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Le microstrutture del problema a due pozzi

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(1)

UNIVERSIT

A DEGLI

`

S

TUDI DI

PISA

Facolt`a di Scienze Matematiche, Fisiche e Naturali

Corso di Laurea Specialistica in Matematica

Alcuni problemi matematici

dalla teoria delle microstrutture

25 Gennaio 2008

Candidato:

Simone Nardi

Relatore:

Giovanni Alberti

Controrelatore:

Matteo Novaga

Anno Accademico: 2006-2007

(2)

Per mio padre e mia madre,

(3)

Indice

Introduzione iii

1 Setting del problema 1

1.1 Cosa sono le microstrutture? . . . 1

1.2 Microstrutture: minimizzatori di energia . . . 3

1.3 Modelli variazionali per cristalli elastici . . . 4

1.4 Problemi di base . . . 8

1.5 Introduzione al problema a due pozzi . . . 9

2 Problema ad un Pozzo 11 3 Le misure di Young 14 3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young . . . 14

3.2 Esempi . . . 23

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore . . . 25

4 Quasiconvessit`a 32 4.1 Nozioni di convessit`a . . . 32

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a . . . 39

5 Misure di Young che derivano da gradienti 44 5.1 Classificazione delle misure di Young gradienti . . . 44

5.2 Inviluppo convesso e soluzione del Problema 3 . . . 54

6 Problema a due Pozzi 58 6.1 Due pozzi in due dimensioni . . . 59

6.2 Esistenza di soluzioni esatte . . . 65

7 Alcune estensioni 76 7.1 Due pozzi in tre dimensioni . . . 76

(4)

Indice ii

7.3 Riduzione dal problema a tre pozzi a quello a due pozzi in dimen-sione tre . . . 78

A Un risultato per l’analisi con le misure di Young 82

B Una propriet`a dei minori del gradiente 84

C Successioni relativamente debolmente compatte in L1 88

D Nozioni per gli spazi Lp 90

(5)

Introduzione

Everything should be made as simple as possible, but not simpler.

Albert Einstein

La morfologia di un cristallo pu`o presentare diverse fasi che possono essere modificate con cambiamenti del suo stato meccanico o termico. In particolare, molti cristalli possono essere deformati in modo da far coesistere al loro interno tante fasi diverse. Il nostro scopo sar`a studiare le strutture dei materiali che, se sottoposti a forze o a variazioni di temperatura, hanno la caratteristica di variare l’esistenza, la posizione e l’orientazione di una fase. Pi`u precisamente, il lavoro qui esposto rappresenta un’interpretazione matematica delle leghe a memoria di forma (in inglese: Shape Memory Alloys).

Recenti studi, basati su considerazioni di tipo energetico, sulle microstrutture che compaiono nei cristalli vicini alla transizione di fase hanno utilizzato le mis-ure di Young come metodo per descrivere tali struttmis-ure. (cfr. [2], [9], [17] per ulteriori referenze e discussioni sul modello).

In questa tesi, dopo una prima parte introduttiva in cui viene esposto il proble-ma, `e trattato il caso a un pozzo. In questa situazione si dimostra in modo semplice che non si possono formare delle microstrutture.

Nella seconda parte della presente sono descritte, in modo accessibile a un let-tore che possieda le conoscenze di base dell’Analisi Funzionale classica, le misure di Young. Queste sono utilizzate per descrivere i limiti deboli delle successioni da cui derivano, ma anche come strumento tecnico per interpretare alcune ques-tioni fondamentali del calcolo delle variazioni, in particolare nelle quesques-tioni di semicontinuit`a inferiore.

(6)

Introduzione iv

Prima di parlare specificatamente delle misure di Young generate da succes-sioni di gradienti (che sono le misure strettamente collegate allo studio dei cristalli elastici), `e presente un capitolo che introduce la nozione di funzione quasiconves-sa. Questo capitolo ci permette di caratterizzare le misure di Young gradiente seguendo l’approccio di Kinderleherer e Pedregal.

In un secondo capitolo sulle misure di Young `e esposta la relazione di dualit`a che c’`e tra le funzioni quasiconvesse e le misure di Young generate da successioni di gradienti.

Questo strumento, negli ultimi capitoli di questa tesi, viene applicato allo studio del problema a due pozzi (in inglese: Two-Well Problem).

Infine viene presentato un caso semplice del problema a tre pozzi per cui le ipotesi permettono di ricondursi al problema a due pozzi.

(7)

Capitolo 1

Setting del problema

1.1

Cosa sono le microstrutture?

Per lo scopo di questa tesi, una microstruttura `e ogni struttura che sta nella scala tra il macroscopico (di cui abitualmente facciamo osservazioni) e l’atomico. Tali strutture sono frequenti in natura: la sottile struttura gerarchica delle foglie e di molti altri materiali biologici, il complesso alternarsi di fessure, crepe e vuoti nelle rocce o nella terra, materiali fibrosi o a strati costruiti dall’uomo, e in molte altre situazioni.

Le microstrutture influenzano in modo cruciale i comportamenti macroscopici dei materiali o dei sistemi e spesso sono create (o spontaneamente generate) per ottimizzarne le performance (massima resistenza ad un dato peso, minima energia, massima entropia, massima o minima permabilit`a, ...). Le microstrutture spesso si sviluppano in modo differente nel tempo e nello spazio, e capirne la formazione, l’interazione e tutti gli effetti `e una grande sfida per la scienza. Nella letteratura il passaggio dalla scala microscopica alla macroscala `e spesso ottenuto combinando ad hoc medie e rinormalizzazioni. Un’adeguata struttura matematica che spieghi e giustifichi queste procedure `e spesso mancante, ed un suo sviluppo risulta essere un lavoro molto difficile, ma soddisfacente.

L’analisi matematica delle microstrutture di solito trascura la scala atomica interpretandola con un modello continuo. Lo scopo `e quindi capire scale che sono piccole rispetto alla scala fissata del macroscopico ma grandi rispetto a quella atomica.

(8)

1.1 Cosa sono le microstrutture? 2

La ricerca si `e sviluppata in tre direzioni: omogeneizzazione, modelli vari-azionali di microstrutture e problemi di disegno ottimale (quest’ultimo ramo `e ‘il risultato’ dei primi due).

Il problema di base per l’omogeneizzazione `e determinare il comportamento macroscopico che deriva da una certa microstruttura.

I modelli variazionali delle microstrutture cercano di modellizzare i sistemi in cui si formano spontaneamente delle microstrutture, assumendo che le strutture formate ottimizzino una certa propriet`a. La causa della formazione di queste mi-crostrutture `e tipicamente legata al fatto che non esista una situazione ottimale. Per cui le successioni minimizzanti devono svilupparsi in oscillazioni sempre pi`u frequenti.

Un risultato importante `e riuscire ad estrarre le caratteristiche rilevanti delle successioni minimizzanti. Le misure di Young, che saranno introdotte in seguito, sono uno strumento che permette di fare questa operazione di estrapolazione, ma non l’unico.

In questa tesi, focalizzer`o l’attenzione sui modelli variazionali per le microstrut-ture che nascono dalla fase di transizione solido-solido di particolari cristalli elas-tici (di solito leghe metalliche, come In-Th, Cu-Al-Ni, Ni-Ti). Questi materiali presentano un’affascinante variet`a di microstrutture (vedi la Figura 1.1) stretta-mente legate, tra l’altro, a comportamenti tecnologicastretta-mente utili (memoria di for-ma, pseudoelasticit`a). Un modello matematico per cristalli elastici sar`a introdotto nella sezione seguente.

Prima di arrivare a ci`o, cominciamo con lo studio, attraverso l’uso di alcuni esempi, della relazione che c’`e tra le micorstrutture e la minimizzazione dell’en-ergia.

(9)

1.2 Microstrutture: minimizzatori di energia 3

1.2

Microstrutture: minimizzatori di energia

Esempio 1.1. Consideriamo il problema:

Minimizzare Z 1 0 u2x− 12dx sotto l’ipotesi u(0) = u(1) = 0.

Il minimo si raggiunge ma l’insieme dei minimizzatori `e altamente degenerato. Ogni funzione Lipschitziana con pendenze±1 quasi ovunque che rispetta i valori al bordo `e un minimo. In particolare la chiusura debole* in W1,∞ dell’insieme dei minimizzatori consiste di tutte le funzioni con costante di Lipschitz minore o uguale a1 che sono limitate da±min(x, 1 − x).

Esempio 1.2. Consideriamo il problema

Minimizzare I(u)=. Z 1 0 u2x− 12+ u2dx sotto l’ipotesi u(0) = u(1) = 0.

L’estremo inferiore del funzionale `e zero poich´e esistono funzioni rapidamente oscillanti con pendenza ±1 il cui estremo superiore sia arbitrariamente piccolo. Per cui se s denota l’estensione periodica della funzione

s(x) =      x su[0,14) 1 2 − x su [ 1 4, 3 4) x− 1 su [34,1) (1.1)

allora uj(x)= j. −1s(jx) soddisfa I(uj)→ 0 con j → ∞. L’estremo inferiore non

pu`o essere raggiunto poich´e non esiste una funzione che soddisfi contemporanea-mente u ≡ 0 e ux = ±1 quasi ovunque. Le successioni minimizzanti devono

oscillare e convergere debolmente (nello spazio di Sobolev W1,4(0, 1) ed anche in W1,∞(0, 1)), ma non fortemente, a zero.

(10)

1.3 Modelli variazionali per cristalli elastici 4

Questo rappresenta un primo esempio di come la minimizzazione produca oscillazioni frequenti (o microstrutture).

Esempio 1.3. SiaΩ= [0, L]. × [0, 1] un rettangolo e consideriamo il problema:

Minimizzare J(u)=. Z Ω u2x+ u2y − 12dx dy sotto l’ipotesi u= 0 su ∂Ω.

Chiaramente J(u) > 0 per ogni funzione u, poich´e altrimenti ux = 0 quasi

ovunque, per cui u ≡ 0 su Ω e u2y − 12 = 1. D’altra parte l’estremo

inferi-ore di J `e zero. Un modo per vederlo `e considerare la funzione s data da (1.1), definire

u(x, y)= j. −1s(jy) per δ < x < L− δ,

ed usare l’interpolazione lineare per ottenere i valori di bordo nei punti x = 0 e x = L. Considerando prima il limite per j → ∞ e dopo quello per δ → 0 si

ottiene infJ = 0. Come nell’Esempio 1.2 non esistono minimizzatori (classici) e

le successioni minimizzanti devono sviluppare rapide oscillazioni.

1.3

Modelli variazionali per cristalli elastici

La struttura cristallina entra in questo approccio tramite le propriet`a di simme-tria della funzione energia. La (solitamente non sottoposta a forze) configurazione di riferimento del cristallo `e identificata con un dominio limitato Ω ⊆ R3. Una

deformazione u: Ω→ R3del cristallo richiede un’energia elastica I(u) =

Z

W(Du) dx, (1.2)

dove W : Mm×n → R `e la densit`a della funzione energia che descrive le

propri-et`a del materiale. Secondo la regola di Cauchy-Born W(F ) `e data dall’energia

(libera) per unit`a di volume che `e richiesta per una deformazione affine x 7→ F x del reticolo cristallino.

(11)

1.3 Modelli variazionali per cristalli elastici 5

La funzione energia `e invariante per rotazioni nello spazio e per azione del gruppo P delle simmetrie del reticolo cristallino che di solito `e un sottogruppo discreto di SO(3). Quindi

W(QF ) = W (F ) ∀Q ∈ SO(3), W(F P ) = W (F ) ∀P ∈ P ⊂ SO(3).

(1.3)

L’energia dipende anche dalla temperatura ma assumeremo sempre che la tem-peratura sia costante all’interno del cristallo e quindi eliminiamo questa dipenden-za.

L’assunzione base dell’approccio variazionale alle microstrutture `e:

Le microstrutture che si osservano corrispondono ai minimizzatori dell’energia elastica I.

Un caso interessante `e quello per cui vale chemin W = 0. L’insieme K = W−1(0) allora corrisponder`a alle deformazioni affini del reticolo cristallino aventi

energia nulla. Sperimentalmente si osserva spesso che le microstrutture non min-imizzano solo l’integrale I (soggette alle condizioni al bordo) ma di fatto mini-mizzano puntualmente l’integrando. Per cui si `e portati a considerare il problema pi`u semplice:

Determinare mappe (Lipschitziane) che soddisfino esattamente o approssimativamente Du∈ K

Le differenze nei comportamenti dei diversi materiali sono perci`o strettamente collegate all’insieme K che dipende dal materiale e dalla sua temperatura. Per i materiali ordinari K `e SO(3) (il pi`u piccolo insieme compatibile con le

invari-anze di rotazione) mentre per i materiali che formano delle microstrutture, K `e costituito da pi`u copie di SO(3).

(12)

1.3 Modelli variazionali per cristalli elastici 6

Figura 1.1: Microstrutture di un cristallo di Cu-Al-Ni; l’area dell’immagine `e, circa, 2mm× 3mm.

La Figura 1.1 mostra delle microstrutture della lega metallica Cu-Al-Ni. Queste si sono formate durante una transizione di fase solido-solido. Infatti la struttura cristallina di tale lega al di sopra di una temperatura critica TC `e a forma

cubi-ca, al di sotto, la forma ‘preferita’ `e ortorombica. A tale temperatura criticubi-ca, la lega tende a ridisporsi lungo i reticoli dell’altra forma, ma il passaggio dalla fase cubica a quella ortorombica, e viceversa, non avviene istantaneamente e poich´e i due reticoli non collimano perfettamente, la nuova struttura deve adattarsi nello spazio in modo da ottenere configurazioni ad energia nulla oltre che rispettare le condizioni al bordo dettate dalla vecchia struttura ancora presente. `E proprio per la ricerca di questa configurazione ottimale che si formano le microstrutture.

Le microstrutture proposte nella Figura 1.1 si sono formate in un cristallo uni-co uni-costruito in laboratorio mantenuto alla temperatura critica e tenuto in tensione. Quelle strutture si sono formate lentamente, infatti, ogni volta che il cristallo veni-va sottoposto a nuovi sforzi, si attendeveni-va che la configurazione si fosse stabilizzata prima di risottoporlo ad un nuovo stress.

(13)

1.3 Modelli variazionali per cristalli elastici 7

Temperatura(T ) T > Tc T < Tc

Strutttura cristallina Cubica −→ Ortorombica

K SO(3) SO(3)U1∪ · · · ∪ SO(3)U6

Microstrutture Nessuna

(vedi il Capitolo 2)

Se ne osserva una grande variet`a (vedi il Capitolo 6)

Figura 1.2: Struttura cristallina ortorombica.

Prima di concludere questo paragrafo, volevo aggiungere due parole sulle leghe a memoria di forma (in inglese: Shape Memory Alloys). Il termine leghe a memoria di forma indica la famiglia di materiali metallici che possiedono la capacit`a di ripristinare la loro configurazione iniziale se deformati e poi sotto-posti ad appropriato trattamento termico. In particolare, queste leghe subiscono una trasformazione di fase cristallina quando vengono portate dalla loro fase pi`u rigida ad alta temperatura (Austenite), alla fase a pi`u bassa energia e temperatura (Martensite). Tale trasformazione `e appunto la causa prima delle qualit`a peculiari di queste leghe.

Quando una lega a memoria di forma viene portata a bassa temperatura as-sume una configurazione di tipo martensitico;in seguito al riscaldamento, la lega si riarrangia in un’altra struttura cristallina, di tipo austenitico, e riassume quindi configurazione e forma iniziali.

(14)

1.4 Problemi di base 8

modificata mediante variazioni della composizione o con appropriati trattamen-ti termici. Nella lega Ni-Ti, ad esempio, tale temperatura pu`o variare anche di

100◦C.

Durante tale trasformazione possono entrare in gioco forze di entit`a impor-tante immagazzinate e rilasciate dal materiale, fatto che viene sfruttato nella mag-gior parte delle applicazioni. Sebbene esistano innumerevoli leghe che presentano la propriet`a ‘memoria di forma’, sono di interesse commerciale principalmente quelle che recuperano considerevolmente la deformazione o che generano una notevole forza durante la transizione di fase.

1.4

Problemi di base

Generalizziamo leggermente il contesto del modello descritto nella Sezione 1.3 e consideriamo mappe u : Ω ⊂ Rn → Rm definite su un dominioΩ limitato

(con limite Lipschitziano, se ce ne fosse bisogno). Sia K ⊂ Mm×n un insieme compatto dello spazio Mm×ndelle matrici m× n.

Problema 1. [Soluzioni esatte]

Caratterizzare tutte le mappe Lipschitziane u che soddisfano

Du∈ K q.o. in Ω

Problema 2. [Soluzioni approssimate]

Caratterizzare tutte le successioni uj di funzioni Lipschitziane, con costante di

Lipschitz limitata, tali che

(15)

1.5 Introduzione al problema a due pozzi 9

Problema 3. [Rilassamento di K]

Determinare gli insiemi Kexe Kapp⊂ Mm×ndi tutte le mappe affini x7→ F x tali che il Problema 1 e il Problema 2 abbiano delle soluzioni che soddisfino

u(x) = F x su ∂Ω, uj(x) = F x su ∂Ω,

rispettivamente.

I Problemi 1-3 sorgono anche in molti altri contesti, per esempio nella teoria delle immersioni isometriche. Un importante differenza tecnica `e che nei problemi geometrici si `e interessati a insiemi K connessi (ed anche a soluzioni u che siano

C1), mentre noi useremo insiemi che di norma avranno pi`u di una componente. Nel contesto delle microstrutture cristalline discusse nella sezione precedente, gli insiemi Kexe Kappdel Problema 3 hanno un’interpretazione importante; sono, infatti, le deformazioni affini macroscopiche del cristallo con (circa) energia zero. Ovviamente essi contengono l’insieme K delle deformazioni microscopiche ad energia nulla ma possono essere molto pi`u grandi. Per l’insieme K = SO(2)A SO(2)B si ottiene (vedi il Capitolo 6) che sotto ragionevoli condizioni su A e

su B gli insiemi Kapp e Kex contengono un insieme aperto. Questo significa che se ho una deformazione il cui gradiente sta all’interno dell’insieme Kapp, anche tutte le deformazioni che si differenziano di poco dalla precedente avranno il gradiente contenuto in tale insieme e quindi saranno anche loro deformazioni a energia “quasi” nulla.

1.5

Introduzione al problema a due pozzi

Un modello matematico che spiega le microstrutture osservate in certi materi-ali `e basato sullo studio delle successioni minimizzanti dell’integrale

I(u) = Z

(16)

1.5 Introduzione al problema a due pozzi 10

ConΩ ⊂ Rnindichiamo il dominio occupato dalle configurazioni di riferimento

del corpo, la mappa u : Ω → Rn descrive la deformazione del corpo e W `e la

funzione dell’energia del dato materiale. Assumiamo che W sia continua e che soddisfi la seguente condizione: W(R· X) = W (X) per ogni X ∈ Mn×n e ogni R ∈ SO(n). Inoltre poniamo W ≥ 0 e K = {X : W (X) = 0} 6= ∅.

Siamo interessati allo studio delle successioni delle deformazioni uj per cui I(uj)

tende verso zero.

Per molti materiali `e ragionevole assumere K = SO(n), ossia W (X) = 0

se e solo se X `e un isometria che preserva l’orientamento. In questo caso (ve-di Capitolo 2) le deformazioni u con I(u) = 0 sono isometrie e se uj converge debolmente a u in W1,p(Ω) e I(uj) → 0, allora Du ≡ cost ≡ X0 per qualche X0 ∈ K e Duj → X0 fortemente in Lp(Ω).

Per alcuni materiali, comunque, l’insieme K pu`o essere (a certe temperature) pi`u complicato e pu`o diventare difficile descriverne le deformazioni con energia zero o le successioni di deformazioni la cui energia si avvicina a zero.

In questa tesi vogliamo studiare il caso in cui n= 2 e K composto da due

or-bite (chiamate pozzi) di SO(2), ovvero K = SO(2)· A ∪ SO(2) · B per qualche

matrice A, B con det A > 0 e det B > 0. Faremo anche dei commenti per quel

(17)

Capitolo 2

Problema ad un Pozzo

Il pi`u semplice insieme K compatibile con le richieste di simmetria (1.3) `e

K = SO(n)1. In questo caso le successioni approssimanti devono convergere

fortemente.

Teorema 2.1. 1. Supponiamo che

Du∈ SO(n) q.o. in Ω

Allora Du `e costante e u(x) = Qx + b, Q∈ SO(n).

2. Se uj `e una successione di funzioni, con costante di Lipschitz uniformemente

limitata, tale che

dist(Duj, SO(n))→ 0 in misura, (2.1)

allora

Duj → cost in misura,

Dimostrazione. Indichiamo, per n≥ 2, con cof F la matrice dei cofattori

for-mata dai minori(n− 1) × (n − 1) di F .

1SO(n) `e il gruppo di tutte le rotazioni agenti su Rn, ovvero

{R ∈ Mn×n: Rt

R= RRt= id, det R = 1

(18)

2 Problema ad un Pozzo 12

Per provare la prima affermazione ricordiamo che (vedi la dimostrazione del Teo-rema B.1)

div ( cof Du) = 0

per ogni mappa Lipschitziana. Poich´e cof F = F per ogni F ∈ SO(n) si ha che u `e armonica e quindi regolare (cfr. [20, cap. 2], per maggiori dettagli). Inoltre |Du|2 = n, dove|F |2 = tr FtF =P

i,jFij2, e quindi

2|D2u|2 = ∆|Du|2− 2 Du · D∆u = 0.

Per cui Du `e costante.

Per provare la seconda parte del teorema, assumiamo che uj ⇀ u in W∗ 1,∞(Ω; Rm).

Consideriamo la funzione

f(F )=. |F |n− cndet F , cn= n. n2.

Si verifica facilmente che f ≥ 0 e che f si annulla esattamente sulle matrici della forma λQ, λ≥ 0, Q ∈ SO(n).

Perci`o (2.1), per la continuit`a debole dei minori (vedi Teorema B.1) e per la semicontinuit`a inferiore debole della norma di Ln, implica che

0 = lim inf n→∞ Z Ω f(Duj) dx = lim inf n→∞ Z Ω|Duj| n dx− cn Z Ω det Dujdx  ≥ Z Ω|Du| n dx− cn Z Ω det Dudx = Z Ω f(Du) dx ≥ 0.

Quindi tutte le disuguaglianze devono essere uguaglianze, ed in particolare

f(Du) = 0 q.o., kDujkLn → kDukLn.

Da cui segue che

(19)

2 Problema ad un Pozzo 13

Du(x) = λ(x)Q(x), λ≥ 0, Q(x) ∈ SO(n) q.o.

Inoltre|Duj|2 → n in misura, per cui, per la convergenza delle norme, |Du|2 = n

q.o. Allora Du∈ SO(n) q.o. e, per la prima parte del teorema, Du = cost. 

Osservazione 2.2. Il caso n= 2 del risultato precedente mostra delle connessioni

interessanti con le equazioni di Cauchy-Riemann. Consideriamo il caso partico-lare in cui Ω = C. Identifichiamo C ∼= R2 nel modo usuale tramite z = x + iy

e siano ∂z∂ = 12∂x∂ − i∂ ∂y



, ∂z∂ = 12∂x∂ + i∂y∂. Supponiamo che1 < p < ∞ e

che Du∈ SO(2) q.o. in Ω. (2.2) Allora, ∂u ∂z = 1 e ∂u ∂z = 0.

Ossia u `e olomorfa. Allora anche ∂u∂z lo `e. Per cui, poich´e `e limitata, si ha ∂u∂z =

(20)

Capitolo 3

Le misure di Young

3.1

Il teorema fondamentale sulle misure di Young

Abbiamo visto negli esempi precedenti come possono esistere molte succes-sioni minimizzanti per un unico problema variazionale. Torniamo ora alla do-manda se esistano delle caratteristiche comuni a tutte queste successioni e se sia possibile descriverne le caratteristice macroscopiche senza soffermarsi su dettagli irrilevanti. Strettamente collegato a ci`o `e il problema di definire una nozione di soluzione generalizzata per problemi variazionali che non ammettono soluzioni classiche.

Una condizione ragionevole per un oggetto che descriva il comportamento asintotico di una successione zj : E → Rd `e che determini il limite

Z

U f(zj)

per funzioni continue f e per ogni insieme misurabile U ⊂ E.

Un tale oggetto esiste e fu introdotto da L.C. Young (cfr. [33], [34] per mag-giori dettagli) nello studio delle soluzioni generalizzate dei problemi di controllo ottimale.

Denotiamo con C0(Rd) lo spazio di Banach delle funzioni continue f : Rd R che soddisfanolim|λ|→∞f(λ) = 0, con la normakfk0 = supλ∈Rd|f(λ)|. Per

(21)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 15

esiste un isomorfismo isometrico tra lo spazio duale C0(Rd)′di C0(Rd) e lo spazio

di BanachM(Rd) delle misure di Radon su Rda massa finita, ottenuto associando

ad ogni µ ∈ M(Rd) la forma lineare f 7→R

Rdf(λ) dµ su C0(Rd), ovvero

hµ, fi = Z

Rd

fdµ.

Definizione 3.1. Una mappa µ: E → M(Rd) `e detta debolmente* misurabile se

le funzioni x7→ hµ(x), fi sono misurabili per ogni f ∈ C0(Rd).

Spesso scriveremo µxal posto di µ(x).

Teorema 3.2 (Teorema fondamentale sulle misure di Young, forma debole). Siano

K un compatto di Rd, E ⊂ Rnun insieme misurabile con misura finita e z

j : E → K una successione di funzioni misurabili. Allora esiste una sottosuccessione zjke

una mappa ν : E → M(K), debolmente* misurabile, tale che valgono i seguenti

fatti: 1. Per ogni f ∈ C(K) f(zjk) ∗ ⇀ f in L∞(E), dove f(x) = hνx, fi = Z Rd fdνx. 2. νx `e una misura di probabilit`a:

νx ≥ 0, kνxkM(K)=. Z

K

dνx = 1, per q.o. x∈ E.

Definizione 3.3. La mappa ν : E → M(K) `e chiamata la misura di Young

generata dalla (o associata alla) successione zjk.

Dimostrazione. Il punto cruciale `e passare da funzioni zj che prendono valori

nel compatto K a mappe che assumono valori nello spazio M(K) di misure su

K. Sia

Zj(x)= δ. zj(x).

Allora kZj(x)kM(K) = 1 e hZj(x), fi = f(zj(x)). Per cui Zj appartiene allo

(22)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 16

sono (essenzialmente) limitate. Vale che lo spazio L∞w∗(E;M(K)) `e il duale dello

spazio separabile L1(E; C(K)) (vedi Appendice D), dove la dualit`a `e data da hµ, gi =

Z

Ehµ(x), g(x)i dx.

Quindi per il teorema di Banach-Alaoglu esiste una sottosuccessione tale che

Zjk = δzjk(·)

⇀ ν in L∞w∗(E;M(K)). (3.1)

Per ϕ ∈ L1(E) e f ∈ C(K) denotiamo con ϕ ⊗ f l’elemento di L1(E; C(K))

dato da x7→ ϕ(x)f. Quindi, la definizione di Zj e (3.1) implicano Z E ϕ(x)f (zjk(x)) dx =hZjk, ϕ⊗ fi → Z E ϕ(x)hνx, fi dx.

Quindi il primo punto del teorema segue, e considerando tutte le funzioni f

0, ϕ≥ 0 deduciamo, inoltre, νx ≥ 0.

Se come f prendo la funzione identit`a, ottengo che

Z

Rd

xdνx = 1,

ossia che νx `e una misura di probabilit`a. 

Nel caso in cui la successione{zj} assuma valori in Rdpossiamo estendere il risultato precedente al seguente

Teorema 3.4 (Teorema fondamentale sulle misure di Young). Sia E ⊂ Rnun in-sieme misurabile con misura finita e sia zj : E → Rduna successione di funzioni

misurabili. Allora esiste una sottosuccessione zjk e una mappa ν : E → M(R

d),

debolmente* misurabile, tale che valgono i seguenti fatti: 1. Per ogni f ∈ C0(Rd)

f(zjk)

(23)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 17 dove f(x) = x, fi = Z Rd fdνx. 2. νx ≥ 0, kνxkM(Rd) . =R Rd dνx ≤ 1, per q.o. x∈ E.

3. Sia K ⊂ Rdun compatto. Allora

supp νx ⊂ K se dist(zjk, K)→ 0 in misura.

4. Supponiamo anche che{zjk} soddisfi la condizione di limitatezza

lim M →∞  sup k |{x ∈ E ∩ B R :|zjk(x)| ≥ M}|  = 0, (3.2)

per ogni R >0, dove BR= B(0, R). Allora. kνxkM(Rd)= 1 per q.o. x∈ E

(ossia νx `e una misura di probabilit`a).

5. Se vale (3.2),

se A⊂ E `e misurabile, se f ∈ C0(Rd),

se f(zjk) `e relativamente debolmente compatta in L

1(A),

allora

f(zjk) ⇀ f in L

1(A), f(x) =hνx, fi . (3.3)

6. Se vale (3.2), allora nel terzo punto possiamo sostituire ‘se’ con ‘se e solo se’.

Proposizione 3.5. Ogni mappa ν : E → M(Rd) (debolmente* misurabile) che

soddisfi il secondo punto del teorema `e generata da qualche successione zk.

Una dimostrazione di un caso particolare della proposizione, caso in cui la misura di Young `e combinazione convessa di due misure di Dirac, sar`a esposta nella Sezione 3.2. Questa proposizione `e molto importante, perch´e sar`a esatta-mente ci`o che mancher`a quando andremo a studiare le misure di Young generate da successioni di gradienti.

(24)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 18

Osservazione 3.6. L’ipotesi |E| < ∞ `e stata introdotta per una convenienza di

notazione (cfr. [1] per maggiori dettagli). Infatti Rd con la misura di Lebesgue pu`o essere sostituito con uno spazio misurato generico(S, Σ, µ), per esempio con

uno spazio localmente compatto che ammetta una misura di Radon. Estendere l’Osservazione 3.5 richiede che la misura µ non sia atomica.

Osservazione 3.7. La condizione (3.2) ha un’interpretazione molto semplice una

volta sostituito lo spazio Rd con la sua compattificazione di Alexandrov K = Rd∪ {∞} e considerando la corrispondente famiglia di misure, ˜νx, su K. Ovvero k˜νxk = 1 q.o. e la (3.2) assicura che ˜νx non carichi il punto∞.

Osservazione 3.8. La condizione (3.2) `e molto debole, ed `e equivalente alla

seguente: per ogni R > 0 esiste una funzione continua non decrescente gR : [0,∞) → R, con limt→∞gR(t) =∞, tale che

sup k

Z

E∩BR

gR(|zjk(x)|) dx < ∞. (3.4)

Infatti supponiamo che valga la relazione (3.4). Allora, poich´e gR `e non

decres-cente, sup k |{x ∈ E ∩ BR :|zjk(x)| ≥ t}| · gR(t)≤ sup k Z E∩BR gR(|zjk(x)|) dx.

Poich´elimt→∞gR(t) =∞, otteniamo la relazione (3.2).

Viceversa, se vale la (3.2), possiamo scegliere0 < ti < ti+1, i= 1, 2, . . . , tali

che sup k |{x ∈ E ∩ BR :|zjk(x)| ≥ ti}| ≤ 1 i3, e sia gR(t) = ( 0 se t∈ [0, t1), i se t∈ [ti, ti+1).

(25)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 19 Allora sup k Z E∩BR gR(|zjk(x)|) dx = sup k ∞ X i=1 i|{x ∈ E ∩ BR : ti+1>|zjk(x)| > ti}| ≤ ∞ X i=1 1 i2 <∞.

Scegliendo una gR≤ gRsi ottiene la relazione (3.4).

Osservazione 3.9. Se, per qualche s >0, ed ogni j ∈ N Z

E|z

j|s≤ C

allora vale la relazione (3.2).

Osservazione 3.10. Se le funzioni zj sono uniformemente limitate in L∞(E; Rd)

allora le funzioni f(zj) sono uniformemente limitate in L∞(E) per ogni funzione

continua f : Rd → R. Per cui dal teorema segue che c’`e una famiglia di misure

di probabilit`a(νx) ed una sottosuccessione zjk tali che

f(zjk)

⇀ f in L∞(E)

per ogni funzione continua f . Se E `e limitato e se le zj sono uniformemente

limitate in Lp(E; Rd) per qualche p, 1 < p < ∞, allora dal teorema otteniamo

l’esistenza di una famiglia di misure di probabilit`a (νx) ed una sottosuccessione zjk tali che

f(zjk) ⇀ f in L

r(E) (3.5)

per ogni funzione continua f : Rd→ R che soddisfa

|f(λ)| ≤ cost. (1 + |λ|q), λ∈ Rd, (3.6) dove q >0 e 1 < r < pq (cfr. [26] per maggiori dettagli).

In particolare, per p >1, scegliere f = id, implica. zjk ⇀ z, dove z(x)

.

(26)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 20

Osservazione 3.11. Se A `e limitato, la condizione che{f(zjk)} sia relativamente

debolmente compatta in L1(A) `e verificata se e solo se sup

k Z

A

ψ(|f(zjk)|) dx < ∞

per qualche funzione continua ψ : [0,∞) → R con limλ→∞ ψ(λ)λ =∞ (questo `e

il criterio di de la Vall´ee Poussin; cfr. [?] per maggiori dettagli).

Dimostrazione del Teorema 3.4. Per dimostrare i primi due punti basta adattare

la dimostrazione del Teorema 3.2 a questo caso.

Per provare il terzo punto, assumiamo che K 6= Rde sia f ∈ C0K(Rd) =. {g ∈ C0(Rd) : g

|K = 0}. Allora, prendendo U = {z ∈ R

d : |f(z)| < ǫ}, segue

(dall’ipotesi dist(zjk, K)→ 0 in misura) che f(zjk(·)) → 0 in misura. Poich´e f `e

limitata, deduciamo che

Z E φ(x)hνx, fi dx = lim k→∞ Z E φ(x)f (zjk(x)) dx = 0,

per ogni φ ∈ L1(E). Poich´e C0(Rd) `e separabile, lo `e anche C0K(Rd), per cui

segue che per q.o. x ∈ E si ha hνx, fi = 0 per ogni f ∈ C0K(Rd), ovvero

supp νx ⊂ K.

Adesso supponiamo che valga la relazione (3.2) e dimostriamo la quarta affer-mazione. Definiamo ϑl∈ C0(Rd) come

ϑl(λ) =      1 se|λ| ≤ l, 1 + l− |λ| se l ≤ |λ| ≤ l + 1, 0 se|λ| ≥ l + 1. (3.8)

Allora se G⊂ E `e limitato e misurabile

lim k→∞ 1 |G| Z G (1− ϑl(zjk(x)) dx = 1 |G| Z G ϑldx ≤ 1 |G| Z GkνxkM(R d)dx. (3.9)

(27)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 21 Ma 0 1 |G| Z G (1− ϑl(zjk(x))) dx≤ |{x ∈ G : |zjk(x)| ≥ l| |G| ,

per cui mandando l all’infinito si ottiene dalla relazione (3.2) e dalla (3.9)

1 1

|G| Z

Gkν

xkM(Rd)dx. (3.10)

Poich´e xkM(Rd) ≤ 1 q.o. e G `e arbitrario, la relazione (3.10) implica che

kνxkM(Rd) = 1 q.o.

La conclusione del quinto punto si pu`o anche esprimere con

Z A ξ(x)f (zjk(x)) dx = Z A ξ(x) Z Rm f(λ) dνx(λ)  dx (3.11)

per ogni ξ ∈ L∞(A). Poich´e, per ipotesi, f (zjk) `e relativamente debolmente

compatta in L1(A) ed f ∈ C0(Rd), si ha che (vedi Lemma C.1)

lim M →∞ supk Z {|f(zjk)|≥M} |f(zjk)| dx ! = 0 (3.12) ossia Z {|f(zjk)|≥M} |f(zjk)| dx → 0 (3.13)

uniformemente in k. Questo implica la convergenza debole in L1(Ω) di{f(zjk)}

e quindi la relazione (3.11) `e verificata.

Infine, per dimostrare il sesto punto, basta applicare il quinto punto alla funzione

limitata f = min{dist(·, K), 1}. 

Osservazione 3.12. Poich´e lo span dei prodotti tensori ϕ⊗ f, con ϕ ∈ L1(Ω), f ∈ C0(Rd), `e denso in L1(Ω; C0(Rd)) l’affermazione al primo punto del teorema

`e equivalente alla convergenza debole* di Zjk a ν.

(28)

3.1 Il teorema fondamentale sulle misure di Young 22

probabilit`a limite dei valori della successione zjk intorno al punto x. Per essere

un po’ pi`u precisi, supponiamo che E sia aperto e sia x ∈ E. Denotiamo con

B(x, δ) la palla aperta con centro x e raggio δ > 0. Fissiamo x, k e δ, e poniamo νx,δk la misura di probabilit`a dei valori assunti da zjk(y) con y ∈ B(x, δ). Allora,

la formula νk x,δ, f = 1 |B(x, δ)| Z B(x,δ) f(zjk(y)) dy (3.14)

definisce una forma lineare e continua sulle funzioni continue f : Rd → R a

supporto compatto. Quando k va all’infinito, νx,δk ⇀ νx,δ∗ nel senso delle misure, dove dal teorema segue

hνx,δ, fi = 1 |B(x, δ)| Z B(x,δ)hν y, fi dy, ossia νx,δ = 1 |B(x, δ)| Z B(x,δ) νydy.

Il teorema di Lebesgue implica che per ogni f vale

hνx,δ, fi → hνx, fi quando δ→ 0 per q.o. x ∈ E.

Scegliendo un insieme numerabile e denso di funzioni f deduciamo che νx,δk ⇀∗ νx,δ nel senso delle misure quando δ va a 0 per q.o. x ∈ E. Il numero 1 − kνxkM(Rd) rappresenta la proporzione limite dei punti di B(x, δ) per cui zjk

di-venta illimitata.

Il Corollario seguente riutilizza questa interpretazione probabilistica.

Corollario 3.14. Supponiamo che una successione di funzioni misurabili zj : E → Rdgeneri la misura di Young ν : E → M(Rd). Allora

zj → z in misura se e solo se νx = δz(x) q.o.

Dimostrazione. Se zj → z in misura allora f(zj)→ f(z) in misura per ogni f ∈ C0(Rd). Quindi per il secondo punto del Teorema 3.4 si ha che hνx, fi = f(z(x)) per ogni f ∈ C0(Rd) e quindi νx = δz(x).

(29)

3.2 Esempi 23

Se, viceversa, νx = δz(x) q.o. possiamo affermare che lim sup j→∞ |{|zj− w| > ǫ}| ≤ n |zj− w| > ǫ 2 o ,

per ogni funzione misurabile costante a tratti w : E → Rd. Per verificarlo, `e

sufficiente considerare funzioni costanti w ≡ a ed applicare il quinto punto con

f(y) = ϕ(|y − a|) dove ϕ `e una funzione continua tale che 0 ≤ ϕ ≤ 1, ϕ = 1 su [ǫ,∞), ϕ = 0 su [0, ǫ 2]. Quindi lim sup j→∞ |{|zj− z| > ǫ}| ≤ lim supj→∞ n |zj− w| > ǫ 2 o + n |w − z| > ǫ 2 o ≤ 2 n |z − w| > ǫ 4 o .

L’ultimo termine pu`o essere reso arbitrariamente piccolo poich´e le funzioni mis-urabili sono approssimabili con funzioni costanti a tratti, per cui l’affermazione segue (notare che z `e misurabile, infatti{νx}x∈E `e debolmente* misurabile). 

3.2

Esempi

Esempio 3.15. Sia h: R→ R l’estensione 1-periodica della funzione data da

h(x) = ( a se0≤ x < λ, b se λ≤ x < 1, e definiamo zj : [0, 1]→ R con zj(x) = h(jx). (3.15)

Usando la periodicit`a di h si verifica che

zj ⇀∗ Z 1

0

(30)

3.2 Esempi 24

ed in modo analogo

f(zj)⇀ λf∗ (a) + (1− λ)f(b).

Quindi la successione{zj} genera una misura di Young ν data da νx = λδa+ (1− λ)δb.

In particolare νx `e indipendente da x.

Definizione 3.16. Se una famiglia di misure di Young {νx}x∈Ω `e ridotta ad una sola misura di Young: νx = ν per q.o. x ∈ Ω, allora la misura `e chiamata misura

di Young omogenea.

Pi`u in generale se h: Rn → R `e localmente integrabile e periodica (con

peri-odo uguale alla cella unitaria[0, 1]n) e z

j `e definita da (3.15), allora la successione zj genera la misura di Young omogenea ν data, per ogni funzione g continua, da

Z R gdν = Z [0,1]n g(h(y)) dy.

In particolare, per ogni insieme di Borel B ⊂ R si ha

ν(B) =|(0, 1)n∩ h−1(B)|.

Esempio 3.17. Come nell’Esempio 1.2 prendiamo

I(u)=. Z 1 0 (u2x− 1) 2 + u2dx,

sia uj una successione minimizzante con dati al contorno uj(0) = uj(1) = 0 tale

che

I(uj)→ 0, (3.16)

e sia zj = (uj)x. Allora zj `e limitata in L4. Sia ν una misura di Young generata

da una qualche sottosuccessione di zj, allorakνxk = 1 q.o. Se poniamo g(p) = min((p2− 1)2,1) deduciamo dalla (3.16) che

(31)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 25

Quindi supp νx ⊂ {−1, 1} ovvero νxsi scrive come λ(x)δ−1+ (1− λ(x))δ1 per

q.o. x (vedi l’Osservazione 3.10)

zjk ∗ ⇀hνx, idi = 1 − 2λ(x) (3.17) e ujk(a) = Z a 0 zjk,dx→ Z a 0 (1− 2λ(x)) dx. (3.18)

Per la (3.16) uj → 0 in L2 e quindi λ(x) = 12 q.o. Quindi zjk genera la misura di

Young omogenea

νx = 1 2δ−1+

1 2δ1.

Pertanto l’intera successione zj genera questa misura di Young ν.

Sebbene esistano diverse successioni minimizzanti per I, tutte generano la stessa misura di Young. Dunque la misura di Young riassume le caratteristiche essenziali delle successioni minimizzanti.

3.3

Misure di Young e semicontinuit`a inferiore

Abbiamo gi`a puntualizzato cosa sono le misure di Young e come possono rap-presentare i limiti deboli delle successioni da cui derivano. Abbiamo visto che le misure di Young sono utili concettualmente poich´e danno un significato preciso al-l’idea di miscela infinitesimale di fasi e forniscono una struttura delle successioni minimizzanti per i problemi in cui non esistono minimizzatori classici. In ques-ta sezione discuteremo dei vanques-taggi che offrono le misure di Young intese come strumento tecnico per interpretare le questioni di base del calcolo delle variazioni, in particolare la semicontinuit`a inferiore debole. Assumiamo che per qualche ra-gione si sia interessati ad una classe particolare di successioni di funzioni di L∞ che prendono valori in Rd, uniformemente limitate nella norma L∞.

(32)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 26

disuguaglianza di Jensen per ogni misura di probabilit`a, ovvero

f `e convessa ⇐⇒ 1 |Ω| Z Ω f(λ) dµ(λ) ≥ f  1 |Ω| Z Ω λdµ(λ)  (3.19)

per ogni misura di probabilit`a µ, possiamo provare abbastanza facilmente i fatti sulla semicontinuit`a inferiore debole.

Teorema 3.18. Sia Ω un aperto, limitato di Rn. Sia f : Rd → Rm una funzione

continua. Sia uj una successione di funzioni tale che uj ⇀ u∗ in L(Ω). Allora il funzionale I(u)=. Z Ω f(u(x)) dx,

`e semicontinuo inferiore debole, ossia

Z

E

f(u) dx ≤ lim inf j→∞

Z

E

f(uj) dx, E ⊂ Ω,

se e solo se f `e convessa.

Abbozziamo la dimostrazione. Se f `e convessa allora la disuguaglianza di Jensen (3.19) vale per ν ={νx}x∈Ω, la misura di Young generata dalla successione

{uj} (o qualche appropriata sottosuccessione), e quindi lim j→∞ Z E f(uj) dx = Z E Z Rd f(λ) dνx(λ) dx ≥ Z E f Z Rd λdνx(λ)  dx = Z E f(u) dx.

Viceversa, supponiamo che f non sia convessa, allora esiste una misura di proba-bilit`a ν per cui la disuguaglianza di Jensen non `e verificata:

Z E  f Z Rd λdν(λ)  dx > Z E Z Rd f(λ) dν(λ)  dx.

(33)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 27

Per la Proposizione 3.5 la misura ν `e una misura di Young omogenea generata da una successione di funzioni{uj}, per cui vale che

Z E Z Rd f(λ) dνx(λ)  dx = lim j→∞ Z E f(uj) dx,

ossia non `e verificata l’ipotesi di semicontinuit`a inferiore debole.

I risultati di semicontinuit`a che si usano normalmente per dimostrare teo-remi di esistenza si enunciano negli spazi W1,p; poich´e ci interessava solo la semicontinuit`a ci siamo limitati al caso W1,∞.

Una volta che questa semicontinuit`a inferiore `e soddisfatta, il metodo diretto del calcolo delle variazioni dimostra l’esistenza dei minimi sotto le ipotesi di co-ercivit`a.

Ovviamente se consideriamo integrandi della forma f(Du(x)), la condizione

di convessit`a continua ad essere una condizione sufficiente ma non pi`u necessaria, poich´e viene a mancare il risulato della Proposizione 3.5: non `e detto che data una misura di probabilit`a ν che soddisfa il primo punto del Teorema 3.4, questa sia generata proprio da una successione di gradienti.

I seguenti due risultati servono ad estendere i risultati sulla semicontinuit`a inferiore degli integrali R f(u(x)) dx agli integrali R f(x, u(x), v(x)) dx senza sforzi aggiuntivi. Il primo risultato mostra che le misure di Young sono suffi-cienti per calcolare i limiti delle funzioni di Carath´eodory, il secondo estende la caratterizzazione sulla convergenza forte del Corollario 3.14.

Proposizione 3.19. Supponiamo che la successione di funzioni zk : E → Rd

generi la misura di Young ν. Sia f : E× Rd→ R una funzione di Carath´eodory,

vale a dire una funzione misurabile nel primo argomento e continua nel secondo, ed assumiamo che la parte negativa f−(x, zk(x)) sia debolmente relativamente

compatta in L1(E). Allora

lim inf k→∞ Z E f(x, zk(x)) dx Z E Z Rd f(x, λ) dνx(λ) dx. (3.20)

(34)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 28

Se, in pi`u, la successione di funzioni x 7→ |f|(x, zk(x)) `e debolmente

relativa-mente compatta in L1(E) allora

f(·, zk(·)) ⇀ f in L1(E), f(x) = Z

Rd

f(x, λ) d(λ) dx. (3.21)

Osservazione 3.20. La relazione (3.20) continua a valere se f `e (Borel) misurabile

su E × Rde semicontinua inferiormente nel secondo argomento anzi che essere una funzione di Carath´eodory (cfr. [5] per maggiori dettagli).

Osservazione 3.21. La scelta f(x, p) = min(|p − z(x)|, 1) nella relazione (3.21)

pu`o essere usata per dimostrare la condizione sufficiente del Corollario 3.14.

Dimostrazione della Proposizione 3.19. `E sufficiente provare la (3.20). La sec-onda affermazione segue applicando questa disuguaglianza alle funzioni ˜f(x, p) = ±ϕ(x)f(x, p) per ogni ϕ ∈ L∞, ϕ ≥ 0. Per dimostrare (3.20), prima

consideri-amo il caso f ≥ 0. Assumiamo temporaneamente che valga in pi`u

f(x, λ) = 0 se|λ| ≥ R. (3.22)

Per il teorema di Scorza-Dragoni (cfr. [10, cap. 3] per maggiori dettagli) esiste una successione di insiemi compatti Ej tali che |E\Ej| → 0 e f|Ej ×Rd `e

con-tinua. Definiamo Fj : E → C0(Rd) tramite Fj(x) = χEj(x)f (x,·). Allora

Fj ∈ L1(E; C0(Rd)) e la convergenza di δ

zk(·) verso ν nello spazio duale ci d`a

Z E f(x, zk(x)) dx ≥ Z E δzk(x), Fj(x) dx → Z Ehν x, Fj(x)i dx = Z Ej f(x, λ) dνx(λ).

Mandando j → ∞ otteniamo, grazie al teorema della convergenza monotona, la tesi.

Per rimuovere l’ipotesi aggiuntiva (3.22) consideriamo una successione cres-centei} ⊂ C0∞(Rd), che converga a 1, usiamo la stima per fi(x, λ) = f (x, λ)ηi(λ)

(35)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 29

la dimostrazione se f ≥ 0 o pi`u in generale se f `e limitata.

Per una f generica, siano

hk(x) = f (x, zk(x)) = h+k(x)− hk(x), fM(x, λ) = max(f (x, λ),−M).

Per la caratterizzazione delle funzioni equintegrabili, per ogni ǫ > 0 esiste una

costante M >0 tale che sup k Z {h− k≥M} h−k(x) dx < ǫ. Quindi lim inf k→∞ Z E f(x, zk(x)) dx + ǫ≥ lim inf k→∞ Z E fM(x, zk(x)) dx ≥ Z E Z Rd fM(x, λ) dνx(λ) dx Z E f(x, λ) dνx(λ) dx.

Poich´e ǫ >0 `e arbitrario, la dimostrazione `e conclusa. 

Proposizione 3.22. Siano uj : E → Rd, vj : E → Rd

misurabili e supponiamo che uj → u q.o. mentre vj generi la misura di Young ν. Allora la successione di

coppie(uj, vj) : E → Rd+d′

genera la misura di Young x7→ δu(x)⊗ νx.

Dimostrazione. Sia ϕ ∈ C0(Rd), ψ ∈ C0(Rd′

), η ∈ L1(E). Allora ϕ(uj) ϕ(u) q.o. e ηϕ(uj) → ηϕ(u) in L1(E) per il teorema di convergenza dominata.

Inoltre per ipotesi

ψ(vj)⇀ ψ∗ in L∞, ψ(x) = hνx, ψi . Quindi Z E η(ϕ⊗ ψ)(uj, vj) dx = Z E ηϕ(uj)ψ(vj) dx Z E ηϕ(u)x, ψi dx

(36)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 30

oppure

⊗ ψ)(uj, vj)⇀∗ δu(·)⊗ ν·, ϕ⊗ ψ in L∞(E).

La tesi segue poich´e le combinazioni lineari dei prodotti tensoriali ϕ ⊗ ψ sono densi in C0(Rd+d′

). 

A questo punto possiamo trattare un’applicazione tipica dei due corollari prece-denti.

Teorema 3.23. Sia f : Ω× Rm × Rm′

→ R una funzione di Carath´eodory e

supponiamo f ≥ 0. Supponiamo che uj ⇀ u in W1,∞(Ω, Rm) e che vj generi la

misura di Young ν. Se f `e convessa nell’ultima variabile, allora il funzionale

I(u, v)=. Z

f(x, u(x), v(x)) dx

`e semicontinuo rispetto alle successioni(uj, vj) equilimitate tali che uj converge in misura e vj converge debolmente.

Per i nostri scopi, sar`a utile studiare la semicontinuit`a debole degli integrali del tipoR f(x, u(x), Du(x)) dx.

Proposizione 3.24. Sia f : Ω× Rm× Mm×n → R una funzione di Carath´eodory

e supponiamo f ≥ 0. Supponiamo che uj ⇀ u in W1,∞(Ω, Rm) e che Dujgeneri

la misura di Young ν. Se f `e convessa nell’ultima variabile allora il funzionale

I(u)=. Z

f(x, u(x), Du(x)) dx

`e semicontinuo inferiormente rispetto alla convergenza debole di W1,∞.

Infatti, prendendo vj = Duj, zj = (uj, vj) si ottiene lim inf j→∞ Z Ω f(x, uj(x), Duj(x)) dx ≥ Z Ω Z Rm×Mm×n f(x, λ, µ) dδu(x)(λ)⊗ dνx(µ) dx = Z Ω Z Mm×n f(x, u(x), λ) dνx(λ) dx.

(37)

3.3 Misure di Young e semicontinuit`a inferiore 31

Quindi, verificare la disuguaglianza

Z

Mm×n

g(λ) dνx(λ)≥ g(Du(x)) = g(hνx, idi) (3.23)

per la funzione

g(λ) = f (x, u(x), λ)

con congelati il primo ed il secondo argomento, permette di dimostrare la semi-continuit`a inferiore debole.

La condizione di convessit`a, in questa seconda proposizione, continua ad es-sere sufficiente ma non pi`u necessaria. Effettivamente esistono esempi di funzioni che non sono convesse per cui la semicontinuit`a di I(u) `e verificata. La nozione

giusta per questo tipo di problemi `e la quasiconvessit`a che sar`a introdotta nel prossimo capitolo.

(38)

Capitolo 4

Quasiconvessit`a

Nel prossimo capitolo daremo una caratterizzazione delle misure di Young gradienti dovuta a Kinderleherer e Pedregal. Far`a uso della nozione di quasicon-vessit`a. La quasiconvessit`a, introdotta da Morrey nel 1952 (cfr. [21] per maggiori dettagli), `e la nozione naturale di convessit`a che caratterizza le funzioni f tali che R f(Du) `e semicontinuo inferiore debole, ma tutt’ora `e molto difficile de-terminare se una funzione sia quasiconvessa o no. Perci`o sono state introdotte ulteriori nozioni di convessit`a in modo da ottenere condizioni necessarie e suf-ficienti per la quasiconvessit`a. Cominciamo ricordando queste nozioni e le loro relazioni.

4.1

Nozioni di convessit`a

Per una matrice F ∈ Mm×nsia M(F ) il vettore formato da tutti i minori di F

e sia d(m, n) =Pmin(m,n)r=1 σ(r) la sua lunghezza, dove

σ(r) = n r ! m r ! = n!m! (r!)2(n− r)!(m − r)!.

Nel caso n = m = 2 si ha, se

A= A 1 1 A12 A2 1 A22 ! ,

(39)

4.1 Nozioni di convessit`a 33

che

M(A) = (A, det A) = (A11, A12, A21, A22, A11A22− A12A21).

Mentre nel caso in cui m = 1 o n = 1 non ci sono minori.

Definizione 4.1. Una funzione f : Mm×n→ R ∪ {+∞} = (−∞, ∞] si dice

1. convessa, se

f(λA + (1− λ)B) ≤ λf(A) + (1 − λ)f(B) ∀A, B ∈ Mm×n, λ∈ (0, 1);

2. policonvessa, se esiste una funzione convessa g : Rd(m,n) → R ∪ {+∞}

tale che

f(F ) = g(M(F ));

3. quasiconvessa, se per ogni insieme aperto e limitato U con|∂U| = 0 si ha

Z U f(F + Dϕ) dx Z U f(F ) dx ∀ϕ ∈ W01,∞(U ; Rm); (4.1) 4. convessa di rango-uno, se f(λA + (1− λ)B) ≤ λf(A) + (1 − λ)f(B) ∀A, B ∈ Mm×ncon rk(B− A) = 1, ∀λ ∈ (0, 1).

Osservazione 4.2. La nozione di funzione quasiconvessa `e indipendente dalla

scelta dell’insieme U , ossia se (4.1) vale per un insieme aperto e limitato con

|∂U| = 0 allora vale per ogni insieme di quel tipo.

Osservazione 4.3. Se f prende valori in R ed `e quasiconvessa allora `e convessa di

rango-uno (vedi la Proposizione 4.4) e quindi continua e localmente Lipschitziana. In questo caso l’integrale al lato sinistro di (4.1) esiste sempre.

(40)

4.1 Nozioni di convessit`a 34

Proposizione 4.4. Se n ≥ 2, m ≥ 2 ed f < ∞, allora valgono le seguenti

implicazioni:

f convessa ⇒ f policonvessa ⇒ f quasiconvessa ⇒ f convessa di rango-uno.

Osservazione 4.5. Vedremo in seguito che le implicazioni inverse, f policonvessa

⇒ f convessa e f quasiconvessa ⇒ f policonvessa, non valgono tranne che nei

casi m = 1 ed n = 1, mentre se la rango-uno convessit`a implichi la

quasiconves-sit`a, `e un problema decisamente pi`u complicato. Un ingegnoso controesempio di Sver´ak risolve in negativo questa domanda nel caso m≥ 3; il caso m = 2, n ≥ 2 `e completamente aperto.

Prima di cominciare la dimostrazione della Proposizione 4.4 richiamiamo al-cuni risultati.

Lemma 4.6. Sia A∈ Rm×ne M(A) definito come prima.

1. Per ogni A, B ∈ Rm×n, con rk(A− B) ≤ 1 e per ogni λ ∈ [0, 1], allora

M(λA + (1− λ)B) = λM(A) + (1 − λ)M(B).

2. Per ogni insieme aperto e limitato U ⊂ Rn, A∈ Rm×n, ϕ∈ W01,∞(U ; Rm),

allora M(A) = 1 |U| Z U M(A + Dϕ(x)) dx.

Dimostrazione. Si ha, poich´e rk(A− B) ≤ 1, che esistono a ∈ Rn, b ∈ Rm

tali che

B = A + a⊗ b,

dove a⊗ b = (aibj)1≤j≤n,1≤i≤m ∈ Rm×n. Sia λ∈ [0, 1], allora vale

M(A + (1− λ)a ⊗ b) = λM(A) + (1 − λ)M(A + a ⊗ b). (4.2) Tale risultato `e equivalente a

(41)

4.1 Nozioni di convessit`a 35

per ogni1≤ s ≤ min(n, m). In termini di componenti, questo `e equivalente a (adjs(A + (1− λ)a ⊗ b))ij = λ( adjsA)

i j+ (1− λ)( adjs(A + a⊗ b)) i j, (4.4) 1≤ i ≤ m s ! ,1≤ j ≤ n s ! . Ricordiamo che

(adjsA)ij = (−1)i+jdet     Ai1 j1 · · · A i1 js .. . ... Ais j1 · · · A is js     .

Siano, con abuso di notazione,

A=     Ai1 j1 · · · A i1 js .. . ... Ais j1 · · · A is js     , a⊗ b =     ai1b j1 · · · a i1b js .. . ... aisbj 1 · · · a isbj s     .

Allora (4.4) `e equivalente a mostrare che per ogni A∈ Rs2, a, b∈ Rs, λ∈ [0, 1]

det(A + (1− λ)a ⊗ b) = λ det A + (1 − λ) det(A + a ⊗ b). (4.5) Questo `e una propriet`a standard del determinante. Per cui

det(λA + (1− λ)B) = det(A + (1 − λ)a ⊗ b) = λ det A + (1− λ) det B.

Da cui segue la tesi.

La dimostrazione del secondo punto segue un procedimento simile a quello precendente. Mostriamo che per ogni A ∈ Rm×ne per ogni ϕ∈ C02(U ; Rm), vale

M(A) = 1 |U|

Z

U

(42)

4.1 Nozioni di convessit`a 36

per verficare (4.6) `e sufficicente mostrare che adjsA= 1

|U| Z

U

adjs(A + Dϕ(x)) dx (4.7)

per ogni 1 ≤ s ≤ min(n, m), per ogni A ∈ Rm×n e per ogni ϕ ∈ C2

0(Ω; Rm).

Poniamo, con abuso di notazione,

Dϕ=     ∂ϕi1 ∂xj1 · · · ∂ϕi1 ∂xjs .. . ... ∂ϕis ∂xj1 · · · ∂ϕis ∂xjs     .

Quindi verificare (4.6) o (4.7) `e equivalente a mostrare che

det A = 1 |U|

Z

U

det(A + Dϕ(x)) dx (4.8)

per ogni insieme aperto e limitato U ⊂ Rs , A ∈ Rs2, ϕ ∈ C02(U ; Rs). Per

mostrare (4.8) procediamo per induzione su s. Il risultato `e ovvio per s = 1.

Assumiamo inoltre che (4.8) sia valida fino all’ordine s− 1, allora si ha che

det(A + Dϕ) = (A + Dϕ)1 ,( adjs−1(A + Dϕ))1 = A1,( adj s−1(A + Dϕ)) 1 + (Dϕ)1,( adjs−1(A + Dϕ))1 = s X j=1  A1j( adjs−1(A + Dϕ))ij+ ∂ϕ1 ∂xj ( adjs−1(A + Dϕ))1j  . (4.9) Integrando (4.9), usando l’ipotesi induttiva sulla prima parte, un integrazione per parti sul secondo termine si ottiene la relazione (4.8).

(43)

4.1 Nozioni di convessit`a 37

per ogni ϕ ∈ W01,∞(U ; Rm), abbiamo 1 |U| Z U M(A + Dϕ(x)) dx = = 1 |U| Z U (A + Dϕ(x)) dx, Z U det(A + Dϕ(x)) dx  = M(A),

e questo conclude la dimostrazione del lemma. 

Dimostrazione della Proposizione 4.4.

f convessa⇒ f policonvessa. Questa implicazione `e ovvia.

f policonvessa ⇒ f quasiconvessa. Poich´e f `e policonvessa, esiste g : Rd(m,n) → R convessa, tale che

f(A) = g(M(A)). (4.10)

Usando il Lemma 4.6 e la disuguaglianza di Jensen si ottiene

1 |U| Z U f(A + Dϕ(x)) dx = 1 |U| Z U g(M(A + Dϕ(x))) dx ≥ g  1 |U| Z U M(A + Dϕ(x)) dx  = g(M(A)) = f (A),

per ogni U ⊂ Rn insieme aperto e limitato, per ogni A ∈ Rm×n e per ogni

ϕ ∈ W01,∞(U ; Rm).

f quasiconvessa ⇒ f convessa di rango-uno. Ricordiamo che vogliamo

mostrare

f(λA + (1− λ)B) ≤ λf(A) + (1 − λ)f(B) (4.11)

(44)

4.1 Nozioni di convessit`a 38

Sia F = λA + (1. − λ)B una combinazione convessa delle due matrici. Dopo

una traslazione ed una rotazione possiamo assumere F = 0, A = (1− λ)a ⊗ e1, B = −λa ⊗ e1. Sia h una funzione regolare1-periodica che soddisfa h(0) = 0, h′ = (1− λ) su (0, λ) ed h=−λ su (λ, 1). Definiamo per x ∈ Q = (0, 1)n uk(x) =. a kh(kx 1), vk(x) = a min. nh(kxk1), dist(x, ∂Q)o, dove dist(x, ∂Q) = inf. {kx − yk: y ∈ ∂Q} , kxk = sup. {|xi|, i = 1, . . . , n} .

Allora Dvk ∈ {A, B} ∪ {±a ⊗ ei}, vk = 0 su ∂Q, e quando k → 0, |{Dvk 6= Duk}| → 0. Segue dalla definizione di quasiconvessit`a che

λf(A) + (1− λ)f(B) = lim k→∞ Z Q f(Duk) dx = lim k→∞ Z Q f(Dvk) dx≥ f(0), come voluto. 

Osservazione 4.7. Se consideriamo il caso in cui f : Rm×n → R = R∪{+∞}, la

prima implicazione f convessa⇒ f policonvessa `e ancora ovvia. L’implicazione

f policonvessa⇒ f convessa di rango-uno `e ancora semplice se usiamo il Lemma

4.6. Poich´e f `e policonvessa , esiste g : Rm×n→ R convessa tale che f(A) = g(M(A)).

Sia λ∈ [0, 1], A, B ∈ Rm×ncon rk(A− B) ≤ 1, allora, usando il Lemma 4.6, f(λA + (1− λ)B)

= g(M(λA + (1− λ)B)) = g(λM(A) + (1 − λ)M(B)) ≤ λg(M(A)) + (1 − λ)g(M(B)) = λf(A) + (1 − λ)f(B),

(45)

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a 39

Osservazione 4.8. Se n = 1 o m = 1 allora convessit`a, policonvessit`a e

rango-uno convessit`a sono nozioni equivalenti e, sono equivalenti alla quasiconvessit`a, se, in pi`u, f prende valori in R.

Per quanto riguarda le implicazioni inverse, i minori di ordine maggiore di uno sono policonvessi ma non convessi. Un esempio di funzione quasiconvessa ma non policonvessa `e proposto di seguito. Per un esempio di funzione convessa di rango-uno che non sia quasiconvessa facciamo riferimento al controesempio di Sver´ak (cfr. [31] per maggiori dettagli).

Il seguente esempio `e dovuto a Dacorogna e Marcellini (cfr. [11] per mag-giori dettagli), ed illustra le diverse nozioni di convessit`a. Sia n = m = 2 e

consideriamo f(F ) =|F |4− γ|F |2det F . (4.12) Allora f convessa ⇔ |γ| ≤ 4 3 √ 2, f policonvessa ⇔ |γ| ≤ 2, f quasiconvessa ⇔ |γ| ≤ 2 + ǫ, f convessa di rango-uno ⇔ |γ| ≤ 4 3.

Si sa che ǫ >0; il fatto che 2 + ǫ sia o no uguale a √4

3 `e un problema aperto.

4.2

Caratterizzazione della quasiconvessit`a

Concetto base per la convessit`a dei problemi variazionali a valori vettoriali `e la nozione di quasiconvessit`a. `E strettamente legata alla semicontinuit`a inferiore dei funzionali ed all’esistenza (e regolarit`a) dei minimizzatori. Le funzioni quasi-convesse sono gli oggetti duali naturali per le misure di Young gradienti (vedi la Sezione 5.1).

Nel seguito Ω indicher`a un dominio limitato di Rn e considereremo mappe u :→ Rme il funzionale

I(u) = Z

(46)

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a 40

Teorema 4.9. Supponiamo che f : Mm×n → R sia continua. Il funzionale I `e

sequenzialmente semicontinuo inferiore debole* (l’acronimo inglese `e: w*slsc) su W1,∞(Ω; Rm) se e solo se f `e quasiconvessa.

Dimostrazione. Per stabilire condizioni necessarie per la quasiconvessit`a

poni-amo Q = (0, 1). n, ϕ ∈ W01,∞(Q; Rm), estendiamo ϕ periodicamente a Rn e

poniamo uj(x) = F x + 1 jϕ(jx), per x∈ Ω. Allora uj ⇀ u in W∗ 1,∞(Ω, Rm), dove u= F x e. f(Duj)⇀ cost.∗ = Z Q f(F + Dϕ(y)) dy in L∞(Ω),

(cfr. la sezione 3.2). La condizione necessaria per la quasiconvessit`a segue. Per mostrare le condizioni sufficienti consideriamo uj ⇀ u in W∗ 1,∞(Ω; Rm)

e supponiamo innanzitutto che u(x) = F x. Se uj − u `e nullo sul ∂Ω la tesi

segue dalla definizione di quasiconvessit`a. Per uj generali consideriamo un

sot-todominio compatto Ω′ ⊂⊂ Ω, una funzione η ∈ C

0 (Ω) con η = 1 su Ω′ e

poniamo

vj = u + η(uj − u).

Poich´e uj → u localmente uniformemente in Ω per il teorema di immersione di

Sobolev e poich´e |Duj| ≤ C possiamo assumere |Dvj| ≤ C′ per j ≥ j0(η). Se poniamo M = sup. {|f(F )| : |F | ≤ C + C} ed usiamo la quasiconvessit`a

otteniamo

lim inf

j→∞ I(uj) ≥ lim infj→∞ Z Ω f(Dvj) dx + Z Ω\Ω′ f(Duj)− f(Dvj) dx  ≥ |Ω|f(F ) − 2M|Ω\Ω′|.

Poich´eΩ′ ⊂⊂ Ω `e arbitrario, la tesi segue per u = F x e in modo analogo per le u

affini a tratti.

Per funzioni u ∈ W1,∞(Ω; Rm) arbitrarie, il risultato `e ottenuto tramite

ap-prossimazioni. Per sottodomini compattiΩ′ ⊂⊂ Ω′′ ⊂⊂ Ω esiste vktale che v k `e

(47)

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a 41

affine a tratti suΩ′, u= v

kinΩ\Ω′′,|Dvk| ≤ C, Dvk→ Du in misura (e quindi in

tutti gli spazi Lp, p <∞). Per costruire una tale vkiniziamo con l’approssimare u

suΩ′′con una funzione C1e poi consideriamo un approssimazione lineare a tratti

su una, sufficientemente fine, triangolazione (regolare). Sia uj,k = uj + vk− u.

Allora

uj,k ⇀ v∗ k in W1,∞(Ω; Rm) quando j → ∞, (4.13)

|Duj,k| ≤ C (4.14)

Quindi per il risultato precedente e per il teorema di convergenza dominata

lim k→∞lim infj→∞ Z Ω′ f(Duj,k) dx ≥ lim k→∞ Z Ω′ f(Dvk) dx = Z Ω′ f(Du) dx Z Ω f(Du)− C|Ω\Ω|.

D’altre parte per la relazione (4.14), per l’uniforme continuit`a di f sugli insiemi compatti e per la convergenza in misura di Dvk si ha

lim k→∞sup Z Ω′ |f(Duj,k)− f(Duj)| dx = 0. Quindi lim inf j→∞ Z Ω f(Duj) dx Z Ω f(Du) dx− 2C|Ω\Ω|,

e la tesi segue poich´eΩ′ `e arbitrario. 

Osservazione 4.10. Usando questa classificazione e i risultati sulle misure di

Young (vedi la Sezione 3.3), si estende facilmente la semicontinuit`a inferiore per integrandi del tipo f(x, u(x), Du(x)).

Teorema 4.11 (Esistenza). Supponiamo p∈ (1, ∞), c > 0 e che f soddisfi

c|F |p ≤ f(F ) ≤ C(|F |p+ 1).

(48)

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a 42

classe

Wυ1,p(Ω; Rm)=. u ∈ W1,p(Ω; Rm) : u− υ ∈ W01,p(Ω; Rm) .

Teorema 4.12 (Regolarit`a). (cfr. [22] per ulteriori dettagli)

Supponiamo che f sia una funzione regolare, che soddisfi

0≤ f(F ) ≤ C(|F |2+ 1)

e che sia uniformemente quasiconvessa, ossia che esista un c > 0 tale che Z Ω f(F + Dϕ)− f(F ) dx ≥ c Z Ω|Dϕ| 2 dx, ∀ϕ ∈ W01,∞(Ω; Rm).

Sia u ∈ W1,2(Ω; Rm) un minimizzatore locale per I, cio´e I(u + ϕ)≥ I(u) ∀ϕ ∈ C0(Ω).

Allora esiste un insieme apertoΩ0 di misura piena tale che

u∈ C∞(Ω0)

Concludiamo questo capitolo con una caratterizzazione dell’inviluppo quasi-convesso di una funzione

Proposizione 4.13. Supponiamo p∈ (1, ∞), c > 0 e che f soddisfi

c|F |p ≤ f(F ) ≤ C(|F |p+ 1).

Per ogni f : Mm×n→ [−∞, ∞) ed ogni dominio U limitato con |∂U| = 0 si ha

fqc(F ) = inf ϕ∈W01,∞ 1 |U| Z U f(F + Dϕ) dx. (4.15) Dimostrazione. Sia Qf(F, U )=. inf ϕ∈W01,∞ 1 |U| Z U f(F + Dϕ) dx.

(49)

4.2 Caratterizzazione della quasiconvessit`a 43

Dobbiamo mostrare che fqc(F ) = Qf (F, U ). `E noto che Qf non dipende da U .

Dalla definizione di quasiconvessit`a segue Qf ≥ Qfqc = fqc. Per mostrare la

disuguaglianza opposta Qf ≤ fqc `e sufficiente mostrare che Qf `e quasiconvessa poich´e Qf ≤ f. Iniziamo mostrando che

1 |U| R UQf(F + Dψ) dx≥ Qf(F ), ∀ψ ∈ W01,∞(Ω; Rm), ψ affine a tratti. (4.16)

Sia U l’unione finita dei sottoinsiemi Uiaperti e disgiunti tali che ψ `e affine su Ui

e sia ǫ > 0. Per la definizione di Qf ( applicato a Ui ) esiste ϕi ∈ W01,∞(Ui; Rm)

tale che Qf(F + Dψ)≥ 1 |Ui| Z Ui f(F + Dψ + Dϕi) dx− ǫ su Ui.

Poniamo ϕ= ψ +P ϕi ∈ W01,∞(U ; Rm). A meno di riordinare i termini si ha Z U Qf(F + Dψ) dx Z U f(F + Dϕ) dx− ǫ|U| ≥ Qf(F ) − ǫ|U|,

e l’affermazione (4.16) segue poich´e ǫ >0 `e arbitrario. Adesso la relazione (4.16)

`e sufficiente per concludere che Qf `e convessa di rango-uno e perci`o continua e localmente Lipschitziana (cfr. l’Osservazione 4.3). Quindi per la (4.16) e un ar-gomento di densit`a Qf `e quasiconvessa, allora fqc= Qf . 

(50)

Capitolo 5

Misure di Young che derivano da

gradienti

In questa sezione verranno studiate le misure di Young generate da successioni di gradienti{Duj}. Come prima Ω ⊂ Rndenota un dominio limitato con bordo

Lipschitziano.

Definizione 5.1. Una mappa ν : Ω → M(Mm×n) `e una misura di Young

gradiente se `e generata da una successione di gradienti Duj, dove uj ⇀ u in∗ W1,∞.

Usando questa notazione possiamo riformulare il Problema 2 (sulle soluzioni approssimate) come segue.

Problema 4. Dato un insieme K ⊂ Mm×ncaratterizzare tutte le misure di Young gradienti ν tali che

supp νx ⊂ K per q.o. x.

5.1

Classificazione delle misure di Young gradienti

Teorema 5.2. Una mappa ν : Ω → M(Mm×n) (debolmente* misurabile) `e una

misura di Young gradiente se e solo se νx `e una misura di probabilit`a per ogni x,

ed esistono un insieme compatto K ⊂ Mm×ned una u ∈ W1,∞(Ω; Rm) tale che

valgano le seguenti tre condizioni: 1. supp νx ⊂ K per q.o. x,

Figura

Figura 1.1: Microstrutture di un cristallo di Cu-Al-Ni; l’area dell’immagine `e, circa, 2mm × 3mm.
Figura 1.2: Struttura cristallina ortorombica.
Figura 6.1: Due possibili laminati per il probelma a due pozzi.
Figura 6.2: Nessuna delle seguenti costruzioni soddisfa la condizione di rango- rango-uno connessione attraverso ogni interfaccia.

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