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Centro sociale A.04 n.13-14. Inchieste sociali servizio sociale di gruppo educazione degli adulti

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Academic year: 2021

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____________________■ :

s e r v iz io s o c ia le di g e d u c a zio n e d eg li ad sv ilu p p o d e lla com

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Centro Sociale

inchieste sociali - servizio sociale di gruppo educazione degli adulti - sviluppo della comunità

a. IV — n. 13-14, 1957 — un numero con tav. alleg. L. 400 — abbonamento a 6 fascicoli e 6 tavole 7 0 X 1 0 0 allegate L. 2.200 — estero L. 4.000 abbonamento alle sole 6 tavole L. 900 — spedizione in abbonamento postale gruppo IV — c. c. postale n. 1/20100 — Direzione Redazione Amministrazione: piazza Cavalieri di Malta, 2 — Roma — telefono 593.455

S o m m a r i o

1 Disegno per una città

Paolo Volponi 4 Alla ricerca del proprio paese

Paolo Portoghesi 9 Introduzione allo studio di alcune comunità laziali

Italo Insolera 23 Considerazioni storiche sui centri residenziali della civiltà monastica

Leonardo Benevolo 42 Le comunità della Valsesia superiore nel ’ 600

e ’ 700 54 Documenti 59 Notizie

63 Estratti e segnalazioni

Gli ejidos messicani - Gli uomini degli ejidos - Lo spet­ tacolo in Italia - Un piano economico e urbanistico del XVII secolo.

Allegati

La Costituzione Italiana: V e VI. L’ ordina­ mento della Repubblica e le garanzie costitu­ zionali (tavola di Gianni Polidori, testo di Achille Battaglia e Marcello Capar so)

Periodico bimestrale redatto a cura del Centro Educazione Professionale Assistenti Sociali sotto gli auspici dell’ UNRRA CASAS Prima Giunta

Comitato di direzione: Achille Ardigò, Vanna Casara, Giorgio Molino,

Ludovico Quaroni, Giorgio Ceriani Sebregondi, Giovanni Spagnoili, Angela Zucconi - Direttore responsabile: Paolo Volponi - Redattore: Anna Maria Levi

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Disegno per una città

« Siché io intendo adesso di principiare il disegnio* della sopradetta

città; il quale disegnio avellerò: ”Avertiamo ”. E la città avelleremo: ” Sforzinda La quale hedificherema in questa fo'ima; et eleggerò il sito, il quale io ò già veduto et exuminuto più volte; et acciò, che tu ancora lo intenda, te lo descriverò per modo, che tu lo potrai intendere e vedere

chiaramente ».

« Il sito, ch’io ò visto, si è, che a me pare, che questa città sia ben

posta. Il luogo salubre, cioè sano, et anche fertile; e ameno al vivere humano si è questo; il quale al presente ti descriverrò. EU’è una valle, circúndala da monti; e dalla parte meridiana è monti sono più alti, in modo, che quello vento, il quale si chiama Austro, né Affriche, né Notto, non gli possono offendere (...). Quando la fonderemo, ti dirò, sotto che clima e pianeto e punto e hora, e tutto quello, che sarà mestiere inten­ dere, tutte le proprietà. — Io ti narrerò tutto questo sito, come egli sta

di punto, e quelli, che noi trovarne in questa valle; avisandoti, che tutta la cerchiai».

' « Et acchademi una ventura, che trovai un gentile huomo, il quale

era propinquo a quella valle; e più, che lui andava a un certo suo luogho, che lui aveva quasi a l’entrata d’esso, rilevato su uno monticello, che tutta quella valle si vedeva. Il quale mi fe molta accoglienza, e menomi a quella sua stanza, e volle, ch’io desinasse con lui. E desinato che noi averno, con molti e varìj ragionamenti, vedendo egli, ch’io avevo piacere di vedere questa valle, come gentile huomo disse: ” Montiamo a cavallo, che voglio venire con voi e mostrarvi questo luogo ”. Io, desideroso di sapere tutte le bontà et hutilità di detta valle, domandai, come si chiamava quello fiume, che correva per lo mezzo di detta valle. E lui disse, che si chia­ mava ” Sforzindo ”, e la valle si chiamava ” Inda ”. Il perchè molto mi piacque; et acceptai la proferta, che detto gentile huomo m’aveva fatta. E così in sua compagnia andai, vedendo questo sito e questa valle. In ella

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quale non era già terre grosse; ma molte ville, e luoghi da bestiame vedemo assai per questa pianura: buoi, e pechore, et altri animali; e ter­ reni lavorativi assai. Domandiamo la compagnia delle cose che si ricoglie­ vano in questa valle, se erano buone. Mi rispuose, che grano, vino, olio, zafferano, mele si ricoglievano migliori,, che in altro luogho, che lui inten­ desse; frutti bonissimi, carne da mangiare dimestiche e salvatiche, bello uccellare, et ancora di qualunque caccia che l’huomo si diletta. (■■■)» ■

« Come ho detto, questa valle é molto amena. La quale stimo, sia per

lo lungho circha d’ottanta stadi], cioè qualche dieci miglia. Acciò che tu intenda, quanto è uno stadio, sappi, che otto stadij sono uno miglio. Et lungho questa montagnia per spatio d’uno miglio viene questo fiume in questa valle di verso Oriente. E così circha di due miglia a l’entrare della valle fa una certa volta, quasi come una biscia; come vedrai qui per disegnio apresso. E poi si distende giù per la valle, pure dando alcune volte, ma non troppe. E le sue rive sono si ferme, che, piena che li vengha d’acqua, non le guasta; nè mai escie dal suo letto, chiaro e rilucente, che sempre si vede la ghiaia nel fondo. Pesci bonissimi produce. (...). Et più viddi uno luogho in questa valle, che, vedendolo così da lungha, mi piacque molto; perchè, quanto più mi ci appressimavo, tanto più mi piaceva. E questo era un luogo rilevato dal piano, il quale così a vedere pareva quasi un mezzo miglio, e non era però spicchato totalmente da questa montagnia, ma era atacchata da piè. Assai dolcemente si veniva aliarghando, e faceva un tale monticello ; intorno a questo gli circundava una selva, la quale era di giro di tre miglia incircha; e tutto pare a vedere una verdura. Domandando io il mio compagnio, che mi menava a vedere questa valle, mi disse, erano tutti allori, e faggi, e querce; e che nella sommità c’erano molti olivi, E più mi disse, che v’era una fonte abbondantissima d’acquei, la quale era chiarissima e bellissima. (...)■ Dis­ semi allora il compagnio: ” Se città alcuna si hedificha qui appresso, questa selva taglierassi ” . Lo gli risposi che no; perchè non era de’ legniame, che s’adopera a hedificare; e poi ancora gli sono questi monti inverso levante tante selve d’arbori apti a hedificare, (...) il perchè io stimo, che non si taglierà mai questa selva ».

« Ai veduto il sito; credo, come a me, ancora a te debba piacere,

E spetialmente sendo posta detta valle sotto buona aire, è fertile et abbon­ dante, come per sperienza si vede. Io t’ò detto, come io voglio (...) hedi­ ficare questa città, e prima fare il mio disegnio, il quale starà in questa forma e proportione ».

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« ... mia intentione non è di fare in esso, se non è d’ogni hedificio

uno, cioè d’ogni forma e d’ogni ragione d’edifici) ; chome una chiesa, et uno palazzo da Signiore, et uno da gentile huomo, et huno da officij, e case private. Uno gliene farò ancora d’alcuni hedificij, i quali intendo poi nella città hedif icore ; in modo, che ciascheduno gli potrà bene inten­ dere per misure e proportioni e qualità, secondo che a ciascheduno s’apar-terrà: tu il vedrai tutto squadrato imprima, e poi ogni hedificio al luogho suo posto ».

« Le mura prima ottanghulate saranno, grosse braccia sei; et alte

voglio che siano quattro volte, quanto sono grosse. Le porti saranno negli angholi non retti; poi le strade si partiranno dalle porte, et andranno tutte al centro. E quivi faro la Piazza, la quale sarà per lunghezza uno stadio, e pel largo sarà mezzo stadio. Et in testa sarà la chiesa cathedrale colle sue appartenenze. Dall’altra testa sarà la Corte, cioè il palazzo signio-rile; et anchova gli altri palazzi appartenenti, come quello del podestà e quello del capitano, con tutte le cose, che a loro s’appartiene. Sarà in mezzo della detta piazza una torre, fatta a mio modo; alta tanto, che per essa si discernerà el palíese. Poi faremo dall’un chanto all’altro della piazza due altre piazze; cioè una per li mercatanti, l’altra per fare il mer-chato delle cose medianiche, cioè delle cose; che bisogniamo per vivere. Et insù questa risponderà il palazzo del capitano; et insù l’altra rispon­ derà quello del podestà. Et poi distribueremo gli altri hedificij publici e privati, e così anchova chiese sechondo el luogho, che meglio parrà a noi, che stiano bene. E pòi nell’angholo recto per dirittura alla Piazza lasce-remo uno stadio di spatio per fare mercato di bestiame et anche d’altre cose, e questo sarà al canto, dove viene la chiesa. Et a dirittura della Corte lasseremo un’altro spatio d’altrettanta distanza, per cagione, quando scadesse fare alcune rapresentationi di feste o di giostre o d’alchuna altra cagione; come dire uno theatro anticho, cioè al modo anticho; benché oggi non s usano quelle magnificenze. Ma forse, che io ce lo farò pure a memo­ ria di quegli antichi. E compartiremo tutti è luoghi, ciascheduno secondo il suo essere. Credi ancora, quando noi hedificheremo, che con più dili­ genza e più cose assai noi faremo, che io non ti mostro nel disegnio; in modo, che credo, che molto più ti piacerà allora, che non ti fa adesso il disegnio; perché io ancora ò questo per uso, ch’io voglio sempre miglio­ rare l’opera, che è la mostra. Siche, se per questo disegnio io non t’avessi così sodisfatto nell’animo, non dubitare, che ti ristorerò nel fare d’essa opera.' Chè voglio, che ogni persona la commendi sommamente, e mera­ viglisi della bellezza di questi hedificij e d’essa città ».

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Alla ricerca del proprio paese

di Paolo Volponi

Gli scritti che compongono questo numero della rivista raccontano la storia di alcuni paesi e piccoli territori, vista soprattutto in rapporto alla loro organizzazione urbanistica, al loro svilupparsi, man mano che di nuove funzioni si arricchiva la vita umana che in essi si svolgeva.

Riteniamo che questa storia si inserisca esattamente nel filo dei discorsi che su Centro Sociale andiamo conducendo, sviluppandone anzi alcuni aspetti, in modo utile per i lettori e per il lavoro pratico che molti di questi dedicano alla ricerca dei motivi unitari per la organizzazione della vita sociale delle comunità con le quali sono a contatto.

Molto spesso, infatti, abbiamo proposto e sviluppato dei temi di discussione su problemi ritenuti comuni, dei quali abbiamo ricercato anche gli intimi motivi, che in definitiva coincidono con gli aspetti reali e più autentici — anche se più segreti — della vita di un paese, o di una zona.

Abbiamo varie volte parlato, direttamente o indirettamente, della famiglia, del vicinato, dei gruppi, cioè delle prime entità sociali alle quali la vita del singolo partecipa, e nelle quali deve avere possibilità di auto­ nomia e di integrazione.

Riteniamo quindi conseguente e necessario un discorso sul paese, che possa proseguire o approfondire quanto abbiamo già detto nel numeio dedicato all’inchiesta sociale (n. 5-6); anche perché questo discorso non ha i termini e gli accenti di una inchiesta sociale, che, per sua natura, dà dell’oggetto considerato un aspetto esterno, quantitativo, che, se pur colto dinamicamente, è però sempre in rapporto alla vita collettiva del- l’oggetto-paese, dell’entità considerata.

Il discorso che oggi presentiamo può sembrare poco attuale, poco aderente alla realtà delle nostre esigenze, perché parte da molto lontano e riguarda essenzialmente l’aspetto storico della vita di un paese, muoven o addirittura dalle fondazioni, o dalle prime trasformazioni del corpo del paese. Ma questo discorso diventa in realtà subito nostro, perché illusila alcuni fondamentali aspetti del rapporto fra l’uomo e il paese, chiarendo soprattutto la possibilità di iniziativa che ciascuno ha nei confronti del proprio paese, la sua possibilità di costruttore e di arbitro, che va con­ siderata come conseguenza ed in relazione a quella usata dagli altri m passato.

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Uno dei nostri compiti è infatti quello di riuscire a ordinate i temi della vita presente, di riuscire a muovere cioè un certo progresso sociale, tenendo conto esattamente di tutte le possibilità di aggancio consentite dalla tradizione. In una società come la nostra, assai agitata, dove ciascuno è spesso solo, e dove ciascuno, ogni giorno di fronte ai suoi problemi, sembra essere nuovo, questo è un compito assai importante e difficile, che richiede tutto l’impegno della nostra intelligenza.

Riteniamo che oggi gran parte della gente subisca il paese in una condizione di inattività o di sfiducia, con la rassegnazione di aver perduto la possibilità eroica di costruire, di modificare, di trasferire, di conqui­ stare. In realtà, noi non sappiamo più con precisione come viva fìsica- mente un paese, e non interveniamo più su questo aspetto della sua vita; lo conosciamo poco e non lo sentiamo più come una nostra creatura, ma soprattutto come luogo di pene e di affetti, e come un dato esterno, fisso, non modificabile.

Con questo discorso, non vogliamo certo dire agli assistenti sociali di muovere la gente a dar mano a pale e picconi per modificare o trasfe­ rire il paese ; vogliamo però dire che è opportuno ricordare agli uomini che i paesi non sono discesi sulla terra insieme alle rocce e agli alberi, ma sono una esigenza umana, una costruzione di centinaia o di pochi anni, allestita dall’uomo per diverse ragioni della sua vita^ ricordare che altri hanno potuto avere l’avventura meravigliosa di scegliere il luogo dove far sorgere le loro case, in modo da formare un paese, presso un fiume, in cima ad una collina, al margine di un bosco.

Non è azzardato dire che la nostra società soffre, pur con la sua mostruosa capacità tecnica, di un senso di impedimento, perché non sviluppa più — di pari passo — un ordinato rapporto con i suoi territori e con i suoi paesi, perché non lavora nell’equilibrio, perché ha; perduto in gran parte delle coscienze un senso di paternità e di avventura nella formazione del proprio destino.

Molti uomini sono quasi costretti a una vita di occasioni, a eserci­ tare facoltà « minori », ad esplicare il loro arbitrio soltanto nella scelta deH’appartamento da affittare, se possono ; altrimenti, ancora più sprov­ veduti, rientrano nella massa per la quale è già stata stabilita rassegna­ zione degli alloggi. Sembra che l’uomo abbia delegato troppe cose alla società (o, forse, è la società che gliele ha strappate di mano). Comunque, resta privo di troppe cose; soprattutto della possibilità di iniziativa e quindi di cultura, cioè di una costante e moderna possibilità di inter­ pretare la realtà e della possibilità di intervenire a modificarla. E’ neces­ sario perciò che comprenda il senso e i limiti della delega che ha concesso alla società per togliersi i rischi dell'avventura e della completa solitudine.

Ora, proprio i discorsi seguenti possono servire come invito ad una azione che riproponga gli umili temi di una appartenenza al paese, il senso quindi di una tradizione, sul quale fondare quello dell’iniziativa e della nuova avventura.

Gli ultimi avventurosi sono mossi dall’esasperazione di un problema individuale a costruire da soli, perché sono realmente fuori dalla società

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moderna, nella ricerca di un punto fermo al loro stesso senso di insicu­ rezza; oppure, emigrano senza idee e obbiettivi, solo con dei ricordi e risentimenti. In entrambi i casi domina un vecchio senso di solitudine e di ribellione, che, come ben sappiamo, costituisce l’obbiettivo della nostra azione.

La comunione delle idee, l’iniziativa da assumere con altri, il problema comune, cadono purtroppo nella folla del cinema, dello stadio, dei tele- spettatori, dei fanatici di canzonette; tutt’al più nel partito politico, che però non richiede attività e pensieri, accontentandosi di una tessera. La affermazione è lasciata al momento di suggestione che uno ha di fronte al film di avventure; la propria incapacità è surrogata dalla forza dei pionieri, e la propria solitudine dalla organizzazione sociale del paese o della banda alla cui vicenda si partecipa. Questi facili e, purtroppo assai spesso, falsi modelli, illudono e opprimono ciascuno e le folle, che restano nell’ombra in passività. A questi modelli noi dobbiamo sostituirne altri più veri, che riconducano la gente in una posizione di compartecipi, di interessati, di eredi e di attori, nell’organizzazione della vita propria e altrui.

Più volte abbiamo detto che del cinema e degli altri mezzi — i quali nel vocabolario delle nostre intenzioni abbiamo definito come audio­ visivi — possiamo servirci noi stessi con l’avvertenza della discussione e della critica; cioè muovendo una reazione che consenta al pubblico di scegliere, di stabilire un limite, che gli consenta quindi lo stimolo di una lezione accettata. Potremo, in un centro sociale, proiettare un film western, sui pionieri impegnati nella fondazione di un paese, ma, prima e dopo, dovremo discutere con gli spettatori, e trovare le occasioni e gli interessi per giungere a parlare del nostro paese di ieri e di oggi.

Ecco allora che gli articoli di Benevolo, di Portoghesi e di Insolera diventano strumenti chiari e indirizzi precisi per una azione e una ricerca del genere, per un facile e comprensivo insegnamento della storia, neces­ saria a stabilire queU’interesse ordinato che è il momento di passaggio tra la tradizione e il progresso, e che coincide con la formazione di una coscienza storica e sociale. Dobbiamo ritrovare nei nostri bellissimi paesi la interessante storia di miracoli, di lotte, di banditi, di costruttori, di feste; ritrovare tra le loro mura di rocche, di cattedrali, di fattorie, il segno della nostra stessa umanità, un momento del nostro stesso cam­ mino. E questo, non per un senso retorico, non per giustificarci a restare in un paese che non dà lavoro; ma proprio per ordinare i motivi delle nostre difficoltà, per ritrovare la forza e i suggerimenti utili a organiz­ zare meglio il nostro presente.

Abbiamo pubblicato nel numero scorso di Centro Sociale un « mon­ taggio » sulla emigrazione, ed anche quella era proprio una pagina di storia dei nostri paesi, ancora oggi travagliati dallo squilibrio tra il peso demografico che sono costretti a sopportare e le fonti di vita possibili. Appariva chiaro nei documenti citati, che il paese era sentito quasi esclu­ sivamente con una esagerata forza affettiva e che finiva per costituire un impedimento. E’ certo, che se non si conosce la realtà del proprio paese, se non si ha la possibilità di muoversi in esso e di agire nei suoi confronti, assai difficilmente tali possibilità ci saranno date altrove, e assai

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difficilmente altrove potremo trovarci meglio. E’ noto il fenomeno delle comunità di emigrati che dopo molti anni non sono ancora integrati nel nuovo paese, che restano chiusi e diffidenti, tenuti insieme da un ricordo mitico del primo, espresso con esasperazione, con dei motivi ingigantiti al di fuori di ogni realtà.

Il primo paese resta una immagine falsa e retorica, che impedisce di vedere bene la faccia del nuovo; resta un affetto e una pena non superati che vietano uno sviluppo completo dei nuovi sentimenti, della nuova vita. Vive una folla emotiva, tenuta insieme da un ricordo sbiadito, nella cui vita il magico e il superstizioso prendono il posto del reale e della cosciente responsabilità.

L’emigrazione odierna è ancora una fuga, che si diriga a Roma o verso i grossi centri industriali. Una volta giunti nel mare degli abusivi, viene immediatamente cancellata ogni impronta paesana, quasi per togliersi da una condizione di inferiorità, ma anche perché il paese non esisteva più come realtà.

Le campagne più interne e scoscese delle zone montuose dell’Appen- nino si vanno spopolando. Non vi è più una forza economica sufficiente e non vi è più la possibilità per un minimo di organizzazione sociale : la gente è isolata, affaticata da un lavoro improbo, senza più rapporti o soffocata in schemi angusti di vita, vecchi di generazioni, avvilita dalla mancanza dei più elementari servizi che consentano un vivere civile. I giovani, scendendo ai mercati, facendo il servizio militare e pochi altri 'viaggi, hanno visto il mondo affascinante e migliore delle città ; sono stati colpiti dalle strade luminose, dalla ricchezza degli spettacoli, dalle occa­ sioni, dalla possibilità di cambiare mestiere e quindi rifiutano risolamento della loro casa, la fatica durissima di un lavoro che li lascia senza denaro e senza scampo; quindi emigrano. Fuggono a Roma o in un’altra città. Là sono dei clandestini, degli abusivi che non possono ottenere la resi­ denza, un alloggio, il libretto di lavoro, nulla. Ma, come abusivi, hanno il vantaggio di una clandestinità che consente loro rapporti di lavoro al di fuori dei normali contratti, di abitare in una borgata senza pagare affitto, in una casa propria costruita abusivamente, senza obblighi verso chicchessia. Lavorando in questo modo, e impiegandosi le donne a ser­ vizio, la famigliola che fino allora aveva soltanto i frutti del proprio campo e pochi soldi, riesce a guadagnare ottanta e anche centomila lire al mese : una somma mai vista, che porta la ricchezza, addirittura l’esplo­ sione di una felicità assolutamente nuova.

Allora dimenticano il paese o lo ricordano con disprezzo, e, immersi nel mare delle migliaia di abusivi che stanno con loro e intorno a loro, perdono ogni' legame con il paese e con la sua tradizione; cioè ogni norma civile, come quella che avevano per il fatto di fare quel lavoro sul fianco della montagna e di vivere in una determinata contrada legati ai vicini. In quindici giorni l’emigrato è assolutamente solo e nuovo, e non ha niente dietro di sé, se non un mito dolente o un risentimento. E come lui, tutte le altre migliaia fluttuano scompostamente, premendo alla periferia della città, senza riuscire a trovare uno schema di vita, una organizzazione. Su di loro ha gran presa la facile aggressione del cinema,

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della cattiva stampa, di una qualsiasi divinità corrente. Sicché questa gran folla in poco tempo è tutta uguale, ha le stesse parole, gli stessi modi di comportarsi, gli stessi vestiti. Non ha però, anche per la spropositata larghezza della sua dimensione, alcuna possibilità di rapporti, di una ripresa sociale, in definitiva di costruire la sua vita insieme a quella degli altri.

Probabilmente, se ciascuno di loro avesse potuto in precedenza conoscere meglio la storia del suo paese, cioè gli schemi e i motivi della vita sociale, potrebbe, sulla base di questi, ritrovare con gli altri un con­ tatto più ordinato, una possibilità più concreta di intesa, la forza comune di una iniziativa.

Ci sembra che per tutti questi motivi la lettura degli articoli di questo numero possa dare un reale contributo al nostro lavoro, conside­ randoli come dei mezzi per aiutarci a preparare i nostri discorsi, mate­ riale che va trasformato e adattato ai nostri scopi, che non sono appunto quelli di trasmettere qualcosa o di indicare solo i termini di un problema : ma quelli di cercare insieme agli altri e di vedere quanto della nostra vita e dell’altrui è determinato da questo problema.

Pertanto è necessario che i nostri discorsi risultino semplici e chiari, suggestivi e divertenti, senza però svilirsi perdendo la carica di onestà e di verità; senza cioè mai porsi al livello dei discorsi troppo abboccati, facili e troppo graditi.

La cultura epidermica di diffusione fa proprio sui paesi i discorsi più falsi1 e zuccherati ; decanta i paesi sempre « belli, dolci, miti, sereni », con gl’intatti focolari domestici, un senso calmo di vita rurale fatto di intrecci scherzosi e di piccole beffe, con l’aria sempre piena di campane, di canzoni, d’ottimismo e di buona salute. E’ una farsa orribile che ogni giorno viene recitata contro le fatiche di popoli interi : ricordate per un momento i fìlms della serie di « Pane, amore, e... » sino all’ultimo « Nonna Sabella ». Queste deformazioni, questa accanita negazione della realtà non giova a nessuno e le stesse popolazioni dei paesi per un’altra volta ancora si rifiutano di capire, chiudendosi ancora di più in quella ribellione cui si accennava all’inizio, vista l’impossibilità anche di essere capiti ed aiutati. Allora ritorna il desiderio di fuggire, anche se in alcuni paesi vi sarebbe la possibilità di vivere e di prosperare.

Un’altra cosa che noi dobbiamo tenere presente è che i paesi oggi stanno subendo una grossa rivoluzione : la loro tradizionale cultura, gli schemi tradizionali della loro vita, sono stati bruciati dalla rapida possi­ bilità di comunicazioni, dal fatto che nello stesso istante, nei loro caffè o ritrovi, come in tutti quelli di Roma o di Milano, vengono viste e ascol­ tate le stesse cose. Questa grande scossa che viene data alla nostra strut­ tura sociale deve poter essere controllata perché possa ristabilirsi un equi­ librio, anche sulla base di tutto quello che della vecchia struttura sociale e del vecchio costume è giusto salvare, e l’unico controllo efficace sarà quello che potrà venire dal giudizio di tutti.

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‘ Introduzione allo studio

di alcune comunità laziali

di Paolo Portoghesi

Se c’è qualcosa che dà ai paesi del Lazio, al di fuori di ogni schema­ tismo, un interesse particolare, una singolarità di valori da indagare, que­ sto può essere la mancanza di im­ provvisi mutamenti, di fratture sensi­ bili, che ne caratterizza la cultura.

Quasi dovunque, qui esistono le con­ dizioni ambientali delle « zone depres­ se » ; ma se confrontiamo la storia politica del Lazio con quella del Sud ci troviamo di fronte a due situazioni profondamente diverse. Manca quasi completamente qui, per ragioni atavi­ che o per effetto piuttosto di una si­ tuazione difficilmente controllabile, l’elemento di protesta, di rivolta so­ ciale. Se si eccettuano i casi, d’altron­ de sporadici, dei centri in cui l’occu­ pazione industriale è venuta acqui­ stando un peso predominante, si ha l’impressione che in questa regione la classe contadina vada acquistando coscienza di sè, della sua forza, gra­ dualmente, faticosamente, senza slan­ cio.

Ancorata saldamente a una conce­ zione realistica della vita e della so­ cietà, la gente di qui diffida per na­ turale ritrosia da miti e vagheggia­ menti idealistici o, almeno, non sa aderire che molto superficialmente alle proposte di una qualsiasi « reto­ rica ».

Il progresso, la trasformazione, l’ag­

giornamento, procedono dai fatti e dagli oggetti della vita quotidiana, dal costume e dal gusto. Si potrebbe concludere provvisoriamente che nel paesaggio umano del Lazio va ricono­ sciuto uno specchio meno chiaro e b r illa n te , ma straordinariamente sensibile, della crisi della civiltà con­ tadina, un terreno d’ascolto adatto per cogliere di questa crisi certi mo­ tivi meno evidenti ma più sottili.

Non arriveremo a dire che per tro­ vare un controaltare alle biografie dei contadini del Sud, raccolte da Rocco Scotellaro, convenga ricorrere alle pa­ gine della « Ciociara » di Moravia. Tuttavia, se un lavoro come quello di Scotellaro si potesse fare e da parte di una coscienza altrettanto vigile e impegnata, pensiamo che i risultati darebbero la misura di una sorta di ritardo o meglio di sfasamento, d’al­ tronde interpretabile in mille modi diversi.

Equilibrio, prudenza (o pigrizia se si vuole) rassegnazione, adattamento : questi sono i termini di una realtà che si sarebbe tentati di considerare fuori della storia se non ci si accorgesse poi che la storia d’Italia deve maturare proprio su questo umile terreno.

All’interesse particolare che emerge da queste osservazioni, nel proporre una lettura sistematica di questo pa­

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trimonio civile, conviene aggiungere un richiamo all’interesse proprio di un avvicinamento operato in un mo­ mento, come è quello che stiamo vi­ vendo, veramente cruciale per la sto­ ria della civilità contadina.

Più di dieci anni fa, la guerra fini­ ta, spezzando equilibri ormai troppo tesi, portò crudamente una prima do­ manda di ridimensionamento econo­ mico e sociale. La città, allora, costituì la valvola di sicurezza di un moto irre­ quieto di emigrazione. Nel caso del Lazio, Roma, con la sua scala diver­ sissima, rendeva ancor più dram­ matico il confronto tra due modi di vivere quasi inconciliabili. La città fu per molti il mito, l’avventura; per altri la sola speranza di sopravvivere.

Ora, a distanza d’anni da questo cedimento improvviso, un nuovo equi­ librio va ricomponendosi, sulla base di qualche riforma di struttura e di un relativo progresso delle tecniche agricole; ma contemporaneamente il richiamo picologico del mondo della città si fa sempre più forte, acquista nuovi strumenti di penetrazione.

La radio, il cinema, la televisione sono le tre tappe fondamentali di un processo di intensificazione delle co­ municazioni tra città e paese, dive­ nuto addirittura vertiginoso. In tal modo ogni distanza fisica e psicolo­ gica è minimizzata.

La conseguenza più forte di questo fenomeno è senza dubbio la impossi­ bilità di sopravvivenza di ogni equili­ brio basato sulla segregazione e sulla ignoranza, la necessità, sempre più urgente, di un dialogo definitivo.

La continua presenza della « cultu­ ra della città » nei suoi prodotti più rozzi se si vuole, ma più spontanei e totali è il fatto veramente nuovo che caratterizza questa stagione, anche nei confronti di quella immediata­

mente precedente, l’elemento che po­ trà essere, a seconda della reciproca consapevolezza, beneficio o danno, strumento di incomprensione o di armonia.

Oggi un contadino del Lazio, del Vi­ terbese per esempio, abituato al pae­ saggio così caratteristico della sua terra, dove agli ondulati deserti pia­ neggianti si contrappongono le strette forre verdi, rappresentando, nel con­ trasto dimensionale che ne deriva, l’isolamento di ogni presenza umana e quel senso di disarmante fragilità che ci fa sentire fibra docile dell’universo, può d’un tratto, di fronte all’illusione di uno schermo, sentirsi sollevato su un aereo a reazione, con sotto di sé, mettiamo, il paesaggio americano con la sua scala tutta diversa, con quel suo taglio gigantesco, che da una cer­ ta altezza suscita una idea di dominio, di avventura.

Alle capacità di persuadere, alle proposte di evasione del cinema, s’è aggiunta ora la forza rappresentativa della immagine televisiva, che ha il fascino della contemporaneità, oltre che il carattere intimista di un appun­ tamento che si ripete a giorni e ore stabiliti. Se il cinema ha impiegato molti anni prima di raggiungere una completa diffusione anche nei piccoli centri, la televisione non ha avuto bi­ sogno di nessun periodo di incubazio­ ne; essa è già, dopo appena cinque anni dai primi tentativi, un servizio generale e i suoi programmi sono se­ guiti perfino con trepidazione dovun­ que i segnali sono intercettabili con qualche chiarezza.

Queste parole di premessa su un possibile interesse specifico di una lettura sistematica dei paesi del La­ zio, non ci sembrano del tutto inutili. Osservare e studiare questi insedia­ menti, fermandosi magari a cin- quant’anni fa, sentenziando

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semplici-sticàmente che da allora il corpo si è ammalato, magari irrevocabilmente, più che un errore di prospettiva, è una preziosa occasione mancata. Occorre convincersi che per avvicinare qual­ cosa della passata realtà di queste isole il modo migliore è ancora quello di ascoltare con fiduciosa pazienza la vita di oggi e di isolarne e studiarne le espressioni autentiche.

I motivi di interesse urbanistico dei paesi del Lazio, rispecchiano chiara­ mente ciò che abbiamo accennato. Equilibrio, metodo, spirito di adatta­ mento (o di compromesso, se si vuole) caratterizzano piani, iniziative civiche e strumenti legislativi attraverso i quali queste divengono operanti. Gli urbanisti — e certo ve ne furono — che organizzarono gli insediamenti medioevali del Lazio possedevano una tecnica formidabile di operazione, so­ stenuta forse anche da una precisa morfologia. Lo schema a cuneo, ad esempio, che sfrutta le caratteristiche penisole rocciose immerse nelle stret­ te valli, realizza un tipo quasi perfetto di « arce » facilmente difendibile, con il castello posto a guardia dell’unico lato debole del triangolo. Questo tipo venne applicato molto frequen­ temente ma senza monotonia, seguen­ do un tracciato quasi costante con la strada centrale, frequentemente af­ fiancata da due parallele minori da cui si diramano a spina corte traverse di servizio, non di rado aperte sull’oriz­ zonte libero della campagna circo­ stante.

Su questa giacitura organica, doci­ lissimo si adagia il tessuto delle case d ’ abitazione, che procedendo dai centri più poveri della campa­ gna verso quelli più ricchi e autono­ mi del viterbese, diventa più strut­ turato raggiungendo forme sperimen­ tate che portano a una tipizzazione per niente rigida ma chiarissima (Vi- torchiano, Barbarano, Vignanello).

Il comune feudale con le sue istitu­ zioni che pongono di fronte su un pia­ no di eguaglianza la comunità orga­ nizzata e cosciente e il dominus con la sua limitata potestà è un momento caratteristico della storia laziale. I celebri statuti sembrano esaurire nel­ la loro essenzialità i termini della vita che si svolge all’interno dell’isola. Cia­ scuno accetta coscientemente un ordi­ ne comprensibile, immediato, gene­ rato spontaneamente dalla struttura particolaristica e familiare della so­ cietà. E’ l’autocontrollo che procede dalla sfera individuale e si estende alle maglie di una primitiva struttura sociale.

Lo schem a urbanistico chiuso, ampliabile solo con lo spostamento di alcuni degli organi fondamentali del­ l’insediamento era commisurato alle modeste possibilità di sviluppo di questi nuclei basati su servizi econo­ mici ben definiti. D’altra parte il nu­ cleo bloccato, con la piazza e la chiesa decentrate verso l’ingresso, spesso unite in un solo complesso volume­ trico con il castello, costituisce un tema suscettibile di sviluppi ricchis­ simi e imprevedibili, come dimostra l ’ estrem a varietà del profilo e del ritmo plastico di questi paesi che sorgono adagiati sulle rupi pietrose, quasi a continuarne, con altra finezza, il discorso spoglio, introducendovi una componente geometrica, una vi­ brazione più fitta e continua capace di dare appunto il senso della pre­ senza dell’uomo, e della sua durata. Il Rinascimento e l’Età barocca a questo equilibrio primitivo ma sostan­ ziale sostituirono un equilibrio di compromesso, la politica delle grandi famiglie romane alternava episodi di illuminato fervore a episodi di poco lungimirante disinteresse o addirit­ tura di accecata crudeltà.

Più tardi la politica agraria del governo pontificio non riuscì mai a risolvere veramente i grandi problemi

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L ’abitato di Cammanano. La vicinanza della città non ha influito in modo decisivo sulle sorti del paese che conserva abitudini e tradizioni molto salde. L ’interesse urbanistico di Campagnano è nelle fasi del suo sviluppo, chiaramente leggibili anche in un esame affrettato. Davanti al nucleo più antico isolato su tre lati si è andata gradatamente formando con successive appendici l’insediamento attuale; di conseguenza la parte estrema ha perso sempre p iù d’importanza ed è stata abbandonata.

del territorio e a periodi di relativa prosperità si alternarono sempre mo­ menti tragici di carestia.

Ai primi anni dell’Ottocento si fer­ mano le ultime iniziative edilizie di qualche- rilievo. Il fervore del tempo di Pio IX interessa soltanto qualche paese dei colli Albani e della costa tirrena. Poi cominciano gli anni di letargo e di incertezza fino a raggiun­ gere l’età dei giardinetti e dei monu­ menti ai caduti che ci porta alle soglie della nostra stagione.

Vediamo ora di esaminare qualche esempio concreto che riducendo lo schematismo frettoloso di queste os­ servazioni ci avvicini realmente ai

problemi di questo mondo che vo­ gliamo osservare. Il nostro breve iti­ nerario sarà niente più che una pro­ posta di lavoro, una apertura appena tentata su un quadro di una disar­ mante complessità.

Campagnano può servire abbastan­ za bene ad introdurre il discorso. Si tratta di una cittadina di 3.500 abi­ tanti, di lontana origine etnisca, di­ stante da Roma una quarantina di chilometri, abbastanza lontana dalle grandi vie di comunicazione; uno dei primi insediamenti che si incontrano allontanandosi dalla città verso nord nel paesaggio desolato della Cam­ pagna.

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Campagnano fu un tipico comune feudale e le sue istituzioni ammini­ strative si mantennero vive e fun­ zionali fino al Settecento. La attrat­ tiva maggiore di questo paese consiste nella leggibilità del suo organismo, nella possibilità cioè che offre il suo tessuto edilizio di ricostruire le fasi di uno sviluppo lento e costante che procede da più di dieci secoli.

Il paese visto in planimetrìa ha una forma molto allungata con due ingrossamenti, uno all’orlo estremo dello sperone su cui si adagia e l’altro al centro pressappoco dell’abitato at­ tuale. In questo punto terminava l’in­ sediamento medioevale quando aveva raggiunto la sua massima espansione e qui sorgeva il castello a difendere il solo punto non naturalmente mu­ nito. Nei primi anni del Seicento lungo la strada che collegava il nucleo con l’esterno fu programmato un ampliamento. Il raccordo tra le due parti fu risolto con l’apertura di un grande spazio trapezoidale che di­ venne la nuova piazza del paese. Il nuovo ingresso fu più tardi segnato da una grande porta di linee elegan­ tissime coronata da un caratteristico fastigio di ferro battuto, elemento costante nelle analoghe e coeve siste­ mazioni urbanistiche di tutta la re­ gione.

Chi ha la pazienza di percorrere tutto il corso dal tratto largo e diritto di questa parte nuova a quello stretto

e tortuoso dell’antica, avrà la sorpresa di trovarsi di fronte a una serie di soluzioni di raccordo di una straor­ dinaria raffinatezza. L’innesto tra la piazza e la via medioevale è realizzato con l’apertura di un altro piccolo largo che segna il trapasso di scala riducendo i contrasti e riequilibrando la sequenza. Procedendo avanti si arriva alla piazza della chiesa, aperta da un lato verso il paesaggio libero; qui sorge il mirabile campanile, co­

struito nei primi anni del Seicento, tanto agile da ricordare i celebri mo­ delli piemontesi di un secolo dopo.

Questo perno verticale segna un altro scatto meno sensibile. Dopo la piazza infatti la strada si fa più stretta e le case intorno più basse fino a che il tessuto non si smaglia lasciando quasi isolata, verso il ter­ mine del poggio, l’abside bellissima della chiesetta romanica della Pietà. Il paese finisce qui, ma al di là fino al termine del poggio si vedono ancora chiaramente le tracce delle antiche case che formarono il primo nucleo dell’abitato. Ora i muri che sporgono appena dal terreno sono sfruttati per limitare le gabbie dei maiali che sono qui in grandissimo numero, raccolti in un vero e proprio villaggio.

Un diradamento analogo ma meno radicale dell’edilizia si ha nell’altra sporgenza, a lato della piazza, dove il terreno ha un declivio più dolce verso il fondo della valletta.

Al di là della porta nuova si dira­ mano tre strade che raggiungono Roma in tre direzioni diverse. Lungo queste direttrici si è svolta l’espan­ sione ottocentesca fatta di piccoli edifìci un pò slegati ma costruiti con estrema cura. Qui ancora seguita a svilupparsi l’abitato, oltre che lungo un asse tortuoso che costeggia la val­ letta a ovest del paese. Da un punto di vista urbanistico questa espansio­ ne è incerta e disordinata, ma unità, e un legame stretto con il centro, le conferisce la dignità dei nuovi edi­ fici che mostrano, a parte qualche ec­ cezione, una « resistenza » alle forme importate dalla città pur tanto vicina e presente, dovuta alla umile forza di una salda tradizione artigiana. A Campagnano il mestiere del mura­ tore è ancora l’arte del muratore; lo potremo dimostrare con qualche im­ magine dei muri di queste case venute su in questi ultimi anni, eseguiti con

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una perizia che lascia trasparire un equilibrio sociale teso forse ma non spezzato.

L’immagine che si può derivare da questi, brevi appunti sarebbe pia­ ciuta a Ruskin, forse. Certo questo paese in cui la vita si spegne grada­ tamente a mano a mano che ci si inoltra verso la parte più antica, fino a presentarci lo spettacolo di un di- sfacimento tanto evidente, perfino brulicante di parassiti, somiglia mol­ to a una immagine organica. Gli abi­ tanti di qui possono vedere in faccia la morte del loro paese che avanza metodicamente, perché tutto avviene secondo una logica ferrea. Le case più antiche sono meno stabili e più oscure ed è giusto che l’aspirazione comune sia di spostarsi verso la parte nuova o addirittura di uscire dal vecchio recinto.

Una delle attrattive del paese, co­ me entità urbanistica, nei confronti della città, è proprio in questa sua mancanza di inerzia, in questa sua assoluta docilità. Il paese è quasi sempre una forma aperta e gli avve­ nimenti che lo toccano incidono nella sua vita nella esatta misura del loro valore. La città, organismo abnorme in continua crisi di rinnovamento, rifiuta le leggi della organicità e nella sua illogicità riafferma la libertà del­ l’uomo, la sua capacità di opporsi a un ritmo naturale.

La lezione di Campagnano potrebbe essere arricchita da sfumature e resa più complessa, ampliando l’indagine a centri come Barbarano, Formello, San Vito Romano che presentano analoghe caratteristiche di disfaci­ mento.

Quest’ultimo presenta una discon­ tinuità più netta tra la parte medie­ vale in discesa su un poggio espo­ sto a occidente e il borgo Mario che si estende sul dorso di un colle fatto

spianare nel 1649 per iniziativa del Cardinale Theodoli. In questa secon­ da parte il succedersi degli intonaci chiari su una compatta superficie muraria, legato a una sapiente tra­ dizione artigiana, ancora vivissima, crea un discorso piano e continuo che non cerca alcun accordo consapevole con quello altrimenti articolato e ricco di imprevedibili divagazioni del nucleo più antico. Il solo elemento di continuità sono le episodiche riprese di intonaco che in coincidenza con le edicole sacre interrompono le pareti di calcare che cingono le strade me­ dievali.

A San Vito come a Campagnano sono evidenti le tracce di una inizia­ tiva dall’alto, esempi tipici di un mas­ siccio intervento urbanistico che ha dato chiarezza e struttura salda a un moto di espansione che facilmente poteva degenerare in un irrisoluto conflitto di elementi. Al decadimento della primitiva coscienza sociale e co­ munitaria che aveva creato la mira­ colosa armonia degli ambienti medie­ vali, con molta previdenza e coscienza dei suoi mezzi, l’età barocca sostitui­ sce un ordine geometrico pronto a venir a patti con l’irregolare, ad adat­ tarsi ai suggerimenti della natura e della storia. Atteggiamento che ri­ specchia fedelmente l’articolazione più complessa e mobile e la contempo­ ranea perdita di coesione della so­ cietà.

La validità a volte perfino esem­ plare di queste provvidenze urba­ nistiche ha come sfondo sociale la comunanza di interessi del signore illuminato e della comunità paesana.

Le finanze del principe sono basate sul gettito di certe imposte fisse : una imposta fondiaria basata su un cata­ sto, determinati dazi di consumo e gabelle sulla importazione e la espor­ tazione. In tal modo l'incremento del­ la pubblica prosperità e del commer­

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ciò si riflette immediatamente in un beneficio finanziario oltre che di pre­ stigio per la casata gentilizia.

Quanto questa missione di mutuo progresso fosse sentita già nello scorcio iniziale del Seicento, sta a dimostrare la storia per molti aspetti straordinaria della iniziativa di Mar­ zio Colonna, che riformò sistemati­ camente da un punto di vista edilizio e da un punto di vista agricolo-econo- mico il suo feudo di Zagarolo, impe­ gnandosi in opere pubbliche di tale entità da compromettere seriamente la sua situazione finanziaria. E’, se si vuole, un esempio imperfetto, un buon piano urbanistico — si direbbe oggi — non corredato da un piano finanziario parallelo ; ma è un sintomo di una situazione che darà i suoi frutti con generosità.

A chi dall’alto di Rocca Priora osserva l’ampia foce della valle del Sacco, Zagarolo si presenta come un vascello incagliato nella pianura, una arce lunga e stretta che fa da soste­ gno al tessuto fitto e verticale delle case. Quasi al centro come un albero emerge il grande tamburo cilindrico della settecentesca chiesa di S. Pietro, con un contrasto di scala di sapore medievale. Tutt’intorno per il terreno ondulato sono un’infinità di punti lu­ minosi che formano una rete chiusa intorno al paese. Si potrebbe pensare a un insediamento sparso, ma, avvi­ cinandosi, le proporzioni modestissi­ me di queste costruzioni rurali fanno supporre la verità. Si tratta dei cele­ bri « tinelli », di cui gli agricoltori si servono per la lavorazione dell’uva, per il deposito degli attrezzi e che a Zagarolo sono tanto numerosi da dare una nota particolare a tutto il il paesaggio.

I provvedimenti urbanistici del piano di Marzio Colonna contempla­ rono una trasformazione radicale del nucleo medievale. La strada princi­

pale fu allargata e raddrizzata previa demolizione delle case circostanti e una nuova appendice fu program­ mata a nord nel nuovo borgo di San Martino. Passato ai Ludovisi e poi ai Rospigliosi, dopo le difficoltà finan­ ziarie dei Colonna, il paese venne ulteriormente ampliato con la sim­ metrica aggiunta a sud del Borgo Santa Maria, seguendo coerentemente il principio di questo allungamento indeterminato lungo la doppia diret­ trice della strada di attraversamento. Zagarolo è dunque un esempio so­ stanzialmente opposto a quello di Campagnano. Mentre qui il gene­ rarsi di nuovi nuclei è avvenuto lungo una sola direzione, allontanando sem­ pre di più dal vecchio centro il bari­ centro reale dell’abitato, là al contra­ rio la creazione di uno sbocco, che dalla punta della penisola scende a valle a riallacciarsi alla strada ester­ na, ha permesso la creazione di una vera e propria spina di attraversa­ mento che ha seguitato a rendere vitale la parte più antica, conservan­ dole la sua posizione baricentrica. Naturalmente questo genere di accre­ scimento che seguita, a trasforma­ zione avvenuta, a servirsi degli stessi organi, impone necessaria­ mente il loro « svecchiamento ». A Za­ garolo si procedette infatti allo « sventramento » del corso, all’aper­ tura della piazza rettangolare di fronte alla Collegiata di San Loren­ zo e a una serie di piccoli ritocchi che annullarono completamente il primi­ tivo aspetto medioevale. Anche se le diverse vicende dei due paesi dipen­ dono soprattutto da fatti marginali, dalla presenza o dall’assenza di una strada di fondovalle, possiamo ben dire che ci troviamo di fronte a due metodi opposti, e osservarne i risul­ tati diversi nei due paesi è cosa di un estremo interesse.

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Un esempio di iniziativa dall’alto che regola in modo ferreo l’espan­ sione di un paese è quello di San Gre­ gorio di Sassola.

Qui il borgo medievale, isolato su un’area, ha mantenuto una spazia­ tura straordinariamente luminosa e nitida. Le case sono molto basse e di frequente tra l’una e l’altra s’aprono ripide discese da cui si intravede il paesaggio che acquista così il valore di una continua presenza. Le vie sono dedicate a nomi di santi e, a scendere fino in fondo alla strada di attraver­ samento, si è sorpresi del continuo variare di prospettive e della molte­ plicità dei tipi edilizi. Alcune cornici

di finestre di pietra scura sono state con nuovo gusto verniciate di colori delicati e l’intonaco ha ricoperto mol­ te facciate. Una strada breve con­ duce a una piazzetta invasa dal cielo. Una antica targa di stucco ricorda l’esistenza di una Locanda della Co­ lomba, chiusa da qualche secolo, ma che testimonia come in questo paese staccato dalle vie di comunicazione più battute venissero un tempo dei viag­ giatori.

Chi incontra S. Gregorio passando dalla strada che da Tivoli conduce a Casape e Poli può pensare che il paese sia tutto in questo borgo cri­ stallino. Esiste invece una lunghissi­ ma appendice a solo scopo residen­ ziale e costruita in blocco alla fine del Seicento per iniziativa del Car­ dinale Pio di Savoia. Due file di case a schiera a due piani si allineano a lato di una strada che conduce ad una larga piazza ovale aperta in mezzo alla campagna e confinante con il grande parco del castello. La tipica fantasia della gente del posto ha battezzato questo luogo « piazza pa­ della ». La strada assiale che vi con­ duce e la piazza stessa costituiscono infatti in pianta pressapoco la for­

ma di una padella con il manico lungo. Gli alloggi presentano piante tipiz­ zate. Quelli intorno alla piazza sono divisi in quattro settori, uno dei quali è crollato in epoca relativamente re­ cente. La facciata continua lungo la via di accesso, il manico della padella per intenderci, presenta un ritmo uni­ forme di vuoti. Il marciapiede e le cornici a fascia ricordano il tipo del casale romano. Purtroppo contraria­ mente alla parte più antica questa ap­ pendice mostra evidenti i segni della miseria che ha colpito la struttura sociale del paese. Da secoli nessuno più si occupa di ripulire queste case, di tingerne le facciate, di rialzare la quinta caduta della piazza. Il fatto di aver scelto la posizione di questo borgo su una altura staccata, in modo che la strada che va a Casape e Poli da Tivoli divide nettamente le due zone, ha determinato nel tempo un sempre più deciso distacco.

A questo si aggiunga il fatto che tutti i servizi sociali sono rimasti nella parte antica e si avrà il quadro clinico della malattia di cui soffre il satellite di S. Gregorio. Nella garbata scenografia ordinata dal Cardinale, è mancato qualcosa d’importante, uno spunto, un pretesto perché gli abitanti cominciassero a sentire quell’am­ biente come qualcosa di proprio. Forse sarà anche che la proprietà delle case per lungo tempo rimase al prin­ cipe, certo l’unica cosa viva del borgo è la piccola chiesette preesistente, in cui si riuniscono la sera le donne che l’abitudine della preghiera ha rese straordinariamente concordi nel can­ to, tanto da dare in questo coro senza regole una prova di forza insospet­ tabile.

A San Gregorio vivono 1800 perso­ ne riunite in 480 famiglie. Quasi tutti sono dediti all’agricoltura e al com­ mercio dell’olio squisito che si pro­ duce abbondantemente in tutta la zona circostante.

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Sopra: Particolare dell’abitato di Carbognano, esempio tipico di pausa ritmica nel tessuto continuo delle case. In questa piazzetta prospettano quattro case private e un piccolo oratorio; al centro vi è una fontanella pubblica. La casa in fondo, ricostruita di recente dalle fondai- menta, è un esempio convincente della vitalità di quella tradizione artigiana, che viene ambiguamente definita « architettura spontanea ». La sicurezza con cui sono organizzati attorno alla scala gli elementi di questo semplice discorso — si noti la modernità dell’infisso del corpo sporgente — dimostra la resistenza e la ca­ pacità di adattamento della cultura paesana.

A sinistra in alto: Artena, esempio interessante di mimetismo dell’architettura rispetto alla natura — qui la rupe calcarea — il cui discorso sembra continuare nelle mura che si adagiano docilmente su una acciden­ tata giacitura. Nonostante la varietà e la vivacità dell’aspetto è chiaramente percepibile in questi insedia­ menti una tipizzazione latente.

In basso: Vitorchiano, una strada attorniata dalle tipiche case con la scala esterna. Qui la tipizzazione è evidente e corrisponde forse a una struttura sociale più consapevole e salda.

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Sempre per rimanere nel tema delle iniziative urbanistiche di gran­ de portata, conviene ormai parlare dell’esempio più felice di amplia­ mento, o meglio ancora di fondazione ex novo di un insediamento agricolo intorno a un nucleo preesistente. San Martino al Cimino, merita di essere ricordato anche perché è legato a una delle più celebri e popolari figure del Seicento romano, la cognata di Inno­ cenzo X Pamphilij, donna Olimpia Maidalchini. Parlare di San Martino è forse tutto quello di bene che si può dire su questa donna prepotente ed avara che dominò e amareggiò gli undici anni di pontificato del cognato e si attirò l’odio di tutta la popola­ zione romana. La sua vita ha dato materia agli anonimi autori dei li­ belli anticlericali dell’Ottocento che ne hanno fatto un romanzo oscuro e doloroso.

A S. Martino i cistercensi di Pon- tigny avevano costruito al principio del Duecento la stupenda chiesa di peperino di Bagnaia, uno degli esem­ pi maggiori di chiesa gotica nel Lazio, che fu restaurata e studiata a lungo da Francesco Borromini. Entusiasta del luogo Olimpia mise a frutto la sua ostinazione per convincere prelati e signori, ai quali poteva convenire di assecondarla, a costruire presso la chiesa delle case di villeggiatura. Nello stesso tempo convinta della ne­ cessità di ampliare il piccolo borgo, fece edificare per sua iniziativa un gruppo di un centinaio di casette a schiera tutte eguali che si chiudevano a monte intorno all’abbazia formando un ferro di cavallo allungato, chiuso a valle da una grande porta.

E’ assai interessante ricordare in che modo donna Olimpia riuscì a po­ polare il suo paese, sorto quasi per in­ tero nel giro di pochi anni. Ripetendo l’antico gesto dei romani, ella invitò nel paese i galeotti evasi dal carcere di Civitavecchia, i senzatetto e le

celebri prostitute di Tarquinia che vagavano per la campagna viterbese in cerca di riposo e di asilo. Furono gli stessi componenti raccogliticci di questa strana, imprevedibile comu­ nità che edificarono l’abitato. E la principessa offrì un contratto di af­ fitto che consentiva la possibilità del riscatto della proprietà delle casette.

Abbandonata da tutti, due anni dopo la morte del Papa al quale aveva negato il prezzo di un sarcofago di legno e di bronzo, Olimpia andò a morire di pestilenza proprio a S. Martino.

Il piano del De Rossi, fondato anche su precise disposizioni che re­ golavano la attività edilizia indipen­ dente, ha seguitato ad imporre al paese nei successivi sviluppi una di­ rezione precisa, dimostrando una vi­ talità assai degna di considerazione.

Può ben dirsi che per opera di una delle figure più oscure del Seicento romano, si realizzò in particolari con­ dizioni un’opera degnissima, una pic­ cola gemma irregolare che merite­ rebbe d’esser conosciuta più a fondo e studiata anche nella sua realtà so­ ciale.

Il carattere di spazio aperto inte­ grato da strade e piazze più raccolte, la mirabile elasticità dello schema fanno di S. Martino qualcosa di asso­ lutamente valido. E’ una lezione, quella di questo paese, che supera di molto l’interesse storico e arriva a toccarci molto da vicino.

Il nostro itinerario potrebbe con­ tinuare molto a lungo passando da questi esempi estremi a tutti gli epi­ sodi intermedi di iniziative urbani­ stiche più o meno massicce, ma con­ viene rinunciare a qualsiasi ambi­ zione di completezza e rivolgersi ad un esempio di carattere ancora di­ verso.

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Una immagine che affiora subito, appena che si voglia rievocare una scena urbana di un particolare calo­ re, è la piazza di Roccagorga, un paesino dei monti Lepini affacciato a trecento metri di altezza verso la pia­ nura pontina ed il mare. La piazza ha la forma di un antico vascello con due estremità rialzate, su cui sorgono la chiesa da una parte e il palazzo dall’altra. L’ignoto architetto del Set­ tecento che sistemò questo ambiente riuscì a riflettere nelle linee appros­ simate ma eleganti dell’architettura e nella cura volumetrica dell’insieme quel senso di vita pulsante, colorita, florida che caratterizza il volto, le maniere, la voce della gente di qui. La sera della domenica o nei giorni di mercato, quando quasi tutto il pae­ se è in piazza a godersi il fresco e la vista del mare e i colori più audaci sono sparsi senza economia per tutta la scena, si ha un senso di corrispon­ denza perfetta, tra uomo e ambiente, e una descrizione tanto minuta e con­ vincente della « gioia di vivere » da levare il fiato e da romper la punta ai nostri freddi e rigorosi strumenti di indagine.

Abbiamo parlato di strumenti di indagine; e l’argomento è adatto per cercare una conclusione a questo ra­ pido, e apparentemente poco medi­ tato, itinerario laziale.

Per avvicinare e penetrare la real­ tà sociale di una comunità esistono tecniche sempre più perfezionate. Così come di un monumento, per mezzo di minuti e circostanziati ri­ lievi, si può ricavare una rappresen­ tazione completa, dall’analisi di un gruppo di uomini si deriva un insie­ me di notizie che lo rappresentano. Il paragone si può portare fino in fondo: cosa sappiamo noi di un mo­ numento conoscendone i rilievi? Cer­ tamente qualcosa di molto importante,

la struttura, lo schema formale, le dimensioni, le condizioni statiche. Tuttavia un tale sistema di rappre­ sentazione rinuncia per sua natura a dar conto di certe sfumature e di certi fatti sostanziali che solo una descri­ zione empirica potrebbe comunicare senza rischi di schematismo. La co­ noscenza di un monumento può dirsi in qualche modo completa o almeno aspirante alla completezza, solo quan­ do il possesso di quei dati formali che costituiscono il disegno, è integrato da una ricostruzione del processo creativo prima e di quello realizzativo poi, spesso non meno importante e il­ luminante del primo.

Non pensiamo di esprimere idee originali dicendo che le stesse cose si possono dire a proposito dello stu­ dio di una comunità. Che una inda­ gine storica sia utile e necessaria non c’è chi lo neghi e nessuno pro­ babilmente disconosce il valore che può assumere la conoscenza della ge­ nesi sia pure remotissima di un qual­ siasi insediamento. Tuttavia non si parlerà mai abbastanza della neces­ sità di una integrazione continua e costante del metodo di approfondi­ mento storico e di quello di analisi tecnica. Si potrebbe forse arrivare a concludere che prima di impostare una indagine, prima di stabilire il metodo con cui si avvicinerà un pro­ blema, è necessario aver stabilito un terreno d’osservazione, essere sensi­ bilizzati alle immagini con le quali si dovrà lavorare e al contenuto umano che a queste immagini è legittimo connettere. Solo in questo modo sarà possibile cogliere in tutta la sua com­ plessità il valore proprio dell’ambien­ te, della cornice cioè in cui la vita si svolge, rimanendone condizionata, do­

po avere essa stessa, in tempo remoto, condizionato la formazione e quindi il carattere del paese. Solo così si

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potrà evitare l’equivoco ora diffuso che il paese o la città siano solo il complesso degli uomini che in essi vivono, equivoco meno grave di quello che vedeva in essi nulla di più che un gruppo di edifici e di strade, ma non certo utile a una visione final­ mente vera.

Riconosciuta la necessità della in­ tegrazione continua dell’indagine ur­ banistica e di quella sociale, ricono­ sciuta anzi l’inscindibilità di questi momenti di una attenzione totale, ri­ sulterà ben chiaro il valore della sto­ ria, non solo per la sua influenza sulla cultura più o meno sviluppata del paese, ma per il suo peso indiretto attraverso l’ambiente, la scena quo­ tidiana, che è fattore vivo di una coe­ sione altrimenti impossibile della so­ cietà o, dove questa coesione è per­ duta, è testimone e accusa di una situazione di crisi.

Si pensi, per rendersi conto di quanto abbiamo notato, al valore dei rapporti di vicinato e alla gravità dei fenomeni connessi di controllo sociale, alla insopportabilità, da parte di per­ sona abituata alla società cittadina, di questa « schiavitù ». E’ chiaro che lo stesso fenomeno ha un valore posi­ tivo in quegli ambienti in cui si è po­ tuta mantenere una omogeneità so­ ciale e dove sussiste una struttura particolaristica, basata soprattutto sulla famiglia.

L’articolazione degli spazi esterni nei paesi del Lazio è quasi costante- mente propizia alla formazione di molti nuclei composti di poche fami­ glie. Attorno a qualche servizio essen­ ziale, la fontana, il lavatoio, il forno, più spesso semplicemente alla pausa ritmica nel tessuto continuo delle vie, si originano sodalizi di una misura favorevole all’intesa più che al con­ fronto e al contrasto. Nell’atmosfera accogliente e controllata dei piccoli

spazi si formano le amicizie intramon­ tabili, che datano dagli anni della in­ fanzia e lo stesso senso di « stretto » e di « caldo », tanto importante per chi passa una parte del giorno nel­ l’orizzonte aperto della campagna, si prolunga nelle botteghe e nella cor­ riera che permette la periodica eva­ sione verso la città. La piazza è un elemento sempre presente ma in molti centri del Lazio essa ha una funzione meno importante che nelle vicine re­ gioni dell’Italia centrale. Solo in qual­ che momento della giornata il flusso del passeggio si concentra in un punto e le abitudini di esibizione sono quasi inesistenti. Frequente è la divisione polare dei centri religioso e civile e allora di solito quello religioso è il coronamento della volumetria del paese e si accompagna a spazi meno raccolti, non di rado aperti verso lo spettacolo della natura.

Un carattere — ed è tra i pochis­ simi — che lega strettamente i paesi del Lazio a Roma — alla Roma ben inteso colorita e popolaresca di Tra­ stevere e dei rioni degradati del vec­ chio centro — è la povertà e la sem­ plicità degli spazi interni dedicati alla vita familiare. La casa è luogo privato e i suoi arredi, tranne le eccezioni dei notabili, sono commisurati fedelmente alle necessità della vita. Gli unici ele­ menti rappresentativi, che hanno cioè un ruolo che oltrepassa la loro fun­ zione pratica, sono il letto matrimo­ niale e la credenza della cucina; e anche qui, non tanto per la loro forma e decoro, quanto perché fanno da so­ stegno a un piccolo tesoro di imma­ gini da cui non ci si vuole staccare. Questa noncuranza dei rapporti so­ ciali estesi all’interno della casa è poi forse, a Roma come nel Lazio, la ragione della vivacità e della gra­ zia così frequenti nella scena urbana che è qui il solo vero teatro della vita

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