il

ca-polavoro (1961); Dickens, C., Tempi difficili (Hard Times,

1854); Disraeli, B., Sibilla o le due nazioni (Sybil: Or, the Two

Nations, 1845); Do¨blin, A., Berlino, Alexanderplatz (Berlin Alexanderplatz, 1929); Eisenstein, S., Sciopero, cinema (1925);

Eligio, Vita (sec. VII); Eliot, G., Felix Holt (1866); Engels, F.,

La situazione della classe operaia in Inghilterra (Die Lage der arbeitenden Klasse in England, 1844); Evelyn, J., Fumifugium

(1661); Fortini, F., Per una storia dell’industria (1965); Fourier, C., Il Nuovo mondo industriale e societario (Le nouveau monde

industriel et societarie, 1829); Fourier, C., La falsa industria (La fauste industrie, 1836); Gadda, C.E., Le meraviglie d’Italia - Gli anni (1964); Gaskell, E.C., Mary Barton (Mary Barton: a Tale of Manchester Life, 1848); Geoffroy, G., Cecile Pommier (1923);

Geoffroy, G., L’apprendista (L’apprentie, 1904); Ginzburg, N.,

Le voci della sera (1961); Gladko´v, F.V., Cemento (1925);

Gor’kij, M., L’affare degli Artamonov (1925); Graves, R., I miti

greci (The Greek Myths, 1955); Gualandris, A., Lettere odepo-riche (1780); Gueldry, F., I molatori, pittura (1885); Guyot, Y., L’inferno sociale (Enfer social, 1882); Hauptmann, G., Tessitori

(Die Weber, 1892); Hogart, W., Lavoro e neghittosita`, incisioni (Industry and Idleness, 1747); Kasack, H., La citta` oltre il fiume (Der Stadt hinter dem Storm, 1947); Kretzer, M., Mastro Timpe (Meister Timpe, 1888); Lang, F., Metropolis, cinema (1927); Leopardi, G., Palinodia. Al marchese Gino Capponi (1833); Luce, M., La fonderia, pittura (1899); Malot, H.-H., In famiglia (En famille, 1893); Mandriani, M., Relazioni sui progressi delle

manifatture in Europa (sec. XVIII); Mann, H., I poveri (Die Armen, 1917); Mann, T., Confessioni del cavaliere d’industria Felix Krull (Bekenntnisse des Hochstaplers Felix Krull, 1955);

Manzoni, A., I promessi sposi (1822-40); Marinetti, F.T., Poema

non umano dei tecnicismi (1940); Marx, K. - Engels, F., Mani-festo del partito comunista (Manifest der Kommunistischen Par-tei, 1848); Menzel, A. von, Laminatoio e fonderia, pittura

(1875); Monicelli, M., I compagni, cinema (1963); Monicelli, M., Renzo e Luciana in Boccaccio ’70, cinema (1962); Moore, M., Roger e io, cinema (Roger and Me, 1989); Olivetti, A., Citta`

dell’uomo (1960); Omero, Iliade (secc. IX-VIII a.C.); Omero, Odissea (secc. IX-VIII a.C.); Ottieri, O., Donnarumma all’as-salto (1959); Ottieri, O., Tempi stretti (1957); Ovidio Nasone,

P., Metamorfosi (Metamorphoseon libri, ca. 3-8 d.C.); Parise, G., Il padrone (1965); Pasolini, P.P., Poesie in forma di rosa (1961-64); Pavese, C., Il compagno (1947); Pavese, C., Paesi tuoi (1941); Pavese, C., Trilogia delle macchine, in Lotte di giovani (1928); Petri, E., La classe operaia va in paradiso, cinema (1971); Platone, Crizia (sec. IV a.C.); Platone, Politico (sec. IV a.C.); Plutarco, Numa (secc. I-II d.C.); Pratolini, V., La costanza della

ragione (1963); Raabe, W., Il pastore della fame (Der Hunger-pastor, 1864); Rezzonico, C.G. della Torre di, Giornale del viag-gio d’Inghilterra negli anni 1787-88 (1817, postumo); Ritt, M., Norma Rae, cinema (1979); Scott, W.B., Ferro e carbone,

pit-tura (1860); Sereni, V., Una visita in fabbrica, in Gli strumenti

umani (1965); Se´rusier, P., Il tessitore bretone, pittura (1888);

Sinclair, U., La giungla (The Jungle, 1906); Sinisgalli, L., Furor

mathematicus (1944); Sinisgalli, L., Quaderno di geometria

(1936); Sinisgalli, L., Ritratti di macchine (1937); Spielhagen, F., Incudine e martello (Hammer und Amboss, 1869); Stella, G.B., Fabbrica a Magdeburgo, pittura (1912); Stella, G.B.,

Offi-cina, pittura (1910); Vallini, E., Operai del Nord (1957);

Vol-poni, P., Corporale (1974); VolVol-poni, P., Le mosche del capitale (1989); Volponi, P., Memoriale (1962); Von Trier, L., Dancer in

the Dark, cinema (2000); Wagner, R., L’oro del Reno, musica

(Das Rheingold, 1853); Wagner, R., Sigfrido, musica (Siegfried, 1871-74); Wertmu¨ller, L., Mimı` metallurgico ferito nell’onore, cinema (1972); Zola, E., Germinale (Germinal, 1885); Zola, E.,

L’ammazzatoio (L’Assommoir, 1877).

n Altre opere: Opere anonime: «Politecnico», rivista (1945-1947); «Rivista Finsider», rivista (1966-1988).

Afinoge`nov, A.N., Alla vigila (1942); Afinoge´nov, A.N., La

paura (1931); Andersen-Nexø, M., Pelle il conquistatore (1910);

Anderson, S., Riso nero (Dark Laughter, 1925); Anderson, S.,

Storia di un narratore (A Story Teller’s Story, 1924); Arpino, G., Una nuvola d’ira (1962); Balestrini, N., Vogliamo tutto (1971);

Baretti, G., Lettere familiari a’ suoi tre fratelli (1762-63); nari, C., L’ombra del suicidio (Lo strano Conserti) (1936); Ber-sezio, V., Le miserie d’monssu` Travet (1863); Bertini, V., Elogio

del meccanico (1964); Bertini, V., Il bardotto (1956); Bianciardi,

L., L’integrazione (1960); Bianciardi, L., La vita agra (1962); Bontempelli, M., La vita operosa (1921); Bontempelli, M.,

Min-nie la candida (1927); Borgese, G.A., Rube` (1921); Bro¨ger, K., Rovina e ascesa (Sturz und Erhebung, 1943); Bromfield, L., Eva-sione (Escape, 1927); Cabianca, J., Un’ora avanti le nozze. Egloga industriale (1872); Calvino, I., I giovani del Po (1957);

Calvino, I., La collana della regina (1960); Calvino, I., La

fab-brica della montagna (1954); Calvino, I., La fabfab-brica occupata

(1952); Calvino, I., La nuvola di smog (1959); Carlyle, T., Segni

dei tempi (Sings of the Times, 1829); Castro, Ferreira de, Uo-mini come noi (A la e a neve, 1947); Cena, G., Ammonitori

(1904); Cipani, G.B., Sandro ossia le vicende di un giovane

ope-raio (1883); Crossa, H., Segreti della vita matura (Geheimnisse des reifen Lebens. Aus den Aufzeichnungen Angermanns, 1936);

D’Annunzio, G., Forse che sı` forse che no (1910); D’Annunzio, G., Il fuoco (1900); Davı`, L., Gymkana Cross (1967); Davı`, L.,

Un mandato da un tale (1959); De Marchi, E., Demetrio Pianelli

(1890); De Marchi, E., Giacomo l’idealista (1897); Descalzo, G., Tutti i giorni (1950); Di Ciaula, T., Tuta blu (1978); Di-centa, J., Juan Jose´ (1895); Dreiser, F., Il finanziere (The

Finan-cier, 1912); Dreiser, F., Il genio (The Genius, 1915); Dreiser, T., Lo stoico (The Stoic, 1947); Dreiser, T., Il titano (The Titan,

1914); Eliot, G., Felix Holt (Address to Working Men: by Felix

Holt, 1868); Farfa, Tenerezze fresatorie (1933); Fo, D., Morte accidentale di un anarchico (1971); Gadda, C.E., Azoto e altri scritti di divulgazione scientifica (1986); Gadda, C.E., La mecca-nica (1970); Gadda, C.E., Racconto italiano di ignoto del Nove-cento (1983); Gaskell, E., Nord e sud (North and South, 1855);

Gissing, G., Demos (1886); Gissing, G., Gli inferi (The Nether

World, 1889); Gissing, G., Lavoratori all’alba (Workers in the Dawn, 1880); Gissing, G., Le strane donne (The Odd Women,

1893); Gogol’, N.V., Mirgorod (1835); Gorbatov, B.L., Gli

in-domabili o la famiglia di Taras (1943); Graham Phillips, D., Susan Lenox (1920); Guerrazzi, V., La fabbrica dei pazzi (1979);

Guerrazzi, V., Le ferie di un operaio (1974); Guerrazzi, V., Nord

e Sud uniti nella lotta (1974); Guitry, S., Le memorie di un baro

(Les me´moires d’un tricheur, 1935); Gutzkow, K., Maha Guru.

Storia di un Dio (Maha Guru, die Geschichte eines Gottes,

1833); Haikal, M.H., Zainab (1914); Hauptmann, G., E Pippa

balla (Und Pippa tanzt, 1906); Jacob, M., Saint Matorel (1909);

Ka¨stner, E., Fabian. La storia di un moralista (Fabian. Die

Ge-schichte eines Moralisten, 1931); Kingsley, C., Alton Locke

(1850); Kocjubinskyj, M., Fata Morgana (1904); Kuprı´n, A.I.,

Moloch (1896); Kuznecov, A.V., La leggenda continua (1957);

Lawrence, D.H., Figli e amanti (Sons and Lovers, 1913); Levi, P., Il sistema periodico (1975); Levi, P., La chiave a stella (1978); Lidin, V., L’ apostata (1927); Longfellow, H.W., Il fabbro del

villaggio (The Village Blacksmith) in Ballate e altre poesie (Bal-lads and other Poems, 1840); Marinetti, F.T., L’uomo moltipli-cato e il Regno della macchina (1910); Marinetti, F.T., La nuova religione-morale della velocita` (1916); Mastronardi, L., Il calzo-laio di Vigevano (1959); Melville, H., Israel Potter (1854);

Mi-cheli, A., Tutta la verita` (1950); Morasso, M., La nuova arma (la

macchina) (1905); Morasso, M., Uomini e idee del domani

(1898); Morris, W., Notizie da nessun luogo (News from

Nowhere, 1891); Nalkowska, Z., Medaglioni (1946); Negri, A., Stella mattutina (1923); Ottieri, O., La linea gotica (1963);

Pa-scoli, G., Italy, in Primi poemetti (1897); Pekkanen, T.,

All’om-bra della fabbrica (1932); Pirandello, L., Ciaula scopre la luna

(1912); Pirelli, A., A proposito di una macchina (1965); Pola´cek, K., La citta` di provincia (1936); Pujmanova´, M., Uomini al bivio (1937); Saleski Finzgar, F., Dal mondo moderno (1904); Salvat-Papasseit, J., Fumo di fabbrica (Humo de fabrica, 1918); Scia-scia, L., L’antimonio, in Gli zii di Sicilia (1960); SciaScia-scia, L., Le

parrocchie di Regalpetra (1956); Sciascia, L., La zolfara, in La corda pazza (1970); Sieroszewski, W., Il diavolo straniero

(1903); Sinisgalli, L., Calcoli e fandonie (1970); Sinisgalli, L.,

Furor mathematicus (1944); Smiles, S., Auto-aiuto (Self-Help,

1859); Stendhal, Il rosso e il nero (Le rouge et le noir, 1830); Svevo, I., La coscienza di Zeno (1923); Taddei, E., La fabbrica FABBRICA

(7)

parla (1950); Talev, D., Il candelabro di ferro (1952); Turgenev,

I.S., Terre vergini (1876); Vailland, R., 325.000 Franchi (325.000 francs, 1956); Vene`, G., I padroni (1961); Verga, G., I

dintorni di Milano (1881); Verga, G., Mastro don Gesualdo

(1889); Verri, A., Viaggio a Parigi e Londra (1766-67); Verri, P.,

Meditazioni sulla economia politica (1771); Vian, B., La schiuma dei giorni (L’E´cume des jours, 1947); Weil, S., La condizione operia (La condition ouvrie`re, 1951); Werfel, F., I quaranta giorni del Mussa Dagh (Die vierzig Tage des Mussa Dagh, 1933);

Zanella, G., L’industria (1867); Zupancic, O., Canzone dei

fab-bricatori di chiodi in L’aurora di San Vito (1920).

n Bibliografia: Ba´rberi Squarotti, G. - Ossola, C. (a c. di),

Letteratura e industria, Firenze 1997, 2 voll.; Biagiotti, T., L’eco-nomia di Alessandro Manzoni, in «Annali manzoniani», VII,

1977; Carmi, E. - Fedeli, P. (a c. di), I colori del ferro, Genova 1963; Civilta` delle macchine. Antologia di una rivista 1953-1957, a c. di Scheiwiller, V., Milano 1989; Getto, G., Cultura

umani-stica e civilta` industriale, in «Lettere Italiane», XLII, 1990;

Os-sola, C. (a c. di), Scritture di fabbrica, Torino 1994; Pellini, P., Il

luddista. Dal «romanzo industriale» inglese a Germinal, in Studi di letterature comparate in onore di Remo Ceserani, vol. II. Let-teratura e tecnologia, a c. di Pellini, P., Roma, Manziana, 2003,

pp. 151-175; Pirelli. Antologia d’una rivista d’informazione e di

tecnica (1948-1972), a c. di Scheiwiller, V. - Longoni, A.,

Mi-lano 1987; Poni, C., All’origine del sistema di fabbrica, in «Ri-vista storica italiana», LXXXVIII, 1976, pp. 492-496; Porti-nari, F., Le parabole del reale. Romanzi italiani dell’Ottocento, Milano 1976; Tessari, R., Il mito della macchina. Letteratura e

industria nel primo Novecento italiano, Milano 1973; William,

R., I romanzi della rivoluzione industriale, in Cultura e

rivolu-zione industriale. Inghilterra 1780-1950, a c. di Grendi, M.T.,

Torino 1968, pp. 119-144.

n Voci affini: Borghesia; Citta`; Macchina; Operaio.

giuseppe episcopo- cristiano spila

Falso,

v. Ipocrita, ipocrisia.

Fame.

1. A bello, peste et fame libera nos Domine: cosı` suonava l’invocazione di intere popolazioni, stremate da lunghi e iterati anni di flagelli, che, nella gradatio citata, erano costrette a prove di inenarrabile crudelta`. La fame diviene per secoli il leitmotiv su cui scorre il tempo di una miseria generalizzata, che vede nelle ridottissime sacche di abbondanza il paragone disperato e disperante di una lotta continua per la sopravvivenza. In una quotidiana battaglia, la fame diviene la soglia del mai sopito conflitto tra la vita e la morte. Nella rappresentazione della «fa-me» e della sua storia, si fronteggiano due accezioni tra loro speculari: da una parte, «fame» come smisurato de-siderio di vitalita` e insaziabile appetito, espressione cor-porea della gioia e della festa, sogno popolare di abbon-danza, realizzato con cadenze legate ai riti pagani e alle feste del calendario liturgico. Dall’altra, «fame» come dolorosa manifestazione di assoluta indigenza, di ma-lattia, di carestia. In questo caso, si affianca a concetti di penuria dovuta alle guerra e alle grandi pestilenze, ma anche a dissennati modi di sfruttamento delle risorse e a ingiusti meccanismi sociali che generano la poverta` e l’emarginazione, la mendicita`, la follia. Questo ventaglio di tematiche relative al cibo non solo interpreta una con-dizione reale, storicamente esistita, ma si innesta sul ter-reno dell’inventio popolare delle fiabe e dei miti delle societa` arcaiche e nell’immaginario della letteratura. Con il flagello della fame dovettero fare i conti le popo-lazioni bibliche, se gia` nell’Antico Testamento si trova la prima menzione di una carestia, che porta Abramo verso l’Egitto, in un viaggio compiuto su comando del Signore: «Venne una carestia nel paese e Abram scese in Egitto per soggiornarvi» (Genesi, 12,10; fine sec. IV a.C.). Esodi veri e propri per sfuggire alla fame ma che avranno senso nel piu` ampio disegno divino. Con una profezia dai contorni apocalittici, Giuseppe interpreta i sogni al

Fa-raone e spiega i flagelli nei termini di castighi divini: «E le sette vacche magre e brutte, che salgono dopo quelle, sono sette anni e le sette spighe vuote, arse dal vento d’oriente, sono sette anni: vi saranno sette anni di care-stia» (Genesi, 41,27). La carestia si configura come una delle prove di Giobbe, volute da Satana: «diventera` ca-restia la sua opulenza | e la rovina e` lı` in piedi al suo fianco» (18, 12). Spesso alla carestia si affianca la puni-zione della peste. Come in Apocalisse (6,8; 96 d.C.): «Ed ecco, mi apparve un cavallo verdastro. Colui che lo ca-valcava si chiamava Morte e gli veniva dietro l’Inferno. Fu dato loro potere sopra la quarta parte della terra per sterminare con la spada, con la fame, con la peste e con le fiere della terra». In Geremia (16,4; ca. secc. VII-II a.C.) si annuncia una profezia terribile sui discendenti: «Mo-riranno di malattie strazianti, non saranno rimpianti ne´ sepolti, ma saranno come letame sulla terra. Periranno di spada e di fame; i loro cadaveri saranno pasto degli uc-celli dell’aria e delle bestie della terra». Accanto alla fame e alla peste, anche il flagello della sete, che falcidia il po-polo dell’Esodo (fine sec. IV a.C.): «In quel luogo dun-que il popolo soffriva la sete per mancanza d’acqua; il popolo mormoro` contro Mose` e disse: “Perche´ ci hai fatti uscire dall’Egitto per far morire di sete noi, i nostri figli e il nostro bestiame?”» (17, 3). Ma la fame e la sete possono anche essere metaforiche, come in Salmi (41,3; secc. X-II a.C.): «L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente: | quando verro` e vedro` il volto di Dio?». Co-me nel Vangelo di Matteo (5,6; 80-90 d.C.): «Beati quelli che hanno fame e sete della giustizia, perche´ saranno sa-ziati».

2. Nel corso dei secoli il concetto di fame si lega indisso-lubilmente alle condizioni del suo soddisfacimento. Sto-ria della fame e` dunque stoSto-ria della civilta`, del pensiero, storia politica, ma anche storia di sviluppo e progresso dei mezzi economici, e infine della sua rappresentazione tragica o gioiosa nei testi letterari.

I greci e i latini immaginavano la mitica Eta` dell’Oro come un’epoca caratterizzata da una condizione di feli-cita` e libera dal bisogno. Esiodo (sec. VIII a.C.) diceva che ai tempi di Crono «gli uomini vivevano come de`i [...] ne´ incombeva la miseranda vecchiaia [...] e la fertile terra dava spontaneamente molti e copiosi frutti». Gli antichi generalmente praticavano il culto della sobrieta` e Seno-fonte (sec. IV a.C.) definiva l’assunzione morigerata di cibo «il punto piu` importante nell’educazione di un uomo o di una donna». E un filosofo di scuola cinica come Epitteto (sec. I d.C.) manifestava la morale del-l’astinenza dicendo che «e` segno di stupidita` trascorrere gran parte del tempo ad occuparsi del proprio corpo, esercitando muscoli, mangiando, bevendo, defecando e copulando».

Nella civilta` greca e poi romana l’equilibrio alimentare si giocava sostanzialmente intorno ad una organizzazione degli spazi coltivati nei pressi delle citta` con una decisa priorita` data alle pratiche dell’agricoltura come perno dell’economia. Per campagna si intendeva l’ager che ve-niva contrapposto al saltus in cui si identificava la natura vergine, di nullo interesse dal punto di vista economico. Il bosco era sinonimo di marginalita` e di esclusione. De-mocrito, Platone, Lucrezio, Virgilio esaltavano una terra che offre frutti spontaneamente o viene addomesticata col lavoro dell’uomo. Grano, vite, ulivo erano i punti di forza dell’economia greco-romana, con la pastorizia e la pesca, tipiche del regime mediterraneo. Varrone nel-l’Agricoltura (sec. I a.C.) indicava nella pastorizia la prima attivita` dell’uomo. Ma anche nella cultura orien-tale, e precisamente nel primo testo che ce la tramanda

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– L’epopea di Gilgamesh (sec. XXVI a.C.) – si dice che il pane e il vino permettono all’uomo selvatico di diventare civile. Legata al cibo, alle attivita` agricole o alle opere cadenzate dal passaggio delle stagioni, nasce tutta una serie di riti agrari sui quali si innesteranno, in un secondo tempo, le ritualita` cristiane.

Si contrappongono a queste forme di vita e di cultura le diverse pratiche del mondo nordico dei cosiddetti «bar-bari». Se i poemi omerici definivano gli uomini «man-giatori di pane», e i mediterranei in genere di verdure e cereali, i tedeschi e i nordici sono definiti bevitori di birra e mangiatori di carne. Il greco Aristofane (sec. IV a.C.) scriveva che «i barbari ti credono uomo solo se sei ca-pace di mangiare una montagna». Molto diversi quindi possono dirsi i valori alimentari e culturali delle popola-zioni celtiche e germaniche, che poggiavano buona parte della loro economia sullo sfruttamento delle parti incolte dei boschi, nelle quali praticavano la caccia e la raccolta di frutti selvatici e l’allevamento allo stato brado. La carne ha per questi popoli un valore alimentare di primo grado. Non bevono vino, ma latte e birra. Giulio Cesare (sec. I a.C.) dice dei Germani: «Non praticano il lavoro dei campi e la maggior parte del loro vitto consiste in latte, formaggio e carne». Lo storico Tacito nella Germa-nia (sec. I d.C.) riferisce che la loro bevanda abituale e` «un liquido composto di orzo e frumento, affatturato a mo’ di vino».

Una distanza abissale separa quindi il mondo dei romani da quello dei barbari rispetto ai valori, alle ideologie e alle realta` produttive. Il caso di Trimalcione, personaggio del Satyricon di Petronio (sec. I d.C.), che passa nell’im-maginario dello spreco orgiastico con il suo mitico ban-chetto, e` da considerarsi un’eccezione. Diversa e` la fun-zione del banchetto tramandata dai poemi omerici. Esempio celebrato e` la festa funebre in onore di Patro-clo. Lı`, il sacrificio di molti animali e di sostanze pregiate aveva la funzione di onorare la memoria dell’estinto, ma anche di esaltare l’offerente regale, oltre che di nutrire i guerrieri, riservando al defunto il sangue, secondo le re-gole del cerimoniale greco e poi romano.

Nelle biografie raccolte nella Storia Augusta del secolo IV si percepisce chiaramente la grande diversita` che si basa su queste due concezioni culturali – la romana e la nor-dica – in un vero e proprio scontro di valori alimentari. La tradizione celtica e germanica propone il grande man-giatore come personaggio positivo. L’eroe e` ingordo e insaziabile soprattutto di carne arrostita, che evoca im-magini di maggior violenza rispetto a quella bollita. Le abitudini alimentari dei popoli nordici riconoscono un ruolo centrale al maiale. La mitologia germanica imma-ginava un paradiso dove gli eroi potevano cibarsi delle carni del «Grande Maiale». Nell’Edda di Snorri (sec. XIII) il maiale si ricrea continuamente e c’e` anche una vacca, Audhumla, «dalle cui poppe sgorgano quattro fiumi di latte». Loki nella saga dell’Edda dice: «Io so in quale arte cimentarmi: qui non v’e` nessuno che mangi il cibo piu` velocemente di me». L’adesione ad un regime alimentare implicava dunque una precisa posizione ideo-logico-culturale: per il medico latino Cornelio Celso il pane era l’elemento migliore perche´ «contiene piu` mate-ria nutritiva di ogni altro cibo», mentre nei manuali di dietetica posteriori al secolo V si dava priorita` alla carne. Nell’epistola L’osservazione di cibi del medico di origine greca Antimo, vissuto alla corte ravennate di Teodorico re dei Goti, si enumeravano le proprieta` della carne di maiale e dei suoi derivati.

Le grandi distinzioni culturali e alimentari delle popola-zioni dell’Europa iniziarono a diminuire intorno ai secoli V e VI: un certo livellamento alimentare fu reso possibile

con il potere preso dai barbari e con la crisi delle strut-ture produttive del III secolo, cui seguı` il decadere del-l’agricoltura. I diversi modelli di comportamento alimen-tare, tuttavia, avrebbero resistito ancora per secoli. Una svolta importante, anche alimentare, fu quella del IV se-colo, quando la religione cristiana, erede della cultura greca e latina oltre che dell’ebraica, si affermo` come culto ufficiale dell’impero. Nato in un contesto mediterraneo, il cristianesimo aveva assunto come simboli alimentari e come strumenti del culto i prodotti di quella civilta`: pane, vino e olio. L’assunzione di questi elementi da parte del cristianesimo avrebbe significato, in un se-condo tempo, la rottura con la tradizione ebraica, che non accettava il pane lievitato e il vino, incrementando i rapporti con il mondo romano. Il pane, per la sua alta valenza simbolica, fu usato nei riti anche come elemento apotropaico: veniva cotto non appena una persona mo-riva, per non estinguere il ciclo di rigenerazione nel nesso vita-morte/morte-vita. Questi prodotti divennero i sim-boli iconografici del cristianesimo e si imposero univer-salmente.

Fondamentale nella diffusione delle pratiche alimentari fu la posizione tenuta dal mondo monastico di area me-diterranea. Un’etica della morigeratezza, che e` piu` che la traduzione della classica «misura». All’interno dei ce-nobi vennero elaborate regole piuttosto restrittive nei ri-guardi dell’assunzione del cibo, come quella detta del «Maestro» o quella di Benedetto da Norcia (sec. V). Si predicavano il rifiuto della carne e il modello di poverta`, mentre gli indigenti, per parte loro, sognavano i mondi dell’abbondanza. La salute del corpo e la salvezza del-l’anima per molti secoli vennero correlate a un modello dietetico feroce verso «l’immondizia della carne». Reli-giosi, santi e sante si esaltavano in una violenta priva-zione ascetica: il digiuno, praticato con aspra determina-zione, porto` a condizioni di tipo allucinatorio. Al mondo religioso femminile non fu estranea una forma sublima-toria, che vedeva nell’eucarestia il vero nutrimento, tanto da portare ad implicazioni a sfondo nervoso, fino all’ano-ressia.

Sant’Antonio (sec. III), che aveva combattuto molte bat-taglie con i diavoli, mangiava erbe e radici. Bernardo di Chiaravalle (sec. XII), promotore della riforma dell’or-dine cistercense, elencava i «fugienda superflua et adul-terina condimenta» in favore della salute del corpo e del-l’anima. Per convinzione generalizzata, era buona cosa che si assumesse poca carne, le cui proteine portavano irrequietezza e pestiferae vagationes. San Romualdo, fon-datore dei Camaldolesi, morigeratissimo, morı` nel 1027 ultracentenario. Nella Laus eremiticae vitae, San Pier Da-miani vantava i benefici dell’astinenza e additava nel-l’orto e nel campo i veri tesori alimentari. Controllare la fame significava essere toccati da Dio. Il vero pasto regale non era quello realmente assunto, ma quello dell’eucare-stia e mangiare era un verbo carico di significato simbo-lico. Anche Dante, nel XXII del Purgatorio, esprimeva convincimenti analoghi, ricordando e celebrando esempi di sobrieta`.

3. Nel mezzo dei due grandi modelli culturali e alimen-tari, quello mediterraneo e quello nordico, stava la realta` di popolazioni sempre sul filo della sofferenza per la fame o, nella migliore delle ipotesi, della paura della fame. Nel III secolo si abbatte sulle popolazioni europee una grave crisi economica e nei secoli IV, V e VI si regi-strano alcune tra le piu` gravi carestie, seguite da terribili pestilenze. La popolazione europea e` ancora piuttosto ridotta e i territori sono popolati solo per la meta`. Paolo Diacono, lo storico dei Longobardi, ci ha lasciato

testi-FAME

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monianze della pestilenza che colpı` l’Italia nel VI secolo: «le messi aspettavano intatte il mietitore, le vigne resta-vano senza vendemmia». Gregorio di Tours nella Storia dei Franchi (592) parla della crisi produttiva che afflisse la Gallia nel 591, e scrive che «vi fu una grande siccita`, che spazzo` via l’erba dei pascoli». San Basilio (sec. IV), nella sua Homilia dicta tempore famis et siccitatis, parla di uomini dalla cute rinsecchita e verdastra con occhiaie profonde. Procopio di Cesarea nel VI secolo, al seguito di Belisario, fu testimone degli orrori della guerra goto-bizantina e della carestia che colpı` quelle popolazioni: «Col progredir del male ogni umore veniva meno in loro, la cute asciutta prendeva aspetto di cuoio e pareva come aderisse alle ossa». Una delle ragioni che portava le po-polazioni alla fame era anche l’avvento di anni partico-larmente freddi. Il consumo, sostanzialmente interno e non sostenuto da uno scambio di mercato, veniva quasi azzerato per la mancanza di prodotti. Nell’872 Andrea da Bergamo scrive che la brina gelo` tutta la vegetazione, e negli Annali di Fulda (880-82) si descrivono delle nevi-cate che non permisero ne´ di cacciare ne´ di alimentare gli animali dei boschi. Nei periodi di equilibrio alimentare, l’alimentazione delle popolazioni dell’Europa occiden-tale era abbastanza integrata: carne, pesce, formaggio, uova, farinate e verdure. A sollecitare questa integra-zione era anche il precetto religioso, con la proibiintegra-zione della carne in certi periodi (circa 150 giorni all’anno); si consumavano soprattutto pesci di acqua dolce. Sidonio Apollinare (sec. V) canta l’elogio del luccio; il monastero di Bobbio conserva inventari che parlano delle trote del Garda. E cosı` degli storioni del Po, delle anguille, e cosı` via.

Verso il VII e VIII secolo si assiste ad un sostanziale mu-tamento dal punto di vista economico, con una certa in-tegrazione tra economia selvatica e domestica, e con un progressivo addomesticamento del paesaggio. I monaci si fanno promotori di imprese di disboscamento e di messa a coltura e ad iniziare dal IX secolo l’operazione di riduzione delle terre incolte si intensifica in tutta Europa, anche da parte dei signori e delle comunita` cittadine. Questa politica di disboscamento ebbe delle battute d’arresto, in quanto la distruzione del bosco era conside-rata negativa, ma fu anche il segno di un cambiamento radicale, dovuto alla necessita` di sfruttare intensivamente le zone per affrontare l’aumento della popolazione. Il processo di colonizzazione si perfeziono` nel XI e XIII secolo.

Tra il 750 e il 1100 ci furono 29 carestie, con particolare violenza nel IX e nell’XI secolo. Raoul Glaber, monaco cluniacense (sec. XI), racconta che tra il 1032 e 1033 «la fame incomincio` a diffondersi in ogni parte del mondo, minacciando di morte quasi tutta l’umanita`». Questa ca-restia aveva avuto origine in Oriente, era passata dalla Grecia in Italia e successivamente in Gallia fino all’In-ghilterra. Il cibo scarseggiava ed era carissimo, tanto da costringere la gente a mangiare anche carogne e a fare del cannibalismo: i viandanti venivano catturati e mangiati. Si ricordano casi di vendita di carni umane.

4. Con una nuova politica di colture e l’introduzione di alcune innovazioni tecniche come il mulino ad acqua e la rotazione agraria triennale, si assiste a un miglioramento della produttivita` e delle condizioni di vita. Dal XII se-colo le carestie diminuirono e la situazione alimentare si avvio` ad un certo consolidamento, anche se il tentativo da parte dei proprietari terrieri di procurarsi fette di terre e di privilegi porta a scontri sociali. La limitazione o l’abolizione dei diritti d’uso sugli spazi incolti e` un evento di decisiva importanza nella storia

dell’alimenta-zione. Ne derivo` una sostanziale divaricazione del regime alimentare, con una differenziazione sociale, in senso qualitativo, del cibo. L’alimentazione dei ceti piu` bassi si ridusse quasi esclusivamente a cibi di origine vegetale, mentre il consumo di carne fresca e selvaggina comincio` a diventare un lusso e quindi prerogativa dei ricchi. Ma nel XII secolo anche il pane bianco era ormai diventato un genere pregiato. Nella Canzone di Guglielmo (sec. XII) il protagonista si ritira dalla battaglia consolandosi con una spalla di cinghiale; mangiare molto, presso le culture del nord, continua ad essere sinonimo di eroi-smo.

Nel XIII secolo la crescita economica aveva portato un certo benessere. Iniziano a diffondersi nei ceti piu` alti le buone maniere con l’addobbo delle tavole e l’esercizio delle ritualita` conviviali. Nel Romanzo della Rosa di Jean de Meung (ca. 1230-1277) c’e` la presenza invitante della «dame Abonde». Le spezie iniziano ad essere usate in cucina e diventano segno di ricchezza. Nelle Nouvelles de la terre de Preste Jehan (sec. XIV) accanto ai tesori del mitico re si mettono anche le spezie: il pepe – si dice – vi cresceva senza essere seminato. Nel medievale Fabliau de Coquaigne (sec. XIII) si enumerano le delizie del palato, mentre nella Battaglia fra Quaresima e Carnevale (sec. XIII), un tema che avra` larga fortuna nella letteratura europea dei secoli successivi, la vittoria andra` all’alimen-tazione ricca del Carnevale con una specifica propen-sione alla carne. Bonvesin de la Riva nel trattato De ma-gnalibus urbis Mediolani (sec. XIII) parla della ricchezza della citta` e dell’abbondanza dei cibi che vi arrivano: «Affluiscono nella citta`, come a una stiva di tutti i beni temporali, pane, vino e carne saporita di qualsiasi genere di quadrupedi. [...] Affluiscono il miele, la cera, il latte, le giuncate, le ricotte, il burro, il cacio, le uova, i gamberi». Nello stesso tempo la requisitoria di papa Innocenzo III contro le vanita` mondane (De contemptu mundi, sec. XII) addita con grande enfasi i peccati di gola. L’esalta-zione della poverta`, la polemica contro il clero «deviato» si innestano sulla protesta delle classi subalterne e Fran-cesco d’Assisi, nei Fioretti (sec. XIII, con traduzione in volgare toscano di un anonimo alla fine del secolo XIV), pratica con la devozione anche l’astinenza e l’assoluta poverta`. Le opere di carita` sono sostanzialmente rivolte a sfamare i poveri e ad accogliere gli emarginati, ma diven-tano anche luoghi dove spesso il potere conservatore usa strumentalmente la celebrazione della poverta`. Carita`, attraverso la «limosina», diviene anche sinonimo di espiazione dei peccati legati ai valori mondani e al pos-sesso di denaro, come narrano alcuni exempla del Novel-lino (sec. XIII).

Nel grande affresco medievale, dipinto dal giullare pari-gino Rutebeuf (Diz des Ribaux de Greive, sec. XIII) com-paiono le figure del mendicante e del furfante in perenne situazione di indigenza: «Pezzenti, adesso siete a posto! | Gli alberi spogliano i rami | E voi non avete vestito: | Avrete freddo ai fianchi. | Quanto vi gioverebbe ora un farsetto | O una sopravveste foderata con maniche!». Il Romanzo della Rosa si popola di mendicanti che sostano davanti alle porte delle chiese. Nel Fiore, adattamento ita-liano del Roman, attribuito a Dante (fine sec. XIII), si di-pinge un quadro dell’empieta` dei mendicanti, con una menzione anche del decreto antivagabondaggio dell’im-peratore Giustiniano. Le ballate di Eustache Deschamps, (sec. XIV) parlando di mendicanti e vagabondi, instau-rano un rapporto fra il mendicare e la guerra, con le sue gravi conseguenze sociali. Mondo di eslege sara` anche quello del Gran testamento di Franc¸ois Villon (sec. XV). Anche la malattia, vista come flagello sociale, puo` assu-mere l’immagine del male, sia fisico che morale, tanto che

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