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L'Unione Sovietica e l'Italia del centro-sinistra (1958-1968)

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ROMA

TRE

UNIVERSITÀ DEGLI STUDI

Dottorato di Ricerca in

Storia dell’Italia contemporanea: politica, territorio e società

XXI ciclo

Tesi di dottorato

L’UNIONE

SOVIETICA

E

L’ITALIA

DEL

CENTRO-SINISTRA

(1958-1968)

Tutor: Prof. Adriano Roccucci

Dottorando: Alessandro Salacone

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I

NTRODUZIONE

Il dossier Unione Sovietica ha occupato la scrivania di tutti i ministri degli Esteri italiani dal dopoguerra fino al suo crollo. Quali relazioni istituire con l’URSS? Pur con tutti i distinguo, ogni governo della penisola ha dovuto elaborare strategie per contrastarne le ingerenze, difendersi dalle sue minacce o collaborare con essa, nella cornice più ampia della competizione tra blocchi. Eludere il problema Unione Sovietica archiviandolo ad una questione che riguardasse solo le grandi potenze internazionali era impossibile, tanto più se si considera il ruolo che il “fattore URSS” esercitava nel dibattito politico italiano, e la presenza del PCI, il più grande partito comunista d’Occidente.

Nel decennio 1958-1968 fu elaborata in Italia una politica estera “creativa e originale”, volta a collocare il paese in modo nuovo sugli scenari internazionali, non subordinando le sue scelte solo alle linee dettate da Washington o alle trame ordite a Mosca. I governi italiani che si susseguirono nella III e IV legislatura ricercarono, con alcune differenze ma con una sostanziale linea di continuità, margini di azione propri in politica estera, che rispondessero anche agli interessi nazionali, primi fra tutti quelli economici, pur nell’indubbia fedeltà all’orientamento atlantico ed europeistico del paese. L’apertura di credito ai paesi d’oltrecortina rappresentava uno dei principali indicatori del nuovo orientamento.

È proprio sulla ricerca di un via “originale” di politica estera che si scontrarono le varie sensibilità politiche della penisola, generando in quegli anni una trama di interessi nazionali ed internazionali che andava ad arricchire, e il più delle volte a complicare, la realizzazione del progetto del centro-sinistra, mirante all’inclusione del PSI nella compagine governativa. L’intreccio tra politica interna e quella estera ha costituito in questo decennio una costante della vita politica italiana, spesso diventando uno dei principali motivi di scontro, prima ideologico e poi programmatico, tra i partiti.

È opinione condivisa nel dibattito storiografico che a partire dalla fine degli anni Cinquanta, con l’inizio della III legislatura e del processo che avrebbe portato nel 1962 al primo esperimento di governo di centro-sinistra, la politica estera italiana abbia conosciuto importanti innovazioni. Benché non ci sia una valutazione univoca sulle cause che portarono a tale cambiamento, e soprattutto sui risultati raggiunti, è un dato di fatto che l’azione diplomatica dell’Italia, a partire dal 1958, abbia intrapreso un nuovo corso, volto ad inserire in modo attivo il paese nel dialogo tra Est ed Ovest, e a dare un contributo effettivo al processo di distensione. Differenti sono le interpretazioni che sono state attribuite a questo cambiamento di tendenza.

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Molti studi1 hanno ormai chiarito che un ruolo chiave in questo processo fu giocato da Amintore Fanfani, regista indiscusso del decennio 1958-1968, nella veste di presidente del Consiglio2 e di ministro degli Affari Esteri3, affiancato e sostenuto da alcuni esponenti della Democrazia cristiana, primo fra tutti Giorgio La Pira.

Come si caratterizzava il progetto della politica estera fanfaniana? Centrale nel pensiero di Fanfani fu la ricerca di una piena cooperazione tra gli alleati, con l’obiettivo di rendere più operativa ed efficace l’unità occidentale. L’Italia, in quest’ottica, avrebbe potuto giocare un ruolo originale, vista la sua particolare collocazione geopolitica tra Est ed Ovest, ma anche al centro del bacino del Mediterraneo. Per Fanfani, infatti, ciascun membro dell’Alleanza atlantica doveva dare un contributo “creativo”, perché era sua convinzione che nella nuova fase della guerra fredda fronteggiare soltanto militarmente l’Unione Sovietica non fosse sufficiente per sconfiggerla veramente: andava invece avviata un’opera profonda di “svuotamento dall’interno” della potenza sovietica, allo scopo di indebolirla e di affermare la superiorità del sistema occidentale. Era questo un anticomunismo dal carattere non distruttivo, ma propositivo, che diede un peculiare impulso dinamico all’azione italiana in campo internazionale, e caratterizzò la nuova fase di relazioni tra Roma e Mosca.

È lecito ipotizzare che la necessità di una politica estera che si differenziasse da quella degli anni passati non avesse solo una radice ideologica, ma nascesse anche nella ricerca di percorsi di dialogo con il PSI in previsione della svolta a sinistra, passaggio fondamentale per la storia dell’Italia repubblicana. Lo storico neutralismo professato dai socialisti, senza una revisione delle direttrici della politica estera, difficilmente si sarebbe conciliato con l’atlantismo ortodosso della DC. D’altra parte, nella strategia politica che portò al centro-sinistra, l’elaborazione di una politica estera più “autonoma” sarebbe servita a togliere al PCI molti temi di propaganda, primo fra tutti l’accusa di asservimento di Roma al governo di Washington. Un’apertura ai socialisti avrebbe significato un cedimento a Mosca e l’allentamento dei legami con Washington? Sulla dirigenza democristiana incombeva il timore della “avanzata comunista” in Italia, che un’azzardata svolta in politica estera avrebbe potuto facilitare.

1 Tra i molteplici studi sulla politica estera italiana e il ruolo di Fanfani si veda: R. Gaja, L’Italia nel mondo bipolare: per una storia della politica estera italiana 1943-1991, Bologna, il Mulino, 1995; L.V. Ferraris (a cura di), Storia delle relazioni internazionali 1918-1999, Roma-Bari, Laterza, 1996; A. Varsori, L’Italia nelle relazioni internazionali 1943-1992, Roma-Bari, Laterza, 1998; S. Romano, Guida alla politica estera italiana, Milano,

Rizzoli, 2002; P. Craveri – G. Quagliarello (a cura di), Atlantismo e Europeismo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2003; G. Mammarella – P. Cacace, La politica estera dell’Italia. Dallo stato unitario ai nostri giorni, Roma-Bari, Laterza, 2006; E. Martelli, L’altro atlantismo. Fanfani e la politica estera italiana (1958-1963), Milano, Guerini e associati, 2008.

2 Fanfani fu presidente del Consiglio dei Ministri dal 1° luglio 1958 al 15 febbraio 1959 (con interim agli Esteri) e

poi in due differenti governi dal 26 luglio 1960 al 21 giugno 1963.

3 Fanfani fu ministro degli Affari Esteri nel governo da lui presieduto, dal 1° luglio 1958 al 15 febbraio 1959, dal 7 al

29 maggio 1962 nel governo da lui presieduto, dal 5 marzo al 30 dicembre 1965 nel II governo Moro, dal 23 febbraio 1966 al 24 giugno 1968 nel III governo Moro.

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Quali rapporti dunque intraprendere con l’URSS nei mutati scenari nazionali ed internazionali? Questo interrogativo assillava tutti i partiti italiani e suscitava trepidazione nelle cancellerie Occidentali, prima di tutto negli Stati Uniti. Leopoldo Nuti ha ricostruito in modo dettagliato l’evoluzione dei rapporti tra USA e Italia proprio negli anni di preparazione al centro-sinistra, nei quali il PSI fu costretto a superare alcune “prove di fedeltà” prima di ottenere l’approvazione di Washington all’ingresso nel governo4. Il disegno del centro-sinistra, infatti, nascondeva una serie di incognite. La principale era sapere se il PSI avrebbe accettato la fedeltà atlantica come pilastro della politica italiana, oppure l’avrebbe messa in discussione, a vantaggio delle mire espansionistiche di Mosca.

La posizione geografica dell’Italia - paese di confine tra Est ed Ovest - e la presenza al suo interno di un forte partito comunista e di un grande partito socialista, non potevano non suscitare paura per la tenuta dell’Italia nella NATO. Troppi erano i fattori di rischio, e un’apertura di credito all’Unione Sovietica avrebbe potuto rivelarsi pericolosa. L’ambizioso piano di ricostruzione economica varato nel dopoguerra in Europa dagli Stati Uniti e la rapida crescita industriale del paese furono paradossalmente i fattori che contribuirono all’avvicinamento tra Roma e Mosca. I primi contatti, infatti, ancorché politici, furono stabiliti tra l’Unione Sovietica e l’Italia proprio per questioni commerciali. L’apporto dato dall’ENI di Mattei, dalla FIAT di Valletta e da numerose altre piccole e grandi imprese che iniziarono a tessere relazioni economiche con l’URSS, favorì il nuovo corso di politica estera. Le ricerche di Bruna Bagnato hanno messo in luce, infatti, con dovizia di particolari, quanto i rapporti economici siano stati determinanti per sbloccare la fase stagnante nelle relazioni italo-sovietiche, rivitalizzatesi anche grazie alla nomina di Luca Pietromarchi alla guida dell’ambasciata italiana a Mosca nel 19585.

Il decennio 1958-1968 fu un periodo particolare anche per l’Unione Sovietica. La nuova classe dirigente emersa dopo la fine dell’era staliniana e rafforzatasi in seguito al XX Congresso del PCUS si trovava di fronte a compiti molto impegnativi, quali la ricostruzione economica del paese in stato di profonda arretratezza, l’avvio di riforme strutturali in molteplici settori, l’istituzione di relazioni migliori con l’Occidente, il controllo del movimento comunista internazionale scosso dal nascente dissidio sino-sovietico. Gli eventi del ’56 avevano aperto nella dirigenza sovietica una stagione di timori, dovuta all’atmosfera creatasi nel paese dopo la denuncia dei crimini staliniani e alla reazione internazionale ai fatti di Budapest. La repressione armata del governo ungherese aveva suscitato all’interno dei vari partiti comunisti molteplici

4 Cfr. L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e imiti della presenza americana in Italia,

Roma-Bari, Laterza, 1999.

5 Cfr. B. Bagnato, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica 1958-1963, Firenze, Leo S. Olschki editore, 2003.

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riserve e dubbi, che accrebbero le difficoltà della leadership di Chruščëv. In questo quadro complesso e confuso nacque una serie di iniziative volte al riavvicinamento tra l’URSS e l’Occidente, nella convinzione che solo se fosse stato evitato un conflitto aperto, sarebbe stato possibile risollevare l’Unione Sovietica dalle difficili condizioni in cui versava ancora a causa delle conseguenze della Seconda guerra mondiale. Il rinnovato interesse di Mosca per l’Italia si inserisce in questo processo.

La diplomazia del Cremlino osservò con attenzione l’evoluzione degli eventi italiani nel decennio 1958-1968, nella fase in cui dal centrismo si passò al centro-sinistra. Questo lavoro intende ricostruire il ruolo che le relazioni con l’Unione Sovietica ebbero nello sviluppo delle dinamiche politiche, economiche e culturali dell’Italia di quel periodo. Oggetto della ricerca è la trama che in quel decennio venne intessuta tra Mosca e Roma nell’intreccio delle relazioni diplomatiche, accordi economici, rapporti tra partiti e dinamiche interne alla politica italiana. L’analisi della documentazione sovietica ha permesso di far emergere come la diplomazia dell’URSS avesse attribuito un’attenzione particolare all’Italia - vista in prospettiva, forse, anche eccessiva - poiché riteneva che la penisola potesse giocare un ruolo congeniale alle posizioni di Mosca: una politica estera italiana più “autonoma” avrebbe indebolito il blocco occidentale, rompendone il “monolitismo”, ed avrebbe facilitato la distensione. Si trattava di un approccio nuovo, con il quale Chruščëv intendeva istituire relazioni con alcuni paesi europei, che all’inizio suscitò timori nella dirigenza italiana, ma che gradualmente si stabilizzò e creò una base solida nei rapporti tra i due paesi.

La presenza del PCI e i suoi legami con il PCUS erano un fattore di prima rilevanza nelle direttrici della politica sovietica verso l’Italia. Sarebbe tuttavia errato considerare che l’interesse di Mosca per il nostro paese derivasse solamente dall’esistenza di una grande movimento comunista. Il partito di Togliatti ha sicuramente favorito ed attirato l’attenzione della leadership sovietica sulla penisola. Dagli archivi di Mosca, tuttavia, emerge l’intenzione dell’URSS di avviare una nuova fase dei rapporti bilaterali, che passasse attraverso il canale degli incontri personali con i leader italiani, attraverso la ricerca di punti di contatto su alcune questioni internazionali, e attraverso una proficua collaborazione in ambito economico, tecnico e culturale. Mosca, in sostanza, aveva iniziato a capire che per influenzare le scelte dell’Italia ormai non bastava più solo una pressione attraverso l’opposizione del PCI al governo. La mutata situazione internazionale e l’evoluzione degli equilibri politici italiani, infatti, richiedevano strategie nuove più adatte al momento. In questo contesto si inquadra il tentativo di Mosca di istituire rapporti diretti con alcuni leader dei partiti della maggioranza e con esponenti del governo, che avrebbe inaugurato una stagione di regolari e frequenti incontri. È indicativo, in tal senso, il fatto che dal

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1959 al 1968 si registrò ogni anno almeno una visita di stato di un esponente del governo italiano in URSS o di un esponente del governo sovietico in Italia. Alcune di esse furono delle pietre miliari dei rapporti bilaterali, come quella di Gronchi in URSS nel 1960, di Fanfani a Mosca nel 1961, di Gromyko in Italia nel 1966 e di Podgornij a Roma nel 1967.

Un quesito si è presentato costantemente nel corso della ricerca: perché Mosca si è così interessata all’Italia? Quali erano gli obbiettivi primari e secondari che la leadership sovietica intendeva raggiungere con l’avvio della nuova fase dei rapporti con l’Italia? Una prima considerazione da fare sembra essere quella che, dalla fine degli anni Cinquanta, nella dirigenza del Cremlino abbia prevalso un approccio pragmatico in politica estera. Dai documenti sovietici emerge che nella formulazione delle politiche nei confronti dell’Italia la diplomazia di Mosca si atteneva più a calcoli di realpolitik che a considerazione di natura ideologica. Ciò voleva dire, nei fatti, che la dirigenza sovietica avrebbe in molti casi sacrificato gli interessi del PCI alla ragione di Stato. Se non fosse stato così, del resto, difficilmente si sarebbe realizzato un legame di vicinanza tra Chruščëv e Fanfani, il primo a capo di una potenza socialista, e il secondo alfiere di un fermo anticomunismo; oppure il riavvicinamento tra Mosca e la Santa Sede. L’Italia quindi “anello debole” della NATO? Sì, questa era la percezione sovietica, la cui diplomazia, ancora nel 1967, prendeva in considerazione l’eventualità che Roma non avrebbe rinnovato la sua adesione alla NATO alla scadenza dell’accordo.

Da un punto di vista politico, è evidente che Chruščëv cercasse in Occidente potenze le cui posizioni erano in sintonia con quelle dell’URSS su temi quale la pace, la distensione, il disarmo. L’orientamento di Fanfani, influenzato e sorretto dal magistero di Giovanni XXIII, sembrava essere un buon punto di partenza per riavvicinare Roma e Mosca. A Fanfani erano legati personaggi influenti nella penisola, come Gronchi, Mattei o Valletta. Nell’analisi dell’avvicinamento sovietico a Fanfani, emerge tuttavia un’incomprensione di fondo che condizionò le valutazioni della diplomazia moscovita: secondo i sovietici, infatti, il politico aretino avrebbe avuto un palese orientamento a favore del neutralismo e avrebbe potuto mettere in discussione la collocazione del paese. Dalle carte personali di Fanfani, dai suoi discorsi e dalle scelte intraprese, emerge invece come egli fosse un fermo sostenitore della collocazione atlantista dell’Italia, e che mai avrebbe modificato i pilastri della collocazione internazionale della penisola. Il dialogo, però, e non lo scontro diretto, sembrava a Fanfani lo strumento più appropriato per vincere la competizione con il blocco socialista. Ciò che invece Mosca aveva colto in modo esatto era l’ambizione del governo di Roma a giocare un ruolo più attivo nelle vicende internazionali. Questa ambizione fu abilmente utilizzata per lusingare i governanti italiani e per convincerli che l’istituzione di migliori relazioni tra l’Italia e l’URSS avrebbe accresciuto il

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prestigio della penisola nel blocco occidentale. Non si trattava solo di un tranello, perché in effetti un nuovo rapporto tra Roma e Mosca avrebbe giovato al ruolo del paese nel concerto internazionale.

Alla base delle nuove relazioni bilaterali vi erano interessi economici di entrambe le capitali. Gli imprenditori italiani videro nel mercato dell’Unione Sovietica delle possibilità di grande espansione commerciale, dovute all’ampiezza del territorio e al bisogno di beni che aveva la popolazione. Un’apertura ad Est, insomma, sembrava lo sbocco più logico per un’economia che proprio negli anni Sessanta si andava rafforzando e che necessitava di nuovi mercati sui quali piazzare le merci. Per quanto riguarda poi le risorse energetiche, in primo luogo quelle di petrolio, le forniture sovietiche risultavano essere pienamente conformi alle necessità della penisola. Anche per il Cremlino la collaborazione economica con l’Italia era vantaggiosa poiché dal nostro paese l’URSS poteva importare le moderne tecnologie di cui necessitava il sistema di produzione del paese, in stato di grave arretratezza. La dipendenza dell’Italia dal mercato sovietico aumentava la possibilità di influire sulle scelte del penisola, poiché Roma si trovava in uno stato di “dipendenza”: questo era il principale timore di chi si opponeva, in Italia e all’estero, all’apertura economica all’URSS. Tre furono le principali operazioni commerciali avviate nel decennio 1958-1968: l’accordo dell’ENI per l’importazione di petrolio dall’URSS del 1960, la costruzione della fabbrica di automobili della FIAT a Togliattigrad nel 1966, la realizzazione del gasdotto per fornire metano all’Italia dai giacimenti sovietici, le cui trattative furono avviate alla metà degli anni Sessanta e si conclusero nel 1969. A questi accordi vanno aggiunte tutte le iniziative intraprese da piccole, medie e grandi imprese con l’URSS, delle quali a tutt’oggi si giovano le relazioni bilaterali.

Due considerazioni vanno infine fatte sul perché l’Unione Sovietica abbia intrecciato nuovi legami con la dirigenza italiana, e riguardano l’evoluzione della politica interna italiana, in particolare le vicende del PCI e del PSI. La leadership sovietica fu sin dall’inizio scettica sul progetto di centro-sinistra: con il PSI al governo si sarebbe rotta definitivamente l’unità della classe operaia; la linea di politica estera italiana si sarebbe allineata rigidamente a quella degli Stati Uniti (che avevano chiesto “prove di fedeltà” ai socialisti); sarebbe stato più difficile esercitare pressioni sul governo attraverso l’opposizione del PCI, mutilato dell’appoggio socialista. Tuttavia mentre diventava sempre più chiaro che la partecipazione socialista al governo si sarebbe realizzata, e che essa avrebbe implicato l’esclusione permanente dei comunisti dalla compagine governativa, il PCI iniziò ad elaborare timidi e graduali tentativi per avviare un corso “autonomo” del partito, che si confacesse di più agli interessi nazionali. È improprio parlare di “svolta” o di “brusco strappo” con Mosca, ma gli osservatori sovietici dai primi anni Sessanta

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iniziarono ad intravedere alcuni elementi di distanziamento, che si sarebbero palesati dopo la morte di Togliatti e con le scelte operate dal PCI nel decennio successivo. Se i fili dei legami tra Cremlino e Botteghe Oscure si iniziavano ad allentare, più conveniente sarebbe stato allacciare relazioni politiche che non dipendessero solo dal canale del PCI. Peraltro, preso atto dell’isolamento politico del PCI, il modo più efficace per influire sulle scelte politiche del governo sarebbe stato proprio tessere legami diretti con gli esponenti dei partiti di maggioranza.

Diverse furono le considerazioni verso il PSI, che invece risentirono di un approccio meno pragmatico e più ideologico. Dagli eventi ungheresi del ’56 il PSI aveva preso le distanze dall’URSS e, di conseguenza dal PCI, generando nella dirigenza sovietica l’idea di un vero e proprio tradimento ideologico. È difficile trovare negli archivi di Mosca valutazioni sui politici italiani con toni così sprezzanti come erano quelle su Nenni. Il grado di disprezzo era simile a quello manifestato verso esponenti della destra democristiana, quali Scelba o Tambroni. Verso le scelte del segretario socialista vi fu sempre un giudizio negativo, che metteva da parte ogni elemento di realpolitik e diventava una secca condanna ideologica. Quando fu chiaro che il PSI avrebbe partecipato al governo, a Mosca si temette che il tratto antisovietico sarebbe stato un elemento primario delle posizioni socialiste ed avrebbe rappresentato proprio quella “prova di fedeltà atlantica” che era stata richiesta al PSI da Washington e dagli altri partiti di maggioranza. Tessere legami di fiducia con i leader democristiani, prima di tutto con Fanfani, avrebbe permesso di bilanciare quel temuto contributo del PSI agli orientamenti del governo.

La strategia sovietica raggiunse molti dei suoi obiettivi. Tra Italia e URSS si instaurarono relazioni molto soddisfacenti, a tal punto da suscitare in determinati momenti viva apprensione da parte dei partner atlantici. Il governo di Roma, infatti, nel corso del decennio in esame, prese posizioni che a Mosca furono considerate “originali”, cioè non acriticamente appiattite sulla linea della politica estera statunitense. Tali furono le scelte della politica estera italiana nel corso della crisi di Cuba, durante il conflitto vietnamita e sulla questione delle trattative per il disarmo. Durante la crisi di Berlino nel 1961 sembrò addirittura che Fanfani fosse stato individuato da Mosca come un “attendibile portavoce” delle istanze sovietiche.

Nella ricostruzione del periodo 1958-1968 si sono evidenziate due momenti distinti, i cui limiti cronologici corrispondono a momenti chiave della vita dei due paesi, influenzati a loro volta dal contesto della situazione internazionale. Nella prima fase, che copre l’arco temporale della III legislatura (1958-1963) in Italia e, da parte sovietica, l’ultimo quinquennio della

leadership di Chruščëv (che verrà destituito nell’ottobre del ’64), tra Italia ed Unione Sovietica

furono poste le fondamenta delle relazioni bilaterali, economiche, politiche, culturali e tecnico-scientifiche, con tutte le conseguenze che ne derivavano.

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In Italia questo fu un periodo in cui i ragionamenti di carattere ideologico si intrecciarono a calcoli di convenienza politica, generando una linea oscillante nelle relazioni, ora di estrema apertura reciproca, ora di repentina chiusura. Fu un processo nel quale si scontrarono le diverse opinioni all’interno dei partiti governativi, spesso facendo del “fattore URSS” uno dei temi più caldi del dibattito politico. Va notato, peraltro, che questa fase coincise con la realizzazione dell’esperimento di centro-sinistra, e che quindi i rimandi tra la politica interna ed estera erano frequentissimi. Per l’URSS questo periodo coincise con l’avvio della distensione, caratterizzato da un articolato attivismo di Mosca nella politica internazionale - con alcuni momenti d’arresto legati alle crisi di Berlino e a quella di Cuba - e all’acuirsi del dissidio con la Cina che causò una frattura nel movimento comunista mondiale. Da un punto di vista interno si ebbe l’avvio di un ambizioso processo di ricostruzione industriale che avrebbe dovuto modernizzare il paese.

Nella seconda fase, dal 1964 al 1968, caratterizzata in URSS dall’ascesa della leadership brezneviana e in Italia dall’avvio del centro-sinistra organico con i governi Moro-Fanfani, si assistette ad una stabilizzazione delle relazioni bilaterali nonché ad una collaborazione – seppur limitata - nelle principali questioni internazionali. In questa seconda fase vanno considerati anche alcuni importanti avvenimenti quali la scomparsa di Togliatti, che aprì un nuovo periodo nella vita del PCI; l’avvio del papato di Paolo VI, salito al soglio pontificio nel giugno del 1963; e l’assassinio del presidente Kennedy, pure nel 1963, che fu sostituito da Lyndon Johnson. Fu questo un periodo in cui il “fattore URSS” fu molto presente nel dibattito dell’Italia del centro-sinistra, basti pensare al clamore suscitato dalla pubblicazione del Memoriale di Yalta e dall’allontanamento di Chruščëv; o alle vicende legate alla formazione del PSIUP, nelle quali Mosca giocò un ruolo primario; o alla costruzione dello stabilimento FIAT a Togliattigrad; o agli eventi di Praga. Il limite del 1968 corrisponde in Italia all’anno delle elezioni politiche svoltesi in maggio, ma anche alla nascita del movimento studentesco e all’invasione sovietica della Cecoslovacchia, che furono ulteriori momenti di svolta nella storia della guerra fredda e in quella delle relazioni italo-sovietiche.

Per ricostruire i tratti salienti dei rapporti tra Roma e Mosca, ed in particolare per analizzare quale fosse l’ottica con la quale i sovietici guardavano all’Italia del centro-sinistra, la ricerca si è avvalsa di un’ampia documentazione conservata negli archivi della Federazione Russa, nonché di quella conservata negli archivi pubblici e privati italiani. La documentazione sovietica, per lo più inedita, ha permesso di analizzare quali fossero i motivi ultimi che spingevano il Cremlino a sviluppare i legami con l’Italia; quali fossero le valutazioni politiche che si davano alle vicende italiane, in particolare alla realizzazione del centro-sinistra; quali legami vi fossero effettivamente tra Mosca, i partiti, e gli esponenti politici italiani.

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Particolare importanza ha avuto la consultazione dei fondi del Comitato centrale del PCUS presso l’Archivio Statale Russo di Storia Contemporanea (RGANI). In esso è stato possibile reperire molti resoconti politici su fatti o colloqui, e valutazioni delle vicende italiane che l’ambasciata sovietica di Roma, il dipartimento per le relazioni con l’Europa, i Servizi Segreti e singoli esponenti della nomenklatura comunista inviavano al Comitato centrale del PCUS. Si tratta di una documentazione particolarmente ricca che si è rilevata di grande utilità per venire a conoscenza dei contenuti dei colloqui che i rappresentanti sovietici avevano con gli esponenti italiani, e per l’analisi della genesi e degli esiti delle visite di Stato. Interessanti, in tal senso, sono le analisi e le relazioni sulla politica italiana che gli ambasciatori sovietici in Italia inviavano a Mosca. Da esse è possibile ricostruire qual’era la lettura della diplomazia sovietica delle vicende politiche del nostro paese.

Interessante si è rivelata la documentazione conservata presso l’Archivio Statale Russo di Economia (RGAE), dove è stato consultato il fondo del ministero del Commercio Estero dell’URSS, oltre che quello del Comitato statale per la produzione di macchine e i fondi relativi alle istituzioni preposte agli scambi con i paesi europei. Lo studio di questi documenti ha consentito di far luce sulle varie fasi delle relazioni economiche, sugli intensi rapporti istituitisi tra gli enti commerciali sovietici e le numerose imprese italiane.

Presso l’Archivio Statale della Federazione Russa (GARF) sono stati consultati i fondi relativi al Comitato per i rapporti culturali con i paesi esteri, al Comitato interparlamentare sovetico-italiano, al Comitato statale per la televisione e la radio. I primi due fondi, in particolare, sono stati utili per ricostruire l’evoluzione degli scambi culturali e il lavoro del Comitato interparlamentare sovietico-italiano, soprattutto relativamente ai viaggi delle delegazioni dei due paesi.

Lo studio delle carte contenute nell’Archivio di Politica Estera della Federazione Russa (AVP RF), presso il ministero degli Esteri, ha permesso di reperire informazioni utili riguardo ad importanti colloqui avuti dagli esponenti sovietici durante i viaggi in Italia, ed alcuni dossier preparatori agli incontri. La documentazione presente in questo archivio è stata utilizzata per l’unica ricerca organica sui rapporti tra Italia ed Unione Sovietica (1945-1965) svolta da una studiosa russa, Irina Chormač6.

6 Cfr. I.A. Chormač, SSSR – Italija i blokovoe protivostojanie v Evrope [URSS-Italia e la contrapposizione dei

blocchi in Europa], Moskva, RAN-IRI, 2005. Vi sarà da notare una diversa classificazione dei documenti contenuti in questo archivio, perché quando si fa riferimento a quelli citati dalla studiosa mancano alcuni riferimenti archivistici. La Chormač non si è attenuta ai criteri scientifici e non ha segnalato tutti i riferimenti necessari. Visto però che la consultazione dei fondi presso questo archivio è a totale discrezione della Direzione, non è stato possibile avere accesso a tutti le buste consultate dalla storica russa e, di conseguenza, non è stato possibile integrare i riferimenti archivistici mancanti.

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La comparazione dei documenti prodotti in Italia ed Unione Sovietica ha permesso di far emergere quali fossero le diverse valutazioni che a Roma e Mosca si avevano su alcune questioni in particolare e sugli obiettivi ultimi delle relazioni bilaterali.

Per quanto riguarda gli archivi italiani, particolare importanza ha avuto la consultazione di due fondi di recente resi accessibili agli studiosi presso l’Archivio Centrale dello Stato (ACS): le carte Aldo Moro e il fondo del consigliere diplomatico del presidente del Consiglio dei Ministri. Nelle carte Moro vi sono materiali di grande interesse e di estrema novità che permettono di ricostruire l’andamento delle relazioni bilaterali nel periodo 1964-1968, quando il politico democristiano ricoprì la carica di presidente del Consiglio. Nel fondo sono conservati per lo più documenti che Moro riceveva da altre istituzioni italiane sulla questione URSS, mentre è carente la documentazione relativa alle valutazioni che egli dava delle relazioni italo-sovietiche. Nel fondo del consigliere del presidente diplomatico, invece, sono presenti documenti dal 1959 al 1964, dai quali si evincono le valutazioni italiane in merito ad alcune questioni, quali accordi commerciali, visite di Stato, trattative Est-Ovest, partecipazione italiana a conferenze internazionali. Oltre a questi due fondi, utile è stata la consultazione del fondo del ministero del Commercio Estero (gabinetto 1960-1965), già utilizzato nello studio di Bruna Bagnato; il fondo della Presidenza del Consiglio dei Ministri e quello del ministero dell’Interno.

Presso l’Archivio Storico del Ministero degli Affari Esteri Italiano (ASMAEI) sono stati consultati i fondi di Affari politici, le Carte di gabinetto, i telegrammi ordinari da e per l’ambasciata italiana a Mosca. Pur con il limite che in tale archivio sono consultabili i documenti fino al 1959, ad eccezione dei telegrammi ordinari, è stato possibile avere accesso ad alcune buste, inedite e di notevole interesse, relative alla visita del presidente del Presidium del Soviet Supremo dell’URSS, Nikolaj Podgornij, in Italia, nel gennaio del 1967 e a quella del ministro degli Esteri Fanfani a Mosca nel maggio dello stesso anno. La documentazione è composta da ampi dossier preparatori redatti dalla segreteria generale della Farnesina prima delle visite e da valutazioni degli esiti.

Attraverso la consultazione del Fondo Amintore Fanfani, conservato presso l’Archivio Storico del Senato della Repubblica (ASSR), è stato possibile analizzare i diari, le lettere e le carte del politico, consentendo di far luce sull’evoluzione del pensiero dello statista toscano in merito alle relazioni con l’URSS e sull’importanza che egli dava al “fattore Unione Sovietica” per la politica italiana e la situazione internazionale.

Interessante si è rivelata anche l’analisi delle carte Gronchi e del fondo DC presso l’Archivio Storico dell’Istituto Luigi Sturzo (ASILS). Il fondo Gronchi si è rivelato utile per la ricostruzione del viaggio in URSS del presidente, dei colloqui di politica estera con

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l’ambasciatore sovietico Semen Kozyrev, dell’azione da lui promossa per un riavvicinamento tra Roma e Mosca. Interessanti, in tal senso, sono i resoconti che Gronchi riceveva dal ministero degli Esteri quando il dicastero era guidato da Pella (’57-’58) e da Segni (’60-’62).

Il lavoro è corredato dalla ricerca negli archivi dei partiti italiani, in particolare quello del partito comunista presso l’Istituto Gramsci (ASFG). In questo archivio è stato consultato il fondo del PCI (Comitato centrale, Direzione e Segreteria), la Sezione esteri del partito, quello dell’Associazione Italia-URSS e il fondo Palmiro Togliatti. Di minore utilità si è rivelato il fondo Pajetta. Purtroppo non è stato possibile consultare l’archivio del PSIUP, conservato presso l’Istituto Gramsci, ancora in fase di classificazione.

Presso la Fondazione Basso è stato consultato il fondo Lelio Basso e il fondo Ada Alessandrini. Presso la Fondazione Nenni sono state consultate le carte Nenni, relative alla corrispondenza, alle attività di partito e di governo del leader socialista. Di minore utilità è stata la consultazione dell’archivio del PSI, presso la Fondazione Turati, che non contiene molta documentazione sui rapporti tra il partito e l’URSS in questi anni.

Utile è stata la consultazione dell’archivio storico dell’ENI. Benché esso contenga per lo più documentazione tecnica relativa agli accordi con l’Unione Sovietica, i fondi analizzati permettono di ricostruire lo stretto legame che tra il 1958 e il 1968 si era instaurato tra l’ente petrolifero italiano e l’URSS.

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C

APITOLO

I

D

ALLE ELEZIONI DEL

1958

AL VIAGGIO DI

G

RONCHI IN

URSS

1.1 Le elezioni del 1958 e i nuovi orientamenti dei principali partiti italiani nei confronti della politica estera e dell’URSS

Le elezioni politiche del 25 maggio 1958 aprirono una nuova fase nella storia dell’Italia repubblicana. Le consultazioni, sebbene non avessero evidenziato un significativo spostamento dei voti del corpo elettorale, contribuirono a una sensibile accelerazione degli eventi politici del paese. Dal calcolo dei consensi espressi, infatti, la Democrazia cristiana registrò un consistente guadagno del 2% dei voti (42,4%), poiché recuperò, fra l’altro, quelli persi durante la crisi del 1953. Il partito socialista salì al 14,2% ottenendo un punto e mezzo in più rispetto alle precedenti consultazioni. Il PCI, nonostante il difficile biennio seguito ai fatti di Ungheria, raggiunse il 22,7%, percentuale che secondo la dirigenza comunista poteva davvero considerarsi un buon risultato. Per quanto riguarda il resto dei partiti, non si segnalarono importanti mutamenti nelle percentuali dei voti ottenuti, a eccezione dell’estrema destra che, complessivamente, perse il 3%7. Dai risultati elettorali emerse da una parte che il sistema politico italiano, consolidatosi anche a seguito della congiuntura economica, manifestava una certa stabilità, premiando i tre partiti popolari; dall’altra lo spostamento dei voti dall’estrema destra al centro contrassegnò un evidente sbilanciamento dell’opinione pubblica su posizioni che qualche anno dopo avrebbero consentito l’esperimento del centro-sinistra. Tale fu, almeno, la percezione della corrente di sinistra della DC, alla ricerca di una collaborazione con i socialisti, che sarebbe stata preparata nel corso di tutta la legislatura. E fu per questo motivo che Fanfani, segretario politico della DC, accettò l’incarico di formare il nuovo governo per favorire ed accelerare tale processo8.

La campagna elettorale fu portata avanti dai tre principali partiti con particolare risolutezza. Non va dimenticato che oltre ai consueti temi di propaganda, la Democrazia cristiana e, in parte il PSI, utilizzarono i fatti d’Ungheria ed il Rapporto Chruščëv per contrastare con decisione il partito comunista. Sul fronte DC, la denuncia dei crimini staliniani e il tragico epilogo della rivolta di Budapest, furono un argomento convincente per ribadire l’appartenenza dell’Italia al blocco atlantico e la necessità di tenere lontana la minaccia comunista dalla compagine governativa. Analogo discorso veniva portato avanti circa la possibile evoluzione dei

7 Cfr. P. Pombeni, I partiti e la politica dal 1948 al 1963, in AA.VV., Storia d’Italia, vol.V, La Repubblica,

Roma-Bari, Laterza, 2004, p. 200.

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contatti tra l’Italia e l’Unione Sovietica, anche se da più settori, e soprattutto in modo sempre più esplicito da parte di alcuni esponenti della DC, questa eventualità non solo si considerava realizzabile, ma venivano intrapresi i primi passi per attuarla9.

Da parte socialista, invece, le elezioni del 1958 furono un banco di prova decisivo poiché il risultato delle urne avrebbe sancito il successo o l’insuccesso della linea politica della corrente nenniana, caratterizzata dallo strappo definitivo dal PCI e dalla possibilità di una apertura al centro10.

Per il PCI, ugualmente, il voto di maggio fu un passaggio obbligato per verificare la stabilità del consenso elettorale nel paese dopo la bufera del ’56. E il risultato elettorale, in effetti, fu considerato dalla dirigenza comunista un successo, poiché non vi erano stati significativi cambiamenti di percentuale rispetto alle precedenti elezioni politiche11.

L’Unione Sovietica guardò con interesse e attesa ai vari mutamenti che erano avvenuti nei principali partiti politici italiani e, in generale, alla nuova situazione politica internazionale dopo il 195612. Quale governo sarebbe uscito dalle urne? Quali gli orientamenti in politica interna ed estera? Le elezioni avrebbero delineato il futuro politico del paese, la politica estera, oltre che il ruolo all’interno dell’Alleanza atlantica. Non che ci si illudesse, ovviamente, di un cambiamento di posizione o di schieramenti, ma di sicuro il risultato elettorale avrebbe segnato una svolta nella politica italiana e favorito un seppure graduale avvicinamento tra Italia e Unione Sovietica.

Il governo sovietico dunque, non senza interesse, seguiva i mutamenti che avvenivano all’interno della DC e del PSI (e anche se in modo diverso, nel PCI) e cercava di cogliere gli elementi di novità nella linea dei partiti e nel sistema delle correnti interne, allo scopo di individuare gli interlocutori appropriati ed i canali per raggiungerli. Comprendere i nuovi rapporti di forza tra i partiti all’interno del sistema politico italiano non era di secondaria importanza per i sovietici, se si pensa che, a livello bilaterale, per quasi un decennio13, vi erano state da parte dei

9 Cfr. A. Giovagnoli, Il partito italiano. La Democrazia cristiana dal 1942 al 1994, Roma-Bari, Laterza, 1996, pp.

75 e ss.

10 Cfr. M. Degl’Innocenti, Storia del PSI, vol. III, Dal dopoguerra ad oggi, Roma-Bari, Laterza, 1993, pp. 241 e ss.

11 La stampa sovietica diede ampio risalto ai risultati elettorali del PCI. Si veda V. Ermakov, Uspech demokratičeskich sil – Itogi vyborov v Italii [Successo delle forze democratiche – esiti delle elezioni in Italia], in

“Pravda”, 28/5/1958, e Bol’šaja pobeda kommunističeskoj partij [Grande vittoria del partito comunista], in “Pravda”, 29/5/1958.

12 Si vedano gli articoli: Vystuplenie Pal’miro Tol’jatti na mitinge v Rime” [Intervento di Palmiro Togliatti durante

un comizio a Roma], in “Pravda”, 6/5/1958; Pered parlamentskimi vyborami v Italii [Verso le elezioni parlamentari in Italia), in “Pravda”, 12/5/1958; Za obnovlenie politiki Italii [Per il rinnovamento della politica dell’Italia] in “Pravda”, 15/5/1958; Pered vyborami v Italii – Za edinstvo demokratičeskich sil [Verso le elezioni in Italia – per l’unità delle forze democratiche] in “Pravda”, 21/5/1958; Pered vyborami v Italii – Reč’ Pal’miro Tol’jatti v Rime [Verso le elezioni in Italia – Intervento di Palmiro Togliatti a Roma], in “Pravda”, 25/5/1958.

13 Cfr. G. Are, Italia – URSS. Documenti, in “Affari Esteri”, n. 69, 1986, p. 128. Secondo Are tra il 1948 e il 1958 le

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governi italiani difficoltà ed esitazioni, poiché qualsiasi apertura nei confronti dell’URSS veniva valutata per le ripercussioni che essa avrebbe avuto sugli equilibri interni – in particolare sulla posizione del PCI e del PSI, e nelle relazioni con l’elettorato cattolico14.

Il solco tra il PCI e il PSI e le nuove aperture da parte di alcuni esponenti democristiani non rivestivano un aspetto trascurabile nelle dinamiche della dialettica tra le questioni di politica estera e le questioni di politica interna italiane nelle relazioni con l’URSS. In questi anni a causa della netta cesura tra Togliatti e Nenni, cominciarono a differenziarsi nuove categorie di analisi degli equilibri bipolari e ciò avrebbe avuto conseguenze notevoli sui futuri assetti dell’Italia. Il nesso tra politica interna e collocazione internazionale determinava quindi la maggior parte delle scelte e dei giudizi delle forze politiche italiane15.

Al fine di cogliere gli elementi di novità nel sistema politico italiano e il complicato intreccio delle relazioni tra i vari partiti, oltre ovviamente ai canali del partito comunista, delle associazioni sindacali, delle cooperative e dell’associazione “Italia-URSS”, l’ambasciata sovietica a Roma, guidata dal 1957 da Semën Kozyrev, intensificò i rapporti con il mondo politico, stilando per il governo di Mosca resoconti e profili degli esponenti della politica, dell’economia e della cultura del nostro paese.

Quali erano stati questi cambiamenti all’interno dei principali partiti politici italiani? Una sommaria analisi dei fattori di novità nelle linee dei partiti e nelle posizioni di esponenti politici dell’epoca può aiutare a comprendere le dinamiche e le cause che portarono al mutamento delle relazioni tra Italia ed Unione Sovietica nel 1958. Capire la trama dei rapporti consente di cogliere anche le motivazioni alla base delle scelte compiute in seguito da entrambe le parti.

All’interno della dirigenza del maggiore partito italiano, la Democrazia cristiana, la prospettiva della coesistenza pacifica che si andava delineando nel quadro internazionale aveva riscosso un certo interesse soprattutto nella corrente maggioritaria di Amintore Fanfani, Iniziativa Democratica, che nel 1958 ricopriva la carica di segretario politico della DC. Egli, benché la fedeltà atlantica continuasse ad essere la “stella polare” della linea della politica estera democristiana, mostrò sin dall’inizio del ’55 attenzione per le prospettive del quadro internazionale tracciate dall’URSS e per le esigenze di pace sottese: si trattava quantomeno di sottrarre al partito comunista una sorta di monopolio di propaganda su quei temi16. Fanfani non attribuiva grande credito alla diplomazia sovietica. Fra l’altro riteneva che un rilassamento delle

14 Cfr. B. Bagnato, Prove di Ostpolitik. Politica ed economia nella strategia italiana verso l’Unione Sovietica, 1958-1963, Firenze, Leo S. Olschki, 2003, p. 3.

15 Cfr. U. Gentiloni Silveri , L’Italia e la Nuova Frontiera. Stati Uniti e centro-sinistra, Bologna, il Mulino, 1998, p.

35.

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relazioni fra Italia e URSS sarebbe stato realizzabile solo in un contesto di distensione generale. La sua posizione e di quanti ne sostenevano gli orientamenti appariva a molti rischiosa e ingenua, poiché essa avrebbe potuto favorire la diffusione dell’influenza comunista. All’interno della DC, anche a seguito degli eventi ungheresi del ’56 e della crisi di Suez, circa un’apertura di credito all’URSS si era avviata dunque un’ampia discussione sulla politica estera italiana che dalla quale emersero rilevanti dissensi tra le posizioni del segretario del partito e quelle di altri dirigenti democristiani, tra i quali Antonio Segni. Sulla base di tali diversi orientamenti all’interno della corrente di maggioranza della DC, Fanfani riteneva necessario valutare le linee di tendenza della politica sovietica a breve e a lungo termine, e costruire nel contempo una convergenza – tutt’altro che scontata - delle posizioni interne al partito su questo obiettivo.

Nonostante il comportamento molto prudente di Fanfani nei confronti dell’URSS, dalle relazioni stilate dall’ambasciata sovietica a Roma nel 1958 e negli anni seguenti si evince che Mosca aveva visto nello statista aretino un interlocutore politico privilegiato all’interno della DC, piuttosto stimato per le aperture di pensiero e per la non pregiudiziale chiusura a un dialogo con i paesi d’oltrecortina.

Su Fanfani ebbe influenza Giorgio La Pira, un politico originale, con una visione messianica del ruolo dell’Italia nel mondo e fautore della politica dei “ponti” tra Occidente ed Oriente17. Nelle numerose lettere che con grande frequenza spediva a Fanfani, di rado mancava un accenno alla necessità di ricongiungere i due mondi separati, per il bene della pace, dei popoli e della Chiesa. La Pira era convinto che l’Italia non potesse continuare ad essere una spettatrice passiva degli eventi internazionali, relegando la politica estera ad una “ripetizione di formule meccaniche, non meditate, sempre le stesse”. In una lettera a Luigi Gui egli scrisse:

“Possibile che nella attuale situazione del mondo, negli attuali ‘passaggi’ e nelle attuali vicende della storia, un paese come l’Italia non abbia una parola propria, originale, organica, da dire?”18.

17 La “politica dei ponti” è un tema che si ritrova spesso negli scritti di La Pira. Il 15 dicembre 1958 egli scrisse a

Fanfani: “La ‘missione’ (geografica e storica) dell’Italia è oggi precisa: fare da ponte tra l’Europa e i popoli dell’Africa, dell’Asia; e fare da ponte anche con gli stessi stati avversi (Cina e Russia e satelliti): perché senza ponti – belli o brutti; di pietra o di ferro, o anche di legno! – le rive opposte non vengono congiunte: ed invece è necessario – per il bene della famiglia umana e, perciò, per il bene stesso della Chiesa – operare questa congiunzione!”. In Archivio Storico del Senato della Repubblica (in seguito ASSR), Fondo Fanfani, Fasc. 6, corrispondenza 1958, p. 8.

18 Cfr. Lettera di Giorgio La Pira a Luigi Gui, 10/2/1959 in Archivio Storico Istituto Luigi Sturzo (in seguito ASILS),

Fondo Giovanni Gronchi, Sc.18, Fasc. 89. Nella stessa lettera La Pira fa notare che per la prima volta, durante la campagna elettorale del 1958, “si parlò di vocazione e missione dell’Italia: vocazione e missione organicamente collegate con la posizione geografica (Mediterraneo) e storica dell’Italia (perché geografia e storia sono le realtà di fondo che condizionavano il moto delle nazioni). […] Fanfani (e tutti i candidati DC) indicò al corpo elettorale – con mano delicata, non forzata, sfumata – questo valore della finalità politica della nazione italiana: fu un accento nuovo e gradito: e il corpo elettorale lo accettò”.

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Un’altra figura della dirigenza DC che sarebbe diventata quasi il “simbolo” del riavvicinamento tra l’Italia e l’URSS fu Giovanni Gronchi. La sua parabola politica non fu lineare, se si guarda all’apertura a sinistra e al diverso approccio con l’Unione Sovietica. Eletto alla presidenza della Repubblica nel 1955 grazie ai voti decisivi della destra democristiana, egli occupò una posizione di sinistra nella DC, favorevole ad un maggiore intervento dello stato in economia e all’apertura ai socialisti. La sua concezione di politica estera, definita da Pella nel ’57 “neoatlantismo”, mirava a restituire all’Italia un nuovo ruolo nel blocco atlantico, senza metterne in discussione l’appartenenza allo schieramento, col dare più “autonomia” alle scelte in politica estera19. Gronchi aveva sempre considerato la politica estera come un’area dove egli avrebbe

potuto esercitare una forte influenza e, a questo proposito, egli aveva concentrato la sua attenzione in particolare su alcune questioni internazionali, quali il Mediterraneo e i rapporti tra Est e Ovest20.

La scelta “neoatlantica” in realtà, non aveva solo lo scopo di ricollocare il ruolo dell’Italia nel sistema delle relazioni internazionali. Si trattava di discostarsi dalla linea di totale accettazione degli orientamenti della NATO per prevenire le reazioni del partito comunista e, in parte, di quello socialista, che si ripercuotevano nelle dinamiche di politica interna della penisola21. La presenza del più importante partito comunista dell’ Occidente in Italia, il suo capillare radicamento in svariati settori della popolazione e la sua elevata capacità di propaganda erano tre aspetti che la dirigenza democristiana teneva in grande considerazione. Sottrarre alcuni argomenti al campo comunista equivaleva ad assumere un ruolo in parte nuovo nel contesto internazionale, ma allo stesso tempo, secondo i sostenitori del “neoatlantismo”, a respingere con efficacia la “minaccia” del PCI nel sistema politico italiano. Le aperture di Gronchi all’URSS andavano proprio nelle direzioni suddette.

Di Gronchi, da parte sovietica, non vi fu un giudizio univoco negli anni. A pochi mesi dal noto viaggio in URSS del gennaio 1960, ad esempio, una nota di Mosca non rilevava nel presidente quei nuovi orientamenti, che, al contrario, si notavano in altri esponenti politici DC. Nella relazione si legge:

“Giovanni Gronchi è uno dei fondatori del partito cristiano-democratico italiano (erede del partito cattolico popolare) e uno dei suoi esponenti più in vista. […] Gronchi viene considerato il capo della corrente di ‘sinistra’ nelle file del partito cristiano-democratico.

19 Cfr. L.V. Ferraris (a cura di), Manuale della politica estera italiana 1947-1993, Roma-Bari, Laterza, 1996, p. 103. 20 Cfr. A. Varsori, La politica estera italiana negli anni della guerra fredda. Momenti e attori, Padova, Libreria

Rinoceronte, 2005, p. 209.

21 Cfr. R. Gaja, L'Italia nel mondo bipolare: per una storia della politica estera italiana 1943-1991, Bologna, il

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Conduce una battaglia nascosta contro il partito comunista. Nelle questioni di politica estera è orientato sulle posizioni degli Stati Uniti”22.

Diversamente, in una relazione segreta firmata dal ministro degli Esteri Gromyko per i membri del Presidium del PCUS qualche giorno prima della partenza di Gronchi per l’URSS23 si legge:

“Gronchi è uno dei leader della corrente ‘di sinistra’ della Democrazia cristiana. Nelle questioni di politica estera egli mantiene uno sguardo molto più moderato rispetto alla dirigenza del partito. In molti casi Gronchi si è espresso a favore di una politica più indipendente dell’Italia e degli altri paesi dell’Europa occidentale, ma anche a favore della distensione della tensione internazionale. Non ha mai esternato dichiarazioni di inimicizia nei confronti dell’Unione Sovietica”24.

Notevole fu l’influenza del presidente dell’ENI Enrico Mattei nella formulazione delle nuove linee di politica estera di alcuni esponenti della Democrazia cristiana. In effetti il suo peso su decisioni fondamentali e il suo potere di condizionamento della politica estera italiana attraverso trattative di affari con forti implicazioni di carattere geopolitico, furono piuttosto rilevanti. Mattei giocò un ruolo importante nel riavvicinamento tra Italia ed Unione Sovietica quando le condizioni politiche non sembravano ancora mature. Per questo era diffusa l’impressione che il presidente dell’ENI attuasse una propria politica estera senza concordarla con il ministero o, comunque, realizzasse progetti spesso non aderenti alla linea ufficiale della diplomazia italiana25. Tale fu l’importanza geopolitica della “linea imprenditoriale” di Mattei che le diplomazie di tutto il mondo seguirono con apprensione e spesso con differenti reazioni le trattative dell’ENI in molteplici zone del mondo. Il governo sovietico vide in Mattei un interlocutore privilegiato non solo per le implicazioni economiche che ebbe l’espansione dell’ENI in Unione Sovietica, (fatto non secondario per il paese), ma per la posizione preminente

22 Cfr. Informativa di L. Kolosov su Giovanni Gronchi redatta sulla base della documentazione del ministero degli

Affari Esteri dell’URSS, in Rossijskij Gosudarstvennij Archiv Ekonomiki (in seguito RGAE), f. 413, op. 13, d. 8506, ll. 154-155. La relazione è senza data, ma sicuramente redatta nel gennaio 1959.

23 Il viaggio di Gronchi in URSS inizialmente si doveva svolgere nel gennaio 1960, poi fu rimandato al mese

seguente.

24 Cfr. Relazione segreta di Gromyko per i membri e i candidati a membro del Presidium, 12/12/1959, in Rossijskij

Gosudarstvennij Archiv Novejščej Istorij, (in seguito RGANI), F. 3, op. 12, d. 614, ll. 180-181.

25 Cfr. N. Perrone, Obiettivo Mattei. Petrolio, Stati Uniti e la politica estera dell’ENI, Roma, Gamberetti, 1995, pp.

100-101. Su Mattei esiste una bibliografia piuttosto vasta: P. Frankel, Petrolio e potere. La vicenda di Enrico Mattei, Firenze, La Nuova Italia, 1970; M. Colitti, Energia e sviluppo in Italia. La vicenda di Enrico Mattei, Bari, De Donato, 1979; I. Pietra, Mattei, la pecora nera, Milano, Sugarco, 1979; L. Maugeri, L’arma del petrolio. Questione

petrolifera globale, guerra fredda e politica italiana nella vicenda di Enrico Mattei, Firenze, Loggia de’ Lanzi,

1994; F. Venanzi e M. Faggiani (a cura di ), ENI. Un’autobiografia, Torino, Sperling & Kupfer, 1994; N. Perrone,

Enrico Mattei, Bologna, il Mulino, 2001; B. Li Vigni, Il caso Mattei: un giallo italiano, Roma, Editori Riuniti, 2003;

G. Buccianti, Enrico Mattei. Assalto al potere petrolifero mondiale, Milano, Giuffrè, 2005; G. Galli, Enrico Mattei:

petrolio e complotto italiano, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2005; G. Accorinti, Quando Mattei era l’impresa energetica io c’ero, Matelica, Hacca, 2006.

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che Mattei ricopriva nel settore dell’industria italiana. Il presidente dell’ENI, infatti, rappresentava il trait d’union tra la classe politica democristiana e i circoli economici del paese che da tempo erano interessati a uno sbocco a Est e, con differenti modalità, premevano sulla classe dirigente perché fossero sancite nuove linee politiche nei confronti dell’URSS.

A Fanfani, Gronchi, La Pira e Mattei, nella Democrazia cristiana si aggiungevano altri esponenti che molto o poco, con riserve, opposizioni e lacerazioni sostenevano la necessità di modificare il carattere della partecipazione italiana all’Alleanza atlantica, giudicata troppo “appiattita” sulle scelte degli Stati Uniti. Tra di essi Rinaldo Del Bo, verso il quale i sovietici nutrivano una certa stima e che, fra l’altro, in qualità di ministro del Commercio Estero fu il primo esponente del governo italiano a recarsi in visita ufficiale in Unione Sovietica nell’ottobre del 1959. In un rapporto sovietico del giugno 1959 si legge:

“Rinaldo Del Bo è legato al Vaticano e ai circoli vicini a Gronchi. Può considerarsi davvero ‘di sinistra’. Quando era viceministro degli Esteri manifestò il proprio disaccordo a Martino, dichiarandosi a favore di “una propria politica estera italiana”. Si è anche espresso per l’allargamento dei rapporti commerciali con i paesi dell’Europa Orientale e con la Repubblica Popolare Cinese. All’inizio del 1958, durante la discussione governativa circa la proposta sovietica di distensione internazionale e di disarmo, egli fu l’unico ministro che giudicò utile valutare tale proposta e sostenere una politica più elastica. Per questa presa di posizione è stato oggetto di un’aspra critica da parte delle correnti di destra e del Vaticano”26.

Anche il PSI si presentò all’appuntamento elettorale del 1958 con posizioni nuove rispetto al corso della politica italiana e agli orientamenti di politica estera. Il governo sovietico osservò con attenzione l’evoluzione degli avvenimenti all’interno del partito. La ridefinizione della collocazione del PSI nei confronti del Patto atlantico e nei rapporti con la Democrazia cristiana, fu il travagliato percorso che la dirigenza socialista intraprese sin dal 1953 e portò a compimento nel decennio seguente con l’ingresso nell’area di governo27. Gli avvenimenti del ’56, senza dubbio, accelerarono la transizione e furono un punto di non ritorno28. Si trattava di una revisione profonda dell’identità di un partito che, nel dopoguerra, aveva unito il proprio destino a quello del PCI e che ora si trovava di fronte alla necessità obbligata di una cesura con l’esperienza

26 Cfr. Informativa di L. Kolosov su Rinaldo Del Bo redatta sulla base della documentazione del ministero degli

Affari Esteri dell’URSS, in RGAE, F. 413, op. 13, d. 8506, ll. 150-151. La relazione è senza data, ma sicuramente redatta nel gennaio 1959. Circa la questione degli attacchi da parte della gerarchia vaticana, il 21 gennaio 1958 il card. Ottaviani, segretario del Santo Uffizio, aveva scritto su “Quotidiano” un articolo per criticare alcuni esponenti della DC e, in particolare, Rinaldo Del Bo, all’epoca ministro per i Rapporti con il parlamento, per i propositi di aprire un dialogo con l’Unione Sovietica.

27 Cfr. G. Tamburrano, Storia e cronaca del centro-sinistra, Milano, Feltrinelli, 1971, p. 22.

28 Cfr. P. Togliatti, Le decisioni del XX Congresso e il Partito Socialista Italiano, in “Rinascita, 10/1958, pp.

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comunista per dimostrare in Italia e all’estero la propria “maturità” politica e, dunque, la possibilità di collaborare con la Democrazia cristiana29.

Differenti erano le correnti all’interno della dirigenza socialista e, differente, era il loro punto di vista circa la collocazione internazionale dell’Italia e del PSI. Fra l’altro va tenuto conto che, poco dopo i fatti d’Ungheria, era avvenuto l’incontro tra Nenni e Saragat a Pralognan, nel corso del quale il leader social-democratico aveva invitato il collega non solo a pensare a un “riavvicinamento” tra PSI e PSDI, ma a una “riunificazione” da realizzare al più presto. Sebbene i dirigenti del PSI non nutrissero eccessiva fiducia in Saragat, la sua proposta contribuì ad alimentare una profonda riflessione interna che si protrasse per oltre un anno e i cui esiti si palesarono al XXXII Congresso del partito a Venezia30. Bocciata la possibilità di unificazione

socialista, il Congresso di Venezia (6-10 febbraio 1957) fu considerato un momento-chiave nella storia del PSI, poiché aveva segnato la consacrazione della “svolta autonomistica” della corrente nenniana e quindi il distacco definitivo dalla collaborazione con i comunisti. Tuttavia, poiché la “svolta” era stata avviata nonostante il parere contrario delle correnti di sinistra del PSI (quella Vecchietti-Valori e quella di Basso), che avevano ottenuto la maggioranza di voti al Congresso, il segretario socialista fu accusato di aver fatto proprie le tesi del centrismo e di aver accettato la pregiudiziale rottura con il PCI a discapito dell’unità del partito. Tali furono le accuse che non solo gli oppositori all’interno del PSI, ma anche il PCI mossero personalmente a Nenni. Ciò rientrava in una strategia particolare, avallata da Mosca, per screditare singoli esponenti socialisti senza infrangere l’unità dei partiti operai. La storiografia socialista, come fa notare Degl’Innocenti, rileva che proprio nel momento della “svolta autonomistica” si riaccese la prassi della interferenza comunista nella gestione interna del PSI, con la precauzione di non polemizzare con il partito in quanto tale, ma con la sua leadership o parte di essa, presentata come avversaria di classe31.

L’ipotesi trova una fondata conferma nell’appunto redatto dal direttore del Dipartimento per i rapporti internazionali del CC del PCUS, Boris Ponomarëv, nel quale si legge che Togliatti, incontrando Kozyrev, aveva consigliato ai sovietici di pubblicare sulla “Pravda” una serie di articoli sulla situazione politica italiana in cui si descrivessero i successi delle forze democratiche

29 Cfr. L. Nuti, Gli Stati Uniti e l’apertura a sinistra. Importanza e limiti della presenza americana in Italia,

Roma-Bari, Laterza, 1999, pp. 106 e ss.

30 Cfr. G. Caredda, Governo e opposizione nell’Italia del dopoguerra 1947-1960, Roma-Bari, Laterza, 1995, pp. 178

e ss.

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(raggiunti attraverso la collaborazione dei comunisti con i socialisti) e si sottolineasse che la piattaforma politica di Nenni nuoceva all’unità delle forze operaie32.

Benché nella relazione che l’ambasciata dell’URSS stilò sul Congresso di Venezia si fosse dato rilievo al ruolo avuto dalle correnti di sinistra e alla diffusa tendenza al riavvicinamento con il PCI33, la rottura tra Nenni e i comunisti, sancita ufficialmente durante il Congresso, fu una sconfitta bruciante per i sovietici34. Ancor più se si valuta che Nenni era stato sempre molto considerato a Mosca, tanto ad essere insignito, nel 1952, del premio Stalin. Nessuno degli esponenti della sinistra socialista ne aveva la statura e per il governo sovietico era difficile pensare di sostituirlo come interlocutore privilegiato. Tuttavia, preso atto del carattere permanente della svolta, per le autorità moscovite si presentò l’urgenza di individuare nuove personalità all’interno del PSI. Questo fu il tema dei colloqui che si svolsero tra la dirigenza del PCI e alcuni rappresentanti del PCUS nel 1957, dai quali emerse che l’unica soluzione fosse di appoggiare la corrente di Vecchietti e Valori.

Vecchietti era già noto alle autorità moscovite. All’ambasciata sovietica a Roma, infatti, si registravano frequenti visite dell’esponente socialista all’ambasciatore Kozyrev per discutere della situazione all’interno del PSI e dell’evoluzione della politica italiana. Gli incontri avevano un carattere tutt’altro che formale. Nel corso dei colloqui si delineavano linee di azione, si concordavano eventuali mosse politiche, si analizzavano i cambiamenti all’interno del PSI, si discuteva dei rapporti tra PCI e partito socialista.

Già nel luglio del 1957 Vecchietti e Kozyrev si erano incontrati per esaminare in modo lucido e dettagliato lo sviluppo degli eventi all’interno del PSI e la questione della leadership di Nenni. Vecchietti precisava all’interlocutore che un cambiamento alla dirigenza del partito sarebbe stato auspicabile poiché Nenni ormai portava avanti una linea confusa e lontana dagli orientamenti del partito. Le dimissioni di Nenni, però, andavano previste non in un futuro immediato visto che dopo pochi mesi vi sarebbero state le elezioni politiche. Un campagna sovietica per accelerare una sostituzione di Nenni alla guida del partito, in quel momento, avrebbe ottenuto il risultato contrario, perchè Nenni sarebbe diventato la “vittima” di una cospirazione del PCI e dell’URSS. Vecchietti, tuttavia, richiamava l’attenzione di Kozyrev sul

32 Cfr. Appunto redatto dal direttore del Dipartimento per i rapporti internazionali del CC del PCUS B. Ponomarëv,

24.11.1958, in RGANI, F. 5, op. 50, d. 6, l. 168.

33 Cfr. Archiv Vneščej Politiki Rossijskoj Federacij (in seguito AVP RF), F. 098, op. 40, d. 720/7, ll. 26-35, citato in

V.L. Ljubin, Socialisty v istorii Italii [I socialisti nella storia d’Italia], Moskva, Nauka, 2007, pp. 362-364.

34 Alcuni anni dopo, nel febbraio 1960, durante l’intervento al IX Congresso del PCI, Suslov affermò che “negli

ultimi tre anni, purtroppo, si sono indeboliti e gradualmente pressochè interrotti i nostri contatti con la dirigenza del PSI. [...] I cittadini sovietici hanno buoni ricordi di questi socialisti italiani. Da parte nostra non c’è alcun ostacolo al ristabilimento e all’allargamento dei contatti con il PSI”. L’intervento fu riportato interamente sulla “Pravda” del 2 febbraio 1960.

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fatto che il PCI non comprendesse fino in fondo le dinamiche all’interno del PSI e non avesse assunto una posizione chiara rispetto ai mutamenti in corso. Si trattava di una critica piuttosto marcata all’indirizzo dei comunisti italiani, che, secondo Vecchietti, non avevano elaborato neanche una linea comune riguardo ai rapporti con la sua corrente:

“I compagni della Segreteria del PCI (Amendola, Giancarlo Pajetta, Ingrao) a volte dicono che noi, morandiani, dobbiamo agire in maniera più cauta, che non dobbiamo rompere con Nenni, con l’intento di indurlo a preservare l’unità del movimento operaio in Italia. Altre volte, le stesse persone, dicono che noi dobbiamo agire con più coraggio, che dobbiamo contrastare con più fermezza le posizioni errate di Nenni, ecc.”35.

Nel travagliato evolversi delle questioni socialiste, l’appoggio sovietico alla corrente di sinistra del PSI non fu sempre univoco. Dal 1957, infatti, iniziò a Mosca una minuziosa analisi del movimento socialista italiano, delle sue correnti e dei suoi esponenti, analisi che nei vari momenti giunse ad esiti spesso diversi. La sola certezza al Cremlino, allo stato delle cose, era che Nenni e i suoi sostenitori avevano imboccato una strada di non ritorno. In questo clima di rapporti tra PSI e URSS, dunque, si giunse all’appuntamento elettorale del 25 maggio 195836.

Anche il PCI si presentò alle elezioni del 1958 con elementi di novità. Dopo il ’56, sebbene all’interno del partito comunista ci fosse una struttura ideologica all’apparenza immutabile, erano emersi tra i membri della dirigenza posizioni nuove anche rispetto al tipo di relazioni che il partito avrebbe intrattenuto con l’URSS. Il tema del rapporto tra PCI togliattiano e PCUS è stato al centro di numerose discussioni storiografiche. L’ostacolo nel trovare una condivisione tra gli storici dipende dalla problematicità di definire con una tesi onnicomprensiva un rapporto travagliato e incostante e dalla constatazione che, nonostante l’indiscussa leadership di Togliatti fino al 1964, il partito non era un sistema granitico e all’interno vi erano posizioni diverse, più sfumate rispetto a ciò che traspariva all’esterno. All’osservatore politico dell’epoca il PCI poteva apparire come un blocco unico, con una linea ben definita e un orientamento chiaro: l’URSS. Ma la consultazione dei verbali del CC del PCI e delle discussioni che in esso avvenivano (spesso censurati per la pubblicazione sulla stampa) mette in luce, dal 1956 in poi, una composizione del partito meno organica di quanto si possa pensare.

35 Cfr. Resoconto segreto del colloquio tra l’ambasciatore Kozyrev e l’esponente della dirigenza del PSI, Tullio

Vecchietti, 11/7/1957, in RGANI, F. 5, op. 50, d. 6, l. 73.

36 Nonostante l’evidente dissenso con la linea intrapresa dal PSI, il governo sovietico continuava a tenere aperti i

canali di contatto con Nenni. Anche per questo, il 3 giugno 1958, quando erano stati ufficializzati i risultati elettorali italiani, il Comitato centrale del PCUS indirizzò al Comitato centrale del PSI un telegramma ufficiale di felicitazioni per il successo elettorale. Il telegramma fu pubblicato sulla “Pravda” del 3 giugno 1958.

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Per questo motivo non c’è tuttora un accordo tra gli studiosi che al giorno d’oggi sostengono almeno tre tesi principali. La prima tesi, portata avanti da una parte della storiografia comunista dopo la morte di Togliatti, afferma che il PCI operasse con un alto grado di autonomia da Mosca e, grazie all’autorità di cui godeva come il più grande partito comunista occidentale, avesse coniato una “via italiana” al socialismo37. Una seconda tesi è appoggiata dagli storici, come Aga-Rossi e Zaslavskij, che vedono la totale subalternità di Mosca nelle questioni principali del PCI38. Secondo questi studiosi, Togliatti avrebbe dovuto concordare la maggior parte delle scelte di politica interna e soprattutto estera del PCI con la dirigenza del Cremlino. La terza tesi ammette una compenetrazione delle due teorie precedenti, sulla base di un sistema di “doppia lealtà” nelle posizioni di Togliatti tra dimensione nazionale e internazionale39. Se quindi

Togliatti fissava i principali orientamenti del PCI con Mosca, tuttavia restavano alla dirigenza italiana del partito settori in cui Mosca aveva una capacità di interferenza relativa.

Alla luce delle ricerche storiografiche e della consultazione degli archivi sovietici la terza tesi della “doppia lealtà” appare più corrispondente alla situazione creatasi. Questa tesi, infatti, non esclude né la prima né la seconda ipotesi storiografica, ma se ne appropria a seconda delle diverse circostanze. Tale complessità dei rapporti tra URSS e PCI emerge sia se si osserva l’evoluzione del partito comunista dopo il 1956 e lungo il corso degli anni ’60, sia se si considera l’atteggiamento sovietico nei confronti della politica italiana e dei vari partiti, non sempre in linea con le posizioni del PCI. Teorizzare una sistema di “doppia lealtà” del PCI, ha scritto Spagnolo, è il tentativo di uscire dalla “sterile dicotomia” autonomia/eteronomia tra PCI ed URSS per cogliere i legami intrinseci di un rapporto complesso reso ancor più difficile dall’evoluzione del movimento comunista internazionale negli anni ’6040.

Col 1956 era iniziata una fase nuova dell’elaborazione politica di Togliatti, fase che sarebbe culminata con la redazione del Memoriale di Yalta e poi, dal 1964, si sarebbe sviluppata nelle scelte della dirigenza del PCI. In questo quadro il PCI avviò una strategia di “riposizionamento” sulla scena internazionale e nazionale, assumendo un ruolo propulsivo autonomo nel movimento comunista. Tale prospettiva, ovviamente, provocò una reazione

37 Tra gli altri, si veda D. Sassoon, Togliatti e la via italiana al socialismo. Il PCI dal 1944 al 1964, Torino, Einaudi,

1980.

38 Si veda E. Aga-Rossi – V. Zaslavsky, Togliatti e Stalin. Il PCI e la politica estera staliniana negli archivi di Mosca, Bologna, il Mulino, 1998; E. Aga-Rossi– G. Quagliarello, L’altra faccia della luna, I rapporti tra PCI, PCF e Unione Sovietica, Bologna, il Mulino, 1997.

39 Cfr. F. De Felice, Doppia lealtà e doppio stato, in “Studi Storici”, 3/1989, pp. 493-563; ma anche S. Pons, L’URSS e il PCI nel sistema internazionale della guerra fredda, in R. Gualtieri (a cura di), Il PCI nell’Italia Repubblicana 1943-1991, Roma, Carocci, 2001.

40 Per una ricostruzione precisa delle tesi storiografiche sul legame PCI-PCUS si legga l’introduzione al volume di C.

Spagnolo, Sul memoriale di Yalta: Togliatti e la crisi del movimento comunista internazionale (1956-1964), Roma, Carocci, 2007, pp. 13-25.

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