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Il minore: parte formale e sostanziale del processo civile.

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Academic year: 2021

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Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

TESI DI LAUREA

Il minore: parte formale e sostanziale del processo civile.

Candidato Relatore

Nancy Vanacore Chiar.mo Prof. Claudio Cecchella

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Indice

Introduzione. ...4

Capitolo I Il ruolo del minore nel contesto familiare. ...8

1.1. Evoluzione storica. ...8

1.2. Il minore come soggetto giuridico... 12

Capitolo II Il minore nel processo civile. ... 18

2.1. La competenza del giudice nel diritto di famiglia. ... 18

2.2. Il rito camerale. ... 44

2.3. Il ricorso in Cassazione. ... 56

2.4. Esecuzione dei provvedimenti minorili. ... 59

2.5. Il concetto di parte in senso formale e sostanziale del minore 79 2.6. La tutela dell’interesse preminente del minore. ... 95

Capitolo III La difesa tecnica del minore. ... 102

3.1. Cenni sulla disciplina internazionale: la Convenzione di New York e la Convenzione di Strasburgo. ... 102

3.2. La disciplina italiana: la Legge 149 del 2001 e l’interpretazione abrogatrice data dalla giurisprudenza. ... 108

3.3. Nomina, retribuzione e obblighi deontologici. ... 129

3.4. Necessaria specializzazione dell’avvocato del minore. ... 144

3.5. Il difensore del minore nel diritto comparato... 147

Capitolo IV L’ascolto del minore nel processo civile. ... 153

4.1. L’ascolto del minore nel contesto internazionale. ... 153

4.2. La disciplina nazionale: ricognizione dei procedimenti in cui il minore deve essere ascoltato. ... 158

4.3. Presupposti, modalità di esecuzione e natura giuridica dell’ascolto. ... 169

4.4. Omissione dell’ascolto e diritto del minore di non essere ascoltato. ... 182

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Conclusioni. ... 188

(4)

INTRODUZIONE.

La figura del minore nell'ordinamento giuridico italiano non ha sempre trovato un giusto riconoscimento a livello legislativo: solo negli ultimi decenni il legislatore ha riservato una disciplina normativa che fosse in grado di assicurare a quest'ultimo una adeguata tutela.

Il minore, infatti, è stato per molto tempo considerato come un’oggetto sottoposto alla potestà dei genitori ed estraneo nei processi in cui si discuteva dei suoi diritti. Questa visione paternalistica del minore come individuo debole e fragile ha creato le condizioni per un ostracismo dello stesso dal compimento di una qualsiasi attività processuale, in violazione dei fondamentali principi del sistema, tra cui il diritto di difesa espressamente previsto all'articolo 24 della Carta Costituzionale. Solo recentemente, grazie alla Legge 10 dicembre 2012, n. 219 e al D. Lgs. 28 dicembre 2013, n. 154, al minore sono stati riconosciuti diritti e interessi meritevoli di garanzia.

Il tema della tutela del minore è oggetto della Dichiarazione universale dei diritti del fanciullo: si tratta di un documento approvato il 20 novembre 1959 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite e revisionata nel 1989 quando ad essa ha fatto seguito la Convenzione Internazionale sui Diritti dell’Infanzia. Il primo documento non ha valore giuridico nel diritto ma impegna i paesi membri, da un punto di vista morale, al rispetto del minore ed alla sua protezione.

La Convenzione, invece, rappresenta uno strumento giuridico importante per imporre agli stati l’adempimento degli obblighi internazionali assunti in protezione e promozione dei diritti del fanciullo: essa è stata ratificata dall’Italia con Legge del 27 maggio 1991, n. 176. In particolare, si pone l’attenzione sul superiore interesse del bambino, il quale deve essere considerazione preminente in ogni decisione, azione legislativa e provvedimento giuridico e si garantisce al fanciullo capace di discernimento il diritto di dire la propria opinione

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sulle questioni che lo riguardano.

Inoltre, alcune importanti convenzioni, quali la Convenzione di New York del 1989 e la Convenzione di Strasburgo del 1996, hanno disciplinato una serie di istituti fondamentali quali l’ascolto del minore e l’obbligo di difesa tecnica: il bambino deve, infatti, potersi esprimere nei procedimenti che lo vedono coinvolto, soprattutto in ambito legale, grazie all’ausilio di una figura professionale capace di garantire efficacemente il suo diritto di difesa.

Tuttavia, nonostante questa cornice sistematica, il diritto positivo interno si è dimostrato restio ad adeguarsi a questi nuovi principi: il legislatore italiano, infatti, se da una parte ha previsto l’obbligatorietà dell’ascolto del minore nelle procedure familiari contenziose (tale onere non è così cogente nelle procedure che hanno come base della regolamentazione della crisi un accordo dei genitori), non ha fatto altrettanto in riferimento all’obbligo della difesa tecnica. Anziché sancire un generale diritto del minore ad essere rappresentato nel processo da un avvocato, il legislatore interno si è limitato a prevederlo solamente in alcune ipotesi (procedimenti volti alla dichiarazione di adottabilità e giudizi de potestate). Altresì, non è stata disciplinata per il minore una rappresentanza tecnica separata rispetto a quella dei genitori, specie nei casi di conflitto di interesse con questi ultimi: in tali ipotesi, infatti, deve essere nominato un curatore speciale che sostituisca i genitori nel ruolo di rappresentanti legali del minore1. Di seguito, è sorta

all’evidenza una lacuna legislativa: mancando una regolamentazione dei rapporti tra il difensore tecnico ed il rappresentante legale, si è dato adito ad una interpretazione abrogatrice delle uniche due norme che prevedevano l’obbligo di difesa tecnica del minore. La giurisprudenza2,

infatti, ha suggerito la soluzione della nomina di un avvocato quale curatore speciale del minore. Questo escamotage ha risolto

1 Articolo 78 Codice di Procedura Civile.

2 Corte di Cassazione, sentenza 14 luglio 2010, n. 16553; Corte Costituzionale,

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furbescamente, e solo apparentemente, il problema. L’inciso originario dell’articolo 336 c.c. prevedeva, infatti, che il compenso dell’avvocato fosse a spese dello stato in modo da assicurare al minore, che non possiede sufficienti risorse finanziarie, una tutela effettiva. Ritenendo questa spesa troppo gravosa per le casse dello Stato, tale previsione è stata abrogata nel 2002. Il rimedio è stato, quindi, quello di cumulare il ruolo di difensore e di curatore speciale del minore in un unico soggetto cosicché non si rendesse necessario retribuire l’onorario dell’avvocato, dato che l’attività di curatela, ad eccezione di un rimborso spese minimo, non è rimunerata.

L’istituto della rappresentanza tecnica3 non può e non deve essere

confuso con l’istituto della rappresentanza legale4 in quanto i due

concetti devono essere tenuti distinti: il curatore speciale quale rappresentante nel processo del minore deve, nei procedimenti in cui è previsto l’obbligo di difesa tecnica, munirsi di un avvocato. La giurisprudenza ha tentato, in questo modo, di sminuire la portata applicativa dell’istituto, anche se, recentemente, la Corte di Cassazione5

sembra aver fatto un primo passo verso una soluzione più garantista. Il seguente elaborato si propone come obiettivo quello di analizzare in maniera critica ed attenta la posizione del minore all'interno del processo civile, sia come parte formale sia come parte sostanziale.

Il primo capitolo si occuperà di individuare la posizione del minore all'interno del contesto familiare e l’evoluzione del ruolo di quest’ultimo nel corso del tempo.

Il secondo capitolo si aprirà con un’analisi della competenza del giudice civile, soffermandosi in particolare sulle criticità rappresentate dalla presenza di due organi giurisdizionali differenti per quanto riguarda le controversie familiari, il Tribunale per i minorenni e il Tribunale ordinario, e successivamente passerà ad analizzare il modello

3 Articolo 82 Codice di Procedura Civile. 4 Articolo 182 Codice di Procedura Civile.

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processuale maggiormente diffuso, ovvero il rito camerale, per poi proseguire con una rapida ricognizione del problema della ricorribilità in Cassazione dei provvedimenti familiari minorili e della loro esecuzione differenziata. Infine, si giungerà ad esaminare il concetto di parte sostanziale e processuale del minore e, in particolare, quali sono gli strumenti volti a tutelare l'interesse dello stesso.

Il terzo capitolo è volto ad osservare la disciplina internazionale, soprattutto le Convezioni di New York e di Strasburgo, e il loro recepimento nella disciplina interna; inoltre, si sottolineerà il ruolo del difensore tecnico e gli obblighi deontologici dello stesso, avendo cura di delineare le competenze specifiche richieste. Si rifletterà sulla necessità di una specializzazione del difensore del minore dovuta alla natura delle controversie: la particolarità delle situazioni soggettive tutelate e dei diritti ed interessi coinvolti nel contesto del diritto di famiglia sono tali da richiedere non solo una deroga alle regole del processo ordinario ma, ancora di più, una specializzazione nella formazione professionale dell’avvocato. Il difensore del minore, infatti, oltre ad avere una formazione giuridica, deve essere specificatamente formato su quelle che sono le materie psicologiche e sociologiche, in modo da garantire una tutela effettiva al minore che assiste. Verrà svolta, infine, una rapida comparazione con gli ordinamenti che hanno maggiormente influenzato il nostro sistema processuale civile.

Concludendo, l’ultimo capitolo si concentrerà sull’istituto dell’ascolto del minore nel processo quale mezzo di autodifesa di quest’ultimo, con particolare riferimento all’individuazione delle modalità di esecuzione ed alla natura giuridica.

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CAPITOLO I

IL RUOLO DEL MINORE NEL CONTESTO FAMILIARE.

SOMMARIO: 1.1. Evoluzione storica. – 1.2. Il minore come soggetto giuridico.

1.1. Evoluzione storica.

Il ruolo del minore nel contesto familiare è profondamente mutato negli ultimi decenni, grazie ad una visione sempre più moderna del concetto di famiglia e ad un riconoscimento sempre più ampio dei diritti in capo al minore quale individuo autonomo rispetto alle figure genitoriali.

Egli è sempre stato considerato, nella vita di relazione e nel contesto sociale in cui è inserito, il soggetto debole del rapporto personale in quanto non dotato di capacità di agire e pertanto affidato ad altri soggetti per la realizzazione dei propri diritti. Non essendo giuridicamente capace di compiere una attività giuridica relativa alla propria sfera di interessi sino al compimento della maggiore età, il minore versa in uno stato di soggezione nei confronti dell'adulto tale da poter essere considerato come l’elemento più debole.

«L'istituto dell'affidamento del soggetto minore di età alla persona adulta, difatti, non è nuovo alla società civile e costituisce un dato acquisito dall'ordinamento giuridico sin dalle sue origini: i genitori, naturalmente investiti della rappresentanza del minore, ne esercitano il relativo potere/dovere secondo parametri precipuamente soggettivi, fatti salvi i casi nei quali la sussistenza di una situazione di conflitto di interessi implichi la devoluzione della responsabilità genitoriale ad altre figure (parenti, tutore, curatore speciale, all'uopo nominati) »6.

6 B. POLISENO, Profili di tutela del minore nel processo civile, Collana dell'Università

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Tuttavia, se l'affidamento del minore ad una figura adulta costituisce la regola generale, i modi in cui questo avviene sono diversi a seconda del contesto storico, sociale e culturale in cui la vita familiare si svolge. Basti pensare come dai tempi della cultura greco-romana, dove la soggezione del figlio al volere del padre era pressoché assoluta e totale, si sia passati ad una società in cui la prole ed il rapporto con i genitori siano divenuti il fulcro del diritto di famiglia. Il concetto di patria potestà è stato sostituito, grazie alla Legge n. 219 del 2012, con quello di responsabilità genitoriale, quasi a voler sottolineare l'importanza dell'individualità del minore rispetto alle figure genitoriali. Solo recentemente si è avuto un riconoscimento formale dell'autonomia soggettiva del minore di età e l'individuazione di spazi di tutela sostanziale e processuale, non potendosi comunque negare la necessità delle figure genitoriali per quanto riguarda l'attuazione e l'esercizio effettivo dei diritti della prole. Nella normalità dei casi, infatti, sono i genitori che hanno il monopolio dell'affidamento dei figli e sono essi che individuano e scelgono quelli che ritengono essere i metodi educativi e le direttive ideologiche da impartire ai minori: tali scelte, seppur in astratto discutibili, non sono sempre e comunque sottoposte al vaglio sociale e/o giuridico. Il minore potrà far valere il proprio disaccordo rispetto alle scelte operate dai genitori all'interno del nucleo familiare ma, difficilmente, questa conflittualità varcherà le mura domestiche. Sino a quando la condotta dei genitori rientrerà nell'ambito di un comportamento lecito, nulla potrà essere sindacato ma, solamente quando la gestione della prole si manifesterà palesemente pregiudizievole per il minore, a quel punto, la società e l'ordinamento potranno indagare sul corretto esercizio della responsabilità genitoriale. Peraltro, va sottolineato come, in assenza di una domanda diretta ad ottenere una tutela effettiva per il minore, la funzione giurisdizionale

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risulta impossibile.

«La “giustizia civile minorile”, intesa come quella categoria di tutele dirette ad intervenire nell'ambito delle controversie familiari aventi anche ad oggetto diritti o veri e proprio status del minore, costituisce, allora, una risorsa sociale da implementare non soltanto al fine di rendere più facilmente riconoscibile il pregiudizio eventualmente perpetrato in capo al minore, ma altresì al fine di collocare la debolezza soggettiva del bambino nella relazione sostanziale con l'adulto tra gli obiettivi sensibili del processo, nella consapevolezza che, prima ancora di acquisire lo stato di “soggezione”, il minore si qualifica come “soggetto di diritti” alla stregua dell'individuo adulto con cui si relaziona7».

Operando una rapida disamina dell’argomento, l’elemento ricorrente in tutti i diversi modelli di relazioni familiari risulta essere la superiorità del potere e dell’autorità dell’uomo: il modello patriarcale era la prassi e, solamente in casi eccezionali, i figli e la moglie avevano un ruolo rilevante. Nelle famiglie di ceto medio-alto e di origine nobiliare le relazioni fra genitori e figli erano basate su principi rigidi e su di una

forte verticalizzazione.

Nel 1700 i giovani nobili si rivolgevano ad entrambi i genitori dandogli del “Lei” e con formule reverenziali; ogni riferimento al padre ed alla madre era accompagnato da espressioni e sostantivi nobilitanti. Ai figli i genitori rispondevano utilizzando il “Voi” ed evitavano di precisarne il nome preferendo indicarne il grado di parentela.

Nelle famiglie, soprattutto in quelle nobili, era evidente la spaccatura fra genitori e figli: il tempo che i primi dedicavano ai secondi era molto poco, la prole era pertanto percepita come un peso, un elemento di contorno per la propria vita intima, un pensiero di tipo patrimoniale e dinastico più che personale. La loro educazione era affidata, infatti, a

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soggetti estranei, maestri e precettori per lo più di estrazione ecclesiastica ed i genitori poco si curavano del loro sviluppo personale. Nel XIX secolo, in conseguenza delle grandi trasformazioni sociali, politiche ed economiche avvenute nei secoli precedenti (in primis la Rivoluzione industriale e la Rivoluzione Francese), questi modelli familiari basati sulla completa e totale deferenza dei figli nei confronti del padre entrarono in crisi. Nasceva in questo periodo un nuovo modello di famiglia dove si riducevano non solo le distanze sociali con moglie e figli, ma soprattutto il potere del padre nei confronti di questi ultimi.

«Venuta meno la struttura gerarchica e piramidale, si è riscoperta un’idea di famiglia come formazione sociale, tutelata dall’ordinamento non più in quanto portatrice di presunti interessi superiori, ma solamente se idonea a consentire ai singoli componenti di poter sviluppare la loro personalità al suo interno8».

Questa nuova idea di famiglia si sviluppò dapprima nei ceti più alti della società e poi si estese, successivamente, anche ai ceti meno abbienti. Le esigenze ed i bisogni dei singoli non furono più assorbiti all’interno del gruppo familiare ma trovarono un riconoscimento esterno, una forma di tutela ed assistenza da parte di quelle associazioni, ad esempio quelle operaie o professionali, alle quali il singolo decideva di aderire in virtù di un impiego che non era più frutto della famiglia di provenienza ma connesso alle proprie capacità professionali. Parallelamente, i rapporti tra i coniugi e quello tra genitori e figli subirono profondi e significativi mutamenti e si abbandonarono le forme reverenziali per utilizzare espressioni meno auliche, sintomatiche di un passaggio ad una visione più intima di famiglia, anche se bisognerà attendere la metà del 1800 per

8P.PERLINGIERI, Il diritto civile nella legalità costituzionale secondo il sistema italo-comunitario, Edizioni scientifiche italiane, Napoli, 2006, p. 919 ss. In particolare, ID., Sulla famiglia come formazione sociale, in Rapporti personali nella famiglia, Napoli, 1982, p. 39.

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veder comparire il “tu”, simbolo del cambiamento ad una concezione della famiglia basata sui legami affettivi.

La storiografia ha evidenziato come la transizione verso la modernità sia avvenuta in modo lento e graduale, spesso a seguito di grandi contrasti, finalizzati a rivoluzionare gli istituti tradizionali radicati nel profondo del tessuto sociale. La famiglia di tipo autoritario resistette a lungo: solo nel XIX secolo si registrò una grande e lineare trasformazione verso una società più giusta e in direzione di una maggiore emancipazione dei soggetti fino ad allora sottomessi. Fondamentale in questo senso fu quell’insieme di interventi legislativi che hanno contribuito alla cosiddetta “privatizzazione della famiglia e del suo diritto9”: la legge di

riforma del diritto di famiglia, che ha adeguato la disciplina codicistica a quella costituzionale, la legge sul divorzio, quella sull’adozione e quella sulla violenza domestica, la legge sull’affido condiviso, la legge sull’equiparazione dei figli naturali, legittimi e adottivi, rappresentano chiari indici in tal senso.

1.2. Il minore come soggetto giuridico.

Secondo l’ordinamento giuridico italiano, in base all’articolo 2 del Codice Civile10, il minore è quel soggetto persona fisica che non ha

ancora compiuto la maggiore età e dunque, sebbene sia titolare della capacità giuridica, non è titolare della capacita di agire. Quest’ultima è da intendersi come la “idoneità del soggetto a porre in essere un’attività

giuridicamente rilevante, consistente nell’acquisto o nell’esercizio di diritti ovvero nella assunzione di obblighi, mediante una manifestazione

9 P.ZATTI, Familia, familiae – Declinazioni di un’idea. I. La privatizzazione del diritto di famiglia, in Familia, 2002, p. 31 ss.

10Articolo 2 Codice Civile “La maggiore età è fissata al compimento del diciottesimo anno. Con la maggiore età si acquista la capacità di compiere tutti gli atti per i quali non sia stabilita un’età diversa. Sono salve le leggi speciali che stabiliscono un’età inferiore in materia di capacità a prestare il proprio lavoro. In tal caso il minore è abilitato all’esercizio dei diritti e delle azioni che dipendono dal contratto di lavoro”.

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di volontà che l’ordinamento considera a priori cosciente e consapevole11” e, dunque, la possibilità per il soggetto di svolgere un ruolo attivo nella propria sfera giuridica.

Il soggetto minore di età possiede, invece, solamente la capacità giuridica, ovvero quella condizione statica, che si acquisisce al momento della nascita, di titolarità di diritti e obblighi ma non è in grado di compiere un’attività giuridicamente rilevante né di porre in essere degli atti giuridici che siano vincolanti sia nei suoi confronti sia nei confronti di terzi.

L’articolo 2, comma 1, del c.c., sembra attribuire all’incapace legale di agire del minore una portata tendenzialmente illimitata. La regola generale individua nella maggiore età la condizione necessaria per poter compiere validamente tutti gli atti giuridici per i quali non sia stabilita un’età diversa. In questi ultimi casi, infatti, siamo in presenza di ipotesi di anticipazione della capacità legale di agire: il secondo comma dello stesso articolo prevede che il minore possa esercitare i diritti e le azioni che dipendono dal contratto di lavoro. Sebbene non sia esplicita l’idoneità di questo alla stipula personale del contratto si ritiene che il minore possa porre in essere, prestando il proprio consenso, tutta una serie di attività che derivano dallo stesso, tra cui la percezione di una retribuzione. Altri atti, per i quali è prevista una anticipazione della capacità legale di agire, sono gli atti personalissimi o quelli comunque legati alla sfera personale del soggetto, come ad esempio il riconoscimento di un proprio figlio o il contratto di matrimonio.

Infine, il minore ha la capacità di porre in essere le attività necessarie all’esercizio di alcuni diritti inviolabili dell’uomo sanciti dalla Costituzione come il diritto di riunione, il diritto di professare la propria fede religiosa e il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero.

11AA. VV, Diritto privato, Tomo Primo, Seconda edizione, Utet giuridica, Torino,

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In tutti gli altri casi, essendo assolutamente incapace di compiere validamente negozi giuridici, la legge indica chiaramente chi siano le persone alle quali spetta la rappresentanza dello stesso: si tratta dei genitori che, secondo la disposizione dell’articolo 320 comma 1 c.c., “rappresentano i figli nati e nascituri in tutti gli atti civili e ne

amministrano i beni12”.

La responsabilità genitoriale compete, generalmente, ad entrambi i genitori in quanto essi rivestono la qualifica di legali rappresentanti del figlio, agendo in suo nome e per suo conto nell’esercizio dei diritti e degli interessi spettanti a quest’ultimo.

Il concetto di responsabilità genitoriale è di recente introduzione: nel febbraio 2014 è entrato in vigore il D. Lgs 28 dicembre 2013, n. 154 che ha dato applicazione alla delega contenuta nella Legge 219 del 2012 e sono state modificate le norme del diritto di famiglia recanti l'espressione “patria potestà” sostituendola con quella di “responsabilità genitoriale”. La prima, infatti, poneva l’attenzione su quel complesso di poteri spettante al genitore in una posizione di supremazia rispetto a quella del figlio; la seconda, invece, indica quell’insieme di diritti e doveri che devono essere sì esercitati nei confronti dei figli, ma avendo cura di tutelare quello che è il preminente interesse del minore che, quindi, non si troverebbe più in una situazione di soggezione.

Sono previste regole specifiche per l’esercizio della rappresentanza e dell’amministrazione in relazione alla natura degli atti da compiere: per il compimento di atti di ordinaria amministrazione, i genitori possono agire anche disgiuntamente mentre per l’esercizio di atti di straordinaria amministrazione, essi devono agire congiuntamente e solo per necessità o utilità evidente del figlio, previa una necessaria autorizzazione da parte del giudice tutelare; gli atti compiuti dai genitori senza le autorizzazioni prescritte dalla legge sono annullabili secondo quanto disposto

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dall’articolo 322 c.c. Gli articoli 321 e 320 ultimo comma del c.c. prevedono la possibilità di una nomina di un curatore speciale sia per il compimento di atti di straordinaria amministrazione che i genitori non possano o non vogliano compiere, sia nei casi in cui sorga un conflitto di interessi patrimoniali tra i figli soggetti alla stessa responsabilità genitoriale o tra essi e i genitori o quello di essi che la esercita in via esclusiva.

Tuttavia, il rapporto che intercorre tra il minore ed i genitori non può essere ridotto nei termini di un sistema di rappresentanza e amministrazione del patrimonio dell’incapace: si tratta di un complesso quadro di doveri e poteri che la legge impone nei confronti dei figli concernenti sia aspetti di natura economica sia aspetti di natura personale quali l’educazione e la cura della persona del figlio come previsto dall’articolo 316 c.c.

Dunque, la relazione genitori-figli non può esaurirsi in prestazioni di natura patrimoniale ma deve comprendere anche aspetti individuali e privati.

«Molteplici sono infatti i pregiudizi che i minori possono patire a causa del comportamento dei genitori, soprattutto perché si tratta di individui la cui personalità è ancora in formazione e, non essendo in grado di camminare con le proprie gambe, versano in una particolare situazione di debolezza13».

Durante lo sviluppo psico-fisico, è di fondamentale importanza l’esistenza di un contesto idoneo e di punti di riferimento stabili sui quali poter fare affidamento: i genitori, dunque, rappresentano quell’ancora affettiva ed economica e costruiscono, con i propri figli, una situazione di dipendenza che varia a seconda dell’età e della maturità.

13 P.CENDON, Quali sono i soggetti deboli? Appunti per un incontro di studi, in Pol. dir., 1996, p. 485 ss.

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Pertanto, il compito degli adulti è quello di accompagnare la prole nella crescita, adempiendo ai propri doveri e obblighi genitoriali, tenendo conto di quello che è il carattere e l’individualità del soggetto minore14.

Questo incarico, secondo molti15, deriva dal solo fatto di aver procreato

e l’inadempimento di tali obblighi è capace di incidere negativamente sul corretto sviluppo dei minori, comportando profonde ripercussioni. Diverse sono anche le previsioni che intervengono a protezione del minore nei confronti della condotta dei genitori che non garantisce una adeguata cura agli interessi dell’incapace: l’articolo 330 c.c. sancisce la decadenza dalla responsabilità genitoriale di colui il quale violi o trascuri i propri doveri o abusi dei propri poteri; l’articolo 333 c.c. consente l’intervento del giudice e l’adozione di provvedimenti convenienti (fino all’allontanamento del minore, del genitore o del convivente che maltratta o abusa del minore dalla residenza familiare), quando la condotta del genitore non è tale da dar luogo ad una pronuncia di decadenza ma appare comunque potenzialmente pregiudizievole per il figlio.

Si tratta di norme dirette alla protezione degli interessi personali del minore, mentre l’articolo 334 c.c. è legato alla specifica protezione degli interessi patrimoniali dell’incapace e prevede la rimozione del genitore dall’amministrazione dei beni del figlio, qualora il patrimonio del minore sia male amministrato.

14Articolo 147 Codice civile.

15Tesi sostenuta da: A E M.FINOCCHIARO, Diritto di famiglia, Commento sistematico della legge 19 maggio 1975, n. 151. Legislazione-Dottrina-Giurisprudenza, Giuffrè, Milano, 1984, p. 378 e ss.; C.M.BIANCA, Diritto civile, 2, La famiglia, Le successioni,

Giuffrè, Milano, 2005, p. 314 e ss.; R.PACIA, Doveri dei genitori e responsabilità̀, in

Resp. civ., 2006, p. 103, spec. p. 105; G. A. PARINI, Rapporti genitori-figli e

responsabilità̀ civile, Aracne, Roma, 2011, p. 49; M.BESSONE, Art. 29-31, a cura di G. Branca, Bologna, 1982, p. 91 in Rapporti etico-sociali, in Comm. alla Costituzione ss.

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Laddove il minore rimanga privo di genitori in grado di esercitare la responsabilità, si apre l’istituto della tutela dei minori (articolo 343 c.c.), diretta a dare all’incapace un tutore. I compiti di quest’ultimo sono in gran parte simili a quelli dei genitori, in primis la cura del minore, ma si differenzia per la mancanza di autonomia nelle scelte legate al mantenimento, all’educazione o all’istruzione dell’incapace, che devono essere prese nel rispetto delle direttive indicate dal giudice tutelare. Al tutore sono attribuite anche la rappresentanza legale e l’amministrazione dei beni del minore ma i poteri sono sensibilmente più limitati rispetto a quelli del genitore ed egli può essere rimosso dall’ufficio quando si sia reso colpevole di negligenza o abbia abusato dei suoi poteri, oppure si sia dimostrato non idoneo all’adempimento di essi o ancora sia divenuto immeritevole dell’ufficio.

Quando il minore è emancipato, particolare situazione di chi ha compiuto i sedici anni ed ha acquisito una limitata capacità di agire per il compimento di specifici atti su autorizzazione del Tribunale (contratto di matrimonio ed esercizio di un’impresa commerciale), viene nominato un curatore con il compito pressoché esclusivo di prestare il consenso agli atti di straordinaria amministrazione che l’incapace relativo deve compiere.

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CAPITOLO II

IL MINORE NEL PROCESSO CIVILE

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SOMMARIO: 2.1. La competenza del giudice civile nel diritto di famiglia. – 2.2. Il rito

camerale. – 2.3. Il ricorso in Cassazione. – 2.4. L’esecuzione dei provvedimenti minorili. – 2.5. Il concetto di parte in senso formale e sostanziale del minore. – 2.6. La tutela dell’interesse preminente del minore.

2.1. La competenza del giudice nel diritto di famiglia.

Il riconoscimento al minore del ruolo di soggetto giuridico autonomo da parte dell’ordinamento interno ed internazionale presuppone la necessità di collocarlo nei processi civili incidenti la sua sfera sostanziale e di verificarne le modalità di partecipazione.

Preliminarmente, occorre precisare che il processo civile minorile è un processo multiforme: la categoria del diritto processuale familiare non si identifica in un modello rituale unico16 ma in un complesso di

procedimenti finalizzati alla tutela degli interessi esistenziali del minore. In particolare, la materia del diritto di famiglia, a seconda dei diritti che si intendono tutelare in giudizio, è ripartita tra il Tribunale ordinario e il Tribunale per i minorenni.

«La duplicazione delle competenze, oltre a rendere del tutto ingiustificata la presenza, in una sola articolazione, di un giudice laico, pone di per sé gravi difficoltà applicative, in particolare a tutela della certezza dei giudicati17».

«Nell’ambito della giustizia civile familiare, in particolare quella

16 F.TOMMASEO, Osservazioni sulle forme di partecipazione del minore al processo civile, in www.udai.it.

17 C.CECCHELLA, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, Zanichelli

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minorile, ricorrono numerosi ostacoli all’effettività della tutela, a causa di una normativa spesso lacunosa e incoerente18».

Si sostiene19, infatti, che alla luce di una riforma incompleta e di

un’interpretazione della stessa altrettanto dubbia, sia necessario eliminare la dicotomia di competenze e istituire un Tribunale per la famiglia che regolamenti ogni aspetto della giustizia minorile.

L’articolo 38 delle disposizioni di attuazione al codice civile disciplina i casi nei quali la materia è affidata all’uno o all’altro organo giurisdizionale: la norma indica le controversie affidate al Tribunale per i minorenni, prevendendo che tutte le altre siano affidate al Tribunale ordinario. Inoltre, le riforme concernenti la filiazione del 2012/2013 hanno previsto una forte estensione delle competenze del Tribunale ordinario in un’operazione di svuotamento del carico di lavoro tradizionalmente attribuito al tribunale specializzato. Si tratta di una chiara dimostrazione delle intenzioni del legislatore, volte ad assegnare al tribunale ordinario una competenza generale20.

Il Tribunale per i minorenni, disciplinato all’articolo 2 del Regio Decreto Legge del 20 luglio del 1934, n. 1404, denominato “Istituzione

e funzionamento del tribunale per i minorenni”, convertito nella Legge

27 maggio 1935, n. 835, è istituito presso ogni sede di Corte di Appello o sezione distaccata ed è composto da due giudici togati e due magistrati non togati rappresentati da un uomo e una donna scelti fra cultori di biologia, psichiatria, scienze sociali. Per quanto riguarda il giudizio di secondo grado, è prevista una sezione della Corte di Appello composta, allo stesso modo, da due giudici togati e due giudici “laici”, incaricata di occuparsi delle impugnazioni contro le decisioni del Tribunale per i minorenni. La presenza di un giudice laico nel collegio incontra delle

18 M.MORETTI, La ripartizione delle competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni, in Filodiritto, 2017, p. 1.

19 F.DANOVI, I procedimenti de potestate dopo la riforma, tra tribunale ordinario e giudice minorile, in Dir. Fam., 2013, p. 627 ss.

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difficoltà di tenuta sistematica e di principio, soprattutto in virtù dell’opera di razionalizzazione e svecchiamento messa in atto dalla Costituzione: «sebbene la materia delle relazioni familiari necessita più

di ogni altra dell’ausilio di cognizioni extra giuridiche, soprattutto per le forti implicazioni personali e psicologiche del conflitto, questo deve essere risolto attraverso un ausilio da parte di un consulente (come avviene nel procedimento dinanzi al tribunale ordinario) che possa fornire al giudice quegli elementi diversi dal diritto per dettare la regola concreta. Solo attraverso l’ingresso nel processo delle nozioni tecniche e scientifiche necessarie nelle forme della consulenza, è possibile il contraddittorio delle parti, sia nella formazione della relazione peritale e sia, al suo termine, nei suoi contenuti finali. Un contraddittorio che si conduce in coerente linea con il diritto di difesa e che oggi, dopo la legge n. 69 del 2009, assume forme procedimentali molto peculiari21».

Per queste ragioni, appare del tutto inopportuno, se non addirittura incostituzionale, la previsione di un giudice laico nel collegio.

Il nucleo delle competenze del Tribunale per i minorenni riguarda, in primis, le cosiddette controversie de potestate, ossia quelle controversie che, ai sensi degli articoli 330, 333 e 334 del c.c. riguardano la responsabilità genitoriale. Si tratta di norme che prevedono una serie di interventi del giudice, più o meno intensi, volti a porre fine alle condotte dei genitori che sono pregiudizievoli per il figlio e sono definite “de

potestate” in quanto fanno riferimento a quella che era la potestà

genitoriale, oggi responsabilità.

In secondo luogo, il Tribunale specializzato è competente nei procedimenti concernenti il diritto degli ascendenti di avere e mantenere legami affettivi con i propri nipoti, attualmente disciplinato all’articolo 317-bis del c.c. È solo grazie all’intervento del Decreto legislativo del

21 C.CECCHELLA, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, cit., p. 18

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28 dicembre 2013, n. 154 che si è codificato questo nuovo diritto22: tale

norma ha il pregio di riconoscere non solo l’importanza del legame appena detto, ma costituisce un’importante innovazione legislativa in quanto si preoccupa di valorizzare quello che è il vincolo culturale tra generazioni, uno scambio relazionale che permette un confronto continuo tra esperienze diverse. Seppure si tratti di una norma codicistica, l’articolo 317-bis non rappresenta un semplice principio destinato a rimanere solo sulla carta ma, al contrario, il legislatore ha previsto l’intervento dell’autorità giudiziaria nel caso in cui all’ascendente sia impedito l’esercizio del diritto stesso. Dell’opportunità della scelta di affidare al tribunale specializzato tale controversia, ritornando a “sdoppiare” la tutela del minore tra uffici giudiziari diversi, è agevole dubitare in quanto, in questo modo, si aggroviglia maggiormente il sistema, al punto di dover ritrattare il principio cardine della riforma sulla filiazione della concentrazione processuale delle tutele. A sostegno della scelta legislativa si è ritenuto, di converso, richiamare la Relazione illustrativa della Commissione Bianca addetta alla redazione del testo normativo in vigore dal 2013, secondo la quale l’attribuzione della competenza al tribunale specializzato troverebbe giustificazione nell’orientamento giurisprudenziale dominante23 che riconduce tali controversie nell’alveo

dell’articolo 333 c.c. Di contro, è opportuno sottolineare come tale assimilazione non è pertinente con la scelta legislativa effettuata in quanto l’orientamento giuridico richiamato risale ad un contesto diverso nel quale il potere di azione degli ascendenti era circoscritto alla tutela dell’interesse del minore in ipotesi di pregiudizio e non anche iure

proprio. Il riconoscimento formale del diritto in capo ai nonni di

conservare una propria vita di relazione con i nipoti, secondo il novellato

22 F. DANOVI, Il d. lgs. n. 154/2013 e l’attuazione della delega sul versante processuale: l’ascolto del minore e il diritto dei nonni alla relazione affettiva, in Famiglia e diritto, 2014. L’autore lo definisce un “diritto soggettivo perfetto”. 23 Cass. 24 febbraio 1981, n. 115; Cass. 17 giugno 2009, n. 14091.

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articolo 317-bis, avrebbe dovuto affrancare il correlato diritto di azione dalla disposizione relativa ai procedimenti ablativi o limitativi della responsabilità genitoriale ex articolo 330 e seguenti24: tale questione è

stata rimessa alla Corte costituzionale25, la quale ritenendola infondata,

ha perso nuovamente l’occasione per ricomporre il complesso sistema processuale. Tuttavia, l’introduzione di questo nuovo diritto ha eliminato gli ostacoli prima vigenti alla partecipazione dei nonni al processo incardinato tra i genitori, reputando ora ammissibile un intervento degli stessi ex articolo 105 c.c. in via tanto principale che litisconsortile, e non potendo poi escludere un intervento in via adesiva nel caso in cui il diritto dei nonni sia impedito dall’atteggiamento ostruzionistico di uno o di entrambi i genitori in conflitto26.

Inoltre, il Tribunale specializzato è competente per tutto ciò che riguarda gli interventi di volontaria giurisdizione in senso stretto, in cui il giudice non è deputato a dirimere una controversia sui diritti ma ad amministrare gli interessi alla luce di quelli generali. In particolare, tale organo giurisdizionale autorizza, per gravi motivi, il matrimonio per il minore che ha compiuto i 16 anni, autorizza la continuazione dell’esercizio dell’impresa del minore e si occupa di nominare un curatore speciale all’incapace legale quando vengono stipulate convenzioni matrimoniali. Da ultimo, l’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del c.c. attribuisce a questo giudice il compito di autorizzare l’esercizio, da parte

24 B.POLISENO, Profili di tutela del minore, cit., p. 214; B. POLISENO, La tutela processuale degli ascendenti nella crisi familiare (Nota a Corte cost. 24 settembre 2015, n. 194), in Foro italiano, 2006, p. 1585.

25 La questione è stata rimessa al vaglio della Corte costituzionale dal Tribunale min.

Bologna 5 maggio 2014 (in Fam. dir., 2014, p. 807, con nota di A.ARCERI, Il diritto dei nonni a mantenere rapporti con i nipoti al vaglio della Corte Costituzionale, in Fam. dir., 2014; nota di F. DANOVI, Diritti dei nonni e competenza del giudice

minorile: la parola alla corte costituzionale), in Judicium, 2014, dal Trib. Min. Napoli 25 luglio e 10 novembre 2014. La Corte costituzionale ha deciso con sentenza 8 luglio 2015, n. 194.

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del minore, delle azioni per il riconoscimento della paternità del figlio incestuoso, essendo questo un aspetto molto delicato, e la normativa sulla adozione, la Legge 4 maggio 1983, n. 184 stabilisce che la fase amministrativa di tale procedimento sia affidata al Tribunale per i minorenni.

L’ articolo 38, al secondo comma, ripropone la regola di chiusura secondo la quale “sono emessi dal Tribunale ordinario i provvedimenti

relativi ai minori per i quali non è espressamente stabilita la competenza di una diversa autorità̀ giudiziaria”. La novità rispetto al

testo previgente, così come è stato sottolineato27, consiste nell’aggiunta

delle parole «relativi ai minori», il che dovrebbe bastare ad arginare i tentativi, più̀ volte compiuti in passato, di estendere la competenza del Tribunale specializzato a giudizi che la legge non gli attribuiva espressamente, ma nei quali venisse in rilievo la tutela degli interessi del minore.

La norma dispone che tutte le altre controversie siano assegnate al Tribunale ordinario: tutto ciò che concerne non la limitazione o la perdita della responsabilità genitoriale, bensì le azioni che attengono al concreto esercizio della stessa è sottoposto alla disciplina del giudice ordinario, cosi come ad esso sono attribuiti tutti i procedimenti di separazione e divorzio, anche qualora in quest’ambito si debbano assumere misure che riguardano l’affidamento o il collocamento del figlio.

Per di più, sono attribuiti ad esso tutti i provvedimenti che riguardano gli aspetti economici del minore (ad esempio il contributo di mantenimento dei figli in costanza di matrimonio, in costanza di convivenza o in caso di crisi del matrimonio o della convivenza), cosi

27G.IMPAGNATIELLO, Profili processuali della nuova filiazione: riflessioni a prima lettura sulla L.10 dicembre 2012, n. 219, in Le nuove leggi Civili commentate, 2013, p. 718.

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come le azioni di status (dichiarazione giudiziale di maternità o paternità naturale) e gli altri episodi di volontaria giurisdizione non spettanti espressamente al Tribunale per i minorenni.

«La duplicazione delle competenze, oltre a rendere del tutto ingiustificata la presenza, in una sola articolazione, di un giudice laico, pone di per sé gravi difficoltà applicative, in particolare a tutela della certezza dei giudicati. […] Si tratta di questioni che hanno tendenzialmente lo stesso oggetto, in quanto riguardano la regolamentazione dei comportamenti delle parti nel rapporto tra genitori e figli, eppure sono giudicate da giudici diversi e in alcuni casi con riti diversi28».

Nonostante questa ripartizione appena esposta, esiste una sorta di “vis

attractiva” della competenza del Tribunale per i minorenni al Tribunale

ordinario: quando vi sono casi di connessione tra una controversia di competenza del primo con una controversia del secondo concernente un procedimento di separazione e divorzio o un procedimento sulle modalità di esercizio della responsabilità genitoriale (articolo 316 c.c.), la connessione giustifica la trattazione unitaria davanti al Tribunale ordinario. Questo criterio è stabilito espressamente all’articolo 38 delle disposizioni di attuazione del c.c.

«La ratio della disposizione è chiara: favorire il simultaneus processus, attribuendo al giudice ordinario anche il potere di emanare - nell’interesse del minore - ulteriori provvedimenti in qualche misura connessi. La riduzione di competenza del Tribunale per i Minorenni (privilegiando l’ambito di operatività del giudice ordinario) risponde all’esigenza di realizzare una parità di trattamento tra figli, in riferimento al prioritario interesse del minore - che funge da perno per tutta la materia familiare – ed evitare giudicati contrastanti29».

28 C.CECCHELLA, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, cit., p. 20. 29M.MORETTI, La ripartizione delle competenze, cit., p. 4; C.M.CEA, I conflitti di competenza ex art. 38 disp. att. c.c. al vaglio della S.C., in Questione giustizia, 2014.

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Inoltre, la scelta del Tribunale ordinario, organo distribuito più̀ capillarmente sul territorio rispetto ai Tribunali per i minorenni, che hanno sede nei capoluoghi di distretto, assicura ai cittadini maggiore prossimità nell’accesso alla giustizia.

I presupposti indicati dal legislatore per rendere operante la vis

attractiva sono l’identità di parti tra i due giudizi e che il procedimento

dinanzi al Tribunale ordinario sia “in corso”.

L’espressione utilizzata dal legislatore “tra le stesse parti” sembrerebbe intendere che l’effetto attrattivo non operi nei casi in cui la richiesta di provvedimenti de potestate fosse fatta valere dinanzi al Tribunale per i minorenni da parte di soggetti diversi dai genitori, quali ad esempio i parenti, legittimati ai sensi dell’articolo 336 c.c., essendo tali soggetti estranei ai processi pendenti dinanzi al tribunale30.

Si deve, inoltre, ricordare che il pubblico ministero, qualora abbia promosso lui stesso il ricorso, possa rivestire, nei giudizi de potestate, il ruolo di parte, mentre nei giudizi di separazione e divorzio o quelli di cui all’articolo 316 c.c. solo il ruolo di interventore necessario, potendo assumere la qualifica di parti processuali solamente i genitori. Stante la diversità di ruoli svolti, sembrerebbe doversi escludere l’identità di parti tra i due giudizi tale da giustificare la trattazione unitaria. La giurisprudenza di merito31 ha sottolineato come con “stesse parti” si

debba far riferimento alle parti principali del giudizio, i genitori, essendo irrilevante il ruolo svolto dal pubblico ministero. In particolare, la Cassazione ha, in seguito, evidenziato come «non possa assumere

rilevanza preclusiva all’operare nella specie della vis attrattiva la sola

30 F.DANOVI, Il processo per separazione e divorzio, Giuffrè, Milano, 2015, p. 101;

F.TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione: i profili processuali, in Famiglia e

diritto, 2013, p. 257; M.A.LUPOI, Il procedimento della crisi tra genitori non coniugati

avanti al Tribunale ordinario, in Riv. Trim., dir. E proc. Civ., 2013, p. 1298.

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diversità del ruolo del pubblico ministero nei due giudizi (ricorrente in quello minorile, interventore obbligatorio nell’altro), tenendo presente che ciò che non incide sull’esigenza, che la norma mira ad attuare, di concentrazione in un solo processo di due cause in entrambe le quali siano parti i genitori32».

Il secondo punto controverso è rappresentato dal fatto che il legislatore ha utilizzato un termine, “in corso” che non è certo sinonimo di “giudizio pendente”.

La pendenza del giudizio si verifica per effetto della proposizione della domanda giudiziale sino al passaggio in giudicato del provvedimento ovvero all’estinzione della causa. Mentre il concetto di giudizio in corso richiama un giudizio in cui sono in atto attività processuali33.

Si tratta, allora, di stabilire se la competenza del giudice ordinario a conoscere le domande de potestate sussista solo quando sia in corso un giudizio di separazione o di divorzio o quello previsto dall'art. 316, oppure anche quando siano pendenti i termini per impugnare o il processo sia in quiescenza perché́ sospeso o interrotto, posto che la legge stabilisce anche che la competenza del giudice ordinario rimane ferma “per tutta la durata del processo”.

Sul punto la Suprema Corte ha affermato che «risulta, pertanto,

contrastante con essa un’interpretazione che scomponga il processo in fasi o in gradi e che, conseguentemente, possa condurre a ritenere la competenza del Tribunale per i minorenni nelle predette fasi di quiescenza del processo, non soltanto dovute alla pendenza dei termini per l’impugnazione ma anche dettate dall’insorgenza di cause interruttive, provvedimenti ex art. 295 c.p.c. etc.34».

La Cassazione ha, quindi, accolto l’interpretazione per cui si tiene ferma

32 Cass., 19 maggio 2016, n. 10365.

33 A.GRAZIOSI, Diritto processuale di Famiglia, Giappichelli Editore, Torino, 2016, p.

98.

34 Corte di Cassazione, Sezione VI, Ordinanza 26 gennaio 2015, n. 1349, in Famiglia e diritto, 2015, p.653, con nota di BUFFONE, Riparto di competenza tra T.O. e T.M. in

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la competenza del giudice ordinario anche in tali ipotesi, poiché́ la legge nel fare riferimento a "tutta la durata del processo" prenderebbe in considerazione la situazione di pendenza ossia, per ripetere le parole della Corte, “un continuum” che si conclude soltanto col passaggio in giudicato: pertanto, il giudizio di crisi coniugale deve ritenersi ancora “in corso” anche durante la decorrenza dei termini per impugnare e durante le eventuali situazioni di quiescenza.

A medesime conclusioni è giunta anche la dottrina35, ritenendo doverosa

una lettura ampia della disposizione che giunga ad ammettere anche in questo caso l’attrazione, in ossequio al principio generale della concentrazione delle tutele per tutte le questioni che concernono la responsabilità e l’affidamento dei minori.

Nonostante siano stati chiariti questi aspetti, il testo dell’articolo 38 disp. att. c.c. risulta ancora essere molto ambiguo, ponendo dei grossi problemi sul piano interpretativo.

La prima questione equivoca fa riferimento al fatto che la norma letteralmente afferma che “per i procedimenti di cui all’articolo 333 c.c.

resta esclusa la competenza del Tribunale per i minorenni nell’ipotesi in cui sia in corso, tra le stesse parti, giudizio di separazione o divorzio o giudizio ai sensi dell’articolo 316 c.c.” non chiarendo il caso in cui il

procedimento dinanzi a quest’ultimo sia attivato per primo rispetto a quello dinanzi al Tribunale ordinario. Questo, potrebbe voler dire che anche in questa ipotesi si creerebbe, ugualmente, un effetto attrattivo e non si applicherebbe il criterio della litispendenza e della prevenzione (criteri previsti dall’articolo 40 c.p.c. secondo i quali le cause proposte davanti a giudici diversi per ragioni di connessione possono essere decise in un solo processo, ossia davanti al giudice della causa principale

35 F.DANOVI, Il processo per separazione e divorzio, cit., p. 97; C.M.CEA., Profili processuali della legge n. 219/ 2012, in Questione giustizia, 2013; G. DE MARZO,

Novità̀ legislative in tema di affidamento e mantenimento dei figli nati fuori dal matrimonio: profili processuali, in Foro it., 2013, p. 14.

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o quello preventivamente adito), creando un pericolo di forum

shopping36. In questo modo, si permetterebbe anche ad uno solo dei

genitori di mutare il giudice naturale precostituito per legge, instaurando, magari solo per finalità̀ strumentali, un procedimento separativo o divorzile dinanzi al Tribunale ordinario al fine di sottrarre al giudice naturale il procedimento precedentemente instaurato37.

La soluzione è stata data dalla Corte di Cassazione che, in una ordinanza38, ha ritenuto applicabile, attraverso una lettura un po' forzata

della norma, l’articolo 5 del c.p.c. sulla perpetuatio iurisdictionis nell’ambito della vis attractiva e, dunque, ha fatto valere il criterio della prevenzione: se viene instaurato per primo il procedimento di separazione o divorzio o il procedimento sull’esercizio della responsabilità genitoriale dinanzi al Tribunale ordinario si crea l’effetto attrattivo per i procedimenti connessi che si trovano dinanzi al Tribunale per i minorenni; se, al contrario, viene instaurato prima quello dinanzi a quest’ultimo, permane la separazione e le due azioni giudiziarie saranno decise in maniera autonoma. Vi è da dire peraltro che il principio della

perpetuatio iurisdictionis sembra assumere rilevanza costituzionale, in

quanto corollario del principio del giudice naturale (articolo 25, comma 1, della Costituzione).

Questa soluzione, sebbene plausibile, non risolve però il problema fondamentale di un possibile contrasto di giudicati sulla stessa questione. I rimedi potrebbero essere due: l’applicazione rigorosa delle norme sulla litispendenza, per cui chi ha adito per primo prosegue e chi per secondo declina (art. 39 c.p.c.), oppure, nel segno di una disciplina

36 G.SEPE, Enciclopedia Treccani, v. forum shopping, www.treccani.it, Fenomeno per

cui le parti di una controversia possono di fatto scegliere di incardinare il relativo giudizio di fronte a una delle diverse corti astrattamente competenti a conoscere la materia.

37 V.MONTARULI, Profili sostanziali e processuali relativi alla legge 10 dicembre 2012, in Judicium, 2013, p. 17 ss.

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razionale, unitaria e sistematica, si affidano ad un solo giudice tutte le controversie in materia di relazioni familiari39.

Il secondo dubbio irrisolto dall’articolo 38 disp. Att. c.c. è quello per cui la lettera della norma sembrerebbe far riferimento, per quanto riguarda l’effetto attrattivo, solamente ai procedimenti di cui all’articolo 333 c.c. e non all’articolo 330 c.c. creando non poche incertezze su una questione così delicata in giurisprudenza e in dottrina.

Sul punto si sono formati diversi orientamenti: il primo orientamento tende ad escludere la vis attractiva del giudice ordinario in relazione a provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale non essendoci mai interferenza con le questioni relative all’ esercizio della responsabilità genitoriale, di cui il Tribunale ordinario conosce in pendenza di separazione o divorzio. In favore di tale opzione sono presenti decisioni della giurisprudenza di merito40 che hanno escluso

che la formulazione del novellato art. 38 disp. att. c.c. possa comportare l'attribuzione al giudice ordinario del potere di pronunciare la decadenza della responsabilità di un genitore, in quanto il richiamo operato dall’articolo 38 disp. Att. c.c. al “primo periodo” deve intendersi “al

periodo precedente” e quindi quello che disciplina i procedimenti ex art.

333 c.c.

Di avviso contrario altra giurisprudenza di merito41 che in forza del

principio di concentrazione delle tutele estende la competenza del giudice ordinario alle controversie di cui all’articolo 330 c.c.: la norma

39 C.CECCHELLA, Diritto e processo nelle controversie familiari e minorili, cit., p. 23. 40 Trib. Min. Catania, decr. 22 maggio 2013, in Famiglia e diritto, 2014, p. 60 con nota

di RUSSO, La competenza nei procedimenti de potestate dopo la novella dell’articolo 38 disp. Att. c.c.: il principio della concentrazione delle tutele e i rapporti tra giudice specializzato e giudice ordinario; Trib. Min. Brescia, decr. 1° agosto 2013, in Fam. e dir., 2014, p. 680 con nota di TOMMASEO, Provvedimenti limitativi de potestate e

competenza per attrazione del giudice ordinario; Trib. Milano,3 ottobre 2013, ivi, 2014, p.589; Trib. Milano, 4-11 dicembre 2013, ivi, 2014, p. 680.

41 Trib. Min. Bari, decreto 30 marzo 2013, in Giur. It., 2014, p. 1128, con nota di

POLISENO, Limiti alla competenza del tribunale ordinario per i provvedimenti de

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parla di “procedimenti” al plurale e di “provvedimenti contemplati dalle

disposizioni richiamate nel primo periodo” e tra questi vi è, appunto,

anche quello della decadenza dalla responsabilità genitoriale. Infine, se cosi non fosse, verrebbe meno quell’esigenza di coordinamento tra giudicati che è la ratio posta alla base dell’essere tutto compiuto dinanzi ad uno stesso giudice. Quindi, anche in tal caso, è doverosa una lettura estensiva, che può̀ agevolmente argomentarsi anche sul piano della lettera della legge42.

Tali dubbi interpretativi hanno condotto alla stesura di Protocolli diretti a coordinare il Tribunale ordinario e il Tribunale per i minorenni in ordine alla competenza sui procedimenti relativi alla decadenza dalla responsabilità: in particolare, si ricorda il Protocollo tra il Tribunale ordinario di Brescia e il Tribunale per i minorenni di Brescia dell’aprile del 2013 il quale esclude che il novellato art. 38 disp. att. c.c. possa comportare l’attribuzione al giudice ordinario di pronunciarsi sulla decadenza dalla responsabilità; il Protocollo tra il Tribunale per i minorenni di Bari e il Tribunale ordinario di Foggia del dicembre 2013 ritiene, invece, il Tribunale ordinario quale organo competente anche per i procedimenti ex artt. 330-333 c.c. ma solamente nel caso in cui dinanzi ad esso sia presente una domanda concernente l’affidamento dei minori, sicché qualora non sia stata proposta o, se proposta, sia stata pronunciata una sentenza non definitiva che abbia deciso sull’affidamento dei figli e il giudizio sia in corso solo per le questioni economiche, la competenza ad emettere i provvedimenti ex artt. 330-333 c.c. spetterebbe al Tribunale per i minorenni.

42F.DANOVI, Il processo per separazione e divorzio, cit., p. 104 ss.; F.TOMMASEO, I procedimenti de potestate e la nuova legge sulla filiazione, in Riv. dir. proc., 2013, p. 529; A.PROTOPISANI, Note sul nuovo art. 38 disp. att. c.c. e sui problemi che essa

determina, in Foro it., 2012, V, p. 128.F.DANOVI, Competenza o competenze? (Verso

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Sul punto, è intervenuta più volte anche la Corte di Cassazione mostrando un atteggiamento ondivago: in alcune pronunce43 la Corte ha

sostenuto che, nonostante il giudice specializzato ed il giudice della separazione e del divorzio possano, in presenza di una situazione di pregiudizio dei minori, assumere provvedimenti volti alla tutela del figlio, rimarrebbe inalterata la competenza del Tribunale per i minorenni per quanto riguarda le pronunce di decadenza ex articolo 330 c.c., anche se pendente un giudizio di separazione o divorzio.

«La decadenza dalla responsabilità genitoriale non si ritiene, infatti, compatibile con la natura delle questioni che attengono all’affidamento e al mantenimento dei minori, le quali presuppongono tutte il diritto soggettivo del padre e della madre alla genitorialità. Qualora si realizzi un abuso dei poteri e una violazione dei doveri a carico di un genitore, tale da causare un grave pregiudizio al figlio e da legittimare l’adozione di misure ablative della sua responsabilità, la competenza non può che spettare al T.m. […] Sicché non vi è alcuna interferenza tra aspetti concernenti il riconoscimento della responsabilità e aspetti inerenti al suo esercizio44».

In altre occasioni45, la Corte, avendo rilevato quanto fosse frequente che per un’identica situazione conflittuale potessero essere aditi due organi giurisdizionali diversi e potessero essere assunte decisioni tra loro contrastanti ed incompatibili, ha ritenuto di assegnare al Tribunale ordinario, a discapito del Tribunale per i minorenni, la competenza a decidere anche per i provvedimenti ablativi della responsabilità genitoriale e non soltanto per quelli limitativi a cui fa espresso riferimento il testo del citato articolo 38. Il ragionamento di base è quello

43 Corte di Cassazione 14 ottobre 2014, n. 21633, in Foro it., 2015, I, c.1253; Cass. 27

febbraio 2013, n. 4945, in Foro it., 2013, I, c. 2176; Cass. 8 marzo 2013, n. 5847.

44C.TRAPUZZANO, Riparto di competenze tra Tribunale ordinario e Tribunale per i minorenni. Disciplina vigente e prospettive di riforma, in La Magistratura (Luglio-Dicembre 2014-Anno LXIII-Numero 3-4), Gennaio 9, 2015).

45 Corte Cass. 26 gennaio 2015, n. 1349, in Foro it., 2015, I, c. 1253; Cass. 22 giugno

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per cui sarebbe illogico che l’effetto attrattivo previsto dall’articolo 38 disp. att. c.c. si riferisse solo alle ipotesi di cui all’articolo 333 c.c. e non anche a quelle di cui all’articolo 330 c.c.: nella maggioranza dei casi, le parti chiedono sia la misura maggiore della decadenza dalla responsabilità genitoriale sia quella minore volta alla limitazione della medesima, non essendoci un confine netto tra le due procedure in relazione ai possibili esiti46. Difatti, la presentazione delle due domande

impone il simultaneus processus presso il giudice del conflitto genitoriale per cui sarebbe irrazionale la trattazione dell’una al giudice specializzato e l’altra al giudice ordinario. Inoltre, si deve sottolineare come il potere del giudice, con riguardo ai provvedimenti da assumere nell’interesse del minore a poter condurre la sua esistenza sulla base di decisioni non contrastanti, deve esplicarsi nel potere di adottare misure limitative della responsabilità genitoriale anche qualora sia stata richiesta la decadenza.

«Emerge con evidenza che si è voluto favorire la concentrazione delle tutele in capo ad uno stesso giudice ogni qual volta si tratta di decidere questioni riguardanti i rapporti tra i genitori e i loro figli minori e questo non soltanto per ragioni di economia processuale ma soprattutto per evitare che giudici diversi conoscano domande tra loro strettamente interconnesse come quelle riguardanti l'affidamento e quelle incidenti sulla potestà̀ parentale con il rischio di regolare tali complessi rapporti in modo contraddittorio e incoerente47».

46 In questo senso,F.DANOVI, Il processo per separazione e divorzio, cit., p. 104 ss.;

F.TOMMASEO, I procedimenti de potestate e la nuova legge sulla filiazione, cit., p.

529; G.IMPAGNATIELLO, Profili processuali della nuova filiazione, cit., p. 724; C.M.

CEA, Trasferimento del contenzioso del giudice minorile al giudice ordinario ex l. 219/12, in Foro it., 2013, I, p. 118; M.A.LUPOI, Il procedimento della crisi tra

genitori, cit., p. 1296; A.PROTO PISANI, Note sul nuovo art. 38 disp. att. c.c. e sui

problemi che essa determina, cit., p. 128.

47 F. TOMMASEO, I provvedimenti de potestate: quale soluzione dare ai ricorrenti conflitti di competenza? in Competenza funzionale ripartita tra il Tribunale per i Minorenni ed il Tribunale ordinario a seguito della Riforma (L. 219/12 D.lgs. 154/13),

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La Corte di Cassazione ha, quindi, espresso chiaramente, adottando una linea interpretativa che può ritenersi stabilizzata, la propria posizione a favore dell’estensione della vis attractiva anche nei confronti dell’articolo 330 c.c., specificando come tale soluzione sia da preferire per garantire unitarietà e coerenza nell’ambito del diritto familiare. Difatti, come sostengono molti autori48, sarebbe incongruente attribuire

al giudice ordinario una competenza ad emanare, in caso di condotte pregiudizievoli, tutti i provvedimenti opportuni ex art. 333 c.c. ma continuare a riservare al giudice specializzato ulteriori pronunce sulla decadenza della responsabilità che richiederebbero un trattamento processuale il più̀ possibile contestuale.

L’ultima questione dubbia che ancora rimane da analizzare del presente articolo è quella per cui l’effetto attrattivo, secondo quanto disposto dalla lettera della disposizione, varrebbe solamente per i procedimenti di separazione e divorzio o per i giudizi ai sensi dell’articolo 316 del codice civile ma non per gli altri, vale a dire se sia o meno possibile estendere tale deroga di competenza anche ai procedimenti di modifica o di revisione dei procedimenti contemplati. Tale dubbio appare di facile soluzione: la dottrina maggioritaria49, infatti, propende per l’estensione

dell’effetto attrattivo anche ai giudizi di revisione in quanto sarebbe irragionevole non allargare la suddetta deroga anche ad essi. Difatti, dovrebbero essere considerati una “fase”, pur se eventuale, del giudizio

Diritto delle Relazioni Familiari - Programma formazione 2015/2016 Ordine Avvocati Salerno - Referente Avv. Laura Landi, Incontro del 21 ottobre 2015, p. 8.

48 F.DANOVI, I procedimenti de potestate dopo la riforma, cit., p. 627; B. DE FILIPPIS, La nuova legge sulla filiazione: una prima lettura, in Famiglia e diritto, 2013, p. 297-298.

49G. SCARSELLI, La recente riforma in materia di filiazione: gli aspetti processuali, in

rivista “A.I.A.F.”, n.1 del 2013; G. DE MARZIO, Novità legislative in tema di

affidamento e mantenimento dei figli, cit., p. 12 e ss.; F.DANOVI, Il processo per

separazione e divorzio, cit., p. 97-98; F.TOMMASEO, La nuova legge sulla filiazione, cit., p. 257; G.IMPAGNATIELLo, Profili processuali della nuova filiazione, cit., p. 724.

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