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La sentenza De Francesco n 27918 del 2010

Su questo sfondo, si colloca la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di cassazione n. 27918 del 25 novembre 2010.

Essa, concernente la più specifica tematica della lettura delle dichiarazioni rese da persone residenti all'estero (art. 512 bis c.p.p.), contiene principi applicabili anche alle ipotesi contemplate dalla disposizione di cui all'art. 512 c.p.p.270.

Il caso, come abbiamo già avuto modo di analizzare, riguardava la condanna per il reato di cui all'art. 609 bis, ultimo comma, c.p. a carico del custode di uno stabilimento pubblico, per avere questi costretto una studentessa danese a subire atti sessuali durante una visita guidata: il Tribunale di Messina fondò il giudizio di colpevolezza sulla denuncia presentata alla polizia dalla studentessa, alla quale fu data lettura ex art. 512 bis c.p.p.

Ripercorrendo la sentenza, l'attenzione si concentra in primo luogo sull'art. 526, comma 1 bis, c.p.p. e sull'elemento della volontà del dichiarante residente all'estero di sottrarsi all'esame dibattimentale.

270Il percorso interpretativo tracciato nella menzionata sentenza era stato già intrapreso dalla giurisprudenza delle Sezioni semplici che, con varietà di modulazioni, avevano prospettato una pluralità di ricostruzioni tutte finalizzate ad imporre l'applicazione della disciplina dei riscontri in presenza di dichiarazioni rese da persona irreperibile per motivi oggettivi, onde pervenire ad una lettura convenzionalmente conforme della disciplina relativa all'impossibilità di ripetizione. Tra le più risalenti, Cass., Sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331, in Dir.

pen. proc., 2008, p. 878 s., con nota di P. Tonini, Il testimone irreperibile: la Cassazione si adegua a Strasburgo ed estende l'ammissibilità dell'incidente probatorio. Successivamente, Cass., Sez. I, 23 settembre 2009, n. 44158, in C.E.D. Cass., n. 245556; Cass., Sez. V, 26 marzo 2010, n. 21877, in C.E.D. Cass.,

n. 247446; Cass., Sez. I, 6 maggio 2010, n. 20254, in C.E.D. Cass., n. 247618; Cass., Sez. III, 15 giugno 2010, n. 27582, in C.E.D. Cass., n. 248052. Tuttavia, vi erano state alcune occasioni nelle quali la Cassazione aveva affermato che la strada dell'interpretazione adeguatrice non era percorribile in quanto la disciplina tracciata dal codice costituiva diretta attuazione dell'art. 111, comma 5, Cost., a sua volta contrastante con la normativa convenzionale e su questa prevalente sul piano della gerarchia delle fonti secondo quanto desumibile dalle sentenze gemelle del 2007. Si veda Cass., Sez. VI, 25 febbraio 2011, n. 9665, in

www.archiviopenale.it; Cass., Sez. V, 16 marzo 2010, n. 16269, in C.E.D. Cass.,

In applicazione dell'art. 111, comma 4, seconda parte, Cost., la disposizione codicistica dispone che «la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi, per libera scelta, si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore».

La Corte di cassazione ritiene possibile fornire alla norma codicistica in parola un'interpretazione tale da renderla compatibile con la Cedu e, nello specifico, con l'art. 6, par. 3, lett. d). Disposizione quest'ultima che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte di Strasburgo, costituisce specificazione del principio di equità processuale e prescrive un criterio di valutazione della prova nel processo penale: in quest'ottica, il criterio direttivo elaborato a livello europeo prescrive che l'ammissibilità di una prova testimoniale unilateralmente assunta dall'accusa può risultare conforme al dettato del citato art. 6, ma affinché il processo possa dirsi equo «una condanna non deve fondarsi esclusivamente o in maniera determinante su prove acquisite nella fase delle indagini e sottratte alla verifica del contraddittorio, anche se differito».

Con riferimento all'art. 526, comma 1 bis, c.p.p., nel contrasto tra la tesi che ritiene cruciale che la mancata presenza all'esame sia volontaria e quella per cui è necessaria la specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, la Cassazione rinviene la soluzione prediligendo «l'interpretazione adeguatrice che riduca al massimo i possibili casi di contrasto con la norma ed i principi convenzionali», ovverosia «l'interpretazione che assegni il significato più ampio all'elemento della volontaria sottrazione all'esame per libera scelta, così determinando la più estesa applicazione della regola probatoria che impedisce al giudice di fondare la condanna su risultanze pure ritualmente acquisite alla sua conoscenza». Pertanto, tale elemento «deve ravvisarsi tutte le volte che la mancata presenza del teste

residente all'estero debba ritenersi volontaria»: ciò significa non è necessaria la prova di una specifica volontà di sottrarsi al contraddittorio, essendo sufficiente la volontarietà dell'assenza determinata da una libera scelta (vengono in rilievo, dunque, anche difficoltà economiche, disagi del viaggio, mancanza di interesse).

La Corte prosegue, affermando che, laddove le dichiarazioni predibattimentali risultino legittimamente acquisibili, il giudice, in ragione della loro peculiare natura, deve procedere ad una attenta valutazione, al fine di verificare se esse possano fondare un giudizio di colpevolezza dell'imputato. In particolare, egli dovrà tenere conto sia della regola di inutilizzabilità probatoria di cui al comma 1 bis dell'art. 526 c.p.p. sia delle regole di valutazione derivanti dalla norma convenzionale. Su questo punto, infatti, la giurisprudenza della Corte di cassazione più recente e maggioritaria «ritiene che è possibile, e quindi doveroso, dare alle norme di valutazione probatoria nazionali una interpretazione adeguatrice che le renda conformi alla norma della Cedu»: in questo senso, si è affermato che l'art. 526, comma 1 bis, c.p.p. pone «una norma di chiusura, che impone una regola di valutazione della prova sempre applicabile anche con riferimento a dichiarazioni che risultino legittimamente acquisite alla stregua della disciplina sulle letture dibattimentali, le quali, quindi, non potrebbero, di per sé sole, fondare la dichiarazione di colpevolezza dell'imputato»; in ogni caso, anche non accogliendo questa soluzione, si può parimenti giungere ad una interpretazione doverosamente adeguatrice per il tramite di «una rigorosa applicazione di consolidati principi giurisprudenziali», così che le dichiarazioni acquisite mediante il meccanismo della lettura «devono essere valutate dal giudice di merito con ogni opportuna cautela, non solo conducendo un'indagine positiva sulla credibilità sia soggettiva che oggettiva, ma anche ponendo in relazione la testimonianza con altri elementi emergenti dalle risultanze

processuali»271.

Successivamente, la Cassazione passa ad analizzare la tesi di coloro che ritengono l'art. 6, par. 3, lett. d) della Cedu in contrasto, da un lato, con il comma 5 dell'art. 111 Cost. e, dall'altro, con il comma 4, seconda parte, dell'art. 111 Cost. e con il comma 1 bis dell'art. 526 c.p.p. Il Supremo Collegio opera una ricostruzione volta ad armonizzare la normativa interna con quella convenzionale.

Con riguardo alla prima questione, ad avviso del Collegio la supposta incompatibilità tra le due norme è apparente e può essere agevolmente superata. Si rileva che la disposizione costituzionale detta «norme sulla formazione ed acquisizione della prova», mentre la regola convenzionale, così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, stabilisce «un criterio di valutazione della prova dichiarativa regolarmente acquisita». La deroga al principio della formazione dialettica della prova consente l'acquisizione al processo dell'atto assunto in via unilaterale, ma non incide sulla questione del valore probatorio che ad esso va attribuito: la disciplina convenzionale opera dunque in una fase cronologicamente successiva e non risulta incompatibile con le regole di acquisizione.

Per quanto concerne l'asserito conflitto tra la norma convenzionale e il comma 4 dell'art. 111 Cost. e il comma 1 bis dell'art. 526 c.p.p., la Corte di cassazione fa leva su due argomentazioni.

Anzitutto, è possibile ricorrere «al tradizionale criterio ermeneutico della presunzione di conformità delle norme interne successive rispetto ai vincoli internazionali pattizi, ossia alla presunzione che il legislatore (…) non abbia inteso sottrarsi all'obbligo internazionale assunto dallo Stato, non volendo incorrere nella conseguente responsabilità per inadempimento nei rapporti con gli altri Stati». Tale criterio, nel caso di specie, acquista peraltro una rilevanza assoluta. Il comma 1 bis

271Cass., Sez. II, 18 ottobre 2007, n. 43331, Poltronieri, in Dir. pen. proc., n. 7, 2008.

dell'art. 526 c.p.p. è stato introdotto dall'art. 19 della l. n. 63 del 2001, al fine di dare attuazione codicistica al comma 4, seconda parte, dell'art. 111 Cost., come modificato dalla l. cost. n. 2 del 1999, la quale ha introdotto a livello costituzionale i principi del giusto processo sanciti dall'art. 6 della Cedu: a fronte di ciò, risulterebbe incongruo ritenere che il Legislatore abbia previsto una norma incompatibile con quella convenzionale. Per il Supremo Collegio «la differenza di formulazione rispetto alla norma Cedu non può pertanto essere intesa nel senso di una volontà del legislatore di impedire l'applicazione della regola convenzionale». Inoltre «la diversità di articolazione delle norme non esclude che esse costituiscono comunque applicazione di un identico o analogo principio generale inteso a porre un rigoroso criterio di valutazione delle dichiarazioni dei soggetti che la difesa non ha mai avuto la possibilità di esaminare e ad eliminare o limitare statuizioni di condanna fondate esclusivamente su tali dichiarazioni». Pertanto, le norme nazionali e convenzionali esprimono una ratio e perseguono finalità non dissimili.

In secondo luogo, la Cassazione rileva che «l'art. 526, comma 1

bis, c.p.p. (riproducendo l'art. 111, comma quarto, Cost.) pone un

limite alla utilizzazione probatoria delle dichiarazioni non rese in contraddittorio valevole per alcune determinate ipotesi. La norma convenzionale pone una analoga regola di valutazione probatoria delle stesse dichiarazioni valevole anche per altre ipotesi. Ora, la norma nazionale dice solo che in quelle ipotesi si applica quella regola, ma non dice anche che in ipotesi diverse debba valere un opposto criterio, ossia non esclude che anche nelle altre ipotesi possa applicarsi un analogo criterio di valutazione probatoria, ricavato in via interpretativa dalle norme o dai principi in materia o anche posto da una diversa norma comunque operativa nell'ordinamento. La norma nazionale, in applicazione del principio generale del giusto processo, pone una

determinata tutela per l'imputato, ma non esclude che una tutela più estesa possa essere posta o ricavata da norme diverse». Inoltre, considerando il rapporto tra il principio generale del contraddittorio nella formazione della prova nel processo penale di cui alla prima parte del comma 4 dell'art. 111 Cost. e la regola sancita dalla seconda parte della medesima disposizione, si nota che «questa regola va intesa non già come eccezione, bensì come svolgimento ed attuazione del principio generale»: essa, quindi, non va intesa come eccezione, con la conseguenza che identica o analoga regola di valutazione probatoria può essere legittimamente prevista per ipotesi ulteriori.

In conclusione, il Collegio ritiene pienamente ammissibile che criteri valutativi analoghi a quelli posti dalla norma convenzionale, ed in particolare la necessità di esaminare le dichiarazioni acquisite in assenza di contraddittorio congiuntamente ad altri elementi di riscontro, debbano operare nell'ipotesi in cui l'imputato non abbia avuto la possibilità di esercitare il suo diritto al confronto con colui che rende dichiarazioni a suo carico: ciò in considerazione del fatto che, rispetto al modello ideale della testimonianza raccolta con l'esame incrociato, la carenza del controesame riduce fortemente il grado di attendibilità della prova.

Del resto, secondo le Sezioni Unite, dovendosi condannare solo in presenza del superamento di ogni ragionevole dubbio in ordine alla colpevolezza dell'imputato ed essendo le dichiarazioni rese in carenza di contraddittorio e prive di riscontri dotate di scarso valore euristico, può reputarsi sotteso al sistema un criterio di prudenza nel valutarle a fini decisori.

Con specifico riguardo al caso di specie, la Corte di cassazione ha ravvisato l'erroneità della motivazione della sentenza impugnata nella parte in cui il Tribunale ha affermato «la intuibile e comprensibile, per molteplici motivi, anche economici, assoluta mancanza della volontà e

della possibilità di una turista danese di tornare in Italia solo per rendere testimonianza». Il Tribunale di Messina riteneva cioè accertato che la teste si era volontariamente sottratta, per sua libera scelta, all'esame. Ciò era stato peraltro confermato dalla Corte d'appello, che non aveva proceduto alla modifica della motivazione. A ciò, tuttavia, non aveva fatto seguito l'applicazione dell'art. 526, comma 1 bis, c.p.p. I giudici, quindi, avrebbero dovuto accertare l'esistenza di altri elementi probatori di riscontro alle dichiarazioni rese alla polizia giudiziaria, le quali di per sé sole non erano idonee a fondare un giudizio di colpevolezza.

In definitiva, il risultato perseguito è stato quello di un ampliamento delle garanzie previste dall'ordinamento nazionale attraverso l'integrazione con i principi sanciti dalla Corte di Strasburgo. L'impressione è dunque quella di un apprezzabile avvicinamento al tipo di giudizio effettuato dalla Corte europea, orientandosi la Corte interna verso l'analisi del “peso” che le dichiarazioni non sottoposte al contraddittorio hanno avuto ai fini della decisione272.

272Tuttavia, non si è mancato di osservare come in realtà il percorso ermeneutico seguito sia stato sin troppo articolato (v. C. CONTI, Le dichiarazioni del

testimone irreperibile, cit., p. 5). Invero, si è rilevato come un'interpretazione

convenzionalmente conforme degli artt. 512 e 526, comma 1 bis, c.p.p. poteva attuarsi per il tramite di un tracciato più lineare, anche in assenza di un'analisi sulla natura delle norme costituzionali. Ben si sarebbero potute richiamare, infatti, le c.d. “seconde sentenze gemelle” del 2009 della Corte costituzionale. In esse la Consulta, individuando la relazione sussistente tra i diritti tutelati all'interno della Costituzione e i diritti sanciti dalla Convenzione europea, aveva stabilito un “principio di massima espansione” delle garanzie, in virtù del quale le norme convenzionali hanno la funzione di ampliare l'area di protezione garantita dalla Costituzione ai diritti fondamentali. Di qui, per conseguenza, il fatto che il comma 5 dell'art. 111 Cost. si limita a disciplinare le ipotesi di deroga al contraddittorio, non pregiudicando la questione del valore probatorio da attribuire al dato conoscitivo acquisito in assenza di dialetticità. Da ultimo, un altro profilo critico mosso nei riguardi della sentenza De Francesco è rappresentato dalla circostanza che la pronuncia si è occupata di trattare del tema dell'utilizzo di dichiarazioni unilaterali divenute irripetibili per irreperibilità del teste senza prendere in considerazione l'eventuale ricorso a meccanismi idonei a ridurre tale rischio (si pensi ad un più esteso ricorso all'incidente probatorio, il che sarebbe possibile mediante un'estensione in via interpretativa della formula “altro grave impedimento” di cui alla lett. a) dell'art. 392, comma 1, c.p.p.), i quali avrebbero reso possibile sin da subito la realizzazione del contraddittorio (in tal senso, si