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Il valore probatorio delle dichiarazioni irripetibili

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Academic year: 2021

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UNIVERSITÀ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

IL VALORE PROBATORIO DELLE

DICHIARAZIONI IRRIPETIBILI

Candidata: Relatore:

Giulia Antonelli Enrico Marzaduri

(2)

Ai miei genitori Giuseppe e Silvia e a mio fratello Lorenzo

(3)
(4)

INDICE SOMMARIO

Pag.

INTRODUZIONE …... 1

Capitolo I

FORMAZIONE DELLA PROVA : PRINCIPI

GENERALI TRA SISTEMA INQUISITORIO E

SISTEMA ACCUSATORIO

1.1. Premessa generale …... 7 1.2. Il processo: scopo, tema e strumentalità rispetto al diritto

sostanziale …... 9 1.3. Tipologie di processo penale: tra modello inquisitorio e

modello accusatorio …... 12 1.4. Il codice di procedura penale del 1930 e la svolta di

stampo inquisitorio …... 14 1.4.1. Il dopoguerra: le riforme al codice del 1930

successive all'entrata in vigore della Costituzione …... 16 1.5. La svolta accusatoria: il passaggio al codice di procedura

penale del 1988 …... 19 1.5.1. I principi ispiratori del nuovo codice di rito …... 21 1.6. Il principio del contraddittorio: le alterne stagioni negli

(5)

1.6.1. Contraddittorio “debole” e contraddittorio “forte”

…... 32

1.6.2. Il contraddittorio “oggettivo” …... 33

1.6.3. Il contraddittorio “soggettivo” …... 36

1.7. Le eccezioni al principio del contraddittorio …... 39

1.7.1. L'accertata impossibilità di natura oggettiva …... 41

Capitolo II

LA LETTURA DELLE DICHIARAZIONI

IRRIPETIBILI ALLA LUCE DELLA

DISCIPLINA CODICISTICA

2.1. Premessa generale …... 47

2.2. Introduzione alla categoria della irripetibilità nel sistema penale processuale …... 48

2.3. Lettura di atti per sopravvenuta impossibilità di ripetizione: art. 512 c.p.p. …... 57

2.3.1. La sopravvenuta impossibilità di ripetizione …... 61

2.3.2. L'imprevedibilità dell'evento impeditivo …... 66

2.3.3. Morte, infermità, irreperibilità del dichiarante: i casi di sopravvenuta impossibilità di ripetizione …... 71

2.4. L'esercizio tardivo della facoltà di astensione da parte del prossimo congiunto dell'imputato …... 85

2.5. Lettura di dichiarazioni rese da persona residente all'estero: art. 512 bis c.p.p. …... 92

2.5.1. L'irreperibilità del dichiarante residente all'estero: la sentenza De Francesco delle Sezioni Unite della Cassazione n. 27918 del 25 novembre 2010 …... 100

(6)

2.6. Cenni alla lettura delle dichiarazioni degli imputati in procedimenti connessi o collegati: art. 513, comma 2, c.p.p. …... 103

Capitolo III

L'IMPIEGO PROBATORIO CONTRA REUM

DELLE DICHIARAZIONI IRRIPETIBILI

NELLA GIURISPRUDENZA DELLA CORTE

E.D.U.

3.1. Premessa generale …... 106 3.2. L'art. 6, par. 3, lett. d) della Convenzione europea dei

diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali: il diritto di esaminare o far esaminare i testimoni …... 109 3.3. Il precedente orientamento espresso dalla Corte europea

in materia di utilizzabilità di dichiarazioni raccolte in carenza di contraddittorio: la c.d. sole or decisive rule …... 113 3.3.1. I leading cases Bracci e Majadallah c. Italia …... 117 3.3.2. Gli ulteriori elementi disponibili a sostegno

dell'accusa e la loro relazione con le dichiarazioni raccolte unilateralmente …... 121 3.4. Il temperamento della c.d. sole or decisive rule: la

sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito …... 125 3.4.1. Il “nuovo corso” della giurisprudenza europea

avviato dalla sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito: innovazione o continuità con il passato? …... 131 3.4.2. Gli sviluppi successivi del nuovo orientamento

(7)

3.4.3. La sentenza Schatschaschwili c. Germania del

dicembre 2015 …... 136

3.5. Cenni a pronunce del 2017 …... 141

Capitolo IV

CONSIDERAZIONI CONCLUSIVE.

DISCIPLINA NAZIONALE E STANDARD

EUROPEI : IL PROGRESSIVO

ALLINEAMENTO DELLE CORTI

4.1. Premessa generale …... 145

4.2. La giurisprudenza di legittimità prospetta una interpretazione adeguatrice alle norme costituzionali e convenzionali …... 147

4.3. La sentenza De Francesco n. 27918 del 2010 …... 150

4.4. Gli sviluppi più recenti …... 157

(8)

INTRODUZIONE

L'analisi che verrà di seguito effettuata si propone di affrontare, senza pretese di esaustività, la questione relativa alla sopravvenuta impossibilità di ripetizione della prova dichiarativa nel processo penale, sotto il duplice profilo della sua utilizzabilità dibattimentale e del suo valore probatorio ai fini della decisione di merito.

La questione problematica, sulla quale a lungo si è dibattuto in sede processuale penale, non solo sul piano nazionale, bensì anche in ambito sovranazionale, trae origine dal fatto che non vi è un rapporto di stretta corrispondenza tra l'utilizzabilità, a fini decisori, di materiale conoscitivo raccolto in assenza di dialetticità, con conseguente violazione del principio del contraddittorio nella formazione della prova, ed il riconoscimento ad esso di pieno valore probatorio ai fini dell'accertamento del fatto. In altri termini, secondo le indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo, la facoltà di eludere l'impermeabilità del giudizio rispetto a materiale raccolto in carenza di contraddittorio, consentendo l'immissione di dichiarazioni predibattimentali nel patrimonio conoscitivo utilizzabile ai fini decisori, pur essendo legittimamente prevista dall'ordinamento nazionale, non autorizza di per sé ad attribuire sempre e comunque a tali risultanze pieno valore di prova ai fini dell'attribuzione della responsabilità penale. Con ciò non si vuol dire che tale materiale dichiarativo sia irrilevante ai fini di una pronuncia di condanna. Semplicemente, si tratta di attribuire a tali dichiarazioni il giusto “peso” nella dinamica processuale.

La disamina prende così avvio da un inquadramento costituzionale della questione. L'attenzione è ai principi ispiratori del codice di rito del 1988, in modo particolare all'art. 111 Cost., nel nuovo testo

(9)

risultante dalla riforma sul giusto processo intervenuta ad opera della legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999.

La disciplina costituzionale in tema di prova dichiarativa rinviene il suo fondamento nella relazione fra la previsione di una regola generale e la determinazione relativamente ad essa di tassative eccezioni. Il comma 4, primo periodo, dell'art. 111 Cost. attribuisce valenza costituzionale al principio del contraddittorio nella sua accezione “oggettiva”, quale miglior metodo per la formazione della prova: la tecnica adversary, il cui luogo privilegiato è la fase dibattimentale, costituisce il metodo più accreditato nella ricostruzione della verità processuale. Un principio, tuttavia, che non è suscettibile di un'applicazione incondizionata. Il comma 5 della medesima disposizione prevede, infatti, un novero di eccezioni alla dialettica processuale, le quali, mitigando il carattere assoluto della funzione cognitiva del contraddittorio, consentono di fronteggiare quelle situazioni in cui essa risulti impossibile o difficoltosa da attuare, evitando così un ingiustificato pregiudizio per le esigenze accertative del processo penale.

Ciò che occorre mettere in rilievo, come anticipato poc'anzi, è il fatto che la previsione della facoltà di derogare alla regola del contraddittorio, pur prevista dalle norme di legge nazionali, non si traduce nella possibilità di fondare sistematicamente l'attribuzione della responsabilità penale sulla base delle dichiarazioni rilasciate, nella fase antecedente al giudizio, da un teste del quale è divenuto successivamente impossibile l'esame dibattimentale. Il testo costituzionale non predetermina in maniera rigida la vis probatoria del materiale conoscitivo carente dal punto di vista dialettico, accordando dunque, sotto questo profilo, un notevole potere discrezionale in capo al legislatore ordinario.

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alla luce della vigente disciplina codicistica.

Il codice di procedura penale, conformemente a quanto previsto dalla nostra Carta costituzionale, si ispira ai principi di oralità e contraddittorio dibattimentali, accordando il crisma di prova solo agli atti formatisi nel rispetto di tali criteri. Si deve tener conto, tuttavia, che una rigida applicazione dei suddetti principi direttivi presenta il rischio di andare a detrimento della funzione accertativa del processo penale. Di qui, al fine di evitare la perdita di materiale conoscitivo che potrebbe rivelarsi utile per la ricostruzione della verità processuale e per il conseguente accertamento della responsabilità penale, la previsione di appositi meccanismi strumentali al recupero dibattimentale di atti originatisi nel corso delle indagini preliminari.

Centrale, in quest'ottica, è l'art. 512 c.p.p. Inserendosi nel solco delle deroghe al principio dialettico consentite dalla Costituzione, la disposizione normativa in parola legittima, per il tramite del meccanismo della lettura e in ossequio a determinati presupposti di operatività, quali la sopravvenuta impossibilità di ripetizione dell'atto e l'imprevedibilità dell'evento che ne sta all'origine, l'acquisizione al fascicolo per il dibattimento di atti assunti dalla polizia giudiziaria, dal pubblico ministero, dai difensori delle parti private e dal giudice nella fase predibattimentale ed irripetibili in sede di giudizio.

Mentre non trova attuazione, in forza della sentenza n. 440 del 2000, per il caso di dichiarazioni rese in precedenza dai prossimi congiunti dell'imputato che in dibattimento si avvalgano della facoltà di astenersi dal deporre a norma dell'art. 199 c.p.p., il meccanismo della lettura acquisitiva riguarda, invece, anche l'ipotesi delle dichiarazioni rese da persona residente all'estero. La disposizione interessata è l'art. 512 bis, relativamente alla quale è intervenuto un importante contributo ad opera della giurisprudenza di legittimità, la quale ne ha precisato i presupposti applicativi, affermando che la

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lettura è consentita solo allorquando vi sia una effettiva e valida notificazione della citazione del teste, una assoluta ed oggettiva impossibilità dell'esame dibattimentale ed un infruttuoso tentativo di procedere all'escussione per il tramite di una rogatoria internazionale.

A questo punto dell'esposizione, occorre compiere un passo ulteriore. Diviene necessario valutare la gestione del sapere del testimone assente nell'ambito di una visuale più ampia rispetto a quella meramente nazionale, prendendo atto dell'esistenza, accanto ai principi italiani, sia costituzionali che codicistici, dei criteri sanciti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Alla luce del principio di equità processuale e del diritto al confronto, quali risultano sanciti dall'art. 6, parr. 1 e 3, lett. d) della Cedu, si deve prendere in esame l'orientamento espresso a livello europeo in materia di utilizzabilità contra reum di deposizioni raccolte unilateralmente nella fase antecedente al giudizio e non sottoposte successivamente al necessario confronto, passando in rassegna plurime pronunce in materia provenienti dalla Corte di Strasburgo.

Partendo dalla massima per cui le dichiarazioni destinate ad un impiego determinante ai fini decisori devono essere rese in un'udienza pubblica, alla presenza dell'imputato, in vista di un confronto nel rispetto del metodo del contraddittorio, la Corte di Strasburgo non esclude aprioristicamente l'utilizzabilità dibattimentale di materiale conoscitivo formatosi nelle indagini preliminari, a condizione che siano rispettati i diritti della difesa.

Ripercorrendo le varie pronunce in materia, tra le quali spiccano i casi Bracci e Majadallah c. Italia, la Corte europea dei diritti dell'uomo si è attestata inizialmente sull'orientamento in virtù del quale la vis probatoria delle dichiarazioni predibattimentali varia a seconda della concreta attuazione del diritto al confronto. Così, si ammette che la testimonianza raccolta in assenza di dialettica possa costituire il

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fondamento determinante di un giudizio di condanna laddove all'imputato sia stata concessa un'occasione “adeguata e sufficiente” di contestarne il contenuto, al momento della deposizione o successivamente; in caso contrario, essa finisce per acquisire un ruolo marginale, essendogli preclusa, ai fini del rispetto dell'art. 6 Cedu, la possibilità di fondare in modo esclusivo o determinante la sentenza di condanna, dovendo infatti corroborare altri elementi di prova aventi valore decisivo.

Un'impostazione, quest'ultima, che è stata successivamente in parte mitigata dalla sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, laddove la Grande Camera sembra “abbassare la guardia”, giungendo ad affermare che l'eventuale deviazione dal right to confrontation, basilare principio del giusto processo, “not automatically result in a

breach of art. 6, § 1, of the Convention”, essendo necessario guardare

all'equità complessiva della procedura: in tal senso, diviene ammissibile fondare un giudizio di condanna sulla dichiarazione del testimone assente, quale elemento esclusivo o determinante, purché sussistano forti fattori di bilanciamento (“strong counterbalancing

factors”), idonei a compensare la compressione del diritto di difesa.

A conferma di questa impostazione gli sviluppi più recenti, tra i quali merita citare la sentenza Schatschaschwili c. Germania, in occasione della quale la Grande Camera ha proceduto ad effettuare alcune puntualizzazioni in ordine al c.d. “Al-Khawaja test”.

L'intera disamina rinviene, in definitiva, il suo punto di approdo finale nella necessità di sottoporre al vaglio la compatibilità della disciplina nazionale rispetto al quadro sovranazionale di riferimento.

E' ormai acclarato che la problematica concerne non il versante dell'utilizzabilità della prova dichiarativa resa in carenza di contraddittorio, bensì quello dei parametri per la sua valutazione, affinché possa fungere da base per una dichiarazione di colpevolezza.

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Ebbene, in virtù di una interpretazione convenzionalmente orientata, sulla quale si è progressivamente assestata nel corso del tempo la Corte di cassazione, quest'ultima ha ritenuto di accogliere regole di giudizio analoghe a quelle provenienti dal panorama europeo, con il risultato di integrare le garanzie previste dall'ordinamento nazionale coi principi sanciti dalla Corte di Strasburgo.

E così, ripercorrendo sommariamente gli orientamenti emergenti da alcune pronunce in materia, si è stabilito, dapprima, che gli elementi di prova raccolti in carenza di contraddittorio non possono, da soli, fondare in maniera esclusiva o determinante un giudizio di condanna. Accogliendo criteri valutativi analoghi a quelli posti dalla norma convenzionale, si è stabilita la necessità di esaminare le dichiarazioni acquisite in assenza di contraddittorio congiuntamente ad altri elementi di riscontro. Successivamente, il “nuovo corso” avviato dalla citata sentenza Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, ha indotto ad affermare il carattere non assoluto di tale principio. Fino poi a rinvenire un ulteriore punto di contatto tra l'ambito nazionale e quello europeo nel carattere dell'imprevedibilità della futura assenza dibattimentale del testimone quale elemento legittimante l'utilizzo determinante delle dichiarazioni predibattimentali.

In definitiva, alla luce di un “dialogo” tra il giudice europeo e il giudice nazionale, è dato riscontrare un costante e progressivo allineamento del Supremo Collegio alle indicazioni provenienti dalla Corte di Strasburgo. L'impressione è quella di un apprezzabile avvicinamento al tipo di giudizio effettuato dalla Corte europea, orientandosi la Corte interna verso l'analisi del “peso” che le dichiarazioni non sottoposte al contraddittorio hanno avuto ai fini della decisione.

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Capitolo I

FORMAZIONE DELLA PROVA : PRINCIPI

GENERALI TRA SISTEMA INQUISITORIO E

SISTEMA ACCUSATORIO

SOMMARIO: 1.1. Premessa generale. – 1.2. Il processo: scopo, tema e strumentalità rispetto al diritto sostanziale. – 1.3. Tipologie di processo penale: tra modello inquisitorio e modello accusatorio. – 1.4. Il codice di procedura penale del 1930 e la svolta di stampo inquisitorio. – 1.4.1. Il dopoguerra: le riforme al codice del 1930 successive all'entrata in vigore della Costituzione. – 1.5. La svolta accusatoria: il passaggio al codice di procedura penale del 1988. – 1.5.1. I principi ispiratori del nuovo codice di rito. – 1.6. Il principio del contraddittorio: le alterne stagioni negli anni successivi al 1988. – 1.6.1. Contraddittorio “debole” e contraddittorio “forte”. – 1.6.2. Il contraddittorio “oggettivo”. – 1.6.3. Il contraddittorio “soggettivo”. – 1.7. Le eccezioni al principio del contraddittorio. – 1.7.1. L'accertata impossibilità di natura oggettiva.

1.1. Premessa generale.

La legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999 ha introdotto all'interno dell'art. 111 Cost. i principi del giusto processo.

«La giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». Così esordisce la menzionata disposizione costituzionale, la quale fa ricorso ad una formula, quella di “giusto processo”, con cui da tempo la dottrina aveva cercato di rendere in italiano le espressioni utilizzate dalla Convenzione di Roma, «fair trial» e «procès

équitable»1.

1 E. MARZADURI, Commento all'art. 1, l. cost. 23 novembre 1999, n. 2, in Legisl.

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Una locuzione che rappresenta il collante tra le varie garanzie, afferenti al processo, poste dall'ulteriore tessuto della norma2.

Tra i principi che informano il giusto processo si collocano i principi di oralità, immediatezza e contraddittorio.

Il principio di oralità risulta soddisfatto quando le parti, nel corso dell'esame incrociato, sono poste in condizione di porre domande ed ottenere risposte a viva voce dal dichiarante.

Il principio di immediatezza comporta un rapporto diretto tra assunzione della prova e decisione di condanna o assoluzione. Ciò implica, in primo luogo, l'identità fisica tra il giudice che adotta la decisione ed il giudice innanzi al quale si svolge il dibattimento e, in secondo luogo, il fondamento della decisione sulle prove acquisite in tale fase.

Il contraddittorio è il metodo che consente di attuare, in forma dialogica, la dialettica processuale nella formazione della prova, intesa come la migliore forma di conoscenza. E' il metodo per confirmazioni e confutazioni, che consente di testare la correttezza di una tesi e di confutare la tesi avversa. Ed è in questo alternarsi di confirmazioni e confutazioni, che si fronteggiano dialogicamente innanzi all'autorità giudiziaria, che quest'ultima perverrà alla soluzione del caso concreto: solo udite entrambe le parti il giudice potrà decidere e la sua decisione risulterà corretta ed equa. Si usa dire, il contraddittorio è il processo3.

I suddetti principi sono strumentali al miglior accertamento possibile della verità. E tuttavia, nella realtà, non sempre è possibile assicurare ad essi piena attuazione. Di qui, la necessità di introdurre alcune eccezioni, che siano comunque idonee a garantire una corretta ricostruzione dei fatti: a tale esigenza sopperisce il nuovo comma 5

2 G. FIANDACA, G. DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale. Per una

lettura costituzionalmente orientata, Jovene Editore, Napoli, 2003, p. 333.

3 S.C. SAGNOTTI, Il contraddittorio: una riflessione filosofico-giuridica, in AA. VV., Processo penale e Costituzione, a cura di F.R. Dinacci, Giuffrè, Milano, 2010, p. 338-339.

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dell'art. 111 Cost., che individua le ipotesi eccezionali nelle quali è possibile rinunciare al contraddittorio nella formazione della prova.

1.2. Il processo: scopo, tema e strumentalità rispetto al

diritto sostanziale.

Il processo costituisce un valore positivo di per sé, quale strumento specifico per il conseguimento della giustizia, attraverso un metodo di concretizzazione del comando normativo4.

Nel linguaggio giuridico rileva la distinzione tra procedimento e processo. Il termine procedimento è utilizzato in una duplice accezione. Una di carattere generale, che abbraccia l'intero dipanarsi della sequenza ordinaria in tre fasi del primo grado di giudizio, così che il processo diviene una species del genus procedimento. Ed una di carattere più ristretto, che vede l'uso del termine procedimento in contrapposizione all'uso del termine processo. In quest'ultimo senso, il procedimento denota la fase che si colloca tra l'iscrizione della notizia di reato e l'imputazione: corrisponde pertanto alle indagini preliminari. Il processo designa invece la sequenza di atti, organizzati secondo forme e cadenze che determinano il modello processuale, che hanno origine dall'imputazione e si concludono con la sentenza irrevocabile, che assolve o condanna l'imputato.

La condanna del colpevole e l'assoluzione dell'innocente è la finalità ideale perseguita dal processo penale: un esito tuttavia che, in nessun caso, stante la fallibilità di ogni mezzo di ricostruzione dei fatti, può essere raggiunto in termini di certezza assoluta. Di qui, l'affermazione secondo la quale il processo penale rappresenta un buon esempio di giustizia procedurale “imperfetta”5, ovvero incapace di

4 In tal senso A. BARGI, Cultura del processo e concezione della prova, in AA. VV., La prova penale, a cura di A. Gaito, Vol. 1, Utet, Torino, 2008, p. 19. 5 Per poter qualificare come “giusto” il processo penale, è necessario che questo sia

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assicurare il costante conseguimento del suo fine ideale.

Il tema del processo è l'accertamento, per il tramite di materiale probatorio, della colpevolezza dell'imputato in relazione al fatto descritto nell'imputazione. Per conseguenza, la condanna richiede la prova piena della responsabilità dell'imputato; l'assoluzione, invece, deriva dall'impossibilità di provare compiutamente la colpevolezza6.

strutturato secondo forme e cadenze idonee a generare, pur nella fallibilità di ogni metodo, una decisione giusta. Per definire “giusta” una decisione sono necessarie quattro condizioni: una disciplina legale del processo che garantisca requisiti minimi di equità; l'osservanza in concreto delle forme e delle regole procedurali fissate dalla legge; la corretta qualificazione giuridica del fatto; la congruenza della ricostruzione storica del fatto rispetto alle prove legittimamente acquisite, ovvero la condanna qualora la colpevolezza risulti provata oltre ogni ragionevole dubbio ed il proscioglimento in ogni altro caso. E' utile chiedersi se il rispetto di tali condizioni garantisca la giustizia della decisione. A questo proposito, viene in rilievo la tripartizione ideata da J. Rawls tra giustizia procedurale pura, perfetta e imperfetta (così in J. RAWLS, Una teoria della giustizia [1971], Milano, 1997, p. 84 s.). Nella giustizia procedurale pura la giustizia si risolve nella procedura: non vi è un criterio esterno alla procedura sulla cui base definire “giusto” il risultato, ma quest'ultimo è tale per il fatto stesso dell'osservanza delle regole prefissate (si pensi ai giochi e alle scommesse). Nella giustizia procedurale perfetta e in quella imperfetta vi è un criterio esterno che consente di qualificare come “giusto” il risultato: in entrambi i casi la procedura è il mezzo per conseguire il fine di giustizia; la differenza sta nel fatto che nella giustizia perfetta l'osservanza delle regole garantisce il risultato di giustizia definito dal criterio esterno, mentre nella giustizia imperfetta tale osservanza, per quanto meticolosa, non è in grado di garantire l'esito giusto. Ebbene, applicando tale teoria al processo penale, si ottiene che questo costituisce un esempio di giustizia procedurale imperfetta. Come già affermato, lo scopo del processo è la condanna del colpevole e l'assoluzione dell'innocente. Ma nessun metodo consente di garantire sempre e comunque la giustizia di tale risultato: ciò perché si tratta di ricostruire induttivamente un fatto del passato, al quale il giudice non è più in grado di accedere in modo diretto, ma solo per il tramite dei fatti sopravvissuti nel presente, costituiti dalle prove. Ne deriva la fallibilità della giustizia, ovvero il possibile divario tra la ricostruzione operata nel processo e la realtà di ciò che è avvenuto. Il modello ideale di decisione giusta è quello che rispetta sia le condizioni “interne” al processo sia la condizione ad esso “esterna”, ovvero il fatto che l'enunciato del giudice sia vero, corrispondente a ciò che realmente è stato: solo in tal caso si può affermare che il processo ha raggiunto il suo fine (P. FERRUA, Il “giusto processo”, 3ª ed., Zanichelli, Bologna, 2012, p. 47-50). 6 Sul punto v. L. LUCCHINI, Elementi di procedura penale, 2ª ed., Barbera,

Firenze, 1899, p. 12: «l'assunto da dimostrarsi vero è quello soltanto che concerne la colpabilità. Tale è la tesi, da cui muove il processo, tesi positiva di affermazione. La tesi contraria di non colpabilità, d'innocenza, è e non può essere che di carattere esclusivamente negativo, di contradizione della prima. Positivamente deve dimostrarsi la reità del giudicabile; basterà che tale dimostrazione non sia raggiunta, per assicurare il trionfo della tesi contraria». V. anche F. CAPRIOLI, Verità e giustificazione nel processo penale, in Riv. it. dir. e

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In linea di massima, si afferma che il processo penale ha una funzione strumentale rispetto al diritto penale sostanziale, «del quale tende a garantire la effettività ossia l'osservanza, e per il caso d'inosservanza, la reintegrazione»7. Mentre il diritto penale è il

complesso delle norme di legge attraverso cui lo Stato proibisce determinati comportamenti umani considerati illeciti mediante la minaccia di una sanzione, il diritto processuale penale disciplina il procedimento giurisdizionale funzionale all'accertamento dei reati e all'applicazione della pena minacciata.

Si sottolinea come il diritto sostanziale possa trovare attuazione unicamente per il tramite del processo penale. La commissione di un reato comporta l'accertamento delle modalità del fatto, l'individuazione del responsabile e l'applicazione delle sanzioni. Trattasi di una funzione, questa, che spetta esclusivamente allo Stato, per il tramite dell'attività dei giudici e nell'osservanza del diritto: difatti, stante la sua peculiare gravità, il reato non lede soltanto l'interesse individuale della vittima, bensì anche l'interesse collettivo dell'intera società. In virtù del principio nulla poena sine iudicio, la sofferenza da infliggere al colpevole, quale è per l'appunto la pena, non può trovare applicazione se non nell'ambito del processo.

La suddetta strumentalità non rappresenta una diminuzione per il diritto processuale penale8. In un'ottica moderna, infatti, il processo

deve considerarsi una garanzia del cittadino affinché questi venga perseguito nel rispetto di regole sancite dal Legislatore.

proc. pen., 2013, p. 610 s.

7 Così M. CAPPELLETTI, Processo e ideologie, Il Mulino, Bologna, 1969, p. 5. 8 A. MALINVERNI, Principi del processo penale, Torino, 1972, p. 16.

Considerazioni sulla inversione del rapporto di strumentalità tra diritto penale sostanziale e processuale sono svolte, pur ad altro proposito, da T. PADOVANI,

La disintegrazione del sistema sanzionatorio e le prospettive di riforma: il problema della comminatoria edittale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1992, p. 436.

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1.3. Tipologie di processo penale: tra modello inquisitorio

e modello accusatorio.

Nell'attuazione della legge sostanziale, il processo persegue, da un lato, l'efficienza nella ricerca dei reati e dei loro autori, dall'altro, il rispetto dei diritti fondamentali della persona. Un binomio, questo, che «non è necessariamente antagonistico»: si è infatti sottolineato come «sarebbe meglio parlare di bipolarità della procedura penale»9.

E' utile chiedersi quale sia, dunque, il modello processuale più idoneo a coordinare entrambe le esigenze. La distinzione che per lungo tempo ha dominato è quella che vede contrapposti il modello processuale inquisitorio e quello accusatorio e che trova la sua radice nell'antitesi tra principio di autorità e principio dialettico.

Il principio di autorità costituisce il fondamento della procedura penale inquisitoria, che risulta segnata da un'impronta marcatamente statalistica10. Tale principio scandisce gli atti del procedimento sulla

base di un presupposto logico: i fatti e le responsabilità saranno tanto meglio accertati e l'accertamento produrrà il miglior risultato quanto più potere si riconosce in capo al soggetto inquirente. Si realizza dunque un cumulo di funzioni processuali in capo ad un unico organo, il quale opera al tempo stesso come giudice, accusatore e difensore dell'imputato, che, degradato a mero oggetto del giudizio, è presunto colpevole. Il giudice inquisitore conduce l'accertamento in via unilaterale e segreta, ricercando la verità senza dare adito alla contrapposizione dialettica tra le parti, e l'insieme dei verbali da questi redatti costituisce la base conoscitiva su cui si fonda la decisione

9 COMMISSION JUSTICE PÉNALE ET DROITS DE L'HOMME, La mise en

état des affaires pénales, Rapports, Paris, 1991, p. 12 (trad. it. a cura di M. Pisani

e N. Galantini, Bologna, 1994).

10 In tal senso M. CHIAVARIO, Una ricerca processuale transnazionale, in AA. VV., Procedure penali d'Europa, a cura di M. Chiavario, 2ª ed., Cedam, Padova, 2001, p. 20.

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finale. Il punto di approdo è la “verità materiale”, una verità storica, oggettiva, immutabile, esterna e preesistente al processo, quasi fosse un “oggetto materiale”11 che si trova nascosto da qualche parte e il cui

rinvenimento è affidato all'attività solitaria della mente del giudice. Il principio dialettico connota invece il modello processuale accusatorio, che deve il suo nome alla creazione di un'altra autorità pubblica, il pubblico ministero, colui che detiene il potere-dovere di indagare e di esercitare l'accusa, nel preciso intento di distinguere il soggetto che esercita la funzione di accusa dal soggetto che deve adottare la decisione. Quest'ultima ruota intorno all'idea di una “verità pratica”, una verità formale, a struttura argomentativa, frutto dello scontro dialettico delle parti. La procedura penale accusatoria ha infatti il suo centro di gravità nel ruolo dei singoli12. Si delinea una

metodologia di ricerca cooperativa del vero13, rispettosa dei principi di

oralità e contraddittorio: la verità si potrà accertare tanto meglio quanto più le funzioni processuali siano ripartite tra soggetti titolari di interessi contrapposti; il giudice, indipendente e imparziale, deve sondare la maggiore o minore tenuta della prospettiva accusatoria e di quella difensiva e, alla luce di tale confronto dialettico, adottare la sua decisione. Si recupera così un principio di separazione delle funzioni processuali14.

Nella realtà, tuttavia, lo scarto fra la teoria e la pratica è considerevole. La contrapposizione tra i due modelli processuali poc'anzi delineati ha infatti valore meramente astratto: si tratta cioè di

11 P. FERRUA, Il “giusto processo”, cit., p. 33.

12 In tal senso M. CHIAVARIO, Una ricerca processuale transnazionale, cit., p. 19. 13 G. FIANDACA, G. DI CHIARA, Una introduzione al sistema penale. Per una

lettura costituzionalmente orientata, cit., p. 338.

14 La finalità perseguita corrisponde a quella svolta dal principio della separazione dei poteri dello Stato, ovvero evitare che l'uso di un potere degeneri in abuso. Sul punto è sempre attuale l'insegnamento di Montesquieu: «è una esperienza eterna che qualunque uomo, che ha un determinato potere, è portato ad abusarne (…). Perché non si possa abusare di un potere, bisogna che, per la disposizione delle cose, il potere arresti il potere» (MONTESQUIEU, Lo spirito delle leggi, Ginevra, 1748, libro I, cap. IV, trad. it., Milano, 1989).

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due modellistiche che assai raramente hanno trovato attuazione pura all'interno di un dato ordinamento. La maggior parte dei sistemi esistenti, aggregando caratteristiche proprie ora dell'uno ora dell'altro sistema, risulta essere di tipo misto: il gioco delle relazioni (tra il giudice, il titolare dell'iniziativa penale e l'accusato) che regolano la struttura interna del processo penale si è arricchito di molteplici combinazioni miste15.

1.4. Il codice di procedura penale del 1930 e la svolta di

stampo inquisitorio.

In epoca fascista, l'obiettivo, nel campo del diritto processuale penale, divenne quello di trasformare il processo penale in luogo privilegiato di affermazione della pretesa punitiva dello Stato, in netta contrapposizione a quella spiccata sensibilità per i diritti del singolo che aveva contraddistinto l'esperienza precedente.

Con r.d. 19 ottobre 1930, n. 1399, fu pubblicato, insieme al nuovo codice penale, un nuovo codice di procedura penale, detto codice Rocco dal nome del Ministro della Giustizia Alfredo Rocco16: una

codificazione di matrice autoritaria, che modellava la fisionomia del

15 Così M. CHIAVARIO, Una ricerca processuale transnazionale, cit., p. 21. 16 Il codice di rito del 1930, entrato in vigore nel 1931, fu preceduto dal codice di

procedura penale del 1913, detto Finocchiaro-Aprile dal nome del Ministro Guardasigilli dell'epoca, il cui tratto distintivo era una spiccata sensibilità per i diritti del singolo. Tale codificazione riconosceva infatti, nel corso della fase istruttoria, ampi diritti all'accusato: il difensore dell'imputato aveva il diritto di assistere, con preavviso, a perizie, esperimenti giudiziali e ricognizioni, nonché, senza preavviso, alle perquisizioni domiciliari; aveva inoltre il diritto di prendere visione dei verbali di tali atti, nonché dei verbali di sequestri, perquisizioni personali, ispezioni e interrogatorio dell'imputato (a quest'ultimo, però, non poteva assistere). Per i reati più gravi, nel dibattimento, fu introdotta la giuria popolare: questa doveva decidere sulla reità o meno dell'imputato e, in caso di pronuncia di condanna, il giudice togato procedeva alla determinazione della quantità della pena. Con l'avvento al potere del fascismo, tuttavia, tale codice fu ritenuto troppo garantista e soprattutto incompatibile sul piano politico con il progressivo affermarsi del nuovo regime, deciso ad una ricodificazione complessiva che adattasse la legislazione alla filosofia dello Stato totalitario.

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processo penale in funzione del primato della sicurezza e della difesa sociale, con conseguente affievolimento dei diritti individuali.

Nella Relazione al codice di procedura penale, Alfredo Rocco affermava che scopo saliente della riforma era assicurare «il principio del giusto equilibrio tra le garanzie processuali destinate a salvaguardare gli interessi dello Stato nella sua funzione repressiva, e quelle spettanti all'imputato». Una dichiarazione di intenti alla quale, tuttavia, non fece seguito l'elaborazione di una struttura processuale confacente.

Solo formalmente misto, il sistema segnava una vera e propria svolta di stampo inquisitorio. Elemento distintivo della fase istruttoria era la segretezza, che non prevedeva alcun riconoscimento del diritto di difesa. Il pubblico ministero, dipendente dal Ministro della Giustizia, divenne titolare dei medesimi poteri coercitivi facenti capo al giudice istruttore: nei casi di evidente prova di reità, da lui stesso accertati in assenza di alcun controllo, conduceva un'istruzione “sommaria”, nell'ambito della quale aveva la facoltà di limitare la libertà personale dell'imputato, assumere in segreto le prove e decidere di rinviare l'imputato a giudizio. In alternativa a tale rito, si svolgeva l'istruzione “formale”, nella quale il giudice istruttore era “il signore del processo e delle prove”: procedeva d'ufficio alla ricerca delle prove, che venivano assunte in segreto, e decideva il rinvio a giudizio dell'imputato. A ciò si aggiungeva l'utilizzabilità dibattimentale, a fini decisori, degli atti raccolti nel corso dell'istruttoria.

Tra le altre modifiche, il pubblico ministero aveva la facoltà di archiviare le denunce senza la necessità di chiedere l'autorizzazione al giudice, potendo così evitare lo svolgimento del processo penale nei confronti dei simpatizzanti del partito al potere; i casi di cattura obbligatoria aumentarono; venne meno l'istituto della scarcerazione automatica dell'imputato per decorrenza dei termini massimi.

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1.4.1. Il dopoguerra: le riforme al codice del 1930

successive all'entrata in vigore della Costituzione.

Esaurita l'esperienza del periodo fascista, il codice Rocco ha dovuto confrontarsi con il panorama della normativa sovraordinata, in particolare con la Costituzione del 1948, la quale, introducendo in chiave di principio una serie di garanzie fondamentali per il soggetto sottoposto a processo, ha rappresentato una svolta evidente nell’ambito della legislazione processuale penale: la sensazione che si avvertiva era l'intenzione di segnare una netta discontinuità con la dottrina politica incarnata nel codice del 1930.

Alla genesi della Carta costituzionale hanno contribuito vari orientamenti ideologici. L'orientamento liberale, al quale si deve l'introduzione nel testo costituzionale delle norme sulla separazione dei poteri dello Stato nonché di quelle inerenti alla separazione delle funzioni nel processo penale17. L'orientamento personalistico, al quale

si riconosce il merito della previsione delle norme a tutela dei diritti inviolabili della persona umana18. L'orientamento solidaristico,

improntato all'attuazione dell'uguaglianza sostanziale19.

17 Si vedano, a titolo di esempio, l'art. 24, comma 2, Cost., che sancisce il diritto di difesa, proclamato «inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»; l'art. 25, comma 1, Cost., che afferma il principio del giudice naturale precostituito per legge; l'art. 112 Cost., che pone l'esercizio dell'azione penale in capo al pubblico ministero.

18 Rilevante in tal senso è l'art. 2 Cost., in base al quale «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità». Vengono poi in rilievo le garanzie di riserva di legge e di giurisdizione sancite nei vari articoli a tutela della libertà personale (art. 13 Cost.), della libertà di domicilio (art. 14 Cost.), di corrispondenza (art. 15 Cost.), di circolazione (art. 16 Cost.). A ciò si aggiunge l'art. 27, comma 2, Cost., che proclama la presunzione di innocenza.

19 Si vedano l'art. 24, comma 3, Cost. che assicura ai «non abbienti, con appositi istituti, i mezzi per agire e difendersi davanti ad ogni giurisdizione»; l'art. 24, comma 4, Cost., che attribuisce alla legge il compito di determinare «le condizioni e i modi per la riparazione degli errori giudiziari»; l'art. 112 Cost., che nel sancire l'obbligatorietà dell'azione penale vuole garantire che l'iniziativa del processo prescinda dalle condizioni economiche svantaggiate della persona offesa dal reato.

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Del tutto comprensibile la convinzione che nel nuovo clima politico il codice Rocco fosse destinato ad una vita assai breve: da un lato, si poneva la sua manifesta incompatibilità con molteplici principi costituzionali; dall'altro, vi era la volontà politica di dare un segno di discontinuità con la legislazione fascista. E tuttavia non fu così. L'impatto con la Costituzione impose inevitabilmente al Legislatore l'obbligo di prevedere interventi modificativi della codificazione, ma il codice fascista del 1930, seppur sottoposto ad una costante legislazione novellistica, è rimasto in vigore per quarantotto anni di regime democratico repubblicano.

Si era diffuso un particolare orientamento in virtù del quale si affermava che la Carta costituzionale non aveva effettuato alcuna scelta tra i sistemi processuali, non recando insita alcuna prescrizione a favore dell'uno o dell'altro modello. Una corrente di pensiero, questa, che destava qualche perplessità: se era vero che la Costituzione non conteneva alcuna indicazione circa le metodologie di accertamento da privilegiarsi, così che né la logica inquisitoria né quella accusatoria avevano trovato né smentita né accoglimento in nessuna disposizione costituzionale, non si poteva non notare tuttavia come, dalle norme costituzionali complessivamente considerate, fosse possibile individuare quelle garanzie fondamentali caratterizzanti il sistema accusatorio, quali sono, ad esempio, la presunzione di innocenza e il principio della separazione delle funzioni di accusa, difesa e giudizio. Una questione, questa, che può peraltro ritenersi risolta a seguito dell'introduzione nel testo costituzionale dei principi del “giusto processo”, operata dalla già citata legge costituzionale n. 2 del 23 novembre 1999.

Ebbene, a prescindere dall'orientamento al quale si intende aderire, ciò che era assolutamente intollerabile era l'elusione delle garanzie dell'individuo sottoposto a processo. Così che, negli anni successivi

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all'entrata in vigore della Costituzione, il Legislatore si è attivato in un'ottica di adeguamento delle norme codicistiche ai principi costituzionali. Il primo e più importante intervento riformatore si ebbe con la legge 18 giugno 1955, n. 517, che ha modificato oltre centotrenta articoli del codice del 1930. La strategia seguita fu chiara: si scelse di reintrodurre nel codice quelle garanzie di cui già si era avvalso il codice liberale del 1913. Tra le varie novità, degne di nota sono il ripristino della partecipazione della difesa all'istruzione, il miglioramento della disciplina delle notificazioni, la limitazione dei casi di obbligatorietà del mandato di cattura, la disciplina del fermo di polizia giudiziaria e la reintroduzione dell'istituto della scarcerazione automatica per decorrenza dei termini. Ulteriori modifiche furono poi apportate da numerose leggi.

Il risultato cui si pervenne fu dunque la previsione di un sistema misto di stampo prevalentemente accusatorio. E tuttavia, nonostante la previsione, come accennato, dell'intervento del difensore alla fase istruttoria, lo schema processuale rimase quello vigente. Il principio del cumulo delle funzioni processuali rimase ancora un dato costante: per un verso, il giudice istruttore procedeva d'ufficio alla ricerca delle prove; per altro verso, il pubblico ministero poteva condurre l'istruzione sommaria con ampi poteri coercitivi. Rimaneva ferma poi l'utilizzabilità dibattimentale, ai fini della decisione, dei verbali degli atti raccolti nelle fasi antecedenti al giudizio.

Si coniò così per questa stagione, timidamente riformatrice nelle intenzioni ma in parte controproducente negli effetti, l'appellativo di “garantismo inquisitorio”20.

20 L'espressione è di E. AMODIO, Il ripudio del giudice investigatore ereditato dal

sistema francese (1981), in Processo penale, diritto europeo e common law,

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1.5. La svolta accusatoria: il passaggio al codice di

procedura penale del 1988.

A partire dagli anni sessanta cominciò a manifestarsi l'intenzione di operare una riforma della struttura del processo penale. Prese così avvio un fervente lavorio di carattere dottrinale, supportato da diverse iniziative legislative, volto a rivedere l'intero impianto della codificazione.

Nel 1962 il Ministro della Giustizia istituì una Commissione ministeriale per la riforma del codice di rito, presieduta dall'insigne giurista Francesco Carnelutti. La Commissione non terminò i lavori, ma il suo presidente nel 1963 presentò a titolo personale una “Bozza di uno schema del codice di procedura penale”, con annessa una relazione. La Bozza delineava un modello processuale di stampo accusatorio puro, che trovava nell'oralità e nella netta separazione tra le fasi processuali i suoi principi fondanti. Una riforma radicale che, per tale motivo, incontrò forti opposizioni21.

Il 3 aprile 1974 fu promulgata la legge delega n. 108, contenente principi e criteri direttivi sulla base dei quali il Governo avrebbe dovuto redigere un progetto per un nuovo codice. Il Ministero della Giustizia istituì una nuova Commissione ministeriale, presieduta da Gian Domenico Pisapia: questa iniziò i suoi lavori nell'ottobre del 1974 e presentò il testo del Progetto preliminare nel marzo del 1978. Il principale vizio della legge delega del 1974 era il contrasto tra l'intento di realizzare il sistema accusatorio, da un lato, e la conservazione di istituti caratteristici del sistema misto, dall'altro22. Altro aspetto

21 O. MAZZA, L'illusione accusatoria: Carnelutti e il modello dell'inchiesta

preliminare di parte, in L'inconscio inquisitorio, a cura di L. Garlati, Milano,

2010, p. 153.

22 Si pensi al termine di trenta giorni che la legge delega prevedeva per le indagini del pubblico ministero, decorsi i quali l'onere di compiere atti di istruzione passava in capo al giudice istruttore, con il conseguente mantenimento della figura di un giudice che cumulava in sé i poteri dell'accusa.

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negativo era il principio di centralità del dibattimento, in virtù del quale tutti i processi sarebbero dovuti pervenire necessariamente alla fase dibattimentale, con conseguenti problemi di gestione del sistema. Comunque, stante il contesto storico-politico, la delega non ebbe seguito: un processo garantista non risultava idoneo a tutelare l'ordinamento democratico contro il terrorismo.

Nel 1980 il Guardasigilli presentò alla Commissione Giustizia della Camera dei deputati un complesso di quaranta emendamenti, i quali delineavano in sostanza una nuova delega. Venne quindi nominato un comitato ristretto, il quale elaborò una struttura processuale ispirata ai canoni del sistema accusatorio. Tra i punti nevralgici, era prevista la formazione della prova in dibattimento nel contraddittorio delle parti; il dibattimento doveva essere preceduto non più da un'istruzione, bensì da indagini preliminari, nell'ambito delle quali il pubblico ministero aveva l'onere di svolgere investigazioni; la figura del giudice istruttore veniva sostituita da un giudice senza poteri di iniziativa probatoria; infine, il rito ordinario fu affiancato da riti alternativi volti ad eliminare la fase dibattimentale.

Fu così approvata la legge delega 16 febbraio 1987, n. 81, con cui il Governo veniva incaricato di emanare un nuovo codice di procedura penale. Il Ministro della Giustizia Giuliano Vassalli nominò una Commissione, presieduta da Gian Domenico Pisapia, la quale procedette alla stesura di un Progetto preliminare.

Il testo del nuovo codice fu approvato il 22 settembre 1988: pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale del 24 ottobre 1988, entrò in vigore il 24 ottobre 1989.

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1.5.1. I principi ispiratori del nuovo codice di rito.

Le linee di identità del nuovo codice di procedura penale individuano una struttura processuale che si pone in netta antitesi rispetto a quella delineata dal codice di rito del 1930.

Il codice del 1988 ha recepito, sia pure con la previsione di alcuni temperamenti, la scelta del sistema accusatorio, con il corollario del principio del contraddittorio, indicata come linea direttiva dalla legge delega 16 febbraio 1987, n. 81.

Il nuovo processo penale si fonda su tre principi fondamentali. In primo luogo, il principio della separazione delle funzioni processuali. Con il trasferimento alle parti della signoria della prova, il giudice cessa di essere l'attore del procedimento probatorio per divenire il garante della legalità del suo sviluppo in ragione della sua terzietà ed imparzialità rispetto alle parti e all'attività di ricerca investigativa, anche se taluni residui poteri officiosi dibattimentali tradiscono una reviviscenza della pregressa concezione del giudice investigatore, pur giustificata dalla garanzia di assicurare l'effettiva ricostruzione del fatto23. La formazione della prova è demandata, in

linea di principio, alla sola fase dibattimentale, luogo privilegiato di elezione del contraddittorio. Quest'ultimo, in particolare, viene ad essere instaurato non più “sulla” prova, ovvero su prove già formate, bensì “per” la prova: un contraddittorio, dunque, che si realizza nel momento stesso di formazione dell'elemento conoscitivo.

In secondo luogo, il principio della netta ripartizione delle fasi processuali. Lo schema ordinario del procedimento penale di primo grado vede il susseguirsi di indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento: si tratta di una struttura volta a garantire alcuni valori tipici del sistema accusatorio. Tra questi, la tutela del diritto

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dell'imputato a che un giudice controlli la necessità del rinvio a giudizio e, dunque, la fondatezza dell'accusa formulata dal pubblico ministero, predisponendo a tal fine un'udienza preliminare. Inoltre, si vuole fare in modo che le dichiarazioni utilizzabili ai fini della decisione siano solo quelle assunte nel contraddittorio delle parti24.

Una tale impostazione rappresenta il corollario del principio della neutralità psichica del giudice del dibattimento, in base al quale il soggetto che dovrà adottare la decisione finale può e deve conoscere soltanto gli atti formatisi innanzi a lui nel contraddittorio delle parti, senza prendere cognizione dell'attività antecedente25: soltanto in questo

modo è possibile adottare una decisione immune da pregiudizi e fondata unicamente sulle prove originatesi, innanzi ad un giudice terzo ed imparziale, con il contributo dialettico delle parti26.

In terzo luogo, il principio della semplificazione del procedimento. Stante la carenza di uomini, mezzi e risorse tale da impedire lo svolgimento di tutti i processi secondo lo schema ordinario poc'anzi delineato, allo schema ordinario del procedimento penale si affiancano alcuni meccanismi di semplificazione che riservano la procedura più garantita solamente ai casi più controversi o ai reati più gravi.

24 La norma fondamentale del nuovo sistema processuale che esprime il nuovo concetto normativo della dialetticità dell'accertamento probatorio è l'art. 526 c.p.p., ai sensi del quale «il giudice non può utilizzare ai fini della deliberazione prove diverse da quelle legittimamente acquisite nel dibattimento». Non mancano tuttavia, in palese contraddizione con tale sistema, eccezioni che consentono il passaggio di atti di indagine nel fascicolo del dibattimento (A. BARGI, Cultura

del processo e concezione della prova, cit., p. 65).

25 Sul punto G. UBERTIS, Neutralità metodologica del giudice e principio di

acquisizione processuale, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2007, p. 18. L'Autore citato

sottolinea che, prima del dibattimento, la neutralità metodologica del giudice è assicurata dall'opposto meccanismo costituito dalla integrale discovery degli atti delle parti, imperniata sull'art. 415 bis c.p.p.

26 Il corollario tecnico di tale principio è il meccanismo del doppio fascicolo. Da un lato, il fascicolo “per il dibattimento”, contenente i verbali degli atti assunti in contraddittorio (ad esempio, nell'incidente probatorio) e i verbali degli atti non ripetibili assunti dal pubblico ministero e dalla polizia giudiziaria. Dall'altro, il fascicolo “del pubblico ministero”, che ha un contenuto residuale: in esso confluiscono i verbali degli atti assunti dal pubblico ministero, dalla polizia giudiziaria e dal difensore, i quali possono essere conosciuti soltanto dalle parti e non anche dal giudice.

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1.6. Il principio del contraddittorio: le alterne stagioni

negli anni successivi al 1988.

Il codice del 1988 presenta il limite di essere stato elaborato sulla base di meri studi teorici, in assenza di una previa sperimentazione pratica dei nuovi istituti. Nel corso dei lavori preparatori della legge delega fu scartata la proposta di dare attuazione ad una riforma graduale, che consentisse l'espletamento di successive verifiche ed aggiustamenti legislativi27: il Legislatore volle infatti configurare il

passaggio dal sistema misto a quello accusatorio in modo deciso. Ebbene, sin dai primi passi della sua applicazione, il nuovo modello accusatorio incontrò la tenace resistenza della pregressa cultura inquisitoria28. Ciò costituisce la principale ragione per la quale,

successivamente all'entrata in vigore del nuovo codice di rito, il principio del contraddittorio, e il principio di oralità quale suo corollario, hanno conosciuto stagioni alterne.

Nella versione originaria del codice, il principio di oralità era affermato in modo assoluto. In linea generale, le dichiarazioni dei testi potevano acquisire valore probatorio all'interno del giudizio solo laddove fossero state assunte mediante la tecnica dell'esame incrociato: in caso contrario, allorquando fossero state raccolte unilateralmente, nessuna dichiarazione poteva assumere il crisma di prova. A questo riguardo, assumevano particolare rilievo due disposizioni, centrali nel contesto di un processo fondato sul contraddittorio.

La prima sanciva il divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria: il testo originario dell'art. 195, comma 4, c.p.p., affermava che «gli ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria non possono deporre sul contenuto delle dichiarazioni acquisite da testimoni». Invero, si

27 P. TONINI, C. CONTI, Il diritto delle prove penali, 2ª ed., Giuffrè, Milano, 2014, p. 17-18.

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trattava di una regola congrua rispetto al principio del contraddittorio: a fronte del divieto di lettura dei verbali, sarebbe stato del tutto irragionevole prevedere la possibilità per i loro redattori di rilasciare testimonianza sul contenuto degli stessi. Per conseguenza, se la persona sentita dalla polizia giudiziaria decedeva in conseguenza del reato del quale era stata vittima, le sue dichiarazioni risultavano inutilizzabili ai fini decisori; analogamente avveniva quando il testimone, sentito dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero, dopo essere stato destinatario di minacce, in giudizio negava di ricordare l'avvenimento.

La seconda disposizione negava valore probatorio alle dichiarazioni raccolte nel corso delle indagini preliminari e contestate al testimone che nel dibattimento avesse reso una diversa versione dei fatti: il testo originario dell'art. 500, commi 3 e 4, c.p.p., stabiliva che «la dichiarazione utilizzata per la contestazione, anche se letta dalla parte, non può costituire prova dei fatti in essa affermati. Può essere valutata dal giudice per stabilire la credibilità della persona esaminata». Erano previste eccezioni per le «dichiarazioni assunte dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto»: in questi casi il precedente difforme poteva essere acquisito al fascicolo del dibattimento e legittimamente valutato dal giudice ai fini della decisione.

Tali regole di esclusione probatoria ebbero tuttavia carattere meramente temporaneo. Furono infatti «accolte con grande diffidenza da buona parte della magistratura che, lungi dal concepire il contraddittorio nella formazione della prova come metodo, come tecnica di accertamento, continua a intravedervi, secondo l'antica tradizione, un potenziale ostacolo alla ricerca della verità»29.

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La Corte costituzionale, con tre sentenze del 199230, smantellò i

cardini della struttura accusatoria31, convertendolo in qualcosa di molto

simile all'inquisitorio, in una specie degradata di sistema misto32.

Con la sentenza n. 24 del 1992, la Corte costituzionale dichiarò l'illegittimità dell'art. 195, comma 4, c.p.p., relativo al divieto di testimonianza indiretta della polizia giudiziaria33. Gli avversari del

processo accusatorio facevano leva sulle incongruenze cui poteva dar luogo il divieto di testimonianza indiretta, le quali riguardavano le ipotesi di sopravvenuta irripetibilità della testimonianza diretta. Si citava il celebre aneddoto della vittima che, morente, aveva sulle labbra il nome dell'assassino: la polizia giudiziaria, pur avendolo udito, nulla poteva riferire al giudice, potendo solo sperare che qualcuno sentisse quelle parole e ne testimoniasse in giudizio quale privato cittadino. Con la caducazione del divieto ad opera della citata sentenza, le conoscenze acquisite segretamente nel corso delle indagini preliminari potevano così avere libero accesso al dibattimento per il tramite della testimonianza indiretta della polizia giudiziaria, indipendentemente dalla possibilità di esaminare il testimone diretto: ed anche nel caso in cui quest'ultima eventualità fosse possibile, le dichiarazioni della fonte diretta andavano ad affiancarsi, senza sostituirle, a quelle indirette della polizia giudiziaria, avendo il giudice

30 Corte. cost., sentenze nn. 24, 254 e 255 del 1992, consultabili in

www.giurcost.org.

31 Sulla svolta inquisitoria del 1992 v. G. DI CHIARA, Processo penale e

giurisprudenza costituzionale. Itinerari, Roma, 1996, p. 17 s.; P. FERRUA, Studi sul processo penale, Vol. 2, Anamorfosi del processo accusatorio, Giappichelli,

Torino, 1992, p. 157 s.

32 L'espressione è di P. FERRUA, Studi sul processo penale, cit., p. 157: “degradata” in quanto gli atti divenuti utilizzabili a fini decisori sono compiuti direttamente dall'accusatore o dalla polizia giudiziaria nel quadro di un'indagine sicuramente più unilaterale di quella svolta dal giudice istruttore.

33 Per la critica alla sentenza costituzionale, v. G. GIOSTRA, Equivoci sulla

testimonianza indiretta della polizia giudiziaria e sacrificio del principio di oralità, in Riv. dir. proc., 1992, p. 1130 s.; M. SCAPARONE, La testimonianza indiretta dei funzionari di polizia giudiziaria, in Giur. cost., 1992, p. 127 s.; F.

PERONI, La testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della

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la facoltà di valutarle liberamente. Peraltro, come accennato, il divieto di testimonianza indiretta imposto alla polizia giudiziaria non era del tutto irragionevole: esso rappresentava il corollario dell'irrilevanza probatoria delle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria; se era vietata l'acquisizione dei verbali delle predette dichiarazioni, allo stesso modo doveva risultare vietata anche la testimonianza di chi le aveva ricevute34. Non solo. La questione avrebbe potuto essere risolta

anche senza alterare la struttura accusatoria del processo, in forma meno traumatica: sarebbe stato sufficiente parificare gli atti della polizia giudiziaria a quelli del pubblico ministero, dichiarando l'illegittimità dell'art. 512 c.p.p. nella parte in cui non consentiva la lettura degli atti assunti dalla polizia giudiziaria, quando per fatti o circostanze imprevedibili ne fosse divenuta impossibile la ripetizione35.

La dichiarazione di incostituzionalità dell'art. 195, comma 4, c.p.p. apriva una pericolosa breccia sul fronte dell'oralità e del contraddittorio. Ritenuto ammissibile il recupero probatorio delle dichiarazioni raccolte dalla polizia giudiziaria in fase di indagini preliminari, appariva incoerente non consentire analogo recupero anche relativamente alle dichiarazioni raccolte dal pubblico ministero (ovviamente non con la testimonianza indiretta del pubblico ministero, dato che non era pensabile che il difensore potesse contro-esaminare l'accusatore, bensì tramite la lettura dei verbali).

Ed allora, con la sentenza n. 254 del 1992, la Consulta dichiarò illegittimo l'art. 513, comma 2, c.p.p., «nella parte in cui non prevede che il giudice, sentite le parti, dispone la lettura dei verbali delle

34 P. FERRUA, Il “giusto processo”, cit., p. 4.

35 Proprio in questa chiave sarà poi riformato l'art. 512 c.p.p. con il d.l. 8 giugno 1992, n. 306, conv. in l. 7 agosto 1992, n. 356. Più saggiamente F. PERONI, La

testimonianza indiretta della polizia giudiziaria al vaglio della Corte costituzionale, cit., p. 698, aveva invitato, immediatamente dopo la dichiarazione

di illegittimità dell'art. 195, comma 4, c.p.p., «a riconsiderare (…) l'ipotesi di un ripristino della norma censurata, all'uopo bilanciata da una correlativa dilatazione del congegno di recupero di cui all'art. 512, in grado di ricomprendere anche gli atti (rectius “verbali”) di polizia giudiziaria».

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dichiarazioni di cui al comma 1 del medesimo articolo rese dalle persone indicate nell'art. 210, qualora queste si avvalgano della facoltà di non rispondere».

Infine con la sentenza n. 255 del 1992 la Corte costituzionale intervenne sull'art. 500, commi 3 e 4, c.p.p.36, dichiarandolo illegittimo

«nella parte in cui non prevede l'acquisizione nel fascicolo per il dibattimento, se sono state utilizzate per le contestazioni previste dai commi 1 e 2, delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero». Si riconosceva, dunque, pieno valore probatorio ai verbali utilizzati per le contestazioni. L'esito fu che, allorquando il teste deponeva in dibattimento, la dichiarazione precedentemente resa al pubblico ministero o alla polizia giudiziaria risultava inutilizzabile solo laddove egli la riproducesse fedelmente; se taceva o rendeva una deposizione differente, la precedente veniva acquisita al fascicolo dibattimentale attraverso la contestazione: in simile eventualità, faceva capo al giudice l'onere di optare per l'una o l'altra versione dei fatti, ed era quasi sempre la prima a prevalere, in considerazione sia della maggiore prossimità all'accaduto sia dei sospetti di pressioni o intimidazioni che potevano aver inciso sulla seconda.

La Corte parte dalla premessa che «l'oralità, assunta a principio

36 L'art. 500, commi 3 e 4, c.p.p., stabiliva che le dichiarazioni raccolte durante le indagini dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria e contestate al dibattimento non potevano costituire prova dei fatti affermati. Il significato di questa regola di giudizio era stato illustrato da Cordero in un convegno del 1964: «Nell'inchiesta preliminare il testimonio ha narrato d'aver percepito un certo fatto, e ora si smentisce. Gli si chiede conto della contraddizione. Supponiamo che lo faccia maldestramente, suscitando il sospetto che la versione veridica fosse la prima. Il giudice non gli crede e perciò ignora la testimonianza ma non può valersi (ai fini del decidere) della dichiarazione anteriore, la quale, essendo stata resa privatamente a una parte, non costituisce una prova». E ancora: «Se per un istante si pensasse d'usare come prova una voce captata fuori dal contraddittorio, il sistema andrebbe in frantumi (e allora riterrei di gran lunga preferibile l'istituto del giudice istruttore, che in linea di principio fornisce garanzie di maggiore imparzialità». Così in F. CORDERO, Linee di un processo accusatorio, in Criteri

direttivi per una riforma del processo penale (Atti del VI Convegno di studio

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ispiratore del nuovo sistema, non rappresenta, nella disciplina del codice, il veicolo esclusivo di formazione della prova nel dibattimento». Questo perché «fine primario ed ineludibile del processo penale non può che rimanere quello della ricerca della verità (…), di guisa che in taluni casi in cui la prova non possa, di fatto, prodursi oralmente è dato rilievo, nei limiti ed alle condizioni di volta in volta indicate, ad atti formatisi prima ed al di fuori del dibattimento». La Corte costituzionale contrappone al principio di oralità, affermato in senso assoluto, il principio di “non dispersione dei mezzi di prova” che non siano acquisibili con il metodo orale, consentendone il recupero37. Del resto, sottolinea la Corte, «che la

volontà del legislatore esprima anche un principio di non dispersione dei mezzi di prova emerge con evidenza da tutti quegli istituti che recuperano al fascicolo del dibattimento, e quindi alla utilizzazione probatoria, atti non suscettibili di essere surrogati (o compiutamente e genuinamente surrogati) da una prova dibattimentale: in tal senso depongono le disposizioni sugli atti irripetibili (art. 431, il quale dispone l'allegazione al fascicolo dibattimentale dei verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria), sugli atti assunti nell'incidente probatorio (art. 392), sulla lettura degli atti assunti dal pubblico ministero o dal giudice nel corso dell'udienza preliminare, quando per fatti o circostanze imprevedibili

37 Si tratta di un principio di cui non v'è traccia nel testo costituzionale. La Corte lo ricavava per amplificazione dalle deroghe che il codice prevedeva all'oralità del dibattimento, che si trovano elencate nella sentenza n. 255 del 1992 con meticolosa attenzione: i verbali degli atti non ripetibili compiuti dal pubblico ministero o dalla polizia giudiziaria (art. 431); gli atti assunti negli incidenti probatori (art. 392); gli atti assunti dal pubblico ministero o dal giudice nell'udienza preliminare, quando per fatti o circostanze imprevedibili ne è divenuta impossibile la ripetizione (art. 512); le dichiarazioni rese dall'imputato (o dall'imputato in un procedimento connesso o collegato) qualora sia contumace, assente, ovvero si rifiuti di rispondere (art. 513); le dichiarazioni rese dai testi (nel corso delle perquisizioni ovvero sul luogo e nell'immediatezza del fatto) o dall'imputato (alle quali il difensore aveva il diritto di assistere), che sono acquisite al fascicolo per il dibattimento, se utilizzate per le contestazioni (art. 500, comma 4, e art. 503, comma 5).

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