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CAPITOLO I IL CONCETTO di STRATEGIA

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Academic year: 2022

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INDICE

INTRODUZIONE

CAPITOLO I

IL CONCETTO di STRATEGIA

1.1- L’ Impresa e le Strategie

1.2- Il concetto di strategia

1.3- Strategia a livello di singola «Area Strategica d’Affari» e a livello di corporate

1.4- Le evoluzioni del pensiero strategico: verso una definizione di strategia

1.4.1- Le origini e le analogie

1.4.2- Dalla Pianificazione alla Direzione Strategica 1.4.3- La rivoluzione di Porter

1.4.4- L’analisi strategica e le forze competitive

1.4.5- Il vantaggio competitivo e le strategie competitive di base 1.4.6- Ulteriori evoluzioni del pensiero strategico

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CAPITOLO II

ANALISI STRATEGICA DEL MERCATO DEI BENI di LUSSO

2.1- Introduzione

2.2- Lineamenti teorici del concetto di lusso 2.2.1- I comportamenti di consumo e di acquisto

2.3- Aspetti strategici 2.3.1- Analisi del mercato

2.3.2- I gioielli il bene di lusso per antonomasia 2.3.3- La strategia di prezzo

2.3.4- La strategia di distribuzione

2.3.5- La gestione strategica delle marche di lusso

2.4- L’internazionalizzazione del lusso 2.4.1- Premessa

2.4.2- Focus sul mercato del lusso

(3)

CAPITOLO III IL SETTORE MODA

3.1- Introduzione

3.2- Il sistema moda

3.2.1- Definizione del business

3.2.2- La filiera del sistema moda italiano 3.2.3- Sviluppo del prodotto e della produzione 3.2.4- Approfondimento: le sfilate

3.3- I distretti della moda

3.4- la distribuzione nel settore moda

3.5- Internazionalizzazione dell’industria della moda 3.5.1- Il Made in Italy

(4)

CAPITOLO IV IL CASO TOD’S

ANALISI STRATEGICA di UN’AZIENDA SINONIMO DEL LUSSO ITALIANO

4.1- Introduzione

4.2- Nascita e sviluppo del gruppo Tod’s 4.2.1- Il brand Tod’s tra moda e design

4.3- L’azienda

4.3.1- La composizione del gruppo 4.3.2- I marchi

4.3.3- Analisi delle vendite per marchio 4.3.4- I processi produttivi

4.3.5- Risorse e competenze

4.4- Analisi del mercato

4.4.1- Le categorie merceologiche di riferimento 4.4.2- Modello competitivo di Porter

4.5- Strategie di Corporate 4.5.1- Diversificazione correlata

4.5.2- Strategia d’internazionalizzazione

4.6- Strategie di Marketing 4.6.1- Il prodotto

4.6.2- Il prezzo

4.6.3- La comunicazione 4.6.4- La distribuzione

(5)

4.7- Le Aree Strategiche d’Affari e l’analisi di portafoglio: la Matrice McKinsey

4.7.1- Fattori critici interni ed esterni 4.7.2- Le Aree Strategiche: l’Italia 4.7.3- L’Europa

4.7.4- Stati Uniti 4.7.5- Resto del Mondo

4.8- Risultati economico finanziari 4.8.1- I ricavi del gruppo

4.8.2- I risultati operativi

4.8.3- Gli investimenti in capitale fisso e la dinamica dei flussi di cassa 4.8.4- Considerazione sulla gestione

4.8.5- Il titolo Tod’s

CONCLUSIONI

Bibliografia

Sitografia

Appendice

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INTRODUZIONE

Il presente lavoro ha come oggetto l’analisi di un’azienda di successo, sinonimo del lusso italiano, e simbolo del Made in Italy nel mondo: il gruppo Tod’s.

Per effettuare un’analisi coerente e completa, il punto di partenza è lo studio delle strategie aziendali, di come si sono sviluppate ed implementate a seconda dei contesti di sviluppo e delle logiche alla base.

Attraverso tale studio si è potuto far luce sull’importanza di avere un piano strategico coerente con gli obiettivi aziendali, ma soprattutto flessibile rispetto ai mutamenti ambientali.

Il passo successivo è stata l’analisi del mercato di riferimento dell’azienda:

il mercato dei beni di lusso e l’identificazione di un target di consumatori di riferimento.

Il lusso è stato definito in passato come un mercato del tutto particolare:

• elitario, perché offriva pezzi unici a prezzi molto elevati;

• locale, perché basato su imprese legate ad un dato territorio;

• esiguo, poiché caratterizzato da segmenti di offerta specialistici, per lo più gioielli ed orologi.

Oggi invece si distingue per essere un mercato trasversale, globale e sicuramente più accessibile rispetto ad un tempo.

Il lusso moderno non identifica più solo ciò che è costoso, raffinato e quindi, inaccessibile alla massa, ma richiama una categoria mentale più ampia e dinamica: la ricerca del piacere personale, non più meramente ostentativa, e la ricerca di esperienze emotive più particolari ed intense.

Ed infatti, al fenomeno della cosiddetta “democratizzazione del lusso”, che ad un primo sguardo poteva costituire una contraddizione di termini, ha fatto

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seguito un notevole ampliamento del mercato, una rilevante crescita dei tassi di sviluppo, ed un considerevole aumento del numero degli acquirenti.

Da un’attenta segmentazione del mercato emerge che il target dei luxury consumers italiani è composto da individui che risiedono nel Centro Nord (64%) e per due terzi (66%) sono donne; hanno una formazione universitaria, sono recettivi a nuove informazioni e tendenze e fanno un uso massiccio di Internet1.

La classe socio-economica è quella medio-alta, con un rilevante numero di appartenenti alla classe media, specie in riferimento ai consumatori saltuari.

Questi dati, a conferma dell’assunto che, ormai, il lusso interessa vasti strati sociali, in linea con l’attuale convergenza tra concetto di lusso e lifestyle.

Intimamente collegato con il mercato del lusso è il settore della moda, che rappresenta una sorta di mercato adiacente, poiché gran parte delle categorie merceologiche appartenenti al lusso, sono prodotti di moda: abbigliamento, calzature, pelletteria, accessori. La correlazione è tale che sempre più spesso si assiste alla penetrazione delle maggiori griffe anche nel comparto gioielli, con ottimi risultati, mentre, invece, non è frequente il fenomeno contrario.

L’analisi dei processi produttivi, dei tempi di sviluppo e dei passaggi interni, prima che il prodotto arrivi alla tanto attesa passerella, è stato utile per comprendere le dinamiche dell’azienda Tod’s, che punta molto sul carattere di artigianalità delle sue produzioni. Infatti, date queste premesse, il case study rappresenta il vero e proprio punto d’arrivo della analisi da me svolta.

La Tod’s S.p.A. è un’azienda con una strategia di crescita chiara, che non ha debiti e si autofinanzia, con tre marchi distinti ma correlati e che si occupa principalmente di calzature, pelletteria, accessori moda e abbigliamento, con il chiaro obiettivo di inserirsi anche nel mercato degli occhiali da sole.

E’ la storia di come un calzaturificio delle marche è riuscito a divenire un’azienda leader nel settore, conosciuta a livello mondiale e sviluppata su molti mercati internazionali.

In realtà, è proprio la dimensione “locale” del distretto produttivo di Sant’Elpidio, in provincia di Ascoli Piceno, la vera forza del gruppo Tod’s, che in

1 Ricerca condotta attingendo a dati provenienti da fonti differenti. Cfr.

http://www.deluxeportocervo.com

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questo modo riesce perfettamente a coniugare il lusso con l’artigianalità e il gusto per l’arte; il tutto rigorosamente “Made in Italy”.

Va senz’altro affermato, che l’indagine condotta sullo sviluppo ed il successo di tale, ormai, illustre azienda, è stata resa ancor più stimolante dalla possibilità di effettuare un’ intervista personale al Dott. Diego Della Valle, presidente del Gruppo, cui va inevitabilmente rivolto un sincero ringraziamento per l’opportunità che mi ha concesso e per il tempo che mi ha destinato.

Mi è sembrato, pertanto, opportuno inserire il testo di tale intervista nell’appendice bibliografica, dato l’enorme valore aggiunto che ha fornito alla trattazione.

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CAPITOLO I

IL CONCETTO di STRATEGIA

1.1- L’ Impresa e le Strategie

Il termine “strategia d’impresa” è impiegato per individuare un concetto imprenditoriale relativamente nuovo e complesso. Esso consiste in un insieme di indirizzi di gestione che definiscono la posizione dell’impresa in rapporto al mercato e ai prodotti, le direzioni in cui essa cerca di svilupparsi e trasformarsi, gli strumenti di cui si servirà per far fronte alla concorrenza, i mezzi con cui penetrerà i nuovi mercati, il modo in cui strutturerà le proprie risorse, i punti di forza che cercherà di sfruttare e, viceversa, gli aspetti di debolezza che cercherà di evitare. Strategia è cioè un concetto unificante di tutte le attività d’impresa2.

Da alcuni decenni il tema della strategia ha suscitato interesse sempre maggiore fra studiosi e professionisti del management. Ciò, in parte, è dovuto ai mutamenti che in concreto si sono avuti nell’ambiente economico e nelle organizzazioni, a partire dalla crisi petrolifera ed economica della metà degli anni settanta del secolo scorso.

La strategia emerge come tema centrale in seguito all’aumento del grado di complessità ambientale ed in particolare in relazione al continuo prodursi di lacune conoscitive rispetto alla mutata realtà da governare. Tutto ciò rende obsoleti strumenti direzionali per molto tempo utilizzati dalle imprese, come il

2 I.H. ANSOFF, (1974), La strategia d’impresa, Milano, Franco Angeli Editore.

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long term planning, ed esalta, invece, le virtù carismatiche ed allo stesso tempo processuali del decidere e dell’agire strategico3.

Il tentativo di fornire una chiave di lettura dinamica dei rapporti fra impresa e settore passa, a questo punto, necessariamente attraverso la presentazione del concetto di strategia, un termine sul cui significato e valore concettuale continua una notevole disparità di vedute. Comunque, fra quanti riconoscono al concetto di strategia un significativo valore euristico, vi è una sostanziale convergenza nell’assegnare a questo concetto il ruolo di scelta degli obiettivi di lungo periodo dell’impresa e quindi delle relazioni fra l’impresa stessa e l’ambiente in cui essa opera, e innanzitutto il settore, o i settori, di diretta attività4.

In tal senso l’analisi strategica va intesa come prospezione dei diversi aspetti rilevanti e delle differenti variabili che, di fatto ed in varia misura, incidono sulla performance della singola impresa: la concorrenza, gli attori e le loro caratteristiche organizzative e comportamentali; gli aspetti dinamici e strutturali profondi degli ambiti produttivi; la tecnologia e le risorse e competenze delle organizzazioni; le diverse opzioni strategiche potenzialmente adottabili dalle singole imprese; le modalità di attuazione delle opzioni strategiche compresa l’internazionalizzazione. Tutti questi aspetti devono essere presi in considerazione e valutati da coloro che, responsabili strategici della conduzione delle singole imprese, affrontano situazioni complesse caratterizzate da mutamenti esogeni difficilmente prevedibili e dalla presenza di una molteplicità di attori tra loro collegati secondo modalità anch’esse complesse e mutevoli nel tempo. Sempre più spesso, infatti, si osservano nei meccanismi dinamici tra imprese dei mutamenti dalla collaborazione alla competizione, dalla dominanza al coordinamento, dalla complementarietà alla sovrapposizione.

In realtà mutamenti strategici hanno luogo in moltissime imprese, indipendentemente dalla presenza o meno di un’esplicita formulazione strategica

3W.G. Scott, M. Murtula, M. Stecco (2003), Manuale di management : strategie, modelli e risorse dell'impresa nell'economia digitale, Milano, Il Sole 24 ore.

4 G. Volpato, (1986), Concorrenza, impresa, strategie, Bologna, Il mulino.

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da parte dei dirigenti; ma, a seconda dei casi, la natura del cambiamento tenderà ad essere differente 5.

Le obiezioni manifestate nei confronti del concetto di strategia possono invece riassumersi nella seguente casistica:

- il termine strategia non sarebbe che una nuova

“etichetta” per delle problematiche vecchie. Da sempre l’impresa assume, se non altro nei fatti, degli obiettivi inerenti sia alla propria strutturazione interna, sia ai rapporti con l’ambiente in generale e alla concorrenza in particolare6.

- L’impresa, in quanto istituzione composta da una pluralità di soggetti, non ha una propria strategia basata su canoni di razionalità (nemmeno in via tentativa), ma soltanto un confronto di interessi fra le parti. Non esiste quindi una strategia, per lo meno nel senso di progetto coerente d’azione elaborato ex ante, ma al massimo un sentiero strategico desunto ex post dalla sequenza di decisioni e di azioni effettivamente realizzatesi7.

- Infine vi è una concezione strettamente behavioristica dell’impresa che nega l’esistenza di un legame di razionalità fra obiettivi e mezzi a livello individuale, e che basa il comportamento esclusivamente su routine selezionate dal meccanismo competitivo del mercato8.

In ogni caso, aldilà dell’effettivo grado di razionalità mostrato dalle imprese e della validità concreta manifestata dagli studi di orientamento strategico, l’assunzione di un disegno strategico da parte del top management aziendale appare come un opzione necessaria allo stesso sforzo di analisi del comportamento dell’impresa9.

5 H. I. Ansoff,( 1968), Strategia a aziendale, Milano, Etas Kompass.

6 G. Volpato, (1980), Per una ridefinizione dell’approccio strategico: il ciclo di trasformazione del settore, in «Economia e politica industriale», n.26.

7 G. Volpato, (1986), op. cit..

8 Cyert e March,(1963), A behavioral Theory of the Firm, Englewood Cliffs, Prentice Hall, trad.

it., Teoria del comportamento d’impresa, Milano, Angeli,1970

9 Un comportamento non teleologico, cioè privo di un progetto, non può essere interpretato, ma solo descritto. G. Volpato (1963).

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Come appare evidente, protagonista principale dell’analisi è l’impresa, un sistema costituito da un insieme di risorse e di attori legati tra loro da relazioni orientate alla realizzazione di determinate attività 10.

Il sistema impresa, si articola in un’organizzazione composta da un insieme di risorse e di attori legati tra loro da relazioni orientate alla realizzazione di determinate attività. L’economista E. Penrose definisce tale sistema as a collection of resourse, che però bisogna ben intendere nella sua accezione di

“combinazione” di risorse e attività che si ottiene nel tempo e in uno specifico ambiente, non in una loro semplice “somma”11.

L’impresa è dunque un entità che va compresa in relazione al suo contesto geografico e storico, dal quale è condizionata e sul quale esercita la sua influenza12.

Essa infatti è intimamente collegata al contesto in cui si evolve, poiché sopravvive solo attraverso rapporti di scambio con l’esterno, ma è anche in grado al tempo stesso di conservare determinate condizioni di stabilità interna, almeno per un certo periodo di tempo della sua vita. In riferimento a quest’ultimo concetto – la vita – non si deve pensare che per comprendere il ruolo e l’evoluzione dell’impresa, si possa applicare un modello di tipo biologico; tuttavia possiamo con certezza parlare di uno sviluppo autopoietico del sistema impresa, nel senso che è autonomo ed in grado di creare da sé la propria realtà, allo stesso tempo è morfogenetico, poiché nel corso della sua evoluzione, il sistema trova al suo interno le condizioni e le risorse per trasformarsi e modificare in maniera più o meno radicale la propria fisionomia 13.

Accade, perciò che all’impresa venga talvolta a attribuita, di fatto, la qualità di soggetto decisionale e agente, con espressioni consuete negli scritti di economia aziendale e di management quali ad esempio: “l’impresa può reagire adottando diverse opzioni…”; “di fronte a questa situazione l’impresa decide di avviare una strategia..”.

10 F. Fontana, M. Caroli, (2003), Economia e gestione delle imprese, Milano, McGraw-Hill.

11 F. Fontana, M. Caroli, (2003), op. cit.

12 I. H. Ansoff, (1974), La strategia d’impresa, Milano, Franco Angeli Editore.

13 F. Fontana, M. Caroli,(2003), op.cit.

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In realtà l’impresa, in quanto organizzazione, sistema di parti interconnesse, non decide, non adotta azioni, non intende, non ha i suoi fini e i suoi obiettivi: sono i soggetti che la animano, le persone che a vario titolo operano nell’organizzazione che decidono, eseguono, cercano di conseguire risultati ed obiettivi per realizzare i loro fini.

Infatti come è stato osservato : “…L’impresa è una realtà e una possibilità al tempo stesso. Come realtà essa è una funzione dei disparati fattori, che hanno concorso a formarla e a darle il sigillo della sua individualità. Ma fermarsi ad una combinazione acquisita non basta. Le combinazioni mutano e l’utilità, che quelle combinazioni sono dirette a produrre, muta anch’essa. E queste mutazioni sono il portato delle possibilità dell’impresa”.14

Queste affermazioni evidenziano come la realtà dell’impresa non sia definibile attraverso la semplice combinazione dei fattori che concorrono a costituirla o delle motivazioni che inducono i soggetti differenti ad intraprendere e/o partecipare a qualsivoglia attività economica; essa, piuttosto, emerge dal compromesso tra le motivazioni indotte e le possibilità che, nel tempo, si dischiudono dal continuo divenire delle dinamiche tra l’impresa e l’ambiente15.

Il complesso delle possibilità percorribili, quali “vie imprenditoriali”, prende forma dalle continue interazioni che l’impresa riesce a stabilire con i diversi interlocutori, qualificati come sovra-sistemi, che partecipano alle dinamiche di contesto16.

I sovra-sistemi, pertanto, sono in grado di esprimere e proiettare, con maggiore o minore intensità, attese e pressioni sull’impresa la quale, al fine di remunerare adeguatamente i diversi fattori produttivi che di volta in volta si rendono necessari per lo svolgimento dei processi gestionali e che sono acquisiti dai sovra-sistemi stessi, avverte la necessità di generare e mantenere elevati gradi di consonanza e risonanza con il contesto17.

14 C. Merlani, (1999), Lineamenti dell’impresa industriale e dell’impresa mercantile, Padova, Cedam.

15 G. M. Golinelli, (2000), L’approccio sistemico al governo dell’impresa, Padova, Cedam.

16 R. Fazzi, (1984), Il governo d’impresa, Milano, Giuffrè.

17 In questa sede il concetto di consonanza si riferisce all’integrazione tra strutture, ovvero alla loro compatibilità; la risonanza, invece, qualifica un’interazione sistemica capace di generare armonia tra le parti, originando una sintesi superiore che travalica quelle manifestate dalle individualità sistemiche. G. M. Golinelli (2000) op.cit.

(14)

Dunque, potremmo definire l’impresa come “[…] un insieme o un raggruppamento che la nostra mente riesce a concepire in modo unitario e ordinato, in virtù delle connessioni ed interdipendenze che, direttamente, legano tutte le parti o componenti separate, costituenti l’insieme” 18.

A partire dagli anni sessanta del secolo scorso, soprattutto sulla spinta degli studi sistemici sull’impresa provenienti d’oltreoceano, la dottrina si è orientata maggiormente a definire le possibili qualificazioni sistemiche dell’impresa, avvalendosi dei progressi realizzati nei molteplici ambiti disciplinari.

Le prime associazioni metaforiche (impresa come sistema meccanico, come sistema organico, come sistema meccanico-organico), introdotte mediante il procedimento analogico, hanno portato a rappresentare l’impresa come un sistema cibernetico, cognitivo, ecc 19.

Tra tali impostazioni, merita particolare attenzione quella che qualifica l’impresa “[…] come un sistema cognitivo, […] in grado di funzionare sulla base della sua conoscenza e in grado di alimentare continuamente la conoscenza di cui è dotato”20.

Coerentemente con l’impostazione che vede nella conoscenza la principale capacità di cui un’impresa dispone, si è affermato ancora che “[…]

l’impresa genera […] valore differenziale – rispetto ai competitors – mobilitando il patrimonio di conoscenze specifiche ereditate dalla sua storia o acquisite dall’esterno per progettare, costruire e vendere prodotti, processi e relazioni che incorporano la sua conoscenza e la rendono utilizzabile da parte dei clienti serviti”21.

Nessuna delle interpretazioni suddette è infondata. In effetti, l’impresa può essere osservata da diversi angoli visuali e può essere effettivamente rappresentata come sistema, ma ciascun osservatore può privilegiare l’angolo che si rivela più coerente con i propri obiettivi di ricerca.

18 P. Saraceno, (1972), Il governo delle aziende, Milano, Libreria Universitaria Editrice.

19 G. M. Golinelli, (2000), op.cit.

20 S. Vicari,(1991), L’impresa vivente. Itinerario in una diversa concezione, Milano, Etas.

21 E. Rullani, La conoscenza e le reti: gli orizzonti competitivi del caso italiano, in Sinergie, n.31, 1993, pag. 70.

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Pertanto nella presente trattazione si farà riferimento all’impresa come sistema di risorse e di attori, focalizzato sulle decisioni che i primi prendono in merito alle seconde, e sulle strategie che da ciò emergono.

1.2 – Il concetto di strategia

La precisazione del concetto di strategia, allo scopo di collocarne la posizione all’interno della catena fini-mezzi in cui si articola il processo decisorio, può essere elaborata a partire dal fatto che l’acquisizione di un profitto nel lungo periodo, considerato come l’obiettivo finale dell’impresa operante in una economia capitalista, non presenta i requisiti necessari ad orientare concretamente il complesso delle scelte che la struttura dell’impresa è chiamata continuamente ad assumere. In altre parole l’acquisizione del profitto appare come un metaobiettivo tanto generico quanto generale e permanente dell’impresa22.

Esistono infatti molte vie, molti comportamenti, che possono consentire all’impresa l’acquisizione di un profitto, tuttavia esso non è in grado di fornire indicazioni operative sul che fare. Solo ex post è possibile (peraltro non senza dubbi e difficoltà) esprimere una valutazione di efficacia delle scelte in merito alla loro capacità di assicurare il profitto. Ex ante un «orientamento al profitto»

potrebbe consentire l’applicazione di regole decisionali solo in ipotesi di particolare semplicità. Di fronte a due modalità differenti di compiere una certa operazione economica (per esempio produrre un certo componente) la scelta a favore della modalità meno costosa in termini di risorse utilizzate appare come una regola coerente solo se le due scelte alternative producessero esattamente gli stessi effetti sotto ogni profilo, tranne che in quello del costo.23.

Sarebbe allora evidente che l’obiettivo della massimizzazione del profitto consentirebbe di individuare la soluzione più vantaggiosa. Ma se a fronte di una differenza di costo si produce anche una qualche variazione di altro genere, il cui

22 G. Volpato, (1986),op.cit..

23 G. Eminente, (1981), La gestione strategica dell’impresa, Bologna, Il Mulino.

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significato economico pur se evidente non è immediatamente monetizzabile (per esempio un maggior costo si associa ad una piccola variazione positiva di qualità), tale quindi da essere portato a rettifica del costo di produzione, il criterio basato sul profitto diventa inapplicabile. Ciò significa che l’esercizio di una scelta, che non sia perfettamente e immediatamente (rispetto al momento della scelta) riconducibile ad una situazione di riduzione dei costi o aumento dei ricavi (attraverso condizioni di ceteris paribus), richiede la determinazione di obiettivi concreti basati su una gamma di attributi empiricamente definibili e misurabili24. La strategia è quindi un sistema di obiettivi specifici capace di orientare le decisioni25.

La strategia scelta dal top management di un’impresa potrà essere più o meno valida (alla prova dei fatti), ma senza una strategia la struttura decisionale dell’impresa, ai vari livelli gerarchici, non sarebbe in grado di assumere delle scelte se non applicando arbitrari parametri di scelta, in quanto non coordinati.

Vista questa possibile impostazione, è chiaro che sarebbe possibile operare senza una strategia (definita ex ante) solo se nell’impresa esistesse un unico soggetto decisionale a cui spetta anche la più minuta delle decisioni e che dispone di tutte le informazioni necessarie a stabilire una coerenza fra ciò che si vuole ottenere (fine) e le alternative di comportamento (scelta)26.

Giusta questa impostazione, se ne deduce che gli attributi essenziali della strategia sono dati dal fatto di avere un orientamento prospettico e una caratterizzazione empirica specifica. Senza queste due caratteristiche la definizione di una strategia non è in grado di assolvere alla funzione che le è propria. E nel contempo ciò spiega perché nello schema teorico neoclassico non vi sia posto per la strategia. Abbiamo un unico soggetto decisore operante in una situazione di determinatezza che consente di rapportare ogni scelta, dalla più complessa alla più minuta, ad una variazione positiva o negativa del profitto27.

Molti dei fraintendimenti che sussistono in merito al significato e alla validità del concetto di strategia, derivano dal fatto che è frequente trovare

24 G. Volpato, (1986),op. cit..

25 S. Faccipieri (1984), Il processo di formulazione e di scelta delle strategie, in L’impresa industriale, a cura di M. Rispoli, Bologna, Il Mulino.

26 P.M. Ferrando, Impresa, ambiente, processi decisionali e organizzativi, Genova, ECIG.

27 G. Volpato, (1986),op.cit..

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studiosi che definiscono gli orientamenti strategici in termini così vaghi e generici da rendere tali obiettivi altrettanto inadatti dal punto di vista operativo del meccanico riferimento al profitto28.

In letteratura è frequente trovare tra gli attributi della strategia anche una

«notevole permanenza nel tempo». Questo aspetto è certamente un probabile elemento della strategia, ma non un attributo specifico, in quanto la mutabilità dipende sia dal variare delle condizioni ambientali in cui si trova l’impresa (e dalla percezione che il top management ha di queste modificazioni), che dalla capacità organizzativa e comunicativa della struttura aziendale29.

Non è quindi facile mutare rapidamente strategia, ma dal punto di vista concettuale essa dovrebbe essere modificata non appena sono cambiate le condizioni interne e/o esterne all’impresa.

È inoltre opportuno distinguere dalla strategia il complesso di procedure logico-formali attraverso cui vengono composti in sistema i tempi, le modalità, le competenze con cui si estrinseca la funzione decisionale dell’impresa30.

Mentre il problema strategico è un problema di decisione in merito ai contenuti da dare all’azione dell’impresa con riferimento ad una specifica situazione economica (organizzativa, concorrenziale, sindacale, ecc.), le attività di planning prendono corpo a partire da un problema di coerenza fra gli obiettivi (strategia) e le forme di utilizzazione delle risorse disponibili (mezzi) 31

La mancata distinzione fra strategia (strategy) e pianificazione (planning) ha prodotto non pochi equivoci e contrapposizioni immotivate, quali quelle fra una concezione della strategia come «sistema di obiettivi» e una come «processo decisionale» (con l’accento posto soprattutto sul termine processo), e quella fra la natura «progettuale» della strategia (strategia come «voler essere») e natura

«positiva» come concreto operare dell’impresa. Dovrebbe essere evidente che il modo attraverso cui si giunge alla formulazione di una strategia è comunque un

28 G. Volpato, (1986),op.cit..

29 L. Zan, Strategia d’impresa: Problemi di teoria e di metodo, Padova, Cedam.

30 G. Volpato, (1986),op. cit..

31 A. Rugiadini (1977), L’organizzazione nelle imprese industriali, in l’Inflazione/Accademia Nazionale di Ragioneria e di discipline Economiche di Azienda. Vol I: Problemi e risposte per i diregenti dell’industria, Milano, Giuffrè.

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processo, se non altro perché la definizione degli obiettivi richiede una confronto di opinioni fra gli organi dell’impresa dotati di un certo potere decisionale.

Anche nel caso, del tutto ipotetico, di un’azienda gestita in modo autocratico, la definizione degli obiettivi prende necessariamente corpo nel tempo, in quanto richiede un lavoro di acquisizione di informazioni e di valutazione delle convenienze lungo e reiterato, caratterizzato da un riciclaggio di ipotesi e di verifiche parziali. Nel caso dell’azienda autocratica non si può escludere che il lavoro di ridefinizione degli obiettivi venga continuamente rimesso in discussione, ma tutto ciò non toglie che quando l’imprenditore debba passare ad una scelta concreta egli comunque assumerà dei criteri. E questi giusti o sbagliati che siano rappresentano la sua strategia32.

Nel caso normale di una impresa gestita attraverso una pluralità di poteri decisionali, anche se distinti per funzione e gerarchia, la definizione della strategia è, a maggior ragione, il frutto di una serie di mediazioni fra opinioni almeno in parte contrastanti. Né si può escludere che esistano una pluralità di strategie più o meno apertamente conflittuali33.

Ciò significa solamente che di fronte ad una decisione particolare, il soggetto incaricato applicherà i criteri e gli obiettivi corrispondenti alla strategia del gruppo di potere di cui fa parte.

Certamente una situazione del genere crea non poche difficoltà al processo decisorio complessivo dell’impresa, e rende assai più difficile’ cogliere da una indagine esterna l’orientamento e i contenuti effettivi della «strategia risultante», ma ciò non nega né l’esistenza di uno (o più) disegni strategici né il fatto che la dimensione «processo» della strategia si sviluppi comunque dalla individuazione di un sistema di obiettivi, dal momento che la razionalità strategica non è di tipo tecnico-formale, ma pratico-sostanziale34.

Analogamente una strategia non può non avere uno specifico contenuto progettuale (il cosiddetto «dover essere») e, allo stesso tempo, il top management di un’impresa non può configurare questo «dover essere» in modo totalmente

32 G. Volpato, (1986), op.cit.

33 G. Volpato, (1986),op.cit..

34 S. Faccipieri (1984), op.cit.

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sganciato dai vincoli dell’ambiente concorrenziale e dai limiti finanziari, tecnologici, organizzativi, sindacali, ecc35.

Nel contempo dovrebbe essere altrettanto chiaro che la gerarchia logica che pone la strategia davanti alla pianificazione, non implica affatto una gerarchia in termini di importanza per l’acquisizione del risultato economico. La realizzazione puntuale e rigorosa degli obiettivi prefissati, anche se lacunosi, può comunque assicurare un risultato apprezzabile, che invece una impostazione degli obiettivi ottimale può non consentire a causa di una inefficace traduzione pratica.

Solo di fronte ad un caso concreto sarebbe possibile tentare una valutazione (peraltro assai difficile) di pregi e difetti del momento decisionale e di quello realizzativo36.

Di fronte alla natura empirica e specifica (riferita cioè ad una particolare impresa, operante in un particolare settore, in un particolare momento) dell’impostazione strategica, gli «studi di strategia» incontrano le difficoltà proprie di una argomentazione tendenzialmente generalizzante.

Si tratta di un problema insolubile da un punto di vista rigorosamente logico, se non nella forma di analitico rapporto di consulenza con l’impresa, che arrivi fino all’estrinsecazione della struttura degli obiettivi su cui si ritiene opportuno puntare, una volta effettuata una previsione dell’andamento futuro delle variabili non condizionabili da parte dell’impresa, e analizzata la potenzialità delle risorse effettivamente mobilitabili37.

A questo punto però diviene chiaro che, anche assumendo una totale perfezione nella definizione della strategia per l’impresa, non è possibile dedurne in modo automatico alcuna estensione generalizzante per altre imprese operanti nello stesso settore o anche per la stessa impresa colta in un momento diverso;

l’applicabilità delle analogie può esistere, ma va giustificata con un nuovo esame ad hoc38.

Di fronte a questo problema gli studi a carattere strategico individuano un ampio ventaglio di comportamenti ritenuti corretti in presenza di particolari

35 L. Zan, op. cit..

36 G. Volpato, (1986),op.cit..

37 G. Volpato, (1986),op.cit

38 S. Faccipieri (1984),op. cit.

(20)

determinazioni del rapporto impresa-concorrenza-mercato. Gli esempi più conosciuti di questo approccio sono relativi alla definizione di:

— strategie di crescita,

— strategie di differenziazione,

— strategie di diversificazione,

— strategie di integrazione verticale, ecc.

Eventualmente questo genere di impostazione può essere ulteriormente arricchito attraverso un incrocio con «modalità orizzontali» del possibile comportamento d’impresa:

— strategie offensive,

— strategie difensive,

— strategie collusive, ecc.

Nella sostanza si tratta di individuare una molteplicità di scenari possibili per il settore o i settori in cui opera l’impresa, scenari che definiscono il complesso delle variabili non controllabili da una singola impresa, e di dedurne una serie di obiettivi rapportabili alle possibili posizioni che un’impresa può assumere nella gerarchia concorrenziale, che rappresenta il modo per avvicinarsi alla caratterizzazione interna dell’impresa (in realtà assai più complessa). Si tratta di un modo di procedete indubbiamente utile. I limiti di questa impostazione sono presenti più sul piano operativo che su quello logico e derivano dal fatto che in questo modo si evita di esplicitare la teoria che sta alla base della definizione dello scenario e degli specifici comportamenti39.

L’aspetto descrittivo del rapporto tra impresa e ambiente tende sistematicamente a sfumare il vero problema strategico che sta nella interpretazione (potremmo dire «decifrazione») prospettica del rapporto fra impresa e ambiente.

In altre parole questo approccio tende a elaborare una impostazione generica ma lascia in misura completa al soggetto o ai soggetti decisori la responsabilità di giudicare se la fattispecie concreta con cui si devono misurare abbia o meno i caratteri evidenziati da una delle situazioni ipotizzate.

39 G. Volpato, (1986), op.cit

(21)

Poiché l’analisi strategica che è possibile sviluppare in una pubblicazione è comunque limitata, la definizione degli scenari è sempre necessariamente incompleta rispetto all’enorme complessità e interdipendenza del reale.

Di qui il rischio che in questa impostazione si finisca per assumere un atteggiamento (più o meno consciamente) tautologico, derivante dal fatto che la strategia suggerita non diventa altro che una serie di sollecitazioni dirette ad

«eliminare i punti di debolezza» e a «consolidare i punti di forza». Mentre tutto il problema sta nella definizione di una teoria cha sappia esplicitare nel caso concreto quali siano o possano diventare i veri punti di forza e di debolezza di un’impresa40.

Infatti se assumiamo nel quadro descrittivo di partenza che un’impresa, ad esempio, è «troppo debole» tecnologica- mente per resistere sul, mercato, è evidente che se ne deve dedurre (tautologicamente) che ad essa restano due sole alternative: rimediare a questa carenza o abbandonare il settore al più presto per ridurre i danni. Mentre ciò che servirebbe è una teoria della evoluzione tecnologica del settore che dica se, e a quali condizioni, l’impresa può o meno competere tecnologicamente sul mercato41.

Riassumendo, l’approccio per esemplificazione delle strategie esercita certamente una funzione euristica e didattica utile, ma talvolta può risultare anche fuorviante perché tende ad offuscare il vero problema strategico per sottolineare, invece, la coerenza fra obiettivo strategico e comportamento dell’impresa, finendo quindi per affrontare questioni più di pianificazione che di problem solving strategico.

40 G. Volpato, (1986), op.cit.

41 G. Volpato, (1986), op.cit.

(22)

1.3- Strategia a livello di singola «Area Strategica d’Affari»

e a livello di corporate

Un’altra questione a livello metodologico, ma di importanza molto maggiore, è che l’oggetto delle strategie può situarsi ad un duplice livello:

• la strategia a livello di singola «Area Strategica d'Affari»

(convenzionalmente A.S.A., traduzione del termine inglese S.B.A. – Strategic Business Area);

• la strategia a livello corporate.

Negli USA il concetto di S.B.A. è relativamente recente ed è stato identificato grazie al lavoro di Derek Abell42.

L'originalità del contributo di tale autore sta nel superamento, attraverso il concetto di business area, di criteri tradizionali di segmentazione del mercato, più poveri di valenza strategica (come il concetto di settore o di prodotto/mercato), e nell'avere individuato come la scelta del business nel quale competere, da effettuarsi a livello corporate, sia la prima delle scelte strategiche che l'impresa deve attuare. Secondo Abell l’area di business viene definita attraverso tre dimensioni:

1. la funzione d'uso, vale a dire i bisogni del cliente che l'impresa intende soddisfare;

2. i gruppi di clienti, vale a dire i portatori dei bisogni a cui l'impresa intende rivolgersi;

3. le tecnologie, vale a dire le modalità tecniche attraverso cui l'impresa intende soddisfare i bisogni dei suoi clienti.

Le A.S.A come sopra definite, per essere considerate rilevanti, devono ovviamente raggiungere dimensioni economiche sufficienti per potere essere considerate autonomi centri di profitto.

42 D.F. ABELL-J.S. HAMMOND, Strategic Market Planning, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1979; e ancora: D. F. ABELL, Defining the Business – The Starting Point of Strategic Planning, Prentice Hall, Englewood Cliffs, 1980; tra gli altri autori americani il concetto è stato sviluppato da I. ANSOFF, Implanting Strategic Management, Prentice Hall 1984, ed. it. Organizzazione innovativa, Ipsoa, 1984.

(23)

Ad una o più di esse corrisponde poi, a livello organizzativo, una S.B.U.

(strategic business unit), che viene articolata in funzione del business di riferimento. Essa deve poter contare su un proprio livello manageriale appropriato, dotato di risorse e facoltà sufficienti per definire ed attuare le proprie strategie, compatibilmente con le esigenze di coordinamento fissate a livello centrale43.

Definire il business in questo modo consente di raccogliere i fattori strategici più rilevanti in un quadro unico e coerente, senza cadere in arbitrarie disaggregazioni, come accadeva per altri tipi di proposte.

Attraverso il concetto di A.S.A. si possono infatti superare i limiti della tradizionale classificazione in termini di combinazione prodotto/mercato. Diverse linee di prodotto possono essere collegate tra loro ai fini della posizione competitiva in un unico business, così come uno stesso prodotto-base può essere utilizzato per competere in diverse aree di attività, con clienti e bisogni da soddisfare differenti.

Anche il concetto di settore viene superato da quello di A.S.A. Nello stesso settore possono infatti operare, al di là delle apparenze, imprese estranee tra loro sul piano competitivo, mentre imprese operanti in settori diversi possono presentare forti interrelazioni di tipo strategico, con prodotti che rispondono alle stesse esigenze dei clienti.

I business, identificati come A.S.A., sono caratterizzati da uno specifico rapporto sistema interno/ambiente esterno e da proprie problematiche strategiche, che devono essere affrontate singolarmente44. Essi costituiscono così il primo livello di base al quale ricondurre le analisi e le valutazioni strategiche indispensabili per

prendere consapevolmente decisioni autonome.

E’ tuttavia normale osservare come le imprese, già a partire dalla dimensione media, si articolino in una pluralità di A.S.A., dando luogo ad un portafoglio strategico diversificato.

43G. Bruni, (1999), Contabilità del valore per aree strategiche d’affari, Torino, Giappichelli.

44 S. Faccipieri, (1984), op.cit.

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Il lavoro sviluppato a livello di singola A.S.A. deve pertanto trovare un'opportuna integrazione in valutazioni di tipo globale riferite al complessivo portafoglio dell’impresa, al fine di pervenire alla scelta della strategia complessiva ottimale.

Si parla così di strategia di livello corporate, che comprende la definizione delle aree d’affari all’interno delle quali l’impresa intende competere e le scelte che ne conseguono in materia di diversificazione, integrazione verticale, acquisizione e cessione, oltre alle decisioni sulle nuove iniziative. Essa seleziona il portafoglio di attività dell’impresa, ed effettua le scelte di allocazione delle risorse tra le diverse unità di business45.

Allora per l'impresa diventa importante non solo la qualità delle decisioni a livello di singola area d'affari, ma anche che l'insieme delle strategie di A.S.A. sia complessivamente migliore.

Un'impresa multi-A.S.A. non corrisponde infatti ad un semplice aggregato di unità completamente autonome e indipendenti, ma ad un sistema fatto di entità tra loro interrelate in diversa misura. Queste interrelazioni sono l’aspetto più delicato da valutare e nascondono molti rischi ed opportunità. Ciò è tanto più vero quanto più viene superato un livello minimo di integrazione, costituito dalla semplice condivisione delle risorse finanziarie complessive dell’impresa, e si toccano aspetti quali la tecnologia, i concorrenti o il mercato, intendendo quest’ultimo nel senso dei bisogni dei clienti che possono essere soddisfatti46.

I destini delle diverse A.S.A. possono così costituire merce di scambio – o oggetto di sacrificio – per complesse combinazioni di affari, quasi come i pezzi di una partita a scacchi.

Per questo motivo le strategie a livello corporate non riguardano solo le scelte finalizzate a determinare in quali business competere, ma anche le decisioni relative alla gestione delle interrelazioni e sinergie esistenti tra singole A.S.A47.

45 R. GRANT, (1994), Analisi strategica nella gestione aziendale, Bologna, Il Mulino.

46 G. Bruni, (1999), op.cit.

47 Secondo Porter, il governo del portafoglio strategico d'impresa si sviluppa in due ambiti di scelta: la composizione del portafoglio di attività e le strategie orizzontali. Con l'espressione

«composizione del portafoglio di attività» si intende la scelta se essere o meno presenti in certi business, decidendo se entrare in nuovi business, dismetterne alcuni oppure ristrutturarne, ridimensionarne o riconvertirne altri. Il termine «strategie orizzontali» corrisponde proprio a quella serie di obiettivi e di politiche conseguenti che spaziano attraverso unità di business collegate, atte

(25)

1.4- Le evoluzioni del pensiero strategico: verso una definizione di strategia

1.4.1- Le origini e le analogie

Le imprese necessitano di un indirizzo strategico per motivi molto simili a quelli per cui gli eserciti hanno bisogno di strategie militari : per avere una linea di condotta e uno scopo, per utilizzare le risorse in modo più efficiente ed efficace, per coordinare le decisioni prese dai diversi membri dell’organizzazione48. In verità i concetti e le teorie delle strategie aziendali hanno i loro precedenti nella strategia militare, con cui condividono alcuni principi e concetti comuni.

Il termine strategia deriva dalla parola greca στρατηγια che significa

«comando dell’esercito», tuttavia i primi riferimenti a tale concetto sono contenuti nel classico L’arte della guerra di Sun Tzu, scritto intorno al 500 a.C., e considerato come il primo vero trattato di strategia.

Non bisogna però confondere la strategia con la tattica; la strategia è il piano complessivo per lo spiegamento di risorse necessarie a stabilire una posizione di vantaggio. Tattica è un progetto di azione specifica.

Mentre le tattiche riguardano le manovre necessarie per vincere le battaglie, la strategia si preoccupa di vincere la guerra.

Le decisioni strategiche, sia che riguardino la sfera militare sia quella aziendale hanno tre caratteristiche comuni : sono importanti, implicano un significativo impiego di risorse, non sono facilmente reversibili 49.

Molti dei principi di strategia militare sono stati utilizzati in campo imprenditoriale. Questi principi includono: l’efficacia relativa delle strategie offensive e difensive, i metodi di aggiramento di fronte ad un assalto frontale, l’efficacia delle risposte graduali a fronte di iniziative aggressive, i benefici dell’effetto sorpresa e i potenziali vantaggi forniti dall’inganno,

ad aumentare le prospettive di successo sfruttando le interrelazioni. (M. PORTER, (1982) La strategia competitiva, Bologna, Edizioni della tipografia Compositori.

48 R.M.Grant,(2005), L’analisi strategica per le decisioni aziendali, Bologna, Il Mulino.

49 R.M.Grant,(2005),op cit.

(26)

dall’accerchiamento, dall’intensificazione e dal logoramento50. Bisogna riconoscere tuttavia le differenze tra concorrenza aziendale e conflitto militare.

L’obiettivo della guerra è quello di sconfiggere il nemico. Lo scopo della rivalità tra imprese raramente è così aggressivo: la maggior parte delle imprese limitano le loro ambizioni competitive, cercando la coesistenza con i concorrenti piuttosto che il loro annientamento51.

Lo sviluppo distinto delle strategie militari e di quelle aziendali riflette l’assenza di una teoria generale della strategia; l’evoluzione di tale disciplina è stata sollecitata, dunque, più dalle esigenze pratiche delle aziende che dallo sviluppo di una teoria vera e propria.

La pubblicazione nel 1944 della Teoria dei giochi di Von Neumann e Morgenstern ha fatto sperare nello sviluppo di un riferimento teorico generale del comportamento competitivo. Ed infatti negli anni successivi la teoria dei giochi ha rivoluzionato gli studi sull’interazione competitiva in ogni campo : dalla politica, ai conflitti militari, alle aziende, per venire finanche applicata nelle relazioni internazionali52.

50 B.H. Liddell Hart, (1968), Strategy, New York, Praeger.

51 R.M.Grant,(2005),op cit.

52 A.K. Dixit, B.J. Nalebuff,(1993), Io vinco, tu perdi: strategie di successo nel business e nella vita, Milano, Il Sole-24 ore Libri.

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1.4.2 - Dalla Pianificazione alla Direzione Strategica

Lo sviluppo della pianificazione è stato associato ai problemi incontrati dai manager durante gli anni ’50 e ’60 nel coordinare le decisioni e mantenere il controllo di imprese sempre più grandi e complesse.

Lo sviluppo della pianificazione finanziaria 53 forniva un meccanismo di base di coordinamento e di controllo, ma il coordinamento delle decisioni d’investimento richiedeva un più lungo orizzonte temporale di pianificazione rispetto al normale processo di previsione annuale di bilancio.

Non a caso le tecniche di budgeting finanziario fornivano lo schema di base per la redazione del piano finanziario anuale, mentre il metodo del Discounted cash flow (DCF) rappresentava un nuovo approccio alla valutazione dei singoli progetti d’investimento54.

In tale contesto la pianificazione aziendale fu concepita come uno strumento per coordinare le singole decisioni d’investimento e pianificare lo sviluppo a lungo termine dell’azienda. Questa si basava sulle previsioni macroeconomiche relative ai principali aggregati economici, che venivano poi disaggregate in previsioni relative ai singoli mercati e agli specifici prodotti d’interesse aziendale55.

Il formato tipico era costituito da un documento scritto di pianificazione della durata di cinque anni che stabiliva scopi ed obiettivi, prevedeva gli andamenti delle variabili economiche chiave, stabiliva un ordine di priorità per i diversi prodotti ed aree aziendali ed allocava gli investimenti di capitale.

Nel 1963, lo Stanford Research Institute verificò che gran parte delle maggiori aziende degli Stati Uniti aveva creato dipartimenti per la pianificazione56.

53 In tale contesto si intende pianificazione finanziaria come processo di pianificazione di bilancio, di costi e di budget,pertanto rimane esclusa la pianificazione dell’ambiente esterno, della struttura della società, della differenziazione dell’offerta.

54 R.M.Grant,(2005),op. cit.

55 R.M.Grant,(2005),op. cit.

56 F.F. Gilmore, (1970), Formulation and Avocacy of Business Policy, Ithaca, NY, Cornell University Press .

(28)

L’attenzione alla pianificazione di lungo termine rifletteva l’intenzione di conseguire il coordinamento e la coerenza della pianificazione degli investimenti in un periodo di stabilità e di espansione.

Poiché le aziende ricercavano efficienza e controllo del rischio, attraverso una produzione di scala efficiente, il marketing di massa, l’integrazione verticale, e gli investimenti a lungo termine in tecnologia, la previsione a lungo termine basata sulle previsioni economiche e di mercato divenne un compito di primaria importanza per l’alta direzione. La diffusione della pianificazione ai vertici delle imprese fu strettamente associata alla spinta verso la diversificazione quando le grandi aziende iniziarono a considerare le loro capacità manageriali slegate dalle separazioni settoriali.

Sempre più la pianificazione nei gruppi si focalizzò sulla gestione della crescita attraverso la diversificazione. Durante gli anni ’60 e i primi anni ’70 grazie alla pianificazione le imprese riuscivano a programmare tali iniziative per espandersi in nuovi settori, spesso attraverso acquisizioni57.

Uno dei fondatori del nuovo campo di studi H. I. Ansoff, si spinse fino a definire la strategia in termini di decisioni di diversificazione : “Le decisioni strategiche sono innanzitutto connesse ai problemi esterni dell’azienda piuttosto che a quelli interni, ed in particolar modo riguardano la scelta dell’assortimento di prodotti che l’impressa produrrà e dei mercati dove li porrà in vendita” 58.

Durante gli anni ’70 le imprese in fase di diversificazione svilupparono un nuovo strumento per la selezione delle aree di affari su cui investire e su cui allocare le risorse. Tale strumento è noto come “matrice di portafoglio”.

La nascita delle matrici di portafoglio si può collocare all’interno di un approccio elaborato prevalentemente da società di consulenza, che tende ad affrontare in modo più ambizioso il problema strategico, in quanto localizza in misura molto più accentuata l’aspetto interpretativo e decisionale. In questa sede è possibile indicare solo in forma molto sintetica l’impostazione in oggetto, focalizzando l’attenzione solo sulle parti essenziali dell’impostazione59.

57 R.M.Grant,(2005),op. cit..

58 H. I. Ansoff, (1968), Strategia Aziendale,op.cit.

59 G. Volpato, (1986), op. cit.

(29)

Essa ruota attorno alla individuazione di due variabili rappresentative rispettivamente del:

a) grado di attrattività di un certo mercato, b) posizionamento competitivo dell’impresa.

L’incrocio di queste due variabili, suddivise in gradi di intensità diversa, costituisce una matrice di situazioni o scenari a ciascuno dei quali viene associato il comportamento ritenuto economicamente più corretto.

Vediamo innanzitutto quali sono i pregi di una impostazione del genere.

Innanzitutto essa sottolinea correttamente il fatto che l’ elaborazione di una strategia passa necessariamente attraverso un’ analisi e una previsione dell’ambiente economico in cui opera l’impresa; ciò significa che è fondamentale un’analisi della domanda e del settore (grado di concorrenza), in quanto l’attrattività del settore è rappresentata dal tasso di espansione della domanda, mentre il posizionamento competitivo dell’impresa svolge il ruolo di variabile proxy della strutturazione concorrenziale.

Il secondo aspetto positivo è dato dal fatto che la individuazione degli stadi prospettici di riferimento è effettuata in base a due teorie empiriche (per quanto assai semplificate), relative appunto a orientare il significato evolutivo associato alla «domanda» e alla «offerta»60: la prima è rappresentata dal ciclo di vita del prodotto61, la seconda dalla curva di esperienza62.

60 G. Volpato, (1986),op.cit..

61 Il ciclo di vita del prodotto è uno strumento elaborato da società di consulenza ed altro non è che una rappresentazione grafica ed analitica dell’andamento delle vendite nel tempo, calcolato come il rapporto tra la derivata delle vendite e la derivata del tempo. Si distinguono quattro fasi : Introduzione, Sviluppo, Maturità e Declino. Nella prima fase, la derivata prima e la derivata seconda sono positive, l’andamento della curva è crescente: è la cosiddetta situazione “oceano blu”

ossia vi è la possibilità di creare uno spazio di mercato incontestato, aggirare la concorrenza, creare e conquistare una nuova domanda, spezzare il trade-off costo e valore. Anche nella seconda fase la curva è crescente: aumentano i volumi di vendita ed aumentano anche i ricavi e l’efficienza, poiché il tasso di crescita è elevato; ne deriva che diminuiscono i costi e al contempo aumentano i profitti. Nella terza fase, invece, la derivata prima è positiva, la derivata seconda è negativa; questa discordanza di segni indica un punto di flesso nella curva, tale che nella quarta fase (detta solo convenzionalmente del declino, poiché in realtà questo potrebbe anche non verificarsi) potremmo assistere a tre scenari diversi: pietrificazione, con il mercato che rimane stabile e la curva che assume un andamento costante; rivitalizzazione del prodotto, con un aumento delle vendite ed un andamento positivo; oppure declino vero e proprio con andamento negativo e conseguente uscita dal mercato.

(30)

E’ importante sottolineare come, a seguito di numerosi evoluzioni ed elaborazioni, ancora oggi le matrici di portafoglio rappresentino uno strumento di supporto alle decisioni manageriali per conoscere meglio la posizione competitiva del portafoglio business dell’impresa, suggerire le alternative strategiche disponibili e stabilire le priorità in termini di allocazione delle risorse tra i diversi business. Tra le matrici di portafoglio più note ricordiamo: la matrice del Boston Consulting Group (BCG), la matrice McKinsey-General Elettric, la matrice del ciclo di vita Arthur D. Little, la matrice di redditività della Marakon Association63.

La diffusione della pianificazione durante gli anni ’60 e ’70 va contestualizzata nel clima di entusiasmo formatosi nelle aziende e nelle amministrazioni pubbliche per le tecniche decisionali cosiddette scientifiche, che includevano: l’analisi dei costi-benefici; il discounted cash flow che determina la convenienza di un investimento sulla base dell’attualizzazione dei redditi futuri; la programmazione lineare; la previsione econometrica e la gestione della domanda macroeconomica. Molti economisti e osservatori sostennero che i metodi di decisione scientifica e la pianificazione razionale attuata dalle aziende e dai governi erano in grado di attenuare le fluttuazioni stocastiche dell’economia di mercato64.

62Quando parliamo di curve di esperienza facciamo riferimento ad economie di scala dinamiche poiché derivano dalla crescita dell’impresa. In questo caso all’aumentare della produzione cumulata (accumulo della produzione nel tempo), diminuisce il costo medio unitario del valore aggiunto; la trasposizione lineare della curva si ottiene attraverso il calcolo del logaritmo naturale.

In questa funzione ogni raddoppio della produzione cumulata genera una diminuzione del costo medio unitario del valore aggiunto pari al dieci-trenta percento; questo significa che all’aumentare della quota di mercato aumenta anche la possibilità di sfruttare economie di esperienza. La curva di esperienza costituisce una barriera all’entrata perché determina costi più bassi rispetto a quelli a cui sono in grado di operare i nuovi entranti, che hanno un volume complessivo di produzione nettamente inferiore. Inoltre può essere considerata come un vantaggio esclusivo poiché viene meno solo se si arriva alla fine dell’apprendimento o se cambia la tecnologia. Il meccanismo è piuttosto intuitivo : lo svolgimento continuo di un’attività determina progressiva esperienza;

quest’esperienza porta ad operare in modo sempre più efficiente ed efficace, quindi a ridurre i costi per la realizzazione di tale attività. Ne deriva che è interessante valutare la differenza di produzione cumulata dell’impresa rispetto ai concorrenti. Tale principio connette direttamente le economie di esperienza alla quota di mercato relativa dell’impresa e alla rapidità di entrata; se un’impresa è presente da più tempo in un certo mercato, con una quota maggiore rispetto ai concorrenti, raggiunge più rapidamente un determinato livello di produzione prima dei rivali. La curva di esperienza è stata fondamentale per il processo di pianificazione strategica per le implicazioni riguardanti la quota di mercato.

63 Tutte le matrici prendono nome dalle omonime società di consulenza che le hanno realizzate.

64 J.K.Galbraith, (1968), New Industrial State, London, Penguin.

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Durante gli anni ’70 tali condizioni mutarono. Non solo la diversificazione fallì nel generare le sinergie previste, ma le crisi petrolifere del 1973 65 e del 1979 determinarono un nuovo periodo di instabilità macroeconomica associato ad una crescente concorrenza internazionale da parte delle imprese giapponesi, europee e del sud est asiatico 66.

Di fronte alla crescente instabilità dell’ambiente esterno, le imprese non erano più in grado di programmare gli investimenti, l’introduzione di nuovi prodotti e i fabbisogni di personale a 3-5 anni, poiché risultava difficile formulare previsioni così a lungo termine67 .

La crescente instabilità obbligò le imprese ad abbandonare i precedenti approcci alla pianificazione a favore di metodi più flessibili , con una maggiore attenzione al conseguimento di vantaggi competitivi duraturi piuttosto che ad obiettivi di diversificazione e di sviluppo dimensionale, con una conseguente dispersione di risorse ed aumento dei costi.

Ne derivò un minore interesse per la pianificazione a vantaggio della formulazione delle strategie, focalizzate non tanto sulla gestione dettagliata dei percorsi di sviluppo delle imprese quanto sul loro posizionamento sui mercati in rapporto ai concorrenti, al fine di massimizzare il potenziale reddituale.

Questa transizione dalla pianificazione verso la direzione strategica fu associata alla crescente attenzione rivolta alla concorrenza come caratteristica centrale dell’ambiente imprenditoriale e al vantaggio competitivo come principale scopo della strategia d’impresa.

65 Durante la crisi del settore petrolifero dell’autunno del 1973 il prezzo del greggio al barile arrivò ad aumentare di sei volte.

66Il periodo in oggetto è noto agli studiosi come terzo stadio del capitalismo industriale. Questo fenomeno è caratterizzato dall’enorme considerazione che il management strategico rivolge all’ambiente esterno, alla luce della crisi petrolifera del 1974. Infatti fino a questo momento l’ambiente esterno era stato considerato tutto sommato prevedibile, e tale da consentire l’impiego degli strumenti direzionali della previsione, della pianificazione e della programmazione. Con l’avvento dell’incertezza ambientale, invece, diventa fondamentale la dialettica tra i diversi attori coinvolti nell’economia (economici, sociali, politici) e lo studio degli scenari ambientali prevedibili. In questo contesto assume rilevanza strategica il concetto di flessibilità, a scapito della standardizzazione dettata dall’organizzazione fordista che aveva permeato l’organizzazione aziendale fino ad allora.

67 R.M.Grant,(2005), op. cit.

(32)

Bruce Henderson, fondatore del Boston Consulting Group ha osservato:

” La strategia è la ricerca cosciente e deliberata di un piano di azione che porterà a sviluppare un vantaggio competitivo e quindi a rafforzarlo. Per alcune aziende questa ricerca è un processo iterativo, che prende inizio da un’attenta analisi della situazione di partenza (dove siamo, cosa abbiamo in mano), e la presa di coscienza che i concorrenti più pericolosi sono quelli più simili a noi. Le differenze tra noi e i nostri concorrenti sono le basi del nostro vantaggio e ciò significa che se siamo un’azienda che si sostiene da sola e se esistiamo ancora, dobbiamo avere da qualche parte un certo vantaggio competitivo (magari anche limitato o vulnerabile). L’obbiettivo è quello di allargare l’ampiezza del nostro vantaggio, e questo può avvenire solo a spese di qualcun altro 68”.

La crescente rilevanza attribuita al ruolo della strategia nel miglioramento della performance portò a focalizzarsi sulle fonti di profitto. Durante la fine degli anni ’70 e l’inizio degli anni ’80, al centro dell’attenzione stavano le fonti di profitto negli ambienti esterni alle imprese.

Michael Porter della Harvard Business School ha aperto la strada all’applicazione degli studi economici all’analisi delle organizzazioni, contribuendo alla scoperta di determinanti della redditività d’impresa.

68 B.D.Henderson, (1990), Le origini della strategia, in «Harvard Espansione», n. 47, giugno, p.68.

(33)

1.4.3- La rivoluzione di Porter

L’opera di M. Porter rappresenta un importante punto di svolta nella letteratura in materia di strategia d’impresa.

Il riferimento è alle opere La Strategia Competitiva (1980) e Il Vantaggio competitivo (1985), che rappresentano il pensiero dell’autore, mettendo in evidenza le sue caratteristiche di innovatività rispetto alle precedenti elaborazioni della teoria69.

Il contesto nel quale nasce l’opera porteriana è quello degli anni ’80, caratterizzato da un elevato grado di turbolenza ambientale, in un quadro di congiuntura favorevole, di apertura e globalizzazione dei mercati, di incremento della concorrenza a livello internazionale nei principali settori industriali. Infatti, la comparsa di concorrenti sempre più agguerriti, quali le imprese giapponesi e quelle dei paesi di nuova industrializzazione, procurò alle corporations americane nuovi avversari, che mostrarono un maggior orientamento al cliente e a ciò che porta alla soddisfazione delle sue esigenze.

Tutto questo rivoluzionò il modo di competere, portando il confronto su un campo – la soddisfazione del cliente – che era stato spesso trascurato dalle imprese occidentali.

Lo studio (che si inserisce pienamente nel filone di scritti di scuola Harvardiana più a carattere econometrico che strategico), individua il successo delle imprese nel raggiungimento di un vantaggio competitivo sostenibile. Tale vantaggio competitivo deve nascere dal confronto tra le capacità interne dell’impresa e le forze che alimentano un settore industriale.

Dunque, la base di partenza è che la strategia competitiva deve collegare l’impresa al proprio ambiente di riferimento, ed ottenere un tasso di profitto soddisfacente sfruttando l’attrattività dei settori industriali e la capacità di procurarsi un vantaggio competitivo. Quest’ultimo punto costituisce la maggiore innovazione e viene sviluppato fino a diventare il perno ed il criterio di tutta l’elaborazione del processo strategico: la strategia è la ricerca del vantaggio competitivo come condizione di successo. La scelta del settore in cui competere

69 M. PORTER,(1980), (1985) op. cit.

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