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Dr.ssa Amalia Maria Montresor

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Academic year: 2022

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐ 

Il danno da lutto da Montecatini a Pisa Dr.ssa Amalia Maria Montresor*

Sono trascorsi cinque anni dal Convegno di Montecatini in cui ho portato con un intervento scritto il mondo interno di chi ha subito, incontrandosi con il mistero che la vita porta con sé, la perdita di una parte dell’esperienza di sé.

In questo lungo intervallo di tempo ho continuato ad incontrare persone che hanno subito un lutto.

Ho conosciuto madri, padri, figli, mariti, mogli, mediante Consulenze Tecniche d’Ufficio e di parte e spesso ho vissuto insieme a loro come perito il disagio provocato da accertamenti frettolosi, indisponenti, talvolta intimidatori nei confronti di coloro che hanno accettato, nella speranza di veder riconosciuta la loro sofferenza psichica, un iter giudiziario che il più delle volte non ha consentito l’emersione del loro mondo interno e della sofferenza psichica che il lutto ha prodotto in esso.

Ho incontrato psichiatri, medici legali, preoccupati di stabilire mediante il loro sapere la verità sul danno psichico, che non può emergere se chi è chiamato a diagnosticarlo non ha né dimestichezza con il mondo interno né capacità di ascolto.

Ho assistito non a colloqui clinici ma ad interrogatori serrati, che hanno tolto ogni dignità all’intervento peritale ed hanno posto il danneggiato in una posizione da inquisito che l’ha profondamente offeso.

Ho sentito la paura dei periti ad incontrare il mondo interno di chi soffre, il loro bisogno di difendersi da una sofferenza psichica che il più delle volte li spaventa, banalizzando, o ricorrendo ad una psichiatria obsoleta fatta di categorie rigide, che non consentono né l’accesso al mondo interno né l’Ascolto, per cui il danno psichico provocato dal lutto che non è emerso.

Mi sono accorta in questi anni di lavoro quanto l’emersione in ambito peritale del danno psichico da lutto possa essere indipendente dal suo esistere e sia invece dipendente dall’impostazione di chi è chiamato a diagnosticarlo.

Ho vissuto insieme ai periziandi il torto provocato loro dall’uso di un sapere preoccupato di garantirsi la continuità e l’ambito del suo esercizio, il periziando che diviene così sempre più oggetto di conoscenza e sempre meno persona.

Ho incontrato il sapere che oggettivizza, che fraziona, che ripartisce, che osserva le parti più esterne della persona, perché non ha gli strumenti clinici necessari per non ripartire, per non frazionare, per unificare l’individuo.

Un sapere arroccato nel suo esercizio di potere, che tiene lontane da sé quelle conoscenze ormai standardizzate che potrebbero renderlo più umano, più equo, più capace di esercitarsi.

Un sapere che impedisce alla giustizia di essere tale, ed aumenta nel danneggiato il senso di ingiustizia che già sperimenta per quanto nella vita gli è stato già tolto.

Una riflessione ulteriore su ciò è sorta in me in seguito ad una lettera giuntami da Roma nel Febbraio c.a., che così si apre:

* Psicoterapeuta - Vicenza

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐ 

“Gentile Dr.ssa,

il caso da lei esaminato …..nell’intervento di Montecatini rispecchia drammaticamente la situazione della mia famiglia avendo perduto mio figlio di 27 anni per un incidente stradale la sera del 10 settembre 1992. Fu investito da un ragazzo di 22 anni che alla guida di un autobus, patentato da un mese non rispettava lo stop, proprio quand’egli passava con la sua motocicletta.

Dopo cinque giorni che lui era partito, una giovanissima ragazza che aveva buoni propositi di un futuro progetto di vita con lui, si tolse la vita da un ponte dei Castelli Romani.

Ora le notre famiglie vivono unite tenendo viva la memoria dei due ragazzi.

Il cimitero è il nostro giardino di casa.

Il tempo che passa non lenisce il dolore, anzi lo aumenta poiché ogni ricordo delle feste, dei compleanni, degli onomastici delle situazioni in cui si era felici, oggi sono forti motivi di dolore…..

Le risparmio il calvario, le umiliazioni per l’iter giudiziario in questi otto anni, il gioco degli avvocati, dei periti, dei giudici.

Secondo il parere del perito del Tribunale, noi genitori per perdita di nostro figlio avremmo avuto solo uno spostamento nella vita di relazione per qualche mese.

La perizia è avvenuta in presenza del rappresentante delle Assicurazioni che durante la visita sfogliava la documentazione, le fotografie della persona cara, dell’incidente con commenti di sufficienza al riguardo...

L’esperienza clinica mi consente di affermare che la scomparsa improvvisa di un figlio cambia il corso della vita dei genitori, che non possono più essere quello che erano.

La perdita rivoluzionaria le leggi naturali della vita stessa, perché toglie al figlio la possibilità di vedere invecchiare il padre ed al padre quella di veder crescere attraverso il figlio nuova vita.

Quando il lutto non è elaborato, e la possibilità di elaborarlo è inversamente proporzionale alla quantità d’investimento fatto sull’oggetto d’amore perduto, la persona che l’ha subita non può ritornare a vivere, perché l’adesione pertinace all’oggetto d’amore perduto gli toglie sia la capacità di progettarsi sia il futuro.

Il lutto in elaborato crea sofferenza psichica, una sofferenza che invade tutta la persona, che è costante e non da tregua.

Una sofferenza che spesso è aumentata dall’assenza di professionalità di chi svolge questa attività peritale senza avere gli strumenti clinici necessari per farlo.

La sofferenza è insita nel lutto ed il periziando quando entra per essere valutato la porta con sé.

Se colui che valuta non può incontrare il mondo interno di chi ha subito la perdita, la sofferenza non è accolta e sfugge alla valutazione di quel danno di cui si vede solo la parte emergente.

Di esso si vuole vedere i segni esterni, oggettivabili, fenomenici, inscrivibili in categorie nosografiche diagnostiche rigide che ben si possono applicare alla patologia organica, ma non a quella psichica, che non è racchiudibile in tali quadri diagnostici.

Per valutare realmente il danno psichico provocato da una perdita, si deve incontrare il mondo interno di chi l’ha subita, che non può essere racchiuso in categorie manualistiche e nemmeno in un concetto ormai superato di lesione psichica che da queste deriva, a cui scrupolosamente si attengono quegli specialisti che non hanno competenze per diagnosticare ciò che si muove nel mondo interno della persona, da cui non si può prescindere se si vuole dare un equa valutazione del danno.

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Se il tecnico fonda la valutazione del danno psichico solo sul linguaggio fenomenico su cui la psichiatria ha costruito le sue categorie diagnostiche e nosografiche a cui si ispira il DSM nelle sue diverse stesure, la valutazione risulta parziale, incompleta, non corrispondente alla realtà della persona che ha subito la perdita.

Il danno può essere quindi giustamente diagnosticato e valutato.

Per formulare una diagnosi adeguata è necessario che il tecnico che è chiamato a fornirla abbia ben presente che la malattia che si avvale di un doppio linguaggio, quello fenomenico su cui la Psichiatria ha costituito le sue categorie e quello interno alla persona, formato anch’esso da segni e da simboli che debbono essere presi in considerazione con competenza e professionalità da medici e psicologi psicoterapeuti, capaci di dialogare con segni e i simboli che appartengono al mondo interno della persona.

Per valutare equamente il danno prodotto da un lutto è necessario rivisitare il concetto stesso di malattia psichica ed abbandonare quella posizione rigida che rimanda alle categorie nosografiche su cui si fonda l’attuale concetto di lesione psichica che non consente la giusta valutazione del danno.

Per ottenerla è necessario andare al di là degli aspetti fenomenici ed incontrare il mondo interni e la storia di chi ha subito la perdita.

Molti sono i casi in cui la persona che ha subito il lutto appare adeguata se la valutazione è fatta seguendo un solo linguaggio della malattia mentale quello fenomenico a cui si attiene la maggior parte degli psichiatri che formula diagnosi inscrivibili in categorie manualistiche.

La rigidità non ha spazio per l’accoglienza e tantomeno per la sofferenza.

Non si può vedere una sofferenza, un disagio, un malessere che si esprime con un linguaggio diverso da quello fenomenico se non si hanno gli strumenti clinici necessari per farlo e non si ha nemmeno la disponibilità e l’umiltà d’animo per riconoscere che, senza di questi, è impossibile giungere ad una valutazione adeguata della sofferenza psichica di chi ha subito la perdita.

Non si può nemmeno accostarsi alla valutazione del disagio psichico se non si è disposti ad accettare l’esistenza di quei segni e simboli che appartengono al mondo interno e attraverso cui, nella maggior parte dei casi, si esprime il disagio di chi soffre.

Non è pensabile che il C.T.U. si appresti a sviluppare il suo compito e possa adeguatamente svolgerlo quando è radicato in una concezione ormai arcaica di malattia e di lesione psichica.

Per comprendere quanto gli strumenti clinici di cui il tecnico dispone condizionino pesantemente sia la diagnosi sia la valutazione del danno su cui questa si fonda, riporto il caso di Anna, madre di due figli, che perde il marito in seguito ad un incidente stradale il 15/6/1996 ed è sottoposta a Consulenza Tecnica D’Ufficio lo scorso anno.

Il quesito chiede al Consulente Tecnico d’Ufficio Psichiatra di stabilire “se in seguito alla morte del rispettivo marito e padre è insorta nei periziandi una malattia psichica riconoscibile e diagnosticabile”….. ovviamente secondo le categorie nosografiche rigide di un sapere psichiatrico a cui il DSM si ispira.

La malattia quindi è tale solamente se i segni fenomenici consentono d’inquadrarla in una delle categorie proposte dai manuali.

L’operazione peritale è viziata in partenza, perché il quesito esclude che la formulazione della diagnosi avvenga in base al mondo interno alla persona che soffre.

E se al mondo interno non è riconosciuta la stessa dignità scientifica del mondo fenomenico non sarà mai possibile giungere né ad un’equa diagnosi né ad un’equa valutazione del danno provocato da un lutto.

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Dall’indagine peritale emerge che Anna è totalmente occupata dal lutto, invasa dalla rabbia per la perdita dell’oggetto d’amore perduto, che non gode più di sé e di ciò che l’attornia.

É una donna che da quando ha perso il marito si alza il mattino dopo aver dormito poche ore la notte perché il suo sonno è breve e disturbato, per vivere un altro giorno faticoso, segnato dall’ansia, dall’angoscia, dalla rabbia, dalla fatica del vivere.

Anna non vive più per sé, ma per i figli, che soffrono per la perdita del padre, ma anche per quella della madre, che sopraffatta dal lutto non è più in grado di svolgere la funzione di scudo materno quindi di protezione nei loro confronti.

Non è più né la donna né la madre di prima e lo dice ripetutamente al C.T.U.

Lo esprime con la forza della rabbia che sperimenta quotidianamente da quando ha perso il marito e si è trovata a portare avanti da sola una vita progettata in due.

Porta con la sua perdita di peso, diciotto chili, il suo essere non curata ma pulita, la mutilazione che la perdita del marito ha prodotto nella sua struttura psichica, nel suo modo di essere, che la rende una donna che non esiste ed una madre incerta, spaventata ed incapace di proteggere i figli dal lutto che l’ha colpita.

La Sig.ra non è pazza, non è nemmeno una malata di mente, è una donna colpita da un lutto che può elaborare.

La patologia psichica da cui è affetta non è quindi rintracciabile nelle categorie nosografiche di una psichiatria obsoleta a cui si ispira il quesito e lo stesso C.T.U. che chiede alla periziando

“se si sente malata”. Il non detto è ovviamente di “mente”.

La risposta che ne consegue non può che essere che ella non si sente tale e la sua affermazione è adeguata perché lei non è una malata di mente, ma una donna che ha perso in seguito al lutto la possibilità di essere.

Fortunatamente, e da molti anni, la psicoanalisi, la psicologia dinamica e la psichiatria che si è aperta alle nuove conoscenze, hanno della sofferenza psichica e delle patologie ad essa connesse una visione ampia, che supera le categorie rigide che non consentono un’adeguata comprensione del mondo interno di chi soffre.

L’uso della casella del manuale nel caso specifico Disturbo Post-Traumatico da stress Cronico quantificato nel 10% non deriva dalla conoscenza del mondo interno della periziando, ma dal ricorso a delle categorie che non consentono minimamente di ricomprendere che cosa il lutto ha prodotto nel suo mondo interno.

Non si comprende perché Anna ha cessato in seguito al lutto di gioire, di provare piacere, di pensare a sé come donna.

Non si comprende nemmeno perché ha cessato di essere la donna e la madre che era, ed è divenuta una donna arrabbiata con sè e con gli altri, priva di progettualità e di futuro.

Una donna che con rabbia risponde al C.T.U. che le chiede come mai gli amici la sfuggono

“So solo una cosa che morto lui, sono morta anch’io. Non mi interessa più niente della vita, tiro avanti….. quando sono in crisi penso all’incidente. Mi vengono in mente le cose più stupide, farla finita anch’io. Per me è come se tutto si fosse fermato lì. La vita continua, io la sto continuando non per me ma per loro. Io sono morta insieme a lui….. è vero ci sono i bambini, ma lui non c’è più.

Penso solo di volerlo raggiungere…É chiaro che porto avanti i bambini, ma lui non c’è più”.

Il vuoto incolmabile prodotto dalla perdita che fa essere Anna l’ombra di se stessa può essere capito solamente se si analizza la sua storia e si dialoga con il suo mondo interno, in cui è racchiuso il suo nucleo di sofferenza.

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Solo dialogo con esso il tecnico può comprendere che cosa il lutto ha veramente prodotto nella struttura psichica di chi l’ha subito, e può mediante il suo operato dar inizio a quel processo ripartivo di cui la persona abbisogna, perché ciò che il periziando vuole è il riconoscimento della sua sofferenza, con cui ha a che fare il risarcimento.

Credo si sia tutti d’accordo nel ritenere che chi ha subito un danno psichico in seguito a un lutto ha il diritto di essere risarcito.

L’esperienza clinica mi consente però di affermare che il diritto diviene tale solo quando il professionista è in grado di “ascoltare” la sofferenza psichica.

Di ascoltarla con quell’attenzione, quel rispetto, quella disponibilità che caratterizzano l’ascolto del terapeuta, che consente a chi soffre di non vedere nell’altro l’estraneo, ma colui che può cogliere e tenere le sue parti ferite, lacerate, che custodisce gelosamente dentro di sé.

“L’ascolto” consente di sentire il dolore, la sofferenza, la disperazione, la gravità del disagio, l’investimento fatto sull’oggetto perso, che continua ad essere vivo ed investito nel mondo interno di chi l’ha perduto.

Se si può ascoltare, tenere il dolore e la sofferenza di chi soffre, si può incontrare la parte profonda della struttura di personalità in cui il lutto si colloca disorganizzandola.

Si può andare al di là del fenomenico e cogliere tutto ciò che ad esso sfugge ma che esiste.

Ci sono infatti, e l’esperienza clinica me l’ha dimostrato, tutta una serie di fenomeni che non sono direttamente inquadrabili nei quadri clinici così come sono riportati dai manuali, perché il nucleo patologico è tutto interno alla persona e dev’essere preso in considerazione anche se le manifestazioni esterne fenomeniche non sono così evidenti e clamorose.

Credo che il compito del professionista sia quello di far emergere mediante i suoi strumenti clinici il nucleo patologico interno alla persona, che il più delle volte rimane sommerso, perché la sofferenza interna non sempre è evidente nei comportamenti esterni.

Molte volte il disagio psichico può essere addirittura nascosto dai comportamenti adottati da chi subisce la perdita, per cui la persona appare adeguata.

Il suo esserlo deriva dal fatto che è curata e ordinata nell’aspetto, orientata nel tempo e nello spazio, che svolge la sua attività lavorativa, che a volte può addirittura essere incrementata.

I segni esterni sanciscono per il professionista che non ha dimestichezza con il mondo interno, che non vi è sofferenza psichica e che il lutto è stato elaborato, e che tutt’al più vi è uno

“spostamento nella vita di relazione per qualche mese”.

I segni che consentono di dire che la perdita è elaborata non appartengono ai comportamenti esterni di chi l’ha subita ma al mondo interno, ed è lì che debbono essere cercati.

Scrive Freud: “l’esame di realtà ha dimostrato che l’oggetto amato non c’è più e comincia a esigere che tutta la libido sia ritirata da ciò che è connesso con tale oggetto.

Contro tale richiesta si leva un’avversione ben comprensibile…… gli uomini non abbandonano mai volentieri una posizione lipidica, neppure quando dispongono già di un sostituto che li inviti a farlo. Questa avversione può essere talmente intensa da sfociare in un estraniamento della realtà e in una pertinace adesione all’oggetto….. Comunque una volta portato a termine il lavoro del lutto, l’Io ridiventa libero e disinibito” e può investire l’energia lipidica precedentemente messa sull’oggetto perso su un nuovo oggetto d’amore.

L’elaborazione appartiene quindi al mondo interno da cui non si può prescindere se si vuole veramente comprendere ciò che il lutto ha prodotto nella struttura psichica di chi l’ha subito.

Accade che chi ha subito la perdita rifugge dal principio di realtà e continua a vivere la vita negando e rimovendo mediante il suo comportamento la perdita del suo oggetto d’amore.

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Vive, lavora, è curato nell’aspetto, ben orientato nel tempo e nello spazio non perché ha elaborato il lutto ed il suo Io è ritornato ad essere libero, ma per l’impiego massiccio delle difese che lo tengono lontano dal nucleo di sofferenza che non può incontrare perché lo disturberebbe.

Il lutto in elaborato continua così a produrre sofferenza psichica nel mondo interno.

Una sofferenza che può originare quando le difese impiegate sono la rimozione e la negazione a distanza di anni una patologia organica anche grave perché il lutto non viene tenuto nella mente ma canalizzato sul corpo.

É il caso di Giuseppe, che sette anni fa perde in seguito ad un incidente stradale il suo primogenito ed unico figlio maschio.

L’evento altamente stressante cambia completamente il corso della sua vita e quello della sua famiglia.

Giuseppe non riesce ad elaborare il lutto, è rabbioso e depresso.

Durante la Consulenza Tecnica d’Ufficio, che avviene a due anni di distanza dalla perdita, il C.T.U. afferma che … “con l e sue forze psichiche di difesa il periziando ha potuto riprendere una sufficiente attività lavorativa e un sufficiente standard di integrazione sociale” e conclude per una lieve depressione.

A quattro anni di distanza dalla Consulenza Tecnica d’Ufficio e a sei anni dalla perdita, Giuseppe si ammala di cancro all’esofago.

L’insorgenza della malattia induce il suo rappresentante legale a richiedere una nuova Consulenza Tecnica d’Ufficio e costringe i professionisti a riflettere sia sull’uso delle difese, sia sul mondo interno, in cui il nucleo di sofferenza, se non individuato, può continuare ad agire sino a produrre una patologia organica.

Giuseppe si difende dal lutto negando e rimovendo; l’impiego massiccio del meccanismo difensivo della negazione e della rimozione gli consente di avere un sufficiente indice d’integrazione sociale e questo è ciò che conta ai fini della diagnosi, che è formulata tenendo conto di quanto accade nella realtà esterna, ma non in quella interna del periziando.

Bahnson & Bahnson, che si occupano del ruolo delle difese nell’evoluzione sia delle patologie psichiche sia di quelle organiche nel loro lavoro del 1966 che si intitola “Role of the ego defends: Denial and repression in the etiology of malignant neoplas. Annali of the New York Academy of Scienses” evidenziano l’importanza dei meccanismi difensivi. Analizzando il loro schema si evince che ad un uso massiccio del meccanismo della negazione può essere connessa l’insorgenza di una patologia organica anche grave come il cancro.

Mentre all’uso massiccio della proiezione è spesso connessa una patologia psichica grave quale la psicosi.

É ovvio che la preponderanza di tali meccanismi difensivi nella vita d una persona si ha quando questa si trova in grossa difficoltà psichica.

Difficoltà ad accettare una realtà dolorosa ed altamente stressante come la perdita di un figlio.

Si sa che all’evento luttuoso fa sempre seguito uno stato depressivo di tipo reattivo, destinato, se è tale, rivolgersi nel tempo.

Il professionista che dialoga con i segni e simboli del mondo interno sa che la depressione non sempre si manifesta secondo i segni oggettivabili della realtà esterna.

Il più delle volte nei casi di lutto essa si nasconde, si maschera dietro la funzionalità comportamentale, che inganna chi non ha dimestichezza con il mondo interno, per cui il nucleo vero della sofferenza psichica non emerge, come è accaduto a Giuseppe.

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Quando il lutto è in elaborato ed il funzionamento di chi l’ha subito è garantito dall’uso massiccio delle difese, quali la rimozione e la negazione che si collocano sul versante nevrotiche mascherano lo stato depressivo, non si può non pensare che non vi sia un nesso di causalità tra l’evento produttore di stress e l’insorgenza della patologia oncologica, anche perché gli studi condotti in campo immunologico hanno dimostrato e dimostrano che lo stato depressivo del paziente delibita e talvolta azzera il sistema immunitario.

Gli studi condotti in campo psico-oncologico dimostrano che chi è affetto da questa patologia organica usa prevalentemente alcuni meccanismi di difesa e tende a somatizzare gli affetti, che nel caso del lutto sono affetti di tristezza ma anche di rabbia.

La persona in lutto è depressa ma è anche molto arrabbiata per la perdita subita.

La rabbia è la conseguenza di un agito impossibile che non può essere espletato attraverso il comportamento manifesto, per cui diventa un comportamento somatico e acquista una dimensione corporea.

Giuseppe è uomo arrabbiato, invaso dalla rabbia per la perdita del figlio, che potrebbe essere placata solo da una agito.

Una rabbia mai lenita, che a sette anni di distanza dall’evento luttuoso mantiene tutta la forza distruttiva. Una rabbia mai mentalizzata, del tutto inelaborata, che preme per essere agita.

Ma egli non è un “Asra”, non agisce, e soffoca sia la sua sete di vendetta, sia l’odio provocato dal lutto per la perdita della persona amata.

Freud ha scritto che “di fronte al cadavere della persona amata, non è nata soltanto la dottrina dell’anima, la credenza dell’immortalità e la radice prima del senso di colpa negli uomini, ma anche i primi comandamenti morali. Il primo e più importante divieto della coscienza morale fu non ammazzare ….. che si costituì quale relazione al soddisfacimento dell’odio oculato dal lutto, provato dinanzi al morto amato”.

Non potendo uccidere come farebbe un Asra e nemmeno colpire se stesso, chi ha subito la perdita compie, non potendo tenerla tutta dentro nel suo mondo interno, uno spostamento della rabbia mediante un agito sul corpo.

La somatizzazione è infatti la conseguenza di un agito impossibile.

Il professionista preparato ad incontrare il mondo interno sa che quando le difese adottate per fronteggiare la perdita sono di tipo inibitorio, la risonanza emozionale del trauma finisce sul corpo.

Sa anche che quando il sistema difensivo impiegato per controllare il nucleo di sofferenza è di natura proiettiva il corpo si libera da ogni patologia.

La persona che subito il lutto fisicamente sta bene, ma la sua attivazione comportamentale e relazionale è fortemente disturbata, per cui vi è un crollo, o addirittura la cessazione dell’attività lavorativa e di ogni relazione.

Quando le difese sono di natura proiettiva il professionista che non ha l’ascolto del terapeuta riconosce il danno psichico provocato dalla perdita perché il comportamento è disturbato da idee persecutorie, deliranti o da stati depressivi.

Non lo riconosce invece quando la risposta emozionale è filtrata da difese d’inibizione, che non alternano gli aspetti comportamentali, come nel caso di Giuseppe che poi si ammala di tumore.

Credo sia evidente che la diagnosi del danno non può essere fatta valutando solamente il comportamento manifesto del danneggiato, perché questo modo di procedere corrispondente alla reale sofferenza psichica di chi ha subito il danno, ma aggiunge al danno il torto.

Sono certa che tutti noi desideriamo che ciò avvenga.

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Personalmente mi sono attivata in questi anni affinché il danneggiato sia visto nella sua interezza, nel suo essere persona e abbia, quando è valutato, un trattamento professionale in grado di cogliere la sofferenza che egli porta con sé, perché è per questo che noi siamo lì.

Siamo lì per dialogare con i segni e simboli del mondo interno, per comprendere ciò che accade nella parte più profonda e più nascosta di ciascuno di loro.

L’esperienza clinica sin qui condotta mi consente di affermare che chi ha la preparazione atta ad incontrare il mondo interno si approccia al danneggiato con rispetto e serenità, quella serenità che deriva dal poter incontrare, grazie agli strumenti della psicoanalisi, della psicologia clinica e dinamica e della psichiatria che si è aperta a questo sapere, la sofferenza dell’altro, che è visto non in relazione al fine ultimo dell’iter a cui ci si sottopone, il risarcimento economico, ma in relazione alla sua sofferenza, per cui il danneggiato diviene soggetto e non oggetto di conoscenza.

Ed egli diviene tale solamente quando il tecnico ha, in seguito alla sua preparazione, un profondo rispetto di ciò che si muove nel mondo interno del danneggiato.

Accade molto spesso che chi soffre psichicamente per aver perso una parte dell’esperienza di sé non si sia rivolto né allo psicoterapeuta né allo psichiatra.

Quando ciò si verifica il medico legale o lo psichiatra che diagnostica ritiene che il danneggiato non si sia curato e che pertanto non sia possibile affermare che il disturbo sia permanente ed irreversibile, perché la terapia farmacologia avrebbe dato a suo avviso ottimi risultati.

Lo psicoterapeuta sa che la persona si cura se è motivata a farlo e che le motivazioni alla cura non scaturiscono dalle esigenze di chi l’attornia, ma da ciò che si muove nel suo mondo interno.

Le motivazioni alla cura appartengono alla persona e sono strettamente connesse a ciò che ha maturato nel corso della sua vita.

Giovanna da quando ha perso il figlio soffre di una grave forma di depressione che l’ha costretta ad abbandonare l’attività lavorativa ed ogni forma di relazione, compresa quella di coppia.

Alla seconda Consulenza Tecnica d’Ufficio, che avviene a sette anni di distanza dalla perdita del figlio, perché le è contestato il fatto di non essersi curata, porta attraverso il suo corpo dimagrito ed ossuto, il volto estremamente triste, la voce rotta dal pianto, il suo incidere talvolta incerto, precario, il suo ritiro dal mondo esterno e la postura ripiegata su se stessa, il suo legame con il figlio perso che continua a vivere dentro di lei e mediante lei, fuori di lei.

Giovanna in seguito al lutto perde la sua identità e ne assume una nuova, del tutto legata al lutto, per cui diventa colei che fa rivivere, attraverso la sua prostrazione, il legame con il figlio perso.

Il lutto è l’elemento portante della sua identità.

Ella è affranta e soffre come se il tempo non fosse trascorso.

Al Consulente Tecnico d’Ufficio dice: “Per me è ancora come il primo giorno, non sono più riuscita a fare una festa, non sono più andata fuori di casa. Le mie giornate sono sempre uguali, ho sempre questo malessere, questa ansia. Dormo poco e sul divano. Non vado mai a letto, non riesco ad andarci. Alla sera prendo le gocce di Minias e due pastiglie di Lexotan al giorno che mi ha prescritto il mio medico.

Vado ancora tutti i giorni al cimitero e chiedo a mio figlio di aiutarmi”.

Il tempo, che nel lutto ha una vera funzione terapeutica, perché consente di lenire la sofferenza psichica, di collocare l’oggetto d’amore perduto nel ricordo e di rivestire su un nuovo

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oggetto d’amore, non ha potuto svolgere la sua funzione terapeutica, per cui il figlio continua ad essere presente nel suo mondo interno come oggetto vivo.

E l’affetto di tristezza che lei non può abbandonare è ciò che la tiene legata al figlio.

Un individuo per curarsi deve avere un obiettivo, deve dare un senso alla sua vita.

Se non ha obiettivi, perché la sua vita non ha più senso, non si può pensare o pretendere che la persona lo faccia.

Non si può nemmeno pensare che il farmaco possa da solo svolgere tutto il lavoro del lutto, o risolvere tutte quelle ferite del mondo interno presenti nelle persone affette da depressione. Se così fosse la depressione non sarebbe più “Il male oscuro”.

Molte persone colpite da perdite, trattate farmacologicamente non danno nessun tipo di risposta al farmaco, e Giovanna sarebbe sicuramente una di loro.

É necessario ricordarsi sia che la psiche non è un arto, e pertanto e pertanto non può essere curata come se lo fosse, sia che la cura ha successo quando vi è la motivazione.

Se questa non c’è, nessuna terapia può funzionare, nemmeno quella farmacologia.

Per essere motivata a curarsi una persona deve avere degli obiettivi, se non li ha non si cura, non si rivolge allo psicoterapeuta e nemmeno allo psichiatra, che potrebbe darle nuovi antidepressivi, ma segue la cura del medico curante di cui si fida e che le consente di sopravvivere.

Giovanna non si cura perché non è motivata a farlo, il lutto l’ha svuotata, le ha tolto gli obiettivi ed il futuro.

Il non curarsi è quindi sia una conseguenza diretta di ciò che ha provocato la perdita nel suo mondo interno che ora è devastato, sia un sintomo grave della patologia depressiva che il lutto ha prodotto.

Non avendo più obiettivi, Giovanna non può che aggrapparsi agli affetti di tristezza, che sono gli amici che le consentono un legame forte, insostituibile con il figlio perso, che continua a vivere in questo legame che non può rompere. Farlo significherebbe perdere il figlio nuovamente.

Francesco, Anna, Giuseppe, Giovanna e molti altri che non ho citato, ma che sono presenti nel mio mondo interno chiedono di essere visti e valutati con la professionalità che è garantita dall’ascolto del terapeuta, che può incontrare senza ferite il loro mondo interno, in cui è racchiusa la sofferenza psichica per la perdita di una parte tanto importante dell’esperienza di sé.

Chiedono che l’iter a cui si sottopongono per giungere alla valutazione del danno non sia fonte di ulteriore sofferenza, ma sia un momento che coglie quella sofferenza psichica non sempre evidente che portano con sé.

Loro vogliono, e sono certa che noi vogliamo insieme a loro e per questo siamo qui, che non si aggiunga al danno già subito il torto, che si produce inevitabilmente ogniqualvolta la valutazione del danno è fatta da chi non ha gli strumenti per dialogare con i segni e simboli del mondo interno, perché quando ciò accade, e l’esperienza clinica mi consente di affermare che è il più delle volte, il danno provocato dal lutto non è riconosciuto, né equamente valutato né equamente risarcito.

Affinché l’equità della valutazione e del risarcimento che ad essa si accompagna divenga per il danneggiato quella certezza che attualmente non è, è necessario riconoscere che la sofferenza psichica non è inquadrabile in categorie nosografiche rigide, perché essa si colloca nel mondo interno di chi ha subito la perdita.

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Collana Medico‐Giuridica n.10 

VULNERA MENTIS 

‐ Associazione M. Gioia ‐ 

Ed è in questo, con il rispetto che appartiene al terapeuta, che si deve guardare, se si vuole che il danno sia equamente valutato e risarcito, se si vuole che il diritto del danneggiato sia un diritto reale e non formale.

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