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Centro sociale A.02 n.3 Maggio-Giugno. Inchieste sociali servizio sociale di gruppo educazione degli adulti

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Centro Sociale

inchieste sociali - servizio sociale di gruppo

educazione degli adulti

a. II - n. 3 maggio-giugno 1955 - un numero L. 250 - abbonamento annuo (6 fascicoli e 12 tavole 70x100, di cui 6 allegate) L. 2300 abbonamento alle sole 12 tavole L. 1800 - spedizione in abbonamento postale gruppo IV - c. c. postale n. 1/20100 - Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 - Roma - telefono 593.455

S o m m a r i o

L’uomo e la città

Un dibattito sui Centri Sociali I - Premessa ad una collaborazione II - Storia e geografia del Centro Sociale III - Illustrazione di alcuni progetti IV - Il dibattito

Documenti Notizie

Estratti e Segnalazioni

Nuovi metodi nell’insegnamento della storia Il contadino e il tecnico - Il costume attraverso i fumetti

Allegati

Il problema della fame (tavola di Albe Steiner commento di Aldo M . Albi).

Recensioni: M. Quoist, La Ville et VHomme

(F. Ferrarotti); A . Carrard, Saper comandare

(C. Berilli).

Fotografie: Farabola, Perucca

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’UNRRA CASAS Prima Giunta Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino, Ludovico Quaroni, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giovanni Spagnolli, Angela Zucconi - Direttore responsabile: Paolo Volponi - Redattore: Anna Maria Levi

copertina di Egidio Bonfante

1

Paolo Volponi 3 Eugenio Gentili 6 13 19 31 37 42

(3)

L’ UOMO E LA CITTÀ

«

Poiché vediamo che la città è un’associazione, e che tutte le associa­

zioni sono costituite per raggiungere un bene, a più f orte ragione deve ten­

dere al bene la città, che è sovrana fr a tutte, e tutte le altre comprende.

Coloro che considerano allo stesso modo il magistrato, il re, l’ammini­

stratore e il padrone hanno di queste funzioni un concetto inesatto, perché

credono che tra di esse ci sia una d iff erenza quantitativa, e non specifica;

pensano, cioè, che se l’ organismo è composto di pochi, chi ne sta a capo si

debba chiamare padrone; se di un numero maggiore, amministratore; se di

un numero anche maggiore, magistrato, o re, come se non ci fosse nessuna

differenza tra grande casa e piccola città.

Ma questo modo di pensare è falso.

P er chi segue, nell’osservazione della realtà, il nostro metodo, sarà ma­

nifesto quel che diremo. Infatti, come in ogni altra materia, è necessario

scomporre il nostro oggetto nei suoi elementi semplici; così, osservando da

quali elementi è composta la città, vedremo anche in che cosa differiscono

fra loro, e potremo trarre, se è possibile, qualche conclusione correttamente

scientifica.

Osserviamo dunque, fin da principio, l’ origine delle cose.

Prima di tutto è necessario che si associno quegli esseri che sono fatti

pei' vivere assieme, cioè l’uomo e la donna per assicurare la discendenza (e

non per convenzione, ma per natura, poiché l’uomo, come gli altri esseri

viventi, è fatto per riprodursi e lasciare sempre un essere simile a se

stesso), e il padrone e il servo per le fatiche materiali.

Da questa unione per i bisogni immediati della vita risulta la prima,

fondamentale, associazione: la famiglia, i cui membri sono chiamati da

Caronda commensali, e da Epimenide

omokapnoi

cioè partecipanti allo stesso

focolare; e giustamente dice Esiodo:

primo di ogni altra cosa

la casa, la consorte e il bue aratore.

(4)

L ’associazione di più famiglie, per il raggiungimento di un’utilità meno

angusta e più complessa è da principio il villaggio, che, secondo natura,

può esser chiamato una colonia della casa, i cui membri vengono chiamati

omogalactes,

cioè fratelli di latte, e mantengono tra loro il vincolo di paren­

tela i figli e i figli dei figli.

L’associazione poi ben salda di più villaggi è la città, la quale basta a se

stessa, formandosi per lo scopo dell’ esistenza, e, dopo averlo raggiunto, per

conseguire la perfezione dell’ esistenza. Ogni città è per natura, se sono

per natura le altre associazioni più semplici, perché la città è il risultato

finale a cui tendono tutte le altre. Infatti chiamiamo ” natura

di una cosa

la sua condizione all’ultimo stadio del suo svolgimento, e applichiamo questo

principio all’uomo, al cavallo, alla casa; inoltre la ragione dell esistenza, e

il fine, costituiscono il bene supremo dell’ essere; dunque l’autonomia e la per­

fezione della città costituisce il bene più alto, nell’ordine sociale.

E ’ manifesto che la città è un fatto naturale, e che l’uomo è, per natura,

un animale politico; ma è anche evidente che l’uomo è un essere politico per

motivi diversi e più forti che non le api, o qualsiasi animale che vive in

gregge.

Solo l’uomo, infatti, tra gli animali, ha la parola; la voce può esprimere

dolore o piacere, e la posseggono anche gli altri animali (fin qui giunge in­

fatti la loro natura, d’aver la sensazione del dolore e del piacere e di signi­

fica rlo ); ma la parola serve a manifestare ciò eh’è utile e dannoso, e per

conseguenza anche ciò ch’ è giusto e ciò ch’è ingiusto.

Questo, infatti, è il carattere proprio dell’uomo: di aver la nozione del

bene e del male, della ragione e del torto e di tutte le antitesi morali. L asso­

ciazione degli esseri fo m iti di queste nozioni crea la famiglia e la città.

P er natura, poi, la città è condizione della famiglia e dell’uomo singolo.

Se infatti ciascuno non basta a se stesso, sarà rispetto alla città nella

stessa relazione che la parte col tutto ; e il tutto è necessariamente condi­

zione della parte, perché tolto l’organismo non si hanno più membra, né

piede, né mano, se non di nome, come se si dicesse mano d’una pietra. Chi

non è atto a partecipare alla vita civile, o non ne ha bisogno, non può dirsi

neppure, propriamente, un uomo, ma piuttosto una belva o un dio

».

( Ar i s t o t e l e,

dalla

Politica,

cap. I)

(5)

Premessa ad una collaborazione

Per iniziativa della rivista « Centro Sociale » e del Movimento per gli

Studi di Architettura si è svolto a Milano un dibattito sni centri sociali.

Il n. 1 di questa rivista trattava nella sua parte m onografica del « Centro

Sociale » ; term ine nuovissim o e contrastato del vocabolario tecnico della

assistenza sociale, pronunciato a significare spesso diverse istituzioni o atti­

vità, non chiaramente inequivocabile nella sua sostantivazione.

Appunto per questo, ed in rispetto ad un metodo didattico di conquista

della conoscenza attraverso un diretto e continuo rapporto con la pratica e la

esperienza, il prim o numero non partiva dando definizioni astratte del centro

sociale o parlando genericam ente di principi altrettanto astratti; ma pre­

cisava alcune esperienze registrandone gli sviluppi graduali fino ai risultati

più validi, che indicava com e term ine di riferim en to e di confronto.

N on si intendeva certo con ciò esaurire il tem a dei centri sociali, ma

di iniziare un discorso che, via via, potesse allargarsi, arricchito di altri

contributi, di scambi, di dialoghi, fino ad investire tutti i problem i dei centri

sociali ed a chiarirne ordinatam ente i term ini. Su questa linea la rivista ha

continuato, affrontando spesso direttam ente nelle sue rubriche il tema dei

« centri », o trattando indirettamente di attività che nei « centri » possano

trovare sede naturale e quindi diventarne attributi.

Su questa linea si è inserito rin con tro svoltosi il 20 luglio scorso a

M ilano tra il M ovim ento per gli Studi di A rchitettura (1) e il Corpo diret­

tivo e redazionale della rivista. L ’incontro, m aturato parallelamente nelle

intenzioni dei due gruppi, doveva consentire uno scambio di idee e di espe­

rienze sui centri sociali, con particolare attenzione al problem a del centro

sociale come edificio.

Problem a aperto in seno al M .S.A ., che raccoglie un gruppo di archi­

tetti e urbanisti di grande valore, all’ avanguardia nel nostro Paese, e con­

diviso con la stessa urgenza dalla rivista, giacché esso non resta evidente­

mente confinato in cam po tecnico, dato che la form a del centro non può

discendere che dalla sua funzione e quindi accingendosi alla scoperta della

struttura della prima, bisogna in ogni caso ricercare gli aspetti della seconda.

(Si rilegga a proposito : « Il Centro Sociale come edificio » di L. Q., nel

prim o numero di questa rivista).

Si trattava in sostanza di discutere del centro sociale « tout-court » —

e la registrazione del dibattito, pubblicata nelle pagine seguenti lo dim ostra

(1)

L’M.S.A. — Movimento per gli Studi di Architettura — si è costituito a

Milano nel 1945 per iniziativa di un gruppo di architetti del movimento moderno, que­

gli stessi che durante gli anni precedenti alla guerra — attorno a Pagano e a Edoardo

Persico —- avevano condotto la battaglia per il rinnovamento dell’architettura. L’M.S.A.,

che elegge i propri aderenti tra gli architetti residenti a Milano, conta oggi settanta soci.

Svolge un’attività molto intensa nel campo della cultura architettonica organizzando con­

ferenze e dibattiti su problemi di particolare attualità e su lavori dei suoi soci.

(6)

chiaramente — tra due schiere di operatori estremamente interessati ad

interventi, per quanto in diverse fasi, sullo stesso corpo.

In fatti non è una sorpresa che architetti, urbanisti e assistenti sociali

siano interessati allo stesso problema, ora che l’architettura e 1 urbanistica

vengono intese sopratutto come un lavoro sociale, agendo sul rapporto tra

l’uomo e lo spazio, l’uomo e la comunità. Le occasioni di contatto tra le

due categorie di lavoratori sono dirette, tanto più che il servizio sociale nel

nostro paese presenta le sue esperienze più interessanti nel cam po dell’edi­

lizia popolare, dei nuovi quartieri e delle sopravissute borgate e nel campo

della riform a agraria, i cui problem i più gravi sono prop rio quelli del

trasferim ento dei contadini e del loro insediamento nell’ambito dei nuovi

assetti urbanistici dei com prensori. E ’ inoltre da rilevare che gli urbanisti

sono oggi tra i più sensibili, per queste loro dirette ragioni, ai problem i

sociali, forse più dei medici o degli educatori stessi, che mantengono quasi

esclusivamente un rapporto am m inistrativo e parziale con la realtà umana,

salvo apprezzabili e non del tutto scarse eccezioni. In realtà, tra le inchieste

sociali condotte nel nostro Paese, grande rilievo hanno quelle svolte per

piani regolatori e per piani territoriali (vedasi Ivrea, Matera, l’inchiesta

preventiva ad un piano regionale dell’Abruzzo, ecc.).

L ’incontro di Milano era completamente affidato al M .S.A., sia per

la parte organizzativa che per la scelta dei temi da portare in discussione.

L ’arch. Eugenio Gentili, collaboratore di questa rivista, aveva il com ­

pito della relazione iniziale, che è qui di seguito pubblicata. La discussione

era aperta oltre che sulla relazione su questi due tem i :

— Si può pensare, ed in quale misura, che il Centro Sociale stia per

diventare il nucleo tipico di una società di dom ani?

— L ’edificio del Centro Sociale rappresenta una polarizzazione così

fo rte da condizionare profondam ente una struttura urbanistica?

Considerando per un momento la relazione Gentili, ci sembra di dover

affacciare in questa sede, appunto perché la discussione non si chiuda ma

possa essere continuata su queste pagine dai lettori, alcune osservazioni che

non vogliono smentire nulla della relazione stessa, m a precisare i confini

della realtà dei « Centri Sociali », del loro ruolo quotidiano, che spesso,

anche se comprensibilmente, sfu ggon o agli studiosi, a chi li considera come

elementi astratti di una teoria sociale.

Ci sembra cioè che la relazione, im postata e svolta con grande chiarezza,

vada però un poco oltre questi confini, arrivando a considerazioni e con­

clusioni ancora lontane per gli assistenti sociali e per coloro che lavorano

direttamente nei centri sociali, i quali, anche se si sono posti interrogativi

com e quelli sopra riportati, non hanno però m ai condizionato la loro atti­

vità ad una risposta definitiva.

Si corre in tal modo il pericolo che non ci si intenda più nemmeno fra

urbanisti e lavoratori sociali, che questi restino ancora di più attaccati a

una « pratica » ripetuta e monotona per non trovarsi di fron te im provvi­

samente problem i assolutamente nuovi e di mole insolita e che gli altri

avanzino a tal punto nelle loro ricerche ed ipotesi teoriche da ritrovarsi

isolati e senza la possibilità, nell’occasione di un progetto, di tenere conto

delle basilari indicazioni pratiche.

Si tralasciano le risposte ai due quesiti, non perché siano impossibili,

m a perché sposterebbero l’obiettivo di una collaborazione tra urbanisti e

(7)

lavoratori sociali al di là di una possibilità concreta di intesa e di reci­

proco aiuto, in zone ancora poco esplorate e prive di facili vie d’accesso.

In questa fase di lavoro si darebbero solo risposte di com odo ; « no »,

restando ferm i alla pratica ed alle idee correnti di centro sociale, piuttosto

confuse e limitate, per le quali non vi sono ancora risultati e non si possono

in coscienza prevedere sviluppi tali che consentano delle afferm azioni tanto

ampie ; « sì », cedendo altrettanto com odam ente a sviluppi interni di idee,

che però finirebbero così di contraddire ai loro stessi principi di ampia e

diretta democrazia, cioè di una consultazione costante e di una tra sfor­

mazione perenne dei fa ttori reali.

La relazione Gentili invece ci sembra, almeno nelle conclusioni, tutta

aderente ai due quesiti e portata a rispondere — come i due quesiti stessi

sembrano quasi richiedere d’obbligo — affermativamente.

Ora, alla luce di quanto sopra detto, si chiariscono le nostre precisa­

zion i; che più propriam ente sono le preoccupazioni di riportare il centro

sociale in una sua sede precisa, edificata o edifìcabile in rapporto alle

necessità e alle possibilità di un lavoro sociale, teso a quella « scuola di

democrazia », sulla quale tutti, nel corso del dibattito e fu ori di esso, si

trovano d’accordo ; di chiarire m eglio tutte le attività, e gli strumenti di

tale scuola. N on pensiamo ancora al centro sociale com e cuore della città,

che, se non ben sistemato in accordo con tutti gli altri organi e non rispet­

toso della libertà di m ovim ento di questi, potrebbe anche diventare un anta­

gonista dannoso, un « alter ego » della città.

Per questo non vediam o il centro com e alternativa o del partito politico,

o dell’oratorio parrocchiale o di altre istituzioni ; il centro non può infatti

attribuirsi tutte le funzioni che in quelle altre sedi si svolgono anche se in

m aniera incom pleta; il centro non può che vivificarne invece le funzioni,

indirizzandovi quelle forze che avrà scoperto e attivizzato.

Gli uomini usciti dal centro potranno avere idee più chiare, un senso

più preciso della loro responsabilità di cittadini, una più esatta visione della

loro posizione rispetto alla vita locale in tutte le sue manifestazioni.

Inteso il centro sociale secondo questi principi, non ci rimane che allar­

gare le esperienze, con m odestia m a con impegno, raccogliendo ogni inizia­

tiva a livello com unitario e prom uovendo tutte le varie iniziative negli

ambienti dissestati o nuovi òhe possono consentire una attiva organizza­

zione sociale, possibile sede di rapporti non dispersivi e della identificazione

di interessi comuni.

P urtroppo il prim o caso, per il quale i com piti degli urbanisti e degli

assistenti sociali sono più semplici e dove il centro acquista un riflesso

com unitario, è piuttosto raro. Ben più frequente è il caso di ambienti disse­

stati e disordinati di difficile accesso sia per l’urbanista che per l’assistente

sociale, dove sembra negata ogni possibilità di un’azione sociale e spropor­

zionata l’attività di un centro, rispetto alla com plessità dei problem i da

risolvere. Ma proprio per questo non bisogna scoraggiarsi e rinunciare; né

allungare i term ini dei problem i in una tale catena di considerazioni e di

dubbi, nella speranza della m aturazione spontanea di giustificazioni nuove

e di un m ondo nuovo, tanto da restare inattivi o im pediti dalla m agica paura

della vastità dei problemi.

Paolo Volponi

(8)

Storia e geografia del Centro Sociale

relazione dell’ architetto Eugenio Gentili

L a d e fin iz io n e d i C e n t r o S o c ia le è in fin ita m e n te e c o n t in u a m e n t e v a r i a b i l e c o n le v a r i a z io n i d e lla s o c i e t à n e l t e m p o . O g n i e p o c a h a a v u t o il s u o " n u c l e o s o c i a l e " c a r a t t e r i s t i c o : la ch ie s a , il p a l a z z o , la f a b b r i c a , il m e r c a t o .

Se noi volessimo cominciare ad occuparci dell’edificio

del Centro Sociale, domandandoci semplicemente che

cosa esso sia, finiremo probabilmente per parafrasare

Croce; e rispondere che il Centro Sociale è quella cosa

che tutti sanno che cosa sia; il che equivale a dire che

nessuno sa che cosa sia esattamente.

In realtà una definizione categorica del Centro Sociale

presupporrebbe una sua destinazione immutabile nella

società e nel tempo ; due valori cioè la cui infinita e con­

tinua variabilità rende infinitamente variabili gli aspetti

che il Centro Sociale può assumere, sino a fam e nebu­

loso il concetto stesso nei confronti della pura socialità,

così come dell’urbanistica. Avviene pertanto che alcuni

abbiano cercato di individuare nel Centro Sociale alcune

funzioni preminenti, od altre particolari.

Riportandoci indietro nei tempi, vediamo come sia

sempre esistito nella città qualche cosa che rappresenti

una polarizzazione della vita associata, e che si può defi­

nire abbastanza esattamente, pur nel continuo variare

delle sue caratteristiche.

Mumford ( 1) ha elencato una serie di epoche, secondo

definizioni sue, ed in ciascuna ha riconosciuto un orga­

nismo tipico costituente il « nucleo sociale », come egli

lo chiama : così nel Medio Evo, tale « nucleo » sarebbe

la chiesa; nell’età barocca, il palazzo, intendendo con

questo termine, in senso lato, la sede del potere accen­

trato; nell’età paleotecnica (2), la fabbrica; nell’età della

metropoli, il mercato, che qui sta a significare il mer­

cato propriamente detto, come la Borsa, ecc. ; nell’attuale

età biotecnica (3), i « nuclei » sarebbero da individuare

nella casa d’abitazione e nella scuola.

Il semplice fatto che sia possibile stabilire simili

fenomeni, nel nostro come in ogni altro Paese, significa

che in realtà esistono anche presso di noi, e sia pure

allo stato latente, degli elementi di vita sociale, di vita

comunitaria; oggi si cerca di localizzarli, di portarli al

livello della nostra epoca, di organizzarli sfrondandoli

(1) Le w is Mu m f o r d,

La cultura delle città,

E d . di

Comunità, Milano, 1954.

(2) Età paleotecnica: il primo periodo dell’industrializ­

zazione, nel sec. XIX.

(3) Età biotecnica: l’attuale, in cui gli studi sugli

esseri viventi (biologia, psicologia, sociologia, ecc.) vanno

integrando quelli puramente tecnologici.

(9)

da tutte le eventuali componenti negative o collegate

con forze negative su altri piani, come meglio vedremo

più avanti.

Per intanto, è fondamentale riconoscere, come una

costante della vita associata, lo stimolo permanente ad

identificare gli interessi comuni. Sul quale punto po­

tremmo ben chiarificare e controllare la validità del

citato elenco di Mumford.

Certo i caratteri della nostra epoca sono andati facen­

dosi estremamente complessi, e presentano delle frat­

ture, delle disarmonie così sensibili da rendere in taluni

casi ben difficile l’individuazione spontanea ed autonoma

degli interessi comuni ; mentre d’altra parte una indivi­

duazione condotta dall’esterno di una comunità, ed

imposta sotto qualsiasi forma, ha una validità limitata

proprio dal suo essere una soluzione non proveniente

da quelli che sono i fermenti di una vita comunitaria.

Comunque, s’è detto, anche nel nostro Paese è rico­

noscibile 1’esistenza di elementi di vita associata, quali

il vicinato, o la parrocchia, o il circolo, o il partito

politico.

Il vicinato rappresenta una entità che sfugge ad una

determinazione sia sociologica che spaziale: esso è

costituito piuttosto di sentimenti che di fatti reali, è

più che altro uno stato d’animo che si alimenta da con­

dizioni di vita tutt’affatto particolari, quali, ad esempio,

la mancanza di certi servizi. Così il fatto che non esista,

in un gruppo di abitazioni, l’acqua potabile, ma che esse

abbiano in comune una fontana, un pozzo, il lavatoio, ecc.

rappresenta un punto a favore della vita di vicinato, e,

evidentemente, una a sfavore di quelle che sono le buone

caratteristiche di un’abitazione.

L’avere dei ballatoi in comune offre delle possibilità

di contatti, di scambi che sono un fatto positivo sul

piano sociale, ma negativo, anche questa volta, nei con­

fronti dell’abitazione.

Viceversa il disporre di un terreno adatto per il gioco

dei bambini, rappresenta qualcosa di buono sia agli

effetti del vicinato, sia a quelli dell’abitazione.

E’ chiaro che la vita di vicinato non è cosa che si

possa riprodurre artificialmente : è difficilissimo, se non

impossibile, che un architetto, un urbanista, nel pro­

gettare un quartiere, riescano a farlo in modo che in

esso si svolga sicuramente una feconda vita di vicinato,

perché essa si alimenta nel tempo, con il perfezionarsi

di certe abitudini e con 1’avvicinarsi di certi modi di

vivere, che non possono esser previsti né pianificati

attraverso la scelta dei tipi o della disposizione degli

elementi residenziali.

E’ il caso di tantissimi quartieri di nuova costruzione

dell’I.N.A. Casa. Il quartiere è stato progettato, ad

esem-E le m e n ti la te n ti d i v ita a s s o c ia ta s o n o s e m p r e e s is t it i e e s is t o n o t u t t o r a : si t r a t t a d i in d iv id u a r li « d i d a r l o r o un a s t r u t tu r a a d e g u a t a . U n a c o s t a n t e d e lla v it a a s s o c ia ta è lo s t im o l o p e r m a n e n t e a id e n ­ t if ic a r e in te re ssi co m u n i.

7

(10)

Il v i c in a t o è u na c o n d i z io n e s p a ­ z i a le e p s i c o lo g i c a i r r ip r o d u c ib ile , c h e si b a s a a n ch e su c o n d iz io n i di v it a n e g a tiv e . L’ o r a t o r i o p a r r o c c h ia le c o s t it u i ­ s c e in m o lt i ca si l’ u n ic o p u n to di i n c o n t r o d i p ic c o li e p ic co lis s im i c e n t r i.

pio, in Piemonte, per citare l’esperienza illustrata dal­

l’architetto Astengo a proposito del quartiere Falcherà,

realizzato a Torino; esso è stato pertanto studiato e

controllato sulla base di certe caratteristiche e di certe

abitudini di vita che si possono rilevare nella zona, e

per famiglie di una determinata condizione e composi­

zione : vengono condotte indagini e compilate statistiche

e su tale base si stabiliscono dei ben ragionati dimen­

sionamenti e rapporti. Ad assegnazione degli alloggi

avvenuta, si riscontra che la più forte percentuale degli

abitanti è rappresentata da immigrati dell’Italia meri­

dionale e che le famiglie invece d’esser composte in

maggioranza da marito, moglie e tre figli, sono allietate

da un numero di figli enormemente superiore; che gli

alloggi preparati per persone con determinate consue­

tudini ed educazione sono invece abitati da individui che

hanno sempre vissuto, essi stessi e chissà quante gene­

razioni di loro antenati, in tuguri, catapecchie, spelon­

che, caverne, e che quindi non sono ancora adatti a

condurre una esistenza regolare e ordinata in un

quartiere moderno.

Come può prodursi una vita di vicinato in simili casi?

Evidentemente quella piccola percentuale di abitanti

che proviene dalla zona, e che ha una educazione diffe­

rente, ha anche una differente attrezzatura, del mobilio,

dei libri, della biancheria, dei vestiti, e finirà per esser

guardata dai più in una maniera che non può certo favo­

rire all’inizio di una vita di vicihato. La quale si formerà

forse col tempo, attraverso una seconda generazione,

quella dei bambini che giocheranno negli spazi predi­

sposti dagli architetti, e che intrecceranno fra loro dei

legami, capaci di originare in un futuro più o meno

lontano delle differenti relazioni umane.

La parrocchia rappresenta tuttora l’unico punto d’in­

contro di piccoli e di piccolissimi centri, nel quale finisce

per confluire qualsiasi manifestazione locale. I ragazzi,

dopo la scuola, non hanno assolutamente nulla che possa

toglierli dalla strada fuorché l’oratorio parrocchiale; le

madri sono indotte a fare le loro confidenze in parroc­

chia. Poco alla volta, l’oratorio accentra tutte le fun­

zioni che via via possono essere svolte in un paese: la

prima volta che capiterà una macchina cinematografica,

sarà installata nell’oratorio, e così accadrà probabil­

mente per il primo televisore e per molte altre novità.

Il che sarebbe ottima cosa se l’oratorio e la parrocchia

fossero espressioni dirette della comunità e, in certo

modo, fini a se stesse: viceversa tutta l’attività che si

svolge nella parrocchia è finalistica, sottintende cioè un

fine di secondo grado che non è espresso dall’interno.

Gli abitanti del piccolo e del piccolissimo centro, del

rione periferico trovano un organismo che risponde a

(11)

certi loro bisogni, e se ne servono in un modo che indub­

biamente riesce loro spontaneo, ma che finisce gradual­

mente per bloccarli su una strada che essi non hanno

potuto liberamente scegliere e sulla quale non possono

esercitare influenza alcuna.

Qualche cosa di più autonomo si può riscontrare nella

struttura di quei « circoli » che abbondavano in Italia

e che il fascismo ebbe cura di sopprimere o di incorpo­

rare nelle proprie istituzioni : pur nella loro varietà

essi possono venir raggruppati in due vaste categorie,

e cioè il circolo locale e quello formato tra persone inte­

ressate ad attività particolari.

Il primo tipo nasce per lo più come ritrovo conviviale,

è il circolo di un dato quartiere, o quello degli oriundi

di un’altra località, dei Veneti in Toscana, ad esempio,

o dei Toscani nel Veneto: è un organismo, insomma che

raggruppa delle persone indipendentemente da quella

che è la loro qualifica sociale. Questo di accostare sulla

base di un comune denominatore spaziale o sentimen­

tale individui di differenti qualità è un dato certamente

positivo, che tuttavia è per lo più rimasto sterile proprio

perché il livello culturale di questi circoli è uscito ben

di rado da una media molto modesta, esaurendosi in riu­

nioni, pranzi, discorsi, passeggiate.

Minore è l’interesse che hanno, ai nostri fini, i circoli

specializzati, quelli cioè dei giocatori di scacchi, degli

amanti dei fiori e via dicendo : qui la vita sociale si

esaurisce naturalmente nell’esercizio di una determinata

attività, così che il circolo viene a costituire un fatto

limitativo, quasi una chiusura nei confronti di tutto

ciò che non entra nel programma del sodalizio.

Le sedi dei partiti politici, così come sono venute

ricostituendosi nel dopoguerra, richiedono un discorso

molto simile a quello tenuto a proposito della parrocchia.

Anche qui, e nei casi migliori, tali organismi cercano

di attirare le persone offrendo loro la massima latitu­

dine di possibilità, di rispondere insomma a dei bisogni

reali in modo che- le funzioni relative siano poi svolte

nell’ambito del partito. Certo, in determinate zone dove

esiste una fortissima e spontanea convergenza di idee

politiche, la sede di un partito può rappresentare qual­

che cosa di assai aderente alla vita della comunità :

tuttavia è sempre presente anche in questi casi una

forte componente esterna, anche se tutto il funziona­

mento è espresso in loco da coloro che vi prendono parte.

Visti dunque quali sono gli elementi più o meno spe­

rimentati e dei quali è necessario tenere conto, appare

importante; al disopra delle specificazioni e delle classi­

ficazioni, definire quando e per chi si determina il biso­

gno del Centro sociale, o meglio di quel qualche cosa

che si potrà successivamente identificare come Centro

I ** c ir c o l i ” lo c a li o s p e c ia liz z a t i h a n n o a v u t o u n 'a t t iv it à lim it a t a d a lla m o d e s t ia d e l l o r o liv e llo c u ltu r a le . Le se d i d e i p a r t iti p o litic i p o s s o n o r a p p r e s e n t a r e t a l v o l t a q u a lc o s a di m o l t o a d e r e n t e a l l a v it a d e lla C o ­ m u n ità .

9

(12)

È im p o r t a n t e s t a b ilir e q u a n d o e p e r ch i si d e t e r m in a il b is o g n o di un i n c o n t r o t r a gli in te re ssi fo n d a - m e n ta li c h e i m e m b r i d i un in t o r ­ n o u r b a n is t ic o e s o c ia le s e n t o n o d i a v e r e in c o m u n e . La C o m u n it à si p r e s e n ta co n in­ fin iti a s p e tti ch e c o n d i z io n a n o la s t r u t tu r a d e i C e n tr i S o c ia li.

Sociale. A tale interrogativo si può rispondere che il

bisogno del Centro Sociale si determina quando nel

corpo della società si delinea la coscienza di un intorno

urbanistico-sociale individuato dalla convergenza degli

interessi fondamentali.

Questo intorno urbanistico-sociale può essere chia­

mato la Comunità.

Anche la Comunità non corrisponde oggi ad una defi­

nizione unica e fissa, ma subisce tutte le infinite varia­

zioni di cui sono capaci i due termini che la condizionano,

e cioè il termine urbanistico, o, meglio, spaziale, e il

termine sociale.

E qui si potrebbero citare vari tipi di strutture atti a

caratterizzare altrettante situazioni : a titolo d’esempio

viene riportato qui di seguito l’elenco di cinque gradi

di Comunità che la Tyrwhitt ha compilato per il CIAM.

Comunità di 1° grado: Il villaggio rurale o il raggrup­

pamento elementare di abitazioni urbane con una

popolazione di circa 500 abitanti. E’ questo il com­

plesso minimo che nel mondo occidentale è in grado

di sentire i più elementari bisogni del vivere sociale.

E’ infatti possibile a questo complesso fornire un

ambiente soddisfacente per i giovanissimi e per le

persone molto vecchie (gli estremi della vita

umana). Il suo Cuore (1) di solito si trova nel punto

di contatto col resto del mondo — a un crocicchio,

davanti alla stazione ferroviaria, ecc.

Comunità di 2° grado: La borgata rurale con mercato o

l’agglomerato residenziale da 1.500 a 3.000 abi­

tanti. Essi sono costituiti da vasti raggruppamenti

in cui tutti gli abitanti tuttavia si conoscono tra

loro almeno di vista. Esistono molte Comunità ben

costituite di questo genere in tutto il mondo ed il

loro Cuore è generalmente collocato nella piazza del

mercato o nel centro dei negozi.

Comunità di 3° grado: La cittadina o il quartiere di

circa 50.000 abitanti (che può variare talvolta da

25.000 a 100.000 abitanti). Questo è il complesso

più piccolo che nel mondo occidentale può essere

socialmente ed economicamente autosufficiente:

cioè può fornire una certa varietà negli impieghi

industriali, un’istruzione completa, una notevole

varietà nei negozi e nell’attrezzatura ricreativa, ecc.

Generalmente il Cuore di queste Comunità assume

un carattere civico.

Comunità di -4° grado: Città che vanno da 250.000 a

1.000.000 di abitanti (idealmente composte da rag­

gruppamenti di Comunità più piccole). Questo coni­

ti) Cuore ha qui significato di nucleo urbanistico.

(13)

plesso rappresenta il più piccolo aggregato di popo­

lazione che nel mondo occidentale può fornire tutto

quello che la nostra civiltà offre in fatto di cultura,

educazione, divertimenti, unitamente ad una ben

dosata attività industriale su larga scala. Contem­

poraneamente questo tipo di Comunità è il massimo

complesso che sia ancora in grado di possedere un

unico Cuore accentrato. E’ qui, nel Cuore della

città, che l’integrazione delle arti plastiche può

raggiungere la sua espressione più vitale.

R a g g r u p p a m e n t i d i p ic c o li c o m u n i p e r f o r m a r e u na C o m u n it à d o t a t a di C e n tr o S o c ia le .

La combinazione di questi quattro gradi della « scala

delle Comunità » costituisce la costellazione urbana, la

zona cioè entro la quale può essere realizzata una forma

di vita completa con libertà di scelta per lo sviluppo

delle potenzialità di ciascun individuo.

Comunità di 5° grado: Metropoli, l’importante centro

internazionale di molti milioni di abitanti (anche

questa composta idealmente da una gerarchia di

raggruppamenti di Comunità più piccole).

Va subito detto che, agli effetti di ciò che ora ci

interessa, la Comunità non dovrebbe oltrepassare la

dimensione di 10.000 abitanti; per gli altri casi citati,

sarebbe più giusto parlare di raggruppamenti di Comu­

nità in seno ad organismi urbanistici più complessi,

quali sono le città.

A ciascun tipo di Comunità, farà riscontro un diverso

tipo di struttura del Centro Sociale : così è chiaro che

se un piccolissimo Comune non è in grado di giustificare

la presenza di un proprio Centro Sociale, converrà iden­

tificare la Comunità in un raggruppamento di vari

piccoli Comuni.

Con il che entra in gioco una serie di considerazioni

circa le possibilità di trasporti, l’opportunità di loca­

lizzare il Centro nel Comune più importante od in quello

baricentrico. Le funzioni fondamentali possono inne­

starsi sulle funzioni amministrative ; sedi di Comuni

che ospitano ben spesso anche le scuole elementari o i

carabinieri, potrebbero essere integrate con un ufficio

di assistenza, un ambulatorio, un locale di riunione, una

piccola biblioteca, qualche attrezzatura di svago.

Meglio le cose potranno funzionare in una cittadina,

con caratterizzazione sia agricola che industriale, dove

risulterà opportuno sviluppare nel Centro Sociale anche

altre attività di carattere commerciale ; infatti il Cen­

tro, con un’opportuna localizzazione nel cuore dell’abi­

tato, attirerà speciali tipi di contrattazioni disponendo

di spazi aperti e coperti, di negozi, magari della sede di

una banca, ecc.

Il caso più caratteristico, che si verifica anche a

Milano, è quello dei nuovi quartieri nelle grandi città.

N e ll e c it t a d in e il C e n tr o S o c ia le si i n t e g r a c o n fu n z io n i più c o m ­ p le sse a d e r e n t i a lla v i t a a t t iv a d e g l i a b ita n ti. C e n tr i S o c ia li di a m p io r e s p ir o nei n u o v i q u a r t ie r i d e l le g r a n d i c it t à .

i l

(14)

La c u ltu r a , l'a s s is te n z a l o s v a g o s o n o d e i d ir it t i s e n z a c o n t r o p a r ­ tita . il C e n tr o S o c ia le r e a l iz z a una se­ r ie di a l t e r n a t iv e ; m a s o p r a t t u t t o la a l t e r n a t iv a a lla d is p e r s io n e d e lle a tt it u d in i c o m p le m e n t a r i. P o litic ità e a p o l i t i c i t à : il C e n tr o S o c ia le c o m e s c u o la d i d e m o c r a ­ z ia .

Terminata la relazione,

pagine seguenti.

Qui si arriva a presentare una vastissima serie di fun­

zioni: culturali, con una estensione che può arrivare

fino alla scuola secondaria, fino a biblioteche abbastanza

specializzate ; funzioni assistenziali ; di svago, con attrez­

zature sportive vere e proprie, campi di tennis, di bocce,

altre attrezzature polivalenti, come sale di riunione tra­

sformabili in cinema-teatro, sale da ballo, ecc.

Questi punti che progressivamente si sono venuti

identificando, e cioè cultura, assistenza, svago, dovranno

attuarsi attraverso l’autogoverno dei membri della

Comunità, cioè come cosa che nasce dalla richiesta e

dalla volontà della comunità stessa, e quindi non imposta

dall’esterno : essi vanno intesi come dei diritti che non

richiedono contropartita alcuna, dei diritti che sono

esercitati dall’individuo in modo assolutamente indipen­

dente dalla sua appartenenza o no a certi organismi,

ma esclusivamente in forza della sua appartenenza a

quella determinata Comunità.

In tal modo il Centro Sociale, oltre a presentarsi

come una integrazione del quartiere urbanisticamente

inteso, rappresenta l’alternativa ad una serie di altre

manifestazioni di vita sociale: esso è l’alternativa laica

alle organizzazioni parrocchiali e l’alternativa apartitica

al partito politico ; è, segnatamente, un’alternativa estro­

versa rispetto al vicinato, che è una manifestazione

introversa della vita associata, e rispetto all’osteria,

che in tanti casi è l’unico punto d’incontro della miseria

e della disperazione.

Ma ciò che è più importante affermare, è che il Centro

Sociale è un’alternativa alla dispersione delle attitudini

complementari dell’individuo; quelle appunto che gli

consentono di essere tale, anziché un semplice numero

da valutare in un determinato rapporto di produzione.

Rimane da chiarire che l’essere il Centro' Sociale

« apartitico » non significa che esso debba essere per

ciò stesso « apolitico ». Nulla di quanto fa l’individuo

associato può essere « apolitico » proprio perché la sua

qualità di « associato » riflette ogni suo atto nella

società che lo circonda, e viceversa. Perciò la ragione

stessa di vita di un Centro Sociale ne fa la sede per

eccellenza dove uomini e donne della Comunità portino

e dibattano con piena franchezza e libertà quelle idee

che per avere le loro radici nella posizione e nella

convinzione di ognuno assumono forza e veste politica.

Conoscersi aiuta a capirsi: e rivendicando 1’incontro

ed il dialogo come uno dei fermenti essenziali all’affer­

mazione della personalità, il Centro Sociale adempie al

più toccante dei suoi compiti, quello di autentica scuola

di democrazia.

l’arch. Gentili illustra brevemente i progetti pubblicati nelle

(15)

Arch. Carlo Ceccucci e Franco Marescotti

Centro Sociale « Grandi e Bertacchi » a Milano

La cooperativa « Grandi e Bertacchi » e nata nel 1951-52 ed ha sinora realizzato un complesso di circa 70 alloggi, dotati di servizi collettivi: altri fabbricati d’ abitazione sono di prossima esecuzione. Gli edifici furono realizzati in parte con la sovven­ zione statale, in parte con il contributo finanziario e di lavoro dei 900 soci. La proprietà è indivisa, cioè sociale: ad estinzione di un mutuo venticin­ quennale, i soci disporranno di un bene trasmis­ sibile, che si differenzierà dalla proprietà integra unicamente per l’ impossibilità di vendere ad altri a scopo speculativo.

Il Centro Sociale, che è gestito dalla cooperativa di consumo con personale in parte stipendiato ed in parte volontario, comprende i seguenti servizi:

bar, ristorante, giochi di bigliardo e bocce, grande sala di riunioni, amministrazione, biblio­ teca, gabinetto medico e asilo d’infanzia. La copertura dell’edificio è utilizzata per feste all’ aperto, balli ecc.

Sopra: Veduta d’assieme dall’alto. A destra in basso l’edificio del Centro Sociale con terrazza praticabile. Sotto: Il fabbricato a due piani contiene i servizi del Centro Sociale.

(16)

Il complesso edilizio di Lam- pugnano comprende due case d’ abitazione e al piano terreno i locali per usi collettivi. Esso è nato per iniziativa di una cooperativa edificatrice affiancata da una coo­ perativa di consumo con circa cinquantanni di vita, che riman­ gono distinte per ragioni ammi­ nistrative; questa ultima gestisce i servizi sociali a mezzo di per­ sonale in parte st ipendiato e in parte volontario.

I servizi sociali sono raggrup­ pati in un fabbricato ad un solo piano e comprendono:

il bar, una sala da bigliardo, una per banchetti con attrez­ zatura di cucina, campi per bocce ed un grande salone per riunioni e feste.

Sopra: Il Centro Sociale; in se­ condo piano le abitazioni della Cooperativa. A sinistra: La sala di riunioni.

Arch. Carlo Ceccucci e Franco Marescotti

(17)

Arch. Eduardo Vittoria

Centro Comunitario di Palazzo

Canavese

È la sede locale del Movimento Comunità, e risulta piuttosto ampia in rapporto al complesso edilizio del paese, che conta circa 700 abitanti.

L’ edificio si compone di uno spazio aperto e di locali destinati ai seguenti servizi: ambulatorio, segreteria associazioni sportive, bar, bagni pub­ blici, assistenza sociale, biblioteca.

Il salone serve per riunioni, feste, proiezioni cinematografiche, ecc.: in particolare le feste da ballo contribuiscono a sostenere le spe.se di gestione.

Nel Centro vengono anche tenuti corsi serali di qualificazione professionale (per muratori,' fale­ gnami, ecc.) ed altri di cultura generale.

Taluni servizi, come i bagni pubblici, sono nati in seguito a richieste locali, altri, come il gruppo sportivo, esercitano una notevole attrazione. Il servizio di assistenza sanitaria riveste molta impor­ tanza, dato che nel Comune non esiste condotta medica.

Sopra: Un particolare dell'edificio del Centro Comunitario sullo sfondo del paese. A sinistra: La biblioteca del Centro. Sotto: Il salone di riunione al piano terreno.

(18)

Arch. Luigi Figini e Gino Pollini

Progetto per il complesso dei Servizi Sociali Olivetti a Ivrea

Questo è il progetto presentato dagli architetti al Concorso appositamente indetto, e prescelto per l’ esecuzione. Il complesso sorgerà di fronte alle attuali Officine Olivetti e comprende quattro gruppi di servizi, riuniti in altrettanti edifici, e cioè il Centro Culturale, i Servizi di Assistenza sociale, la nuova Infermeria e l’ Ufficio del Personale.

Il Centro Culturale, con biblioteche, salone per mostre e conferenze, aule per lezioni, ecc. è destinato non solo ai dipendenti della fabbrica, ma è aperto a tutti i cittadini.

Il Servizio di Assistenza sociale contiene uffici per gli assistenti e magazzini destinati al materiale per le colonie ed agli indumenti di lavoro.

L’ Infermeria comprende ambulatorio, pronto soc­ corso, radiodiagnostica con sala di degenza tempo­ ranea, sezione di schermografia con archivi, reparti e laboratori speciali.

L’ Ufficio Personale operaio e laboratorio psico­ tecnico contiene un complesso di uffici per i fun­ zionari e i locali per esami collettivi e individuali.

Sopra: Veduta del plastico; in fondo lo stabilimento. Sotto: particolare del plastico.

(19)

Arch. Federico Gorio e Ludovico Quaroni

Progetto per il Complesso

dei Servizi Sociali Olivetti a Ivrea

Il progetto è stato presentato al Concorso indetto dalla Olivetti per la costruzione del complesso sui terreni antistanti alla fabbrica.

I servizi previsti comprendono: il Centro Cultu­ rale; i Servizi di Assistenza Sociale; l’ Infcrmeria; gli Uffici Personale Operaio.

Gli architetti si sono proposti di raggruppare i diversi servizi componendoli in un modo che si differenziasse rispetto alla fabbrica, così da sotto- lineare la loro funzione sociale.

Da un ingresso centrale, a forma circolare, si diparte una « strada » coperta e sopraelevata che si snoda collegando tutti i padiglioni destinati alle varie funzioni.

II terreno circostante è previsto a terrazze di prato, sotto alle quali sono sistemati i ponteggi.

Sopra: Veduta del plastico. Sotto: Il plastico; da destra a sinistra si distinguono: il Centro Culturale, il gruppo Servizi Ass. Soc., il gruppo Ass. Sanitaria, gli Uffici Personale.

(20)

Sopra: Veduta verso nord-ovest; al piano terreno della casa in fondo a destra si trovano i servizi di Assistenza medica e sociale. Sotto: Planimetria generale, con indicazione dei servizi collettivi.

Arch. Luigi C. Daneri, Luciano Grossi Bianchi, Giulio Zappa

Unità residenziale Bernabò Brea a Genova

Il quartiere di Villa Bernabò Brea è stato studiato con il criterio di unità residenziale cioè come un complesso di abitazioni corredato da servizi per l’Assistenza sociale e sanitaria, di Nido e Scuola materna, di Scuola elementare, di negozi e di locali ad uso collettivo. La maggior parte del terreno è stata qui mantenuta libera, e destinata totalmente ad uso collettivo, escludendo programmaticamente qualsiasi giardino od orto privato; la distribuzione degli edifici venne operata con il massimo riguardo ai valori ambientali, sistemando le zone libere fra le case a parco, con piscina e giochi per ragazzi e luoghi appartati con sedili allo scopo di creare le condizioni più favorevoli per la vita e gli incontri collettivi all’ aperto.

Lo spazio comunitario esterno, nel suo insieme ed in ogni sua parte, adempie così ad una funzione sociale, anche se non è possibile individuare in esso un « Centro sociale » inteso in senso puramente architettonico. Esiste invece uno spazio sociale che impegna tutta l’area libera, comprende impianti ed edifici speciali e si compenetra anche nelle case (negozi e assistenza medica e sociale).

(21)

Il dibattito

Dopo l’illustrazione dei progetti, si apre la discussione sulla relazione dell’ arch. Gentili e sulle due seguenti domande :

1. Si può pensare, ed in quale misura, che il Centro Sociale stia per diventare il nucleo tipico della società di domani ?

2. L’ edificio del Centro Sociale rappresenta una polarizzazione cosi forte da condi­ zionare profondamente una struttura urbanistica ?

Nella discussione sono intervenuti gli architetti Pat Crooke, M ilano; Gian­

carlo De Carlo

(presidente M .8 .A .), M ilano; Enzo Morpurgo, M ilano;

il dr. Piccar do Catelani (Ente Gestione Serv. ¡Soc. Case Lavoratori), Roma;

il dr. Mario Melino (Soc. Umanitaria), M ilano; il dr. Paolo Volponi

(

U .N .R .R .A .C .A .S .A .S . I

a

Giunta), Roma; la dr. Angela Zucconi

(

dirett.

Centro Educaz. Professionale Assistenti Sociali), Roma.

Enzo Morpurgo

Il problema che è stato affrontato

questa sera è abbastanza complesso,

e non credo che molti di noi abbiano

idee chiarissime in proposito. Vorrei

tentare, con la mia piccolissima per­

sonale esperienza, di vedere se è pos­

sibile impostare la discussione in

modo che oltre ad essere pertinente

al tema, valga anche a chiarire al­

cune perplessità, dubbi ed interroga­

tivi che io stesso e molti altri si

pongono.

In primo luogo penso che si debba

premettere la seguente osservazione :

quando parliamo di Centri Sociali,

non pensiamo all’unione di persone

appartenenti a tutte le categorie ; se­

condo il termine comune, per Centri

Sociali si intendono organismi di vita

associativa riferiti a classi popolari,

a parte certi esempi stranieri, gene­

ralmente scandinavi, che oggi ci inte­

ressano relativamente.

Il fatto che ci si rivolge a deter­

minate categorie sociali ha il suo

significato.

Giustamente Gentili diceva che il

Centro Sociale è una associazione di

persone legate da un interesse co­

mune.

Vediamo quali possono essere que­

sti interessi comuni: sono interessi

ricreativi, culturali, sportivi, econo­

mici, ecc.

M a forse c’è qualche cosa di più :

i Centri Sociali in Italia sono costi­

tuiti per gli operai, per le « classi

popolari ». Il C e n t r o Sociale per

questa categoria di persone deve

rappresentare uno strumento di de­

mocratizzazione, un organismo auto­

nomo popolare, non imposto dal­

l’alto, che serva per rendersi coscienti

della p r o p r i a qualità, dei propri

diritti di cittadino nell’attuale situa­

zione sociale.

Gentili ha parlato dei circoli socia­

listi : ecco una forma tipica di agglo­

merati umani spontanei, cioè nati

da esigenze comuni, autocontrollati,

autodiretti, autoamministrati.

Dal considerare questi organismi

come strumenti di elevazione della

coscienza civica deriva evidentemente

anche la maniera di concepire i pro­

getti che ad essi si riferiscono.

(22)

Questa sera non c’è stata una espo­

sizione critica di un progetto che

corrisponda a questi concetti. I pro­

getti presentati hanno tutti più o

meno le stesse funzioni distributive,

tutti hanno circoli di cultura, servizi

assistenziali, sale da ballo, locali per

i bambini, ecc. Però c’è qualche cosa

che dovrebbe differenziare questi or­

ganismi, e l’elemento che dovrebbe

differenziarli è il contenuto.

Abbiamo parlato di organismi po­

polari, cioè che si formano dal basso,

che si autocontrollano e la cui vita

e amministrazione è democratica; e

poi abbiamo avuto l’illustrazione del

Centro Sociale di Ivrea, che come

concezione e punto di partenza è

c o m p le ta m e n te diverso, anche se

forse non è diverso nei suoi elementi

formali.

Figini e Pollini da una parte, Ma-

rescotti dall’altra, provengono dalla

stessa formazione a r c h ite tt o n ic a ,

anzi da una stessa cultura architet­

tonica. Però i punti di partenza sono

profondamente, sostanzialmente di­

versi.

Il Centro Sociale Olivetti è davanti

alla fabbrica. Pare quasi che da una

parte ci sia il « lavorare » Olivetti

e dall’altra il

« vivere »

Olivetti,

rappresentato da questo organismo

che insegna a vivere in una deter­

minata maniera. Sarà la maniera

pertinente a queste classi popolari,

sarà proprio quella a cui queste classi

hanno diritto? Non lo so. Ma fino ad

oggi nella direzione della fabbrica

Olivetti non si ha la condirezione

operaia, e la gestione e l’amministra­

zione dei servizi sociali corrisponde

a questa situazione.

Evidentemente questa parola, Cen­

tro Sociale, e tutta la corrente di idee

che si muove intorno a questo con­

cetto si presta a degli equivoci :

mentre io sento che si deve inten­

dere un organismo popolare come

quell’organismo autonomo di cui par­

lava Gentili, — non spontaneo nel

senso della spontaneità plebea, ma nel

senso di una coscienza della propria

forma e dei propri diritti, nel senso

di un diritto di classe affermato dal

basso — mi trovo qui di fronte a

una posizione dall’alto, illuminata sì,

però sempre una graziosa concessione

che determinati organi o enti fanno

a determinate classi sociali.

Il fatto è interessante in quanto

questo elemento offerto dal di fuori,

che si può chiamare frutto del pa­

ternalismo e della social-democrazia,

è qualche cosa di sotterraneo, che si

ritrova in tutto lo svolgimento del­

l’architettura moderna. Il tema non

mi è ancora chiaro, ma sarebbe inte­

ressante sviscerarlo anche dal punto

di vista storico. In tutta l’architet­

tura moderna c’è da una parte l’in­

dividuazione di determinate esigenze

e necessità, dall’altra l’incapacità ad

indicare la strada per risolverle. C’è

una ambiguità nell’architettura mo­

derna, in questo rendersi conto di

certi fatti e in questo non saperli por­

tare in fondo conseguentemente, in

questo lasciarseli sfuggire dalle mani.

Ora è bene chiedersi : quàl’è la po­

sizione dell’architetto davanti alla

propria opera?

L ’architetto non progetta in base

a dei calcoli funzionali, a degli ele­

menti tecnici, o in base alla socio­

metría, ma elabora la propria opera

secondo qualche cosa che ha dentro

di sé, secondo l’atmosfera che lo cir­

conda.

Bisogna allora notare la differenza

fra l’architetto che elabora la sua

opera in questi termini e queste

opere che ci vengono illustrate, anche

se sul piano formale possono non

darsi differenze sostanziali.

Quali sono i contenuti che do­

vrebbe esprimere il Centro Sociale?

Sono dei contenuti di dignità, popo­

lari.

(23)

E ’ riuscito Marescotti? Il Centro

Sociale di Lampugnano è riuscito ad

esprimere questi contenuti di tipo

particolare legati ad una organizza­

zione popolare autonoma? Ritengo

di no.

La critica fondamentale che si può

muovere è quella di non aver saputo

uscire dal popolare nel senso plebeo

della parola, cioè il Centro Sociale di

Lampugnano ancora oggi è un Cen­

tro per case « popolari », case che la

gente in definitiva non vuole più, per­

ché, proprio nel Centro Sociale, va

acquistando la coscienza dei suoi di­

ritti, delle sue dignità di cittadino,

cui sono dovute case adatte alle sue

■necessità, non scadenti, non « popo­

lari ».

Gli abitanti delle case popolari lo

hanno scritto in fronte, e ne sono

stanchi.

Neanche qui dunque si sono rag­

giunti i risultati di cui si è detto. Ma

li raggiunge l’arch. Vittoria?

I contadini sono abituati ai tetti ; i

tetti sono l’elemento caratteristico

delle loro case, il tetto è proprio un

marchio della loro vita. E Vittoria

riempie di tetti il suo Centro di Pa­

lazzo. C’è qui addirittura il compia­

cimento della copertura. Questo stru­

mento dato ai contadini è adeguato

al contenuto che essi portano in sé,

al loro tipo di cultura? E ancora, il

tipo di cultura espresso nell’edifìcio

è conseguente a quei contenuti deter­

minati che nell’edificio stesso dovreb­

bero trovare la loro giusta espres­

sione?

Ne deriva un problema di espres­

sione formale. Sarebbe interessante

vedere sotto un aspetto critico i pro­

getti illustrati questa sera.

Angela Zucconi

Io volevo riportare la discussione

ad un punto ancora preliminare di

chiarimento, anche perché lo scopo

di questo incontro è di produrre un

certo scambio fra coloro che proget­

tano edifìci di Centri Sociali e coloro

che fanno un piano di attività da

svolgere in questi Centri, è auspi­

cano naturalmente che si realizzino

edifici concepiti con determinate fi­

nalità, anziché edifìci pensati a caso

o nell’equivoco, che tocca loro di su­

bire nelle loro ripercussioni pratiche

sulla vita e sul lavoro che nei Centri

si dovrebbe condurre.

Noi abbiamo molto discusso, nel­

l’ambito degli assistenti sociali, che

cosa intendere per Centro Sociale e

non verrò qui con una definizione

pronta in tasca. Mi richiamo però

ad un discorso che l’arch. Gentili ha

lasciato in sospeso quando, ricor­

dando molto sinteticamente alcuni

punti essenziali di quella che poteva

essere una storia dei Centri Sociali,

ha nominato la chiesa, il palazzo, la

fabbrica, il mercato, e poi ci ha par­

lato dei circoli, dei partiti politici,

della parrocchia, del vicinato, ecc.

Gentili evidentemente,

a questo

punto, sottintende dei bisogni.

Ora bisogna chiedersi a quale bi­

sogno corrisponde il Centro Sociale :

se il C.S. corrisponda per esempio al

bisogno di incontrarsi al di fuori di

una colleganza politica o confessio­

nale, e anche di una colleganza di

lavoro. Per questa ragione noi non

riteniamo che sia un Centro Sociale

un centro il quale raduni delle per­

sone per il fatto che vivono già una

stessa attività lavorativa, o — caso

analogo — perché condividono le

stesse opinioni politiche, la stessa

concezione religiosa, ecc. Quando noi

parliamo di C. S., parliamo d e llo

spazio modesto e limitato, legato a

un determinato territorio, nel quale

si incontrano persone che proven­

gono da diversi mondi politici, reli­

giosi, e da diversi mondi di lavoro.

Per questo, quando il relatore è

passato alla illustrazione di alcuni

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