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La revocatoria fallimentare e il rapporto tra coniugi

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Academic year: 2021

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INDICE

INTRODUZIONE 4

CAPITOLO I.

EVOLUZIONE DELLA DISCIPLINA.

1. La presunzione muciana. 12

1.1. Sua origine storica. 12

1.2. L’art 70 del r.d. 16 marzo 1942, N° 267. 15 1.2.1. La sent Cost. 15 dicembre 1967, n° 143. 20 2. La presunzione muciana e la comunione dei beni. 22

2.1. La riforma ad opera della l. 19 maggio 1975, n° 151.

Un breve cenno all’istituto della dote. 22 2.2. L’esclusione della’applicazione della presunzione

muciana alla comunione dei beni. La sent Cost. 17

febbraio 1989, n° 954. 29

2.3. L’abrogazione implicita della presunzione muciana. La sentenza Cost. 29 giugno 1995, n° 286 e la sent

Cass. 29 dicembre 1995, n° 13149. 37

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2

espressa dell’art 70 l. fall. 46

3. L’articolo 69 l. fall. e la sent Cost. 19 marzo 1993, n° 100. 48

CAPITOLO II.

PRESUPPOSTI E AMBITO DI APPLICAZIONE DELLA REVOCATORIA FALLIMENTARE TRA CONIUGI.

1. La qualità di imprenditore commerciale. 55 1.1. E il socio illimitatamente responsabile? 72

2. La qualità di coniuge. 79

2.1. Comunione legale e litisconsorzio necessario. 83 2.2. Gli accordi di separazione e la revocatoria

fallimentare. 93

2.3. Peculiarità dell’ambito di applicazione della

revocatoria fallimentare. 97

CAPITOLO III.

LA DISCIPLINA DELLA REVOCATORIA FALLIMENTARE TRA CONIUGI

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3

(art 67 l. fall.). 103

2. La disciplina speciale contenuta nell’art 69 l. fall. 123 2.1. L’art 69 – bis l. fall. e la decadenza dall’azione

revocatoria. 128

2.2. Un caso peculiare: il fondo patrimoniale. 132

CONCLUSIONI 139

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4

Introduzione

La revocatoria fallimentare è quell’istituto che soddisfa la necessità di far perdere l’efficacia giuridica a determinati atti compiuti dal fallito/debitore in un certo periodo di tempo in lesione della par condicio creditorum e che permette di ricostruire il patrimonio del fallito.

Tale istituto è regolato dagli artt. 67 l. fall. e ss. e va preliminarmente distinto dalla revocatoria ordinaria (art 2901 cc), la quale ha come finalità non la tutela della par condicio creditorum, bensì la protezione delle ragioni e delle garanzie patrimoniali del singolo creditore che esperisce l’azione da atti di disposizione posti in essere dal debitore, quindi l’oggetto delle due revocatorie non è lo stesso, stante il diverso scopo delle due azioni, e questo comporta che alcuni atti che non rientrano nell’ambito di applicazione di una potranno essere oggetto dell’altra.

Questa diversità di scopo si ripercuote ovviamente sia sui presupposti che sugli effetti, infatti:

(5)

5

 La revocatoria ordinaria basa il suo presupposto oggettivo sul pregiudizio arrecato alla garanzia patrimoniale (eventus

damni), nella sua dimensione qualitativa (per es., cessione di

un bene) o qualitativa (per es., sostituzione di beni facilmente aggredibili con beni facilmente occultabili), quindi se l’atto di disposizione del debitore produce un pregiudizio negli interessi di un certo creditore, esso è revocabile, a meno che non sia un atto dovuto, in adempimento di un debito scaduto (art 2901, 3° comma, cc).

Riguardo al presupposto soggettivo, questo si modula diversamente a seconda che l’atto sia a titolo gratuito od oneroso e a seconda che l’atto si sia perfezionato quando il credito era già insorto o meno.

Infatti, se l’atto di disposizione del debitore ha carattere gratuito, bisogna dimostrare solo che egli era consapevole del pregiudizio che avrebbe arrecato alle aspettative dei suoi creditori (consilium fraudis), mentre se è a titolo oneroso, bisogna dimostrare anche che il terzo era a conoscenza della lesione di tali aspettative (partecipatio fraudis); in relazione all’altro aspetto, si deve dimostrare il dolo generico in caso di atto di disposizione del debitore perfezionato quando il credito era già insorto (c’è già una prevedibilità del

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6 pregiudizio che verrà arrecato, quindi non serve dimostrare una volontà specifica), mentre si deve dimostrare il dolo specifico (ovvero la volontà di arrecare un danno) nel caso contrario, quando cioè l’atto precede il sorgere del credito. Se l’eventuale avente causa del terzo ha acquistato in buona fede, non è più possibile un’azione revocatoria, ma residuerà semplicemente un effetto risarcitorio in capo al dante causa tacciabile di consilium fraudis o partecipatio fraudis.

Per gli effetti, la revocatoria ordinaria è efficace solo per il creditore che l’ha proposta (e per i creditori intervenuti, se ce ne sono), che potrà esercitare l’azione esecutiva o conservativa (art 2902, 1°comma, cc), mentre il terzo contraente, per l’art 2902, 2° comma, cc, “non può concorrere sul ricavato dei beni che sono stati oggetto dell'atto dichiarato inefficace, se non dopo che il creditore è stato soddisfatto”, quindi non c’è una par condicio creditorum.

 La revocatoria fallimentare invece basa il suo presupposto oggettivo sul fatto che determinati tipi di atti siano stati compiuti in determinati periodi sospetti, modulati diversamente a seconda della “pericolosità” e della “resistenza” dell’atto; i periodi si calcolano dalla dichiarazione di fallimento e sono:

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7 - 2 anni per gli atti gratuiti e il pagamento di debiti non

scaduti (artt 64 – 65 l. fall.);

- 1 anno per gli atti “anomali” (art 67, 1° comma, n° 1, 2 ,3, l. fall.), un esempio su tutti i contratti a prestazioni sproporzionate;

- 6 mesi per gli atti “normali” (art 67, 1° comma, n° 4, e 2° comma, l . fall.), come per esempio il pagamento di debiti scaduti.

Il presupposto soggettivo invece si basa sulla conoscenza dell’insolvenza da parte del terzo contraente (quello dell’imprenditore non va dimostrato, è in re ipsa) e comporta una graduazione dell’onere probatorio a carico dell’unico legittimato ad esperire la revocatoria ex artt 67 e ss l. fall., ovvero il curatore, a seconda dell’atto che si vuole andare a colpire; questo però lo vedremo più dettagliatamente nel corso della trattazione, ritenendo sufficienti per adesso queste linee generali.

Riguardo agli effetti, dell’esperimento della revocatoria fallimentare ne godono tutti i creditori, compreso il terzo contraente, che viene allineato a questi ultimi, infatti egli dovrà restituire al fallimento quanto in precedenza ricevuto dal fallito (o l’equivalente in denaro, se la restituzione in

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8 natura è impossibile), ma al contempo verrà ammesso al passivo per il suo credito, nel rispetto della par condicio creditorum; inoltre va sottolineato che, se nella revocatoria ordinaria non basta chiedere di privare di effetti un certo atto, ma serve anche un capo condannatorio al rilascio o alla consegna del bene, nell’ambito fallimentare ciò non accade, in quanto l’effetto condannatorio si produrrà a seguito della decisione sulla revocatoria fallimentare, ex art 25, 1°comma n° 2, l. fall.

Altre differenze concernono la competenza (per la revocatoria ordinaria si seguono le regole generali, per quella fallimentare è competente il Tribunale fallimentare, ex art 24 l. fall.), la legittimazione ad agire (nella revocatoria ordinaria agiscono i creditori, ognuno nel proprio interesse, mentre in quella fallimentare è il curatore ad esperire l’azione in luogo di tutti i creditori, e deve essere autorizzato dal giudice, anche successivamente, ex art 25, 1° comma, n°6, e art 31, 2° comma, l. fall.) e la prescrizione (nella revocatoria ordinaria è di 5 anni dalla data dell’atto, ex art 2903 cc, mentre in quella fallimentare è di 3 anni dalla dichiarazione di fallimento e comunque non oltre 5 anni dal compimento dell’atto, così come stabilito nell’art 69 - bis l. fall.)

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9 Premesso ciò, questa tesi si pone l’obiettivo di delineare un quadro sufficientemente chiaro dell’interazione tra la revocatoria fallimentare e il rapporto tra coniugi, partendo dall’originario art 70 l. fall. e analizzando poi l’art 69 l.fall. e tutta una serie di questioni ad esso correlate.

Il primo capitolo avrà ad oggetto l’evoluzione della disciplina, incentrata sull’originario art 70 l. fall., che prevedeva la c.d. presunzione muciana, e del lungo cammino percorso per arrivare alla sua definitiva abrogazione, a seguito della riforma del diritto di famiglia ad opera della l. 19 maggio 1975, n° 151.

Verrà analizzato anche l’art 69 l. fall. che è stato oggetto di una pronuncia costituzionale, la sentenza 19 marzo 1993, n° 100, la quale ha colpito l’articolo nella parte in cui non ricomprendeva gli atti a titolo gratuito compiuti tra coniugi più di due anni prima della dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito esercitava un'impresa commerciale.

Il secondo capitolo invece riguarderà i presupposti per la revocatoria fallimentare nell’ambito dei rapporti tra coniugi, analizzando approfonditamente la qualità di imprenditore e di coniuge e prendendo in considerazione una serie di casi peculiari, come per esempio il coniuge socio, il rapporto tra comunione legale e fallimento, e le varie vicende del matrimonio.

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10 Nel terzo capitolo si avrà la vera e propria analisi dettagliata della disciplina della revocatoria fallimentare, con l’indicazione delle modificazioni che quest’ultima subisce quando si tratta di coniugi; inoltre verranno analizzati l’art 69 – bis l. fall. in relazione alla prescrizione e l’art 64 l. fall. in relazione alla costituzione del fondo patrimoniale da parte dei coniugi, finalizzato a destinare determinati beni al soddisfacimento dei bisogni della famiglia.

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(12)

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Capitolo I

Evoluzione della disciplina

1. La presunzione muciana. 1.1. Sua origine storica. 1.2. L’art 70 del r.d. 16 marzo 1942, N° 267. 1.2.1. La sent Cost. 15 dicembre 1967, n° 143.

2. La presunzione muciana e la comunione dei beni. 2.1. La riforma ad opera della l. 19 maggio 1975, n° 151. Un breve cenno all’istituto della dote. 2.2. L’esclusione della’applicazione della presunzione muciana alla comunione dei beni. La sent Cost. 17 febbraio 1989, n° 954. 2.3. L’abrogazione implicita della presunzione muciana. La sentenza Cost. 29 giugno 1995, n° 286 e la sent Cass. 29 dicembre 1995, n° 13149. 2.4. La riforma della legge fallimentare e l’abrogazione espressa dell’art 70 l. fall.

3. L’articolo 69 l. fall. e la sent Cost. 19 marzo 1993, n° 100.

1.

La presunzione muciana

1.1. Sua origine storica

La presunzione muciana (“praesumptio Muciana”) affonda le sue origini molto indietro nel tempo, nel II° secolo a.C., e deve il suo

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13 nome al giureconsulto romano Quinto Mucio Scevola (140 - 82 a. C.), così come attestato anche in uno dei due frammenti del Corpus Iuris che fanno riferimento a tale presunzione.

Per essa, gli acquisti di beni da parte della moglie, in costanza di matrimonio, si considerano effettuati con denaro del marito, salvo prova contraria.

Questa presunzione, nell’ambito del diritto romano, si riferiva alle controversie prettamente ereditarie e quindi aveva una portata “familiare”, non estendendosi ai creditori di uno o dell’altro coniuge, i quali, per far valere le proprie pretese, potevano semplicemente far riferimento al divieto di donazioni tra coniugi1.

Si ritiene infatti che essa sia nata per soddisfare l’esigenza di tutelare i figli del primo matrimonio, quando, a seguito della morte del padre, la madre contraeva un secondo matrimonio: tale presunzione in pratica permetteva loro, dopo la morte della madre, di rivendicare tutto ciò che ella aveva acquisito in costanza di (primo) matrimonio, e di cui non era riuscita a dimostrare la provenienza “aliunde”.

Altra prova che la presunzione muciana non rilevava all’esterno dell’ambito familiare era, come già accennato, che i creditori non

1 Divieto che è caduto in epoca recente, con la sent Cost 14 giugno 1973, n° 91 (in

Giur. Cost., 1973, 932), per contrasto con l’art 3 Cost, in quanto veniva limitata la capacità contrattuale dei cittadini coniugati nei rapporti reciproci, riducendo la loro libertà di iniziativa economica garantita dall’art. 41 Cost, e tale limitazione non trovava alcuna ragionevole giustificazione in relazione a motivi attinenti all’utilità sociale, alla sicurezza, alla libertà e alla dignità umana o ad altri principi tutelati dalla Costituzione.

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14 potevano usarla per revocare tutti gli atti compiuti in loro frode, infatti se l’atto consisteva in una donazione tra coniugi (e quindi rientrava negli atti a titolo gratuito), essi lo potevano revocare senza limiti di tempo, ma se consisteva in un atto oneroso, nulla potevano se era passato un anno dal suo compimento.

Con Giustiniano però la presunzione assunse un tenore estremamente generale e venne considerata legata non solo a questioni ereditarie ma anche a questioni concernenti le donazioni tra coniugi, andando quindi implicitamente a proteggere l’onorabilità della donna in quanto, se si presumeva che tutti i suoi acquisti fossero conseguenza di doni del marito, si andavano ad allontanare i sospetti di provenienze “imbarazzanti”2.

Successivamente, nell’ambito dello ius commune, la presunzione muciana venne palesemente fraintesa ed estesa ad un ambito del tutto sconosciuto all’esperienza romana, infatti non era più finalizzata alla tutela dell’onorabilità della donna, ma divenne uno strumento di difesa del credito commerciale, e tale concezione venne riconfermata successivamente nella legislazione napoleonica (art 542 del Codice di commercio francese), poi nel Codice italiano di commercio del 1865, all’art 675, e infine nel Codice italiano di

2 Per la ricostruzione storica, si veda Francesca Lamberti, “Suggestioni in tema di

preaesumptio Muciana”, in Rivista di Diritto Romano, V, 2005, in www.ledonline.it/rivistadirittoromano.

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15 commercio del 1882, all’art 782; questo perché il coniuge dell’imprenditore (ovvero, nella pratica, la moglie), poteva ben essere un mezzo di protezione dei beni di quest’ultimo dai rischi dell’attività d’impresa, tramite atti simulati, in frode dei creditori, nei quali la moglie risultava formale intestataria di beni che poi di fatto rimanevano nella piena disponibilità del marito3.

1.2. L’art 70 del r.d. 16 marzo 1942, n° 267

La presunzione muciana è giunta fino a noi ed è stata trasfusa nell’art 70 del r.d. 16 marzo 1942, n° 267, che recitava così:

“Art. 70. (beni acquistati dal coniuge del fallito).

I beni, che il coniuge del fallito ha acquistato a titolo oneroso nel quinquennio anteriore alla dichiarazione di fallimento, si presumono di fronte ai creditori, salvo prova contraria, acquistati con danaro del fallito e si considerano proprietà di lui. Il curatore è legittimato ad apprenderne il possesso. Se i beni stessi furono nel frattempo alienati o ipotecati, la

3

Vittorio Cantele, “Una «svolta» sull'applicabilità della presunzione muciana”, in Corr. Giur., 1989 I, 5, 528.

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16

revocazione a danno del terzo non può aver luogo se questi prova la sua buona fede4.”

I presupposti per l’applicazione di tale articolo erano dunque:

1) Che fosse stato compiuto un acquisto a titolo oneroso da parte del coniuge del fallito;

2) Che tale acquisto si fosse realizzato in costanza di matrimonio e nei cinque anni anteriori alla dichiarazione di fallimento: erano dunque irrilevanti gli acquisti effettuati prima del matrimonio, anche se pagati successivamente, e gli acquisti effettuati nel quinquennio e pagati dopo la dichiarazione di fallimento dell’altro coniuge.

Se questi presupposti ricorrevano, allora si avevano due presunzioni, ovvero che il denaro impiegato era del fallito e che l’acquisto era avvenuto per conto di quest’ultimo, al fine di sottrarre il bene ai creditori del coniuge imprenditore poi fallito.

Tali presunzioni potevano essere fugate dal coniuge del fallito tramite prova contraria, con la quale si doveva specificamente provare l’acquisto di ogni singolo bene di cui si contestava l’apprensione al fallimento, anche con ogni mezzo (per esempio testimoni e

4 Trib di Monza, 2 dicembre 1990: “Il terzo che vanti un credito assistito da ipoteca

su un bene immobile acquisito dal fallimento per presunzione muciana ed intenda far valere tale prelazione nei confronti del curatore deve fornire la prova della sua buona fede, ossia deve dimostrare che, al momento dell’acquisto del bene (intestato al coniuge del fallito) o dell’iscrizione dell’ipoteca su di esso, fosse nella ragionevole convinzione che il bene medesimo era stato acquistato con denaro del coniuge del fallito e non con il denaro di quest’ultimo”.

(17)

17 presunzioni semplici), mentre non si poteva dare una prova generica della consistente disponibilità economica del coniuge del fallito o dell’insieme delle operazioni immobiliari compiute (sent Cass., 28 marzo 1990, n° 2537); si doveva provare, in sintesi, che l’acquisto era stato fatto con il ricavato della vendita di beni personali o beni non soggetti a presunzione muciana, poiché per esempio effettuati prima dei 5 anni anteriori alla dichiarazione di fallimento del coniuge imprenditore.

Riguardo al terzo in buona fede, questo deve intendersi come colui il quale provi l’ignoranza della provenienza del denaro da parte del coniuge fallito, ma anzi, la convinzione che provenisse dal coniuge contraente5.

In relazione a tale articolo poi, vanno fatte tre precisazioni:

1) Non era applicabile al caso in cui fossero stati entrambi i coniugi a fallire, né in caso di fallimento contestuale, né in caso di fallimenti successivi, siano essi relativi all’esercizio della stessa impresa commerciale o ad imprese commerciali diverse6; questo perché sarebbe assurda l’ipotesi di uno scambio di beni tra due fallimenti, e poi perché sono le stesse norme fallimentari a non consentire la sottrazione di beni dal

5 D. Fall. 1986, 250, Bartolomeo Quatraro, “L’incidenza della normativa concorsuale

sul nuovo regime patrimoniale della famiglia”.

6

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18 patrimonio del fallito per soddisfare creditori estranei al fallimento.

Anche qui si procedette per gradi: inizialmente la Cassazione dichiarò l’art 70 l. fall. applicabile al caso in cui entrambi i coniugi fossero stati imprenditori commerciali (sent Cass., 27 settembre 1954, n° 3135), poi cambiò il suo orientamento, prima negandone l’applicabilità al solo caso di contemporaneo fallimento di tutti e due (sent Cass., 12 giugno 1957, n° 2196) e poi successivamente anche in caso di fallimento di uno solo, se entrambi erano imprenditori commerciali (sent Cass., 6 ottobre 1977, n° 4257).

2) La presunzione muciana, con l’art 70 l. fall. si riferiva ora non più alla “moglie”, ma al “coniuge” in generale, a differenza dei codici precedenti, anche se questa concezione ha stentato ad affermarsi per molto tempo7.

3) Si è dibattuto sulle modalità di acquisizione dei beni colpiti da presunzione muciana al fallimento8, infatti c’era chi sosteneva che, essendo considerati come beni del fallito, si dovesse procedere seguendo le stesse regole previste per lo

7 Vedi la sent Cost 143/1967, nel prossimo paragrafo.

8

In D. Fall. 1994, 45 (in particolare punto 5. c., pag 56), E. Lorenzini, “L’acquisizione ei beni mediante decreto del giudice delegato fallimentare”.

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19 spossessamento dei beni di quest’ultimo, ex art 88 l. fall.9; altri invece sostenevano che servisse un provvedimento giudiziale vero e proprio, cioè un decreto di acquisizione del giudice delegato, e tale soluzione sembrò più coerente con la garanzia del coniuge del fallito, infatti il decreto di acquisizione presupponeva comunque l’accertamento della sussistenza delle condizioni previste dalla legge per l’applicazione dell’art 70 l. fall10.

Questo articolo è stato oggetto di varie pronunce, fino all’introduzione del nuovo diritto di famiglia, con la l. 19 maggio 1975, n° 151, il quale ha creato un punto di rottura su cui ci è basati per arrivare, passando dalla sent Cost. 29 giugno 1995, n° 286 e dalla sent Cass. 29 dicembre 1995, n° 13149, all’abrogazione esplicita dell’art 70 per mezzo del d.l. 14 marzo 2005, n° 35, convertito in l. 14 maggio 2005, n° 80.

Di seguito verranno analizzati alcuni passaggi fondamentali che hanno portato alla progressiva eliminazione della presunzione muciana dal nostro ordinamento.

9

“Presa in consegna dei beni del fallito da parte del curatore.

Il curatore prende in consegna i beni di mano in mano che ne fa l'inventario insieme con le scritture contabili e i documenti del fallito.

Se il fallito possiede immobili o altri beni soggetti a pubblica registrazione, il curatore notifica un estratto della sentenza dichiarativa di fallimento ai competenti uffici, perché sia annotato nei pubblici registri.”

Con il d. lgs. 169/2007 il termine “annotato” è stato sostituito con “trascritto”.

10

Vedi anche Giust. civ., fasc.2, 1997, pag. 409, Gabriella Marzo, “Decreto di acquisizione e tutela del possesso di beni mobili in sede fallimentare”.

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20

1.2.1. La sent Cost. 15 dicembre 1967, n° 143

Qui la presunzione muciana viene presa in considerazione in relazione all’art 622 cpc11, dichiarato illegittimo per violazione del principio di uguaglianza, in quanto creava una disparità di trattamento tra uomo e donna, a seconda di chi fosse il debitore: infatti i beni del patrimonio della moglie potevano essere utilizzati per il soddisfacimento dei debiti personali del marito, mentre i beni del marito non avevano la stessa funzione, quindi c’era una minor tutela della donna nel suo diritto di proprietà.

Minor tutela che appare ancora meno giustificata se si prende in considerazione l’evoluzione del ruolo della donna nella società, già ben evidente all’epoca, per cui la donna non viveva più in uno stato di soggezione rispetto al marito, ma, anzi, molto spesso aveva una propria posizione professionale ed era quindi in grado di acquistare beni con denaro non proveniente dal marito, bensì dalla sua attività lavorativa.

11

“Opposizione della moglie del debitore.

L'opposizione non può essere proposta dalla moglie convivente col debitore, relativamente ai beni mobili pignorati nella casa di lui, tranne che per i beni dotali o per i beni che essa provi, con atto di data certa, esserle appartenuti prima del matrimonio o esserle pervenuti per donazione o successione a causa di morte”.

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21 La Corte nella suddetta sentenza afferma che la presunzione muciana, nell’accezione per cui tutti i beni acquistati dalla moglie in costanza di matrimonio si presumono essere del marito, salvo prova contraria, “non è più adeguata all'attuale organizzazione economica della famiglia, perché anche la moglie può esplicare, e spesso di fatto esplica, attività produttive di reddito al pari del marito”, e precisa che l’art 70 l. fall. applica la presunzione in esame solo ai beni che il coniuge del fallito ha acquistato a titolo oneroso nel quinquennio anteriore alla dichiarazione del fallimento.

Dunque, la presunzione non viene più concepita a mio avviso come legata alla posizione della donna nella società, ma si riferisce più propriamente al “coniuge”, come recita testualmente l’art 70 l. fall., in relazione alle frodi o alle simulazioni che nell’ambito del rapporto di coniugio potrebbero essere perpetrate a danno dei creditori concorsuali (tanto del marito quanto della moglie).

Un’ulteriore importante precisazione sull’art 70 l. fall. ci viene dalla sent del Tribunale di Udine, 21 aprile 1975, la quale dichiara che non è applicabile l’art 70 l. fall. agli acquisti eccedenti il quinquennio prima della dichiarazione di fallimento, anche se è provato che essi sono avvenuti con soldi del fallito.

La questione è la seguente: l’art 70 costituisce un limite invalicabile per acquisire alla massa fallimentare i beni del coniuge del fallito, o

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22 ha la sola funzione di stabilire un termine temporale entro cui la presunzione opera, permettendo dunque di avocare anche gli acquisti anteriori se si dimostra che essi sono avvenuti con denaro del fallito?12

Qui il giudice ha avvalorato la prima tesi, dicendo che, oltre alla formulazione testuale dell’articolo, che dovrebbe già dare indicazioni sul tema, ci sono anche ulteriori motivazioni per scegliere questa soluzione, tra cui il fatto che l’art 70 l. fall. va a colpire una frode consistente nell’intestazione di un bene al coniuge da parte del fallito, previa donazione del denaro, quindi il termine temporale serve a rapportare l’atto con la volontà degli effetti.

2. La presunzione muciana e la comunione dei beni.

2.1. La riforma ad opera della l.

19 maggio 1975, n° 151.

Un breve cenno all’istituto della dote.

Questa legge ha rivoluzionato il diritto di famiglia, attuando concretamente, dopo più di 25 anni, i principi costituzionali contenuti nell’art 29 Cost., con lo scopo di rafforzare, garantire e favorire il

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23 vincolo coniugale tramite l’introduzione dell’uguaglianza tra coniugi e dell’uguaglianza degli stessi verso i figli; nello specifico, ha abolito la potestà maritale e paterna, passando alla potestà di entrambi i coniugi, ha introdotto la valorizzazione dell’apporto lavorativo di ogni coniuge, ancorché si tratti di lavoro casalingo e, per quanto ci riguarda più da vicino, ha introdotto la comunione legale come regime patrimoniale ordinario (art 159 cc) al posto della previgente separazione dei beni.

Dunque si passa da un sistema, quello delineato dal codice civile del 1942, in cui il marito aveva il dovere di mantenere la moglie, qualunque fossero le condizioni economiche della donna, mentre quest’ultima aveva solo un dovere di contribuzione in caso di necessità, ad un sistema nel quale i coniugi sono equiparati anche sul piano patrimoniale (art 143 cc), indi per cui il regime ordinario è quello della comunione legale (art 177 e ss. cc), salvo espressa preferenza dei coniugi per la separazione dei beni.

Questo è confermato anche dal fatto che la comunione legale non necessita di nessuna forma di pubblicità, mentre per optare per la separazione dei beni o per la comunione convenzionale (ovvero una comunione con limiti diversi da quella legale, definiti dai coniugi13)

13 “Art 210 cc. Modifiche convenzionali alla comunione legale dei beni.

I coniugi possono, mediante convenzione stipulata a norma dell'articolo 162, modificare il regime della comunione legale dei beni [177] purché i patti non siano in contrasto con le disposizioni dell'articolo 161.

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24 serve o la stipulazione prima del matrimonio, per atto pubblico previsto a pena di nullità, di un’apposita convenzione matrimoniale, oppure, più semplicemente, la dichiarazione circa la propria scelta all’atto di dichiarazione di matrimonio; inoltre tali ultime convenzioni devono essere annotate a margine dell’atto di matrimonio, altrimenti sono inopponibili a terzi, cioè i coniugi non possono avvalersi degli effetti del regime patrimoniale prescelto.

La comunione legale è stata introdotta in quanto rispondente ai principi di solidarietà ed uguaglianza propri del matrimonio, e non è una comunione universale, ovvero comprendente tutti i beni di proprietà dei singoli coniugi, ma si possono distinguere:

1) Beni in comunione immediata (art 177, 1° comma, lett. a) e d) e 2° comma, cc): sono quei beni che rientrano nella comunione fin da subito, come gli acquisti compiuti da uno dei due coniugi o da entrambi in costanza di matrimonio (ad esclusione di alcune categorie, vedi il n° 3), l’azienda gestita da entrambi i coniugi e costituita dopo il matrimonio, e, in caso di azienda costituita prima del matrimonio ma gestita da entrambi, gli utili e gli incrementi da essa prodotti;

I beni indicati alle lettere c), d) ed e) dell'articolo 179 non possono essere compresi nella comunione convenzionale.

Non sono derogabili le norme della comunione legale relative all'amministrazione dei beni della comunione [180] e all'uguaglianza delle quote limitatamente ai beni che formerebbero oggetto della comunione legale [194].”

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25 2) Beni in comunione “de residuo” (art 177, 1° comma, lett. b) e c) e art 178 cc): sono quei beni che rientrano nella comunione solo se sussistono al momento del suo scioglimento, ovvero i frutti dei beni propri di ciascuno dei coniugi, percepiti e non consumati, i proventi dell'attività separata di ciascuno dei coniugi e beni destinati all'esercizio dell'impresa di uno dei coniugi costituita dopo il matrimonio o gli incrementi dell'impresa costituita anche precedentemente;

3) Beni che non rientrano nella comunione (art 179 cc): sono i c.d. beni personali, che nello specifico ricomprendono, tra gli altri, i beni acquisiti successivamente al matrimonio a seguito di donazione o successione, quando non è specificato che essi siano attribuiti alla comunione, i beni di uso strettamente personale di ciascun coniuge, i beni che servono all'esercizio della professione del coniuge e l’acquisto di beni immobili o mobili registrati, effettuato dopo il matrimonio, se l’atto di acquisto prevede tale esclusione e abbia visto la partecipazione anche dell’altro coniuge.

Riguardo ai creditori, qui bisogna distinguere tra creditori della comunione e creditori particolari dei singoli coniugi (art 186 e ss. cc), infatti i primi possono soddisfarsi sui beni della comunione e, in via sussidiaria, se quest’ultimi non sono sufficienti, sui beni dei

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26 singoli coniugi per la metà del credito, mentre i secondi, se i beni personali sono insufficienti, possono aggredire i beni in comunione, nei limiti della quota del coniuge loro debitore; i creditori della comunione comunque saranno sempre preferiti a quelli particolari, se chirografari, e questo è un elemento di estrema importanza che è stato usato per avvalorare la tesi dell’inapplicabilità della presunzione muciana al regime della comunione legale.

Altro punto saliente da sottolineare per la nostra trattazione è che, ai sensi dell’art 191 cc, la comunione si scioglie per intervenuta dichiarazione di fallimento di uno dei due coniugi, e questo non significa che cessi lo stato di comunione legale, ma che essa si trasforma in una semplice comunione ordinaria, a decorrere dal deposito della sentenza, proprio perché subentrano interessi diversi, ovvero non più la tutela degli interessi della famiglia, ma il soddisfacimento dei creditori del fallito, tramite la gestione del patrimonio da parte del curatore.

Vedremo nel prossimo paragrafo come anche quest’ultimo aspetto abbia inciso sulla presunzione muciana; si può concludere infatti che il nuovo regime della famiglia mal si articolava con tale presunzione, basata fondamentalmente sulla soggezione della moglie al marito, ma sono dovuti passare ben 20 anni perché la Corte Costituzionale si

(27)

27 ravvedesse e ben 30 anni affinché la legge la eliminasse definitivamente ed espressamente dal nostro ordinamento; infatti la Corte Costituzionale nel 1975 fu investita della questione riguardante l’art 70 l. fall.14 ma la liquidò in maniera sbrigativa, per poi tornare sui suoi passi15.

Ma andiamo per gradi.

Un breve accenno merita l’istituto della dote, altra dimostrazione della soggezione, sia morale che patrimoniale, della moglie al marito, che venne poi abolita definitivamente con la riforma del diritto di famiglia del 1975.

Essa era un complesso di beni che la donna portava al marito per sostenere gli oneri del matrimonio, ed è un istituto che ha avuto un’ampia evoluzione in epoca romana, quando, da mera “usanza”, divenne oggetto di trattazione giuridica in ragione dell’aumento del numero dei divorzi, infatti si riteneva ingiusto che il marito trattenesse per sé i beni che la moglie gli aveva portato in dote. La dote, prima obbligo morale, divenne poi obbligo giuridico con Giustiniano e in origine i beni che la costituivano, con la stipulazione del matrimonio, passavano al marito, andando a confondersi con il suo patrimonio, ma poi questo assetto cambiò perché si affermò la

14

Sent Cost., 10 luglio 1975, n° 195, in Foro it., 1975, I, 1889.

(28)

28 concezione che il diritto del marito non fosse di piena proprietà, ma solo di usufrutto legale, e inoltre, in tarda epoca repubblicana, nacque a favore della donna una vera e propria azione dotale a tutela delle proprie ragioni.

La dote, con qualche modificazione, arrivò fino al Medioevo, dove si cominciò a parlare di “exclusio propter dotem”, cioè dell’esclusione delle donne dall’eredità paterna proprio perché era stata costituita una dote all’epoca del matrimonio, mentre nell’epoca comunale si limitò molto tale istituto, per paura che i beni di un comune venissero goduti e amministrati da un soggetto appartenente ad un altro comune.

Successivamente, in epoca moderna e formalmente fino al 1975, era obbligatorio prima del matrimonio stipulare l’atto costitutivo di dote (non modificabile successivamente) davanti ad un notaio, a pena di nullità, e si discusse parecchio sulla sua natura di atto a titolo oneroso o gratuito, tema non di poca importanza se considerato in relazione alla possibilità o meno di esperire l’azione revocatoria ordinaria.

La dote e i frutti dotali erano amministrati in tutto e per tutto dal marito, quindi i creditori della moglie diventati tali per crediti posteriori all’atto costitutivo della dote nulla potevano su quest’ultima, mentre si discuteva se i creditori del marito potessero o

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29 meno pignorare o sequestrare i frutti della dote eccedenti i bisogni della famiglia.

Per quanto qui ci interessa, comunque, l’originario art 46 l. fall., al n° 4 (modificato poi solo con il d. lgs. 5/2006), escludeva l’ipotesi che nel fallimento potessero rientrare i frutti dei beni costituiti in dote e i crediti dotati.

2.2. L’esclusione della’applicazione della presunzione

muciana alla comunione dei beni. La sent

Cost. 17

febbraio 1989, n° 954.

Questa sentenza stabilì che, in caso di fallimento di uno dei due coniugi, la presunzione muciana di cui all’art 70 l. fall. non era applicabile ai beni oggetto di comunione legale, perché quest’ultima non rilevava solo nei rapporti interni dei coniugi, ma anche in quelli esterni, e perché tale presunzione si basava su presupposti riscontrabili solo nella separazione dei beni; quindi poteva essere acquisita al fallimento solo la quota del fallito, mentre i beni dell’altro coniuge potevano essere soggetti ad azione revocatoria ordinaria ex art 2901 cc o potevano rientrare negli atti a titolo gratuito, di cui l’art 64 l. fall. stabilisce l’inefficacia, se il curatore dimostrava che “il fallito

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30 aveva fatto una attribuzione patrimoniale al coniuge, impiegando per l'acquisto di un bene somme di appartenenza personale, senza fare quanto necessario per impedirne la caduta in comunione”1617.

Visto e considerato quanto detto nel paragrafo precedente circa la disciplina della comunione, è chiaro che l’acquisto di un bene con denaro proveniente da un solo coniuge fa comunque rientrare tale bene nella comunione, per cui i creditori personali di quel coniuge non possono sottoporre ad esecuzione coatta l’intero bene, ma possono soddisfarsi sui beni della comunione fino al valore della quota del coniuge obbligato (ovvero la metà).

Riguardo al fallimento, la sentenza in esame cita l’art 191 cc, per il quale la comunione si scioglie in caso di fallimento di uno dei due coniugi, dunque questa è la riprova che anche i creditori concorsuali possono soddisfarsi sui beni della comunione nei limiti della parte di competenza del fallito, non potendo né l’altro coniuge sottrarre l’intero bene dalla massa fallimentare, né viceversa il curatore acquisirlo in toto al fallimento.

16

Cfr. Fall, 1989, 5, 516.

17 Altre sentenze nella stessa direzione sono, tra le altre, la sent Cass. 23 gennaio

1990, n° 351 (in Foro It., 1990, 2904) e la sent Cass. 16 giugno 1990, n° 6079 (in Foro It., 1990, 999) .

(31)

31 La sentenza in esame costituì una prima presa di posizione della Suprema Corte sul delicato aspetto del rapporto tra art 70 l. fall. e l. 151/1975, e pose fine ad un lungo dibattito in dottrina e giurisprudenza18.

Ci si divideva infatti tra chi sosteneva la sopravvenuta assoluta inapplicabilità dell’art 70 l. fall. a seguito della riforma del diritto della famiglia19, chi limitava l’abrogazione di tale articolo solo al caso di comunione legale, essendo la separazione dei beni il contesto naturale e storico in cui la presunzione aveva operato fin dall’entrata in vigore della legge fallimentare, e chi infine sosteneva – seppur con diverse articolazioni - l’attuale efficacia normativa dell’articolo in questione20.

Quest’ultima tesi si basava sul carattere di specialità della legge fallimentare (e quindi dell’art 70 l. fall., correlato alla tutela dei creditori del fallito) rispetto alla comunione legale, riferibile solo ai rapporti interni tra coniugi, e questo portava a dire, intanto, che una legge generale posteriore (quale il diritto di famiglia) non poteva abrogarne una speciale anteriore (quale la legge fallimentare), e

18

Riguardo alla giurisprudenza, si citano come esempio Tribunale di Brescia, 24 giugno 1988, favorevole all’applicazione della presunzione muciana alla comunione legale tra coniugi, e Tribunale di Milano, 25 maggio 1989, che nega tale applicazione, in Fall, 1989, 9, 879, con nota di Vincenzo Carbone.

19 Definita una “soluzione estrema e minoritaria” dal Tribunale di Milano, op. cit.

20

Opinione sostenuta dalla giurisprudenza maggioritaria, vedi Il Tribunale di Brescia, 24 giugno 1988, op. cit.

(32)

32 dunque poi che i beni, a cose normali, sarebbero stati sicuramente considerati in comproprietà tra i due coniugi, mentre in caso di fallimento (e quindi solo nei confronti dei creditori concorsuali), essi sarebbero stati considerati come appartenenti per intero al fallito21. Inoltre22 secondo i fautori di questa tesi l’art 70 l. fall. non era in contrasto con la comunione legale, ma era integrativo della sua disciplina e perfettamente coerente con essa, infatti era possibile che, pur nella vigenza di tale regime, il coniuge dell’imprenditore utilizzasse denaro proveniente dal patrimonio personale del fallito per l’acquisto di beni che poi sarebbero caduti in comunione o sarebbero addirittura rientrati nel patrimonio personale di tale coniuge, sottraendoli dunque per metà o per intero alla garanzia patrimoniale dei creditori del coniuge fallito.

Qui le critiche provengono da più fronti. Intanto, l’art 70, pur inserito in una normativa di cui si sostiene la specialità, non può esimersi da un’interpretazione che tenga conto anche dei principi generali dei rapporti tra coniugi, su cui interferisce.

21

Tale tesi veniva avvalorata anche dalla considerazione del silenzio del legislatore nella l. 151/1975 come indicativo della volontà di tener ferma la presunzione, mentre invece va semplicemente considerato come una manifestazione neutra, che lascia all’interprete il compito di dedurre la compatibilità o meno tra fallimento e comunione.

22

In Tribunale di Brescia, 24 giugno 1988, op. cit. e in D. Fall. 1986, 250, Quatraro, op. cit.

(33)

33 Inoltre, il criterio di specialità presuppone proprio un contrasto tra due normative, in cui poi si riconosce come prevalente la norma ritenuta “speciale”, mentre la tesi in questione, se prima sostiene la natura speciale dell’art 70 l. fall. e quindi riconosce tale contrasto, poi punta a dimostrare la perfetta compatibilità delle due norme; nel far questo, non dà peso però all’ultima parte dell’art 179 lett f) cc (“purchè ciò sia espressamente dichiarato all’atto dell’acquisto”23), sostenendo che le formalità di tale inciso sono irrilevanti, ovvero si danno sempre per adempiute.

Ulteriore attenzione va data al 2° comma dell’art 189 cc, per il quale i creditori particolari di uno dei due coniugi possono soddisfarsi in via sussidiaria sui beni della comunione, fino al valore della quota del coniuge loro debitore, ma, se sono chirografari, vengono postergati rispetto ai creditori della comunione, e questo contrasta nettamente con l’operatività della presunzione muciana.

Da tutti questi argomenti si deduce l’inapplicabilità della presunzione muciana alla comunione legale, e quindi si avvalora la tesi per cui essa opera solo in presenza della separazione dei beni.

23

In mancanza di tale menzione, il bene viene imputato alla comunione, e i creditori possono esercitare le azioni a tutela della loro garanzia patrimoniale (art 2901 cc), mentre in caso di fallimento, il curatore può far dichiarare l’inefficacia di tale attribuzione, secondo le disposizioni previste dagli artt. 64 e 66 della l. fallimentare.

(34)

34 Un’ulteriore osservazione è che nella comunione legale non ha più nessuna rilevanza la provenienza del denaro utilizzato per l’acquisto di un bene, posto che comunque quest’ultimo verrà considerato di proprietà dei coniugi in parti uguali24, senza possibilità di prova contraria, mentre ciò non è vero nell’ambito della presunzione muciana, ma anzi, è il fondamento su cui essa si basa e per il quale è prevista la prova contraria.

Ed è proprio questo il punto di forza della tesi dell’incompatibilità tra i due istituti, infatti si ritiene impossibile che il fallimento possa acquisire, oltre alla quota del coniuge fallito, anche quella dell’altro coniuge, in base alla presunzione muciana (ovvero dimostrando che il bene è stato acquistato con denaro del fallito), quando invece il coniuge del fallito non può dimostrare il contrario (ovvero che il bene è stato acquistato con denaro suo), per sottrarre per intero il bene dal fallimento.

Ma c’è anche chi contrastava nettamente la sopravvivenza della presunzione muciana nell’ordinamento, infatti, se in giurisprudenza la permanenza di tale presunzione nel regime di separazione dei beni

24

Salvo quanto detto nel paragrafo precedente in riferimento ai beni personali e ai beni acquistati per l’esercizio dell’impresa (art 178 – 179 cc).

(35)

35 era pacifica25, lo stesso non si poteva dire in dottrina26; si pensi per esempio a chi sosteneva che la scelta del regime di separazione dei beni fosse sottesa a soddisfare l’esigenza di evitare la commistione dei patrimoni dei due coniugi e presupponesse dunque la proprietà esclusiva di uno dei due su un certo bene: qui la presunzione muciana si rivelerebbe sostanzialmente anacronistica, perché basata su un presupposto e tesa ad uno scopo totalmente contrari a quello appena menzionato.

Un ulteriore argomento degli “abrogazionisti”27, oltre al confronto con il nuovo diritto di famiglia, era dato dalla presunta incompatibilità dell’art 70 l. fall. con l’art 219, 2° comma cc, per il quale “I beni di cui nessuno dei coniugi può dimostrare la proprietà

esclusiva sono di proprietà indivisa per pari quota di entrambi i coniugi”, infatti per l’art 70 l. fall. i beni si presumono acquistati con

denaro del fallito e si considerano proprietà di lui, ritenendo necessaria la prova contraria da parte del coniuge che voglia essere riconosciuto unico proprietario dei beni in questione, mentre per l’art 219 cc i beni sono di proprietà di entrambi i coniugi se non se ne

25

Sent Cass. 15 gennaio 1990, n° 107 (in Fall. 1990, 592): “qualora risulti che un bene immobile sia stato acquistato in comproprietà tra due coniugi in regime di separazione dei beni nei cinque anni precedenti al fallimenti di uno di essi, sulla quota del coniuge non fallito si applica la presunzione di cui all’art 70 l. fall”.

26 Giur. It. 1990, I, 1, 1118.

27

Ragusa Maggiore Giuseppe, voce “presunzione muciana”, in Noviss. Dig. It., App., V, 1984, 1179, così come riportato in Giur It, op. cit.

(36)

36 dimostra la proprietà esclusiva; dunque qui si hanno due presunzioni totalmente opposte, infatti una prospetta, in caso di dubbio e salvo prova contraria, la comunione ordinaria come regola nei rapporti tra coniugi, mentre l’altra prospetta l’appartenenza al fallito del denaro usato per l’acquisto di un bene dall’altro coniuge, e la discriminante è il ruolo della prova contraria, che consiste sempre nel dimostrare che il bene è di proprietà esclusiva di un coniuge, ma che produce effetti diversi a seconda del contesto.

Ma era ancora troppo presto per un scelta così radicale, per cui prevalsero le tesi opposte28, basate sull’idea che l’art 70 l. fall. e l’art 219, 2° comma, cc operassero su due piani diversi, con presupposti e finalità estranei tra loro: la particolarità della ratio dell’art 70 l. fall. veniva rinvenuta proprio nel fatto che prevedesse un limite temporale alla sua operatività e nel fatto che non riguardasse la proprietà dei beni, essendo applicabile anche quando era certa l’appartenenza degli stessi al coniuge del fallito, ma mirasse ad affermare che i soldi utilizzati per l’acquisto di tale bene provenivano dal fallito, quindi tale bene veniva considerato proprietà di quest’ultimo ai soli fini dell’acquisizione alla massa fallimentare. L’art 219, 2° comma, cc invece riguardava la proprietà e serviva ad assicurare alle parti un trattamento paritario in ordine all’onere della

28

Per esempio, Biagio Grasso, Trattato di Diritto Privato, 1983, 543, UTET, così come riportato in Giut. It., op. cit.

(37)

37 prova del proprio diritto di proprietà, ovvero stabiliva un meccanismo probatorio utile per quei beni di cui era difficile accertare la provenienza, in quanto sarebbe stato iniquo fissare la presunzione di proprietà a favore di un coniuge o dell’altro; dunque tale articolo non esprimeva la volontà del legislatore di applicare la disciplina della comunione legale come ipotesi residuale in caso di mancanza di prova contraria da parte dei coniugi, per cui non contrastava con l’art 70 l. fall29.

2.3. L’abrogazione implicita della presunzione muciana.

La sentenza Cost. 29 giugno 1995, n° 286 e la sent

Cass. 29 dicembre 1995, n° 13149.

Con l’ordinanza del 23 settembre 1994, la Corte di Cassazione rimise alla Corte Costituzionale la questione della legittimità dell’art 70 l. fall. perché dubitava della sua compatibilità con il regime della separazione dei beni.

In particolare, la Cassazione dubitava della costituzionalità della presunzione per contrasto con:

(38)

38 1) L’artt. 3, 1° comma, 29 e 31, 1° comma, Cost. per irragionevolezza sopravvenuta dell’art 70 l. fall. nel quadro generale della nuova disciplina del diritto di famiglia, attuativo di valori costituzionali;

2) Lo stesso art. 3, 2° comma, Cost. per ulteriori aspetti di irragionevolezza riguardo a singoli istituti del nuovo diritto patrimoniale della famiglia;

3) L'art. 3, 1° comma, Cost. per disparità di trattamento tra le famiglie che hanno scelto il regime di separazione dei beni in relazione alle famiglie di fatto e, nell’ambito della famiglia legittima, a quelle che hanno optato per il regime di comunione legale.

4) Altri contrasti erano stati osservati rispetto all’art 31, 1° comma, Cost. nella parte in cui richiede misure per agevolare la famiglia, all’art 29 Cost., nella parte in cui fonda la famiglia sul matrimonio, e all’art 3, 1° comma, Cost. per il divieto di fare oggetto la famiglia di misure di sfavore.

La Corte qui analizzò ad una ad una le motivazioni addotte, ma concluse dicendo che il contrasto era sussistente tra norme dello stesso rango, perché le norme sul diritto di famiglia, pur attuando i principi costituzionali, “non partecipano tuttavia della stessa forza di questi principi”, quindi la soluzione di tale contrasto, non rientrando

(39)

39 nei poteri della Corte Costituzionale, doveva essere rimessa all'attività interpretativa del giudice ordinario.

Venne sottolineato poi che la riforma del diritto di famiglia, rifacendosi all’attuale realtà sociale, ha tra i suoi principi fondamentali quello dell’uguaglianza nella posizione di entrambi i coniugi, che esclude quindi la subordinazione economica di uno all'altro, e questo nella pratica si ravvisa in diverse norme tra cui l'art. 143 cc, con l'abolizione dell'istituto della dote e l'introduzione del regime legale della comunione dei beni.

D’altro canto, la Corte affermò espressamente di ritenere ormai superata la presunzione muciana, essendo venuto meno il fondamento socio – economico di quella disparità tra coniugi che la giustificava nel passato ed essendo stato superato il principio dell'indissolubilità giuridica del matrimonio, ma anzi sostenne che tale presunzione andasse ad indebolire l’affidamento sull’altro coniuge, portando da una parte al disfavore verso la scelta di contrarre matrimonio e, dall’altro, all’intestazione dei beni ai figli o ad altri parenti per sviarli dal proprio patrimonio.

Si sottolineava inoltre la difficoltà di conciliare la presunzione muciana, applicabile ormai al regime di separazione dei beni, con l’art 193 cc30, il quale, in caso di dissesto finanziario di un coniuge,

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40 permette all’altro coniuge di passare dalla comunione alla separazione dei beni, per non veder coinvolto il proprio patrimonio; questa norma mira chiaramente a proteggere il coniuge che non si trovi in difficoltà economiche, ma se venisse applicata la presunzione muciana tale finalità verrebbe totalmente sconvolta, in quanto il coniuge in bonis si vedrebbe aggredire la totalità degli acquisti effettuati e non solo la metà (in base ai principi generali della comunione legale), quindi paradossalmente sarebbe più conveniente rimanere in comunione dei beni invece di ricorrere all’art 193 cc. Mi sembra emblematica questa frase di Giacalone31: “In sostanza il legislatore avrebbe indicato al coniuge legittimamente preoccupato del disordine degli affari dell'altro coniuge imprenditore un'ancora di salvataggio per via giudiziaria tale da comportare, nei limiti temporali suddetti, il suo totale coinvolgimento”.

La separazione giudiziale dei beni può essere pronunziata in caso di interdizione o di inabilitazione di uno dei coniugi o di cattiva amministrazione della comunione. Può altresì essere pronunziata quando il disordine degli affari di uno dei coniugi o la condotta da questi tenuta nell'amministrazione dei beni mette in pericolo gli interessi dell'altro o della comunione o della famiglia, oppure quando uno dei coniugi non contribuisce ai bisogni di questa in misura proporzionale alle proprie sostanze e capacità di lavoro [148].

La separazione può essere chiesta da uno dei coniugi o dal suo legale rappresentante.

La sentenza che pronunzia la separazione retroagisce al giorno in cui è stata proposta la domanda ed ha l'effetto di instaurare il regime di separazione dei beni regolato nella sezione V del presente capo, salvi i diritti dei terzi.

La sentenza è annotata a margine dell'atto di matrimonio e sull'originale delle convenzioni matrimoniali”.

31

Giovanni Giacalone, “Inapplicabilità della presunzione muciana ai coniugi in regime di separazione dei beni”, in Giust. civ., 9, 1997, 2093.

(41)

41 In conclusione, la Corte Costituzionale suggeriva implicitamente l’abrogazione dell’art 70 l. fall., ma si esimeva dall’intervenire, lasciando tutto in mano alla Corte di Cassazione, anche se una sentenza di incostituzionalità avrebbe potuto avere due vantaggi32:

1) Si sarebbe potuto evitare la totale eliminazione dell’art 70 l. fall., andando a colpire solo la parte di esso non conciliabile con i nuovi assetti socio – economici e legislativi e assicurando la sopravvivenza dell'effetto surrogatorio, che permetteva il recupero all'attivo fallimentare del bene acquistato e non solo del denaro impiegato per l’acquisto (così come avviene nel sistema francese).

2) La decisione avrebbe avuto certezza e definitività, cosa che una sentenza della Corte di Cassazione non ha, per cui la questione non può dirsi chiusa, anche se comunque difficilmente sarà rimessa in discussione, visto che la Cassazione nella sua sentenza si avvale anche delle affermazioni contenute nella sentenza costituzionale.

La Cassazione, davanti a questa incostituzionalità non accertata, ma neppure esclusa, e a questo “invito” a provvedere, rivide la sua

32

(42)

42 posizione sulla presunzione muciana e giunse alla sentenza 29 dicembre 1995, n° 1314933, con cui considerò implicitamente abrogata tale presunzione in relazione a qualunque regime patrimoniale, ribaltando completamente la precedente decisione e travolgendo la presunzione muciana poiché in contrasto con l’intricata rete di principi posta in essere dalla riforma del diritto di famiglia in applicazione del dettato costituzionale.

In tale sentenza si osserva che nel regime della comunione legale, l’imputazione della proprietà dei beni si basa sulla valorizzazione del lavoro di entrambi, anche se svolto “tra le mura domestiche, e quindi non tradotto in una concreta disponibilità pecuniaria”; tale principio è facilmente rinvenibile anche nella separazione dei beni, in cui la proprietà esclusiva di un bene da parte del coniuge riflette la sua autonomia e la sua capacità in ambito lavorativo, oltre al fatto che sono i coniugi a sceglierlo espressamente, palesando la volontà di tenere separati i due patrimoni.

Questo assetto viene ribadito anche nell’art 143 cc, in cui si dice che ogni coniuge deve contribuire ai bisogni della famiglia in relazione

33

Confermata e ribadita per esempio anche in Cass, , 12 giugno 1997, n. 5291, in Giust. Civ. 1997, I, 2093.

(43)

43 alle proprie sostanze e alle proprie capacità di lavoro professionale o casalingo, senza preferire o pretermettere un coniuge all’altro.34 A seguito dell'estensione dell'inapplicabilità dell'art. 70 l. fall. anche all'ipotesi di separazione dei beni, nessuno spazio rimaneva per la presunzione muciana, quindi nessuna presunzione operava verso gli acquisti compiuti dal coniuge del fallito nei cinque anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento; se ne deduce che d’ora in poi l’onere della prova non graverà più sul coniuge in bonis, ma sul curatore, in rappresentanza dei creditori del coniuge fallito, il quale dovrà dimostrare l’eventuale provenienza del denaro dal patrimonio di quest’ultimo e che avrà a disposizione gli strumenti generali di revocazione degli atti compiuti dal fallito dai quali risultino

34

Alberto Figone, in Fall., 1999, 1, 82, “Fine della presunzione muciana e regime dell’accessione”; nel testo si analizza la questione in relazione al regime dell’accessione (art 934 cc), e in particolare si affronta il problema della titolarità della costruzione realizzata dai coniugi in regime di comunione legale sul terreno di esclusiva proprietà di uno di loro. La Cassazione è unanime nell’affermare che l’edificio non rientri nella comunione, ma rimanga di proprietà esclusiva del titolare del terreno, quindi non viene prospettata una deroga dell’art 934 cc in virtù del fatto che nella comunione possono rientrare anche acquisti a titolo originario, tranne nel caso in cui non ci sia un’espressa pattuizione che attribuisca al coniuge il diritto di superficie.

Si precisa poi che la tutela del coniuge non proprietario si realizza non sul piano del diritto reale (e quindi attribuendo il diritto di proprietà), ma sul piano del diritto obbligatorio, cioè attribuendo un diritto di credito relativo alla metà del valore dei materiali e della manodopera utilizzati nella costruzione, cosa che può causare qualche problema se per esempio i materiali sono stati acquistati con denaro facente parte del patrimonio personale.

Tale orientamento comunque non è stato scalfito dall’implicita abrogazione dell’art 70 l. fall. perché i due istituti operano su piani diversi, dunque la curatela fallimentare non avrebbe mai potuto ritenere oggetto della comunione la casa costruita sul fondo di proprietà di uno dei due coniugi.

(44)

44 indebitamente diminuite le garanzie patrimoniali dei creditori (artt. 64 e 66 l. fall.; art. 2901 cc).

Alcuni35 però criticano questo ultimo aspetto, per il fatto che ci si è sempre e solo preoccupati degli effetti della presunzione muciana sui rapporti patrimoniali della famiglia, tutelando autonomia ed uguaglianza dei coniugi, in quanto si riteneva gravosa la prova a carico del coniuge del fallito; si è sempre trascurato invece l’interesse dei creditori di non veder depauperato il patrimonio del coniuge fallito a seguito dell’acquisto da parte di quest’ultimo di beni con proprie liquidità e successiva intestazione all’altro coniuge, e questo in base al fatto che in ogni caso i creditori avrebbero avuto mezzi adeguati per contrastare un’eventuale frode (art 64 e 66 l. fall. e art 2901 cc).

Ed è vero che tali mezzi esistono, ma non garantiscono il livello di protezione che garantiva la presunzione muciana, infatti ora la situazione si è ribaltata: se prima era il coniuge a doversi cimentare in quella che poteva essere considerata una probatio (quasi) diabolica, ora sono i creditori che, a seconda del mezzo prescelto, devono dimostrare o che l’atto consiste in una donazione indiretta, ricadendo nell’art 64 l. fall. (se compiuto nei due anni prima del fallimento),

35

Gabriella Iermano, “La Cassazione dichiara abrogata la presunzione muciana”, in Banca borsa tit. cred., 5, 2000, 486.

(45)

45 oppure che il denaro proviene dal fallito (tanto difficile nell’art 64 che nell’art 66 l. fall), oppure, ancora, che l’atto era preordinato a frodare i creditori e che c’è stata interposizione fittizia di persona, se si decide di ricorrere all’azione ex art 2901 cc.

Ma non solo. La presunzione muciana, oltre ad attribuire al coniuge l’onere di dimostrare la provenienza del denaro, permetteva al curatore fallimentare di apprendere alla massa fallimentare il bene del coniuge del fallito come semplice effetto della sentenza dichiarativa di fallimento, considerando tale bene come se fosse del fallito e producendo quindi un effetto immediato.

Con il venir meno della presunzione invece, i creditori, per poter acquisire direttamente il bene, devono dimostrare che l’acquisto è stato effettuato con denaro del fallito, per suo conto, e che c’è stata interposizione fittizia di persona, altrimenti hanno solo un diritto di credito sulla somma utilizzata per l’acquisto; questo assetto fa pensare che, nel perseguimento dell’uguaglianza tra coniugi, non si sia tenuto conto di altri aspetti e si sia dunque dato un mezzo al coniuge fallito di distrarre in modo relativamente semplice alcuni beni dal suo patrimonio.

Questo non avviene per esempio nell’ordinamento francese, dove la norma è stata abrogata con l. 13 luglio 1967, n° 563, togliendo vigore all’art 542 c. comm., ma dove si è mantenuto l’effetto recuperatorio,

(46)

46 per cui i creditori, a seguito della prova dell’appartenenza al patrimonio del fallito del denaro utilizzato per l’acquisto di un certo bene, potranno acquisire quest’ultimo alla massa fallimentare.

2.4. La riforma della legge fallimentare e l’abrogazione

espressa dell’art 70 l. fall.

In conclusione, merita un accenno la riforma fallimentare, che ha definitivamente ed espressamente espunto la presunzione muciana dall’ordinamento, ad opera del d.l. 14 marzo 2005, n° 35 (c.d. “decreto competitività”), convertito con l. 14 maggio 2005, n. 8036, che ha sostituito l’originario art 70 l. fall. con uno riguardante un argomento totalmente differente, ovvero gli effetti della revocazione in casi particolari:

“Art 70. Effetti della revocazione.

La revocatoria dei pagamenti avvenuti tramite intermediari specializzati, procedure di compensazione multilaterale o dalle società previste dall’ articolo 1 della legge 23 novembre 1939,

36 Nonostante l’abrogazione prima implicita e poi esplicita, la questione sulla

presunzione muciana è stata riproposta più volte, come per esempio in sent Cass, 11 febbraio 2000, n° 1501 (in Fall., 2001, 167) e sent Cass, 3 marzo 2006, n° 4701 (Giustizia Civile Massimario 2006).

(47)

47

n. 1966, si esercita e produce effetti nei confronti del destinatario della prestazione.

Colui che, per effetto della revoca prevista dalle disposizioni precedenti, ha restituito quanto aveva ricevuto è ammesso al passivo fallimentare per il suo eventuale credito.

Qualora la revoca abbia ad oggetto atti estintivi di *(posizioni

passive derivanti da rapporti di conto corrente bancario o comunque)37 rapporti continuativi o reiterati, il terzo deve restituire una somma pari alla differenza tra l’ammontare massimo raggiunto dalle sue pretese, nel periodo per il quale è provata la conoscenza dello stato d’insolvenza, e l’ammontare residuo delle stesse, alla data in cui si è aperto il concorso. Resta salvo il diritto del convenuto d’insinuare al passivo un credito d’importo corrispondente a quanto restituito”.

Ad oggi dunque, l’unico articolo della legge fallimentare che riguarda i coniugi è l’art 69, che sarà oggetto di analisi nel prossimo paragrafo.

(48)

48

3. L’articolo 69 l. fall. e la sent Cost. 19 marzo 1993, n°

100.

L’originario art 69 l. fall. disponeva:

“Art 69. Atti compiuti tra coniugi.

Gli atti previsti dall'art. 67, compiuti tra coniugi nel tempo in cui il fallito esercitava una impresa commerciale, sono revocati se il coniuge non prova che ignorava lo stato d'insolvenza del coniuge fallito.

Se il marito esercitava un'impresa commerciale al tempo della celebrazione del matrimonio o se ha iniziato l'esercizio di un'impresa commerciale nell'anno successivo, l'ipoteca legale per la dote della moglie non si estende ai beni pervenuti al marito durante il matrimonio per titolo diverso da quello di successione o donazione.

Nei casi suddetti la moglie non può esercitare nel fallimento alcuna azione per i vantaggi derivanti a suo favore dal contratto di matrimonio e i creditori non possono valersi dei vantaggi derivanti dallo stesso contratto a favore del marito”.

(49)

49 L’articolo in questione è stato oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale, su investitura del Tribunale di Cassino, 23 marzo 1992, il quale sosteneva che, non sussistendo più il divieto di donazione tra coniugi, a seguito dell’abrogazione dell’art 781 cc ad opera della sent Cost. 27 giugno 1973, n° 91, si era creata una lacuna nella disciplina fallimentare; infatti, mentre le donazioni fra coniugi compiute nei due anni anteriori al fallimento rientravano sotto l’art 64 l. fall. e quindi potevano essere dichiarate inefficaci, quelle compiute in epoca più remota non risultavano regolate in nessun modo, facendo sorgere problemi di irragionevolezza e disparità di trattamento. Si continuava dicendo che se si fosse applicata la revocatoria ordinaria (art 2901 cc) a quest’ultima fattispecie, e più in generale agli atti a titolo gratuito compiuti oltre il biennio dal fallimento, si sarebbe avuta un’incongruenza, sotto il profilo sia dell’onere probatorio che della prescrizione, rispetto agli atti a titolo oneroso, a cui si applica l’art 69 l. fall., infatti la disciplina della revocatoria ordinaria è più gravosa rispetto alla disciplina di quella fallimentare e la sua prescrizione decorre dal compimento dell’atto e non dalla dichiarazione di fallimento; si concludeva dicendo che era in ogni caso da escludere la possibilità di estendere per analogia l’art 69 l. fall. agli atti a titolo gratuito ultrabiennali, dato il divieto di

(50)

50 applicazione analogica di una norma contenente una presunzione legale.

La Corte costituzionale, considerando preliminarmente le varie soluzioni prospettate sia in giurisprudenza che in dottrina (chi a favore dell’applicazione dell’art 2901 cc, chi a favore dell’applicazione dell’art 69 l. fall. per interpretazione estensiva o analogia), concluse con il dire che nessuna delle suddette è praticabile, e quindi l’unica cosa possibile da fare era stabilire che:

“È costituzionalmente illegittimo - per contrasto con l'art. 3

cost. - l'art. 69 r.d. 16 marzo 1942 n. 267, legge fallimentare, nella parte in cui non comprende nel proprio ambito di applicazione, ai fini dell'azione revocatoria fallimentare, gli atti a titolo gratuito compiuti tra coniugi più di due anni prima della dichiarazione di fallimento, ma nel tempo in cui il fallito esercitava un'impresa commerciale”38.

A seguito di questa sentenza, il sistema era così delineato:

1) Gli atti a titolo oneroso compiuti quando il fallito esercitava un’impresa commerciale rimangono (ovviamente) disciplinati dall’art 69 l. fall., quindi erano revocabili a meno che il coniuge non dimostrasse che ignorava lo stato di insolvenza o

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