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COMUNI, PROVINCE EAUTONOMIA STATUTARIA

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COMUNI, PROVINCE E AUTONOMIA STATUTARIA

Francesco Zammartino

Dip artime nto di Scie nze So cial i Univ ersità de gl i Stud i d i Napo li “ L’Or ie ntale ”

Guida

F. Zammartino Comuni, Province e autonomia statutaria

Gui da

£ 9,30

Una delle principali novità contenute nella riforma del Titolo V della seconda parte della Costituzione, ad opera della legge costituzionale n. 3/2001, è senz’altro rappresentata dall’aver elevato a fonte costituzionale gli statuti comunali e provinciali.

Tale riconoscimento ha notevolmente contribuito all’affermarsi del principio secondo cui lo statuto è soprattutto manifestazione di quel profilo dell’au- tonomia, meglio definita come autonomia organiz- zativa, capace di dettare le norme fondamentali dell’ente e di disciplinare materie, istituti e conte- nuti riservati prima alla legge statale. La presente indagine analizza, anche alla luce della legge n.

131/2003 di attuazione del disposto costituziona- le, come il processo riformatore attivato dagli sta- tuti comunali e provinciali nell’assetto generale del nostro ordinamento giuridico sia uno dei presup- posti necessari dal quale deve partire una definiti- va e significativa modernizzazione dell’intero siste- ma amministrativo.

Francesco Zammartino, nato a Napoli nel 1964, è do- cente di Istituzioni di diritto pubblico e diritto pubblico comparato presso la Facoltà di Lettere dell’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’. Ha pubblicato recen- temente un saggio “Cenni sul potere estero regionale”

(Napoli, Editoriale Scientifica, 2005).

ISBN 88-7188-850-2

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Dipartimento di Scienze Sociali Direttore Rosario Sommella

Opere prime 1

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Guida

COMUNI, PROVINCE

E AUTONOMIA STATUTARIA

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© 2006, Alfredo Guida Editore Napoli - via Port’Alba, 19 www.guidaeditori.it [email protected]

ISBN 88-7188-850-2

IL TORCOLIERE Officine Grafico-Editoriali di Ateneo Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”

Questo volume è stato stampato con il contributo del Dipartimento di Scienze Sociali

dell’Università degli Studi di Napoli ‘L’Orientale’

Ringrazio vivamente il Prof. P. Ciriello e il prof. A. Masucci per i loro preziosissimi consigli

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Ad Asia, alba della mia vita

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CAPITOLO I

IL RICONOSCIMENTO DELLAUTONOMIA STATUTARIA NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

Premessa

Potestà statutaria comunale ed accentramento amministrativo Impossibilità di ripetere nell’Italia del 1860 l’esperienza delle libertà comunali

L’autonomia statutaria nella Costituzione repubblicana

CAPITOLO II

IL FONDAMENTO DELLA POTESTÀ STATUTARIA

Il principio autoorganizzativo quale strumento necessario per l’attuazione dell’autonomia locale

I Comuni e le Provincie quali ordinamenti originari e par- ticolari

I principali problemi relativi al ruolo che dovrà assume- re la struttura organizzativa locale, nell’ambito dell’ordi- namento complessivo

I rapporti tra l’amministrazione centrale e le amministra- zioni locali alla luce delle disposizioni vigenti

I criteri organizzativi espressi dagli articoli 5 e 114 della Costituzione

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13 15 18

28

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Il rapporto tra il revisionato articolo 114 della Costitu- zione e le leggi statali in materia

CAPITOLO III

LO STATUTO DEGLI ENTI LOCALI TERRITORIALI COME NUOVA FONTE DEL DIRITTO

Il valore giuridico degli statuti comunali e provinciali I problemi relativi all’attuazione della norma statu- taria

Il fondamento costituzionale dell’atto statuto L’affermazione del criterio di competenza nei rappor- ti tra normazione statutaria e disposizioni legislative successive

Prime considerazioni sul valore giuridico primario dell’atto statuto nel novero delle fonti oggettive Lo strumento convenzionale espressione dell’attività organizzativa degli enti locali minori

Le deroghe apportate dallo strumento convenziona- le alla legislazione statale

Conclusioni sul valore di fonte primaria dell’atto sta- tuto

Il rapporto tra fonte statutaria e fonte regolamentare

CAPITOLO IV

L’AUTONOMIASTATUTARIADEICOMUNIE DELLEPROVINCE

L’ambito della competenza statutaria

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72 77

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Il procedimento di formazione degli statuti CAPITOLO V

LA NUOVA DISCIPLINA DEI CONTROLLI Premessa

I controlli tipici di legittimità

I controlli di legittimità esterni nel nuovo sistema Costituzionale

La disciplina dei controlli atipici Il nuovo volto della Corte dei Conti

Il controllo interno a garanzia della legalità?

Il ruolo del difensore civico Quale ruolo dei CO.RE.CO?

Lo stato di attuazione dei controlli

Quali forme di tutela contro gli eccessi dell’autono- mia statutaria?

CONCLUSIONI

120 123

125 128 131

134 137 140 144 146 153 163

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IL RICONOSCIMENTO DELL’AUTONOMIA STATUTARIA

NELLA COSTITUZIONE REPUBBLICANA

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1. Premessa

Non è possibile seguire le linee direttrici lungo le quali si è snodata la storia della potestà statutaria degli enti locali minori in Italia, se non si tien conto del fatto che il concetto di auto- nomia - e con esso quello strumentalmente connesso di statuto - deve essere sempre contestualizzato.

Se, infatti - alla luce dei caratteri fondamentali che conno- tano un determinato ordinamento in una certa epoca -, vi sono i presupposti per intendere per potestà statutaria il potere di un ente di esprimere la propria autonomia ad iniziare dalla sua for- ma più alta e significativa, rappresentata dalla scelta della for- mula di governo e della struttura organizzativa, si deve senz’al- tro affermare che questa prerogativa è radicalmente assente nel- l’ambito del nostro Stato, perlomeno al momento della sua uni- ficazione amministrativa, avvenuta con legge del 1865.1 Se, in- vece, si fa coincidere totalmente il concetto di autonomia locale col potere di emanare norme, specialmente regolamentari, pro- prie di un ordinamento particolare interno a quello statale, si deve attribuire alla Costituzione2 un ruolo importante nella sua affermazione. Ed infatti, in concreto, il riconoscimento e la pro- mozione delle autonomie locali che la Carta espressamente ha da sempre sancito si è limitato a questo aspetto, almeno fino al- l’emanazione della legge n. 142 del 1990, profondamente modifi- cata dalla legge n. 265/99, che venne intesa come legge di attuazio- ne dei principi costituzionali, presi nel loro reale e più ampio signi- ficato, rimasti fino a quel momento disattesi.

1 U. Allegretti, Profili di storia costituzionale italiana, Bologna, 1989, p. 464 ss.

2 M. S. Giannini, La lentissima fondazione dello Stato Repubblicano, in Reg. e gov. locale, n. 6, p. 17 ss.

amministrativo. 3. Impossibilità di ripetere nell’Italia del 1860 l’esperienza delle libertà comunali. 4. L’autonomia statutaria nella Costituzione repub- blicana.

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In definitiva, si può affermare senz’altro che la definizione di una effettiva potestà statutaria dei Comuni e delle Province ha ri- chiesto in Italia un duplice passaggio: in primo luogo il riconosci- mento delle autonomie locali - e dunque il superamento di ogni sospetto circa la loro potenzialità lesiva dell’unità nazionale - e suc- cessivamente la loro valorizzazione sul piano delle scelte nel gover- no delle realtà locali.

Ciò è del tutto conforme a quanto si osserva in ogni periodo storico, e cioè che lo statuto intanto è presente come fonte di una normazione afferente ad un ordinamento particolare, in quanto pro- mana da un ente di natura politica, che cioè non si presenta come semplice unità organizzativa dell’ente complessivo - ossia dell’ordi- namento primario - quale sua mera articolazione burocratica.

Dunque, quella che si riferisce alla lentissima affermazione della potestà statutaria in Italia dall’unificazione alla attuazione del T.U.E.L n.267 del 2000 , è la storia del consolidamento dello Stato unitario e poi della Repubblica, e del conseguente progressivo abbandono della visione accentrata della sua amministrazione. Attraverso pas- saggi intermedi si giunge a restituire in special modo una norma- zione ed un apparato amministrativo conforme alla realtà locale, anche attraverso lo strumento statutario, così come era accaduto nel passato e così come oggi ci viene confermato dal nuovo articolo 114 della Costituzione.

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2. Potestà statutaria comunale ed accentramento ammini- strativo

Le scelte in merito all’amministrazione del Regno d’Italia, compiute all’indomani della sua unificazione con l’annessione degli ultimi territori al Regno di Sardegna, furono condizionate più dalla disomogeneità della situazione nella quale versavano le diverse realtà confluite nel neocostituito Stato, che non dalle ideologie dominanti a quel tempo. È noto, infatti, che si pose il dilemma tra Stato accentrato e decentramento amministrativo, o meglio - come all’epoca si usava dire - tra centralismo e discen- tramento, e che l’opzione finale fu per la prima delle soluzioni, ossia per una politica amministrativa di accentramento.

Eppure era opinione diffusa che l’unificazione avrebbe do- vuto favorire piuttosto le autonomie locali che non lo Stato ac- centrato, o avrebbe dovuto almeno consentire un contempera- mento tra le opposte esigenze; perciò da più parti si criticò aspra- mente la scelta operata, accusando i suoi sostenitori di tradimento degli ideali che avevano animato il Risorgimento italiano3.

È bene però precisare che nel periodo immediatamente suc- cessivo all’emanazione della legge di unificazione del 1865, non si registrò alcun importante movimento popolare di rivendicazione delle istituzioni comunali, né della auspicata autonomia o dell’au- togoverno; ciò è ampiamente significativo del fatto che l’ambi- zione autonomistica era coltivata soprattutto dalle élites cultura-

3 Critiche raccolte in particolare da Ragionieri, Politica e amministra- zione nella Storia dell’Italia unita, Bari, 1967, che si richiama alla posizione di Gramsci, Il Risorgimento, Torino, 1949, ove si sostiene che “la minoranza eroica che condusse il moto unitario, in realtà si interessava di interessi eco- nomici più che di formule ideali”, e che l’unificazione non aveva raccolto e potenziato le forze dei diversi Stati preunitari ma le aveva invece tutte in- debolite se non addirittura disperse e perdute.

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li, mentre la massa era piuttosto disinteressata al problema. D’al- tra parte ciò è perfettamente spiegabile in quanto l’autonomia, l’autogoverno e la potestà statutaria erano fenomeni non appar- tenenti al patrimonio culturale e politico di quelle popolazioni.

Ed infatti, se la prima legge di unificazione del 1859 (estesa pro- gressivamente ai territori annessi) aveva incontrato qualche op- posizione in Lombardia, minori contestazioni si ebbero altrove, segno questo del fatto che l’ordinamento che si veniva a sop- piantare non era più aperto al riconoscimento delle autonomie locali del nuovo4.

Perciò, quando si vuole ricercare una spiegazione dell’assen- za di Comuni e Province come enti autonomi, in grado di espri- mere degli statuti anche profondamente diversi da luogo a luo- go, così come era avvenuto per il passato, bisogna cominciare con il constatare che una realtà del tutto similare era presente an- che negli Stati preunitari, e che anzi nello Stato unitario si era compiuta piuttosto una operazione di estensione della preesistente legislazione piemontese - dopo aver apportato solo poche modi- fiche -, che non la creazione di una del tutto nuova. Ed in ef- fetti, la situazione del Piemonte non era sostanzialmente diversa da quella degli altri Stati preunitari, in quanto tutti erano stati interessati fin dal ‘700 da un identico fenomeno, che aveva com- portato la scomparsa del comune-ente politico, per lasciare il po- sto al comune-ente amministrativo. La conseguenza ovvia di questa trasformazione era stata l’esaurimento dell’attività statuta- ria e la sostituzione a quelli locali dei funzionari statali, eserci- tanti compiti sempre più pregnanti di controllo e di vigilanza, nonché il disinteresse dei cittadini per l’amministrazione locale ed il formarsi di una aristocrazia pronta a fare gli interessi del

“Signore”5. Su queste basi proliferò facilmente l’idea di predispor- re un ordinamento uniforme dei Comuni, che venisse imposto dall’alto invece che promanare dalle comunità locali: nel 1733 la

4 Rotelli, L’alternativa delle autonomie, Milano, 1978, p.84 ss.

5 Sul punto v. Caianello, Premesse storico culturali dell’ordinamento delle autonomie locali e del potere statutario, in Diritto e società, 1993 n.1.

S.Romano, Il Comune, in Trattato Orlando, p.593 .

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riforma di Carlo Emanuele III operò in tal senso in Piemonte, poi nel 1755 fu la volta della Lombardia, a cui fece seguito nel 1772-1773 la Toscana. Più specificamente, queste riforme erano volte ad attribuire maggiori poteri in ambito locale ai proprietari terrieri, i quali potevano salvaguardare i propri interessi attraverso organi collegiali nei quali erano ampiamente rappresentati, in quanto tali organi provvedevano all’elezione degli amministratori comunali, alla formazione dei bilanci, alla sorveglianza sull’anno- na e all’elezione delle deputazioni, ossia di quegli organi pure collegiali a cui spettava tra l’altro l’elezione del sindaco, rappre- sentante del comune.

Questo assetto strutturale proseguì in epoca napoleonica e resistette al tempo della restaurazione, per tramandarsi presso- ché inalterato fino agli Stati preunitari, e da questi, attraverso la legislazione piemontese, allo Stato unitario6. Vero è che nell’Ita- lia finalmente unita si erano create tutte le condizioni per teme- re anziché incentivare le autonomie locali, che venivano consi- derate come strumento attraverso cui far prevalere i particolari- smi e gli interessi territorialmente localizzati piuttosto che le esigenze dalla nazione complessivamente intesa. Non si trattava, per giunta, di un timore infondato, se si pensa che il settentrio- ne ed il meridione d’Italia provenivano da esperienze storiche molto diverse ed avevano perciò più punti di divergenza che non di assonanza; dunque, il più urgente problema dello Stato unita- rio nella seconda metà del 1800 era quello di creare un amalga- ma tra le diverse parti e popolazioni del paese, per cementarle e legarle al valore dell’unità nazionale.

Date queste premesse, si può comprendere la ragione per cui anche le proposte regionaliste non ebbero affatto successo nei primi anni dell’unificazione; da un lato, infatti, la legislazio- ne piemontese era ampiamente confluita nella legge del 1865, dall’altro già dal 1860 si reiteravano continue promesse di liber- tà amministrative sul piano locale, ed effettivamente lo studio del

6 Ghisalberti, Contributi alla storia delle amministrazioni preunitarie, Milano, 1962, pp. 39-64 e 219 ss.

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modo in cui riformare le autonomie locali fu sempre all’ordine del giorno, anche se poi i risultati furono estremamente insoddisfa- centi. Infatti, non solo per gli enti minori nulla cambiò nella so- stanza rispetto all’assetto preunitario, ma non riuscì ad essere ap- provato neppure il progetto per l’introduzione dell’organizzazione regionale dello Stato, e ciò sebbene anche le proposte più ardite in argomento rifiutavano l’idea di istituire dei parlamenti regiona- li, ma si spingevano soltanto fino a considerare la regione come entità amministrativa7. L’esito negativo di queste istanze regionali- ste va ascritto alle pressioni esercitate dalla borghesia specie me- ridionale, che auspicava una forte presenza statale che potesse risollevare il mezzogiorno dallo stato di gravissima crisi in cui ver- sava, e riteneva perciò che l’incentivazione delle autonomie avrebbe comportato conseguenze del tutto opposte a quelle sperate8. In sostanza, dunque, si dimostrò ancora una volta che la scelta ac- centratrice era stata non casuale ma ponderata e sostenuta da un massiccio orientamento di pensiero che vedeva nel centralismo la risposta alle esigenze di governo dello Stato unitario.

3. Impossibilità di ripetere nell’Italia del 1860 l’esperien- za delle libertà comunali

Per verificare se davvero la scelta centralista fu obbligata o se invece erano fondate le accuse mosse ai suoi fautori - e per

7 Per lo studio delle riforme amministrative venne istituita una apposita commissione legislativa straordinaria presso il Consiglio di Stato, dinanzi alla quale nel 1860 il Ministro dell’Interno Farini propose l’innovazione regiona- le, che venne poi ulteriormente caldeggiata nel marzo 1861 dal nuovo Mini- stro Minghetti, ma senza esito positivo, in quanto respinta dalla commissio- ne.

8 Sul punto Scirocco, Il Mezzogiorno nella crisi dell’unificazione (1860- 1861), Napoli, 1981, p.27, ove si sottolineano le differenze che segnarono il passaggio allo Stato unitario nell’Italia centrale ed in quella meridionale. Se, infatti, nell’area centrale si trattò di un passaggio senza scosse, caratterizzato dal fatto che i governi provvisori raccolsero l’eredità di uno Stato efficiente ed ordinato, nel meridione, alla caduta della dinastia borbonica, rimase un territorio sconvolto sul piano amministrativo e dilaniato dai contrasti sociali.

Inoltre, “ad affrontare il periodo di transizione non vi fu una classe dirigente preparata, capace di mettersi alla guida della vita pubblica”.

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primo a Cavour - di essere ideologicamente contrari al ricono- scimento delle libertà locali, pur non esistendo una ragione og- gettiva che rendesse impercorribile la strada dell’autonomia, oc- corre risolvere un interrogativo di fondo, e cioè stabilire se e perché non potesse essere costruito lo Stato moderno proprio in- cardinandolo su quella “palestra di democrazia” che avevano rap- presentato le istituzioni comunali in epoche passate.A questo ri- guardo si osserva che il dato più significativo emerso dal dibattito sul centralismo consiste nella affermazione del valore dell’unifor- mità dello Stato, valore questo del tutto in antitesi con quello di autonomia locale, che implica libere scelte e dunque differenzia- zione, caratterizzazione della realtà locale, adattamento delle strut- ture ad esigenze particolari. È la storia meno recente d’altra par- te a confermare che lo sviluppo delle libertà comunali si accom- pagna ad una più accentuata caratterizzazione dei Comuni, nono- stante permanga pur sempre – almeno in una certa misura – la tendenza degli ordinamenti locali ad articolarsi seguendo dei mo- delli relativamente uniformi. Avendo l’Italia conosciuto l’esperien- za comunale, era dunque impossibile non fondare la scelta tra autonomia ed accentramento sulla valutazione della sussistenza attuale dei presupposti per tornare a quel modello nello Stato unitario, e sulla considerazione della capacità di tale Stato di sop- portare le conseguenze che l’autonomia in genere comporta. Quan- do, allora, all’esito di queste valutazioni si professò il valore della centralità - o meglio dell’uniformità - piuttosto che quello della autonomia, ciò stava a significare che si giudicò l’Italia unita inca- pace di sopportare il sistema di decentramento politico-ammini- strativo, in quanto impreparata ad esso.

In effetti, un simile giudizio maturò proprio in chi aveva sempre professato l’ideale dell’autonomia, come Cavour, il quale aveva guardato con ammirazione al modello inglese, nel quale si era per secoli praticato il cd. self-government. Anzi, è opinione difficilmente contestabile che sia stata proprio l’abitudine delle popolazioni dei municipi inglesi alla pratica di darsi un proprio diritto nel contesto della realtà ad esse più vicina, ossia quella locale, che ha reso estremamente solida l’esperienza democrati- ca in quel paese. Il rispetto delle consuetudini e delle usanze dei diversi luoghi non venne mai posto in discussione: i cittadini

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dei municipi, che avevano affermato questo diritto nelle loro assemblee senza in alcun modo essere limitati in ciò dalle auto- rità statali, lo raccolsero poi in Carte, sancite dal parlamento ov- vero dal principe, a seconda dei diversi momenti storici. Fu il diritto così posto la base legale del Municipio inglese, e non una legge che imponesse un sistema precostituito: ne derivò una varietà di ius, che fu soltanto ritoccata dal Parlamento (1834- 1836), sotto il regno di Guglielmo IV, allo scopo di espungerne le disposizioni ormai desuete9. Si venne così a costituire un si- stema del tutto peculiare in cui il local government preesisteva all’ordinamento giuridico nazionale e ne costituiva la base, an- che se poi era proprio “il Governo centrale ad affidare l’ammi- nistrazione politica locale ai Comuni, secondo leggi generali, giu- diziarie, amministrative e finanziarie dello Stato”10.

Nonostante l’esempio promettente rappresentato dalla strut- tura municipale inglese, l’Italia aderì al modello francese, deci- samente più accentrato, di amministrazione, nel quale la presen- za statale nelle strutture amministrative comunali era nettissima, così come forti e pregnanti erano i controlli sul loro operato.

È tradizione che si spieghi questa opzione per il modello francese con la disgregazione sociale e amministrativa del meri- dione d’Italia, che non avrebbe consentito una sapiente gestione dell’autonomia, ma avrebbe piuttosto implicato il crescere delle consorterie e l’imporsi di un nuovo feudalesimo. Si osservò che l’autonomia è un bene estremamente pericoloso se lasciato alla gestione di popolazioni che non hanno una lunga esperienza di autogoverno alle spalle. Si temette, perciò, di non poter ripe-

9 Si veda Gneist, Lo Stato secondo il diritto, ossia la giustizia nella amministrazione politica, Torino, 1891, vol. VII, p. 1181, ove si sostiene che la caratteristica principale del modello inglese non risiede tanto nel sistema parlamentare, quanto nella struttura capillare dell’amministrazione, la quale rappresenta la base ed il corpo della piramide culminante nell’istituzione parlamentare. L’A. osserva, inoltre, che una struttura amministrativa così ca- lata nel profondo del tessuto sociale evita il crearsi di tensioni di classe e consente un più ampio dialogo tra base ed istituzioni.

10 Gneist, Lo Stato secondo il diritto, cit., p.1167; A. Petracchi, Le origi- ni dell’ordinamento comunale e provinciale italiano, Vicenza, 1962, p. 163 ss.

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tere in Italia - ove si era appena realizzata una faticosa unità - il caso della democrazia inglese, la cui secolare tradizione è dovuta proprio alla abitudine delle popolazioni di esprimere un ius proprium e di gestire con oculatezza e misura il potere loro riconosciuto.

Si ha conferma della correttezza di queste osservazioni in quanto si può averne riscontro ove si guardi alla capacità di- mostrata dalle regioni che avevano vissuto lo splendore dell’Italia comunale, di fare tesoro proprio dell’innovazione regionalista, varata alcuni decenni dopo l’unità, che determinò invece un ri- torno alla caotica situazione preunitaria nel meridione. Pericoli di questo genere erano avvertiti non solo da chi si dimostrava nettamente sfavorevole ad una promozione delle autonomie, ma anche da chi - caldeggiando la ripresa del mezzogiorno - le con- siderava semplicemente inadatte all’Italia del tempo, attribu- endo proprio all’accentramento quel poco di sicurezza e di be- nessere raggiunto11.

Quanto, poi, alla possibilità di riprodurre un modello di autonomia tratto dal passato delle stesse popolazioni confluite nello Stato unitario, la sua improponibilità fu abbastanza evi- dente per la diversità delle condizioni storiche in cui i feno- meni comunali si erano prodotti. O meglio, elementi di asso- nanza tra il Comune moderno ed i Comuni dell’epoca medio- evale sono assai difficili da individuare, mentre appaiono ben più evidenti nel raffronto con i comuni sorti - specialmente in età angioina - nel meridione.

Per condurre un’indagine a questo riguardo, e verificare se ed in che termini fosse possibile “ricominciare” un’esperienza comunale in Italia, occorre superare un primo preconcetto, che si radica in un’opinione fortemente sostenuta12, specie in pas-

11 In particolare, in proposito va richiamato il pensiero di Giustino Fortunato, così come espresso in un discorso alla Camera nel 1896 ove af- ferma: “È un decentramento, il vostro, che i comuni e le province di mezza Italia sono incapaci di assumere senza il pericolo (...) di veder crescere a mille i propri guai. E’ un decentramento che non è, non la giustizia né la libertà, non il diritto, non l’uguaglianza (...). Se altro non potete fare, molto meglio l’accentramento di oggi”.

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sato - ma successivamente contestata e confutata sul piano stori- co13 -, secondo la quale il Mezzogiorno d’Italia non avrebbe vissu- to in nessun periodo della sua storia il fenomeno comunale, igno- rando, dunque, qualunque forma di produzione di un ius pro- prium, e cioè di statuto. Ciò in quanto le nascenti città del meri- dione sarebbero state troppo precocemente assorbite nell’ordina- mento monarchico posto dai Normanni e successivamente portato a compimento dagli Svevi; spente, perciò, le libertà cittadine non avrebbe mai avuto la possibilità di nascere quel loro spontaneo prodotto che è lo statuto. Al contrario, la storia del Mezzogior- no, dall’epoca dei Normanni a quella angioina, può essere letta diversamente, valorizzando cioè proprio l’elemento che si vorreb- be da altri sminuire, ossia il fatto che il fenomeno della nascita delle città coincise con la realizzazione di una amministrazione centrale che - sia sotto i Normanni sia sotto gli Svevi – fu deci- samente presente e prevalente su quella locale. È ben vero che nel periodo compreso tra il 1130 ed il 1260 - e particolarmente sotto il regno di Federico II di Svevia - non si poté affatto in- travedere la nascita di realtà locali autonome, in grado di espri- mere una normazione “statutaria”, ma questo stato di cose diede poi vita, con il successivo periodo angioino e aragonese ad una trasformazione dell’ordinamento preesistente in modo del tutto peculiare. Infatti, proprio nell’epoca del passaggio da una ad al- tra dominazione si assistette alla fioritura di quella che moder- namente chiameremmo “autonomia”, ma che allora si indicava come “iurisdictio”, ossia all’affermazione di una legislazione a pieno titolo statutaria, che raccoglieva le istanze di ogni diversa città, e perciò variava da luogo a luogo. Si ammette, anzi, che l’aderenza della iurisdictio alle varietà locali fa assomigliare que- sto genere di statuti a quelli dell’Italia comunale del Nord assai più di quanto non si creda comunemente, anche se permane un

12 Fra tutti, autorevolmente lo Schuppfer ha sostenuto che la legislazio- ne delle città meridionali non riuscì mai a superare lo stadio di raccolta di consuetudini.

13 Calasso, voce “Comune”, (premessa storica), in Enc. del diritto vol.

VIII, p. 175.

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elemento differenziale non superabile, rappresentato dal fatto che il fenomeno comunale nel Regno di Sicilia e di Napoli convive con il potere centrale, ed anzi si forma potremmo dire legitti- mamente al suo interno.

Quel che segna profondamente lo statuto di epoca angioina rispetto a quello dell’età comunale sta proprio in ciò: il comune meridionale per la prima volta nella storia d’Italia si presenta come ente chiamato a svolgere un’attività amministrativa coordi- nata con quella di un ordinamento più vasto, che su di esso svolge una istituzionale attività di controllo. È evidente, allora, che questa struttura amministrativa elementare, che è riconosciuta da un ordinamento superiore, rappresenta la figura del comune moderno14.

L’ universitas civium - così viene indicato l’ordinamento cit- tadino nel mezzogiorno, in quanto comune è termine riferito alle zone del centro-nord - accresce la sua forza nel XIV secolo, ma in modo disordinato, e perciò in maniera più o meno ampia a seconda dell’intensità con cui si impongono in quest’azione di erosione del potere centrale (ancora su base feudale) le diverse classi cittadine. Questo produce importanti conseguenze: in pri- mo luogo, la trasformazione delle città avviene nella legalità, in quanto ogni intervento riformatore viene “chiesto” al re, e da questi concesso, ma nella realtà era ben evidente che la conces- sione regia era puramente formale, in quanto ogni comune pro- poneva riforme che aveva lungamente discusso in seno al parla- mento locale (all’universitas civium, appunto) in quanto aveva in sé la forza di ottenere quella rivendicazione. Inoltre, l’unica ve- rifica che il re operava prima di prestare l’assenso all’istanza si riferiva alla sussistenza di una effettiva deliberazione in ambito parlamentare o consiliare, creando così un embrione di quel che attualmente chiameremmo “controllo di legittimità”.

Se, perciò, è possibile individuare una sorta di antecedente del comune moderno in questo tipo di organismo municipale, e dunque intravedere un legame di tipo politico (ma non giuridi-

14 Calasso, voce “Comune” cit. p. 172 ss.

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co) tra le due esperienze, pur se storicamente piuttosto lontane, nessuna connessione evidente è riscontrabile con il Comune sor- to in epoca medioevale, specie nel settentrione d’Italia. Infatti, quella che si produsse a partire dall’anno 1000 fu vicenda che vide le città erodere sempre più il potere centrale, fino a disco- noscerlo del tutto e proporsi esse stesse come corporazioni in grado di esprimere propri atti di sovranità. Anzi, attraverso l’evo- luzione dello Statuto è possibile individuare anche le tappe più significative dello sviluppo comunale, che inizia addirittura in epoca anteriore al fiorire dei comuni veri e propri.

Infatti, in tale periodo precomunale, si comincia semplice- mente ad avvertire l’esigenza di dismettere l’uso di individuare il diritto da applicare al caso concreto sulla base della nazionali- tà degli interessati, e di affidarsi piuttosto a regole consuetudi- narie sviluppatesi su base territoriale, che si vennero ben presto a raccogliere in testi scritti. Queste raccolte di consuetudines non sono ancora espressione di potere statutario, ma mere rivendica- zioni da parte delle comunità locali del diritto di seguire pro- prie consuetudini15, tuttavia il loro significato era enorme perché davano vita ai primi tentativi di tali comunità di avere una atti- vità giuridica propria, distinta e contrapposta a quella dell’auto- rità, fosse essa impersonata dal feudatario, dal re, o dalla chiesa.

Comunque, inizialmente, queste raccolte di consuetudini afferi- vano esclusivamente al diritto privato, perché soltanto quando il Comune si costituisce come corporazione inizia a pretendere di darsi una propria organizzazione e quindi di esprimere un atto di sovranità quale lo statuto.16

In ragione di ciò, la legislazione municipale si componeva di due parti: la prima formata dalla mescolanza delle norme ci- vili e penali della più diversa provenienza e che avevano dato luogo alle consuetudini locali, la seconda - del tutto nuova - incentrata sulle disposizioni in materia di sicurezza, nonché su quelle dirette ad individuare i diritti e le libertà dei cittadini

15 Ottokar, I comuni cittadini nel medioevo, in Studi comunali e fioren- tini, Firenze, 1948.

16 Ottokar, I comuni, cit. p. 183

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all’interno del Comune ed i loro doveri nei suoi confronti; parti che talvolta formavano un corpo unico ma più spesso restavano distinte, prendendo il nome di statuto soltanto la seconda.

Per quanto si sia a lungo sostenuto che gli statuti municipa- li erano frutto di concessione imperiale, la tesi più accreditata è nel senso che solo nella fase iniziale - ossia in quella consolare - fu necessaria una sorta di conferma dello statuto da parte del- l’autorità, mentre nella fase podestarile ed in quella del popolo, il comune ha piena indipendenza, e dunque riconosce in se stesso il potere e l’autorità di esercitare lo jus statuendi.

In ciò si sostanzia allora la notevole differenza intercorrente con gli statuti dell’Italia meridionale, i quali ultimi non vanno sottovalutati nella loro importanza, ma presentano il connotato del tutto nuovo, rispetto alle pregresse esperienze dell’Italia co- munale, di dover dialogare col ius regium pur essendo a pieno titolo fonte di un ius proprium. Dunque, un diritto locale - espressione di autonomia - ma che presuppone la legislazione del Regnum, ed a cui si impone di conformarsi. Ciò non contraddi- ce l’esistenza stessa dell’autonomia locale, in quanto un certo contrasto di interessi - e perciò di normativa - era pur tollerato, anche se non poteva sfociare in aperta contraddizione; o meglio, la tolleranza era tanto maggiore quanto più ampia era l’autono- mia che ciascun comune era riuscito a sottrarre al potere regio, ed in ciò risiedette anche la sensibile diversità degli statuti e degli ambiti di autonomia di ciascun comune. Per questo si osservano statuti detti della bagliva1 7, che si occupano esclusivamente di polizia amministrativa, ossia si limitano a porre norme sui dazi o sulle aree fabbricabili, ed hanno perciò un contenuto assai bre- ve e molto spesso ripetuto pedissequamente da più comuni; al- tri comuni, invece, adottano statuti estremamente più complessi, che contengono norme sulla costituzione municipale, sul diritto privato, penale, processuale. Anzi, si può osservare talvolta che gli statuti esplicitamente sanciscono che nelle materie di loro

17 Il termine statuto della bagliva deriva da bàiulo, o baglivo, che era l’ufficiale preposto alla polizia amministrativa.

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competenza il diritto locale - che nello statuto appunto si espli- ca - ha prevalenza sul ius regium. Quando assumono questo più ardito e complesso contenuto, gli statuti dell’Italia meridionale si accostano in modo sensibile a quelli quell’Italia comunale: è il caso dello statuto di Benevento, o di Gaeta o di Teramo, che - per quanto ci siano pervenuti in redazioni tarde - presentano un nucleo originario che è senz’altro databile al XII sec.18.

Così come aveva avuto espansione, il fenomeno delle libertà comunali venne poi pian piano a regredire: il primo segnale di questo processo inverso, che inizia già nel trecento, è dato dalla graduale concentrazione nelle mani del “signore” - e con ten- denza a conservarli sine die - di poteri prima in genere detenuti da magistrature elettive e temporanee. In tal modo, acuendosi questo fenomeno, anche laddove il comune aveva rappresentato una realtà politica autonoma, finisce per divenire entità di carat- tere meramente amministrativo; sorte, questa, accelerata dal fat- to che le città si estendevano sempre più ad aree territorialmen- te molto vaste e controllate sempre più facilmente dal principe.

In questo contesto, ove non esistono più magistrature elettive, né organi collegiali con poteri deliberanti - e dunque, si riduce enormemente l’attività statutaria, fino a scomparire - cessa del tutto quel connotato peculiare che aveva accompagnato l’epoca dello splendore comunale (anche di quello sorto nel contesto dello stato monarchico dell’Italia meridionale), ossia la differen- ziazione, il particolarismo, la varietà del ius proprium locale. Si apre la strada invece all’appiattimento, all’uniformità, che impe- rano nel momento in cui si entra nella fase dei cd. “statuti del buon governo”, che venivano emanati dall’autorità centrale, in modo da rappresentare il modello a cui avrebbero dovuto ispi- rarsi i diversi ordinamenti cittadini. Di qui alla imposizione di un regolamento uniforme dei comuni imposto dall’alto, come avvenne - così come si è ricordato in precedenza - in Piemonte e poi in Lombardia e Toscana nel XVIII sec., il passo fu breve, e così pure quello da tale assetto alla scelta accentrata dell’unità d’Italia.

18 Calasso, Enciclopedia del diritto, voce “Comune”, cit., p. 173 ss.;

Pertile, Statuti municipali, in Digesto italiano, 1895, vol. XXII, p. 456 ss.

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Né si riteneva possibile all’epoca ricollegare il discorso delle auto- nomie locali a quello delle libertà comunali, in quanto si osservava che il loro splendore era stato raggiunto anche perché gli interessi e i pro- blemi socio-economici del tempo erano di proporzioni più ridotte, tali cioè da poter essere gestiti in ambito locale, senza che si avvertisse la mancanza di una struttura ordinamentale più ampia, che svolgesse fun- zioni se non di controllo almeno di coordinamento. Inoltre, anche l’au- tonomia politica si sosteneva non potesse più essere individuata negli enti locali dello Stato moderno, in quanto presupporrebbe la piena autonomia finanziaria, che invece non può essere loro riconosciuta se non a patto di escludere che lo Stato possa perseguire l’obiettivo del pieno riequilibrio delle diverse zone del Paese19.

Proprio in ragione del fatto che il comune moderno non nasce più da processi sociali autonomi, ma viene riconosciuto dall’ordina- mento generale, e dunque la sua esigenza di autonomia politica va contemperata con opposte istanze di controllo sulla sua attività, si stabilisce e si conferma una ideale continuità tra il comune dello Stato unitario e quello del meridione d’Italia in età angioina. Anzi, come allora il decadimento dell’autonomia locale cominciò con la scompar- sa graduale dell’elettività delle cariche,così, secoli dopo, la loro riva- lutazione - essendo state le autonomie in verità del tutto penalizzate dalla legge del 1865 - prende le mosse proprio dalla reintroduzione dell’elettività per tutte le cariche, con legge di riforma del 1888, in quanto la precedente normativa provinciale e comunale la prevedeva soltanto per gli organi collegiali,mentre il sindaco era invece nomina- to dal potere centrale.

Per quanto si possa stigmatizzare l’esiguità dello sforzo volto ad incrementare le autonomie locali, va segnalato che oggi, a posteriori, anche per i più accaniti sostenitori delle autonomie comunali è difficile indicare una riforma attuabile all’epoca con qualche spe- ranza di un concreto successo, al di là di quella afferente all’elet- tività delle cariche, per cui il giudizio storico formulato a riguar-

19 v. Caianiello, Premesse storico-culturali dell’ordinamento delle autono- mie locali, cit., p. 88 ss, che riferisce il pensiero di Silvio Spaventa, tratto dal volume dei “Discorsi parlamentari di Silvio Spaventa, pubblicati per delibe- razione dalla Camera dei Deputati”, Roma, 1913.

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do delle scelte operate in sede di unificazione risulta essere so- stanzialmente positivo, in considerazione delle condizioni nelle quali quelle decisioni vennero a maturare.

4. L’autonomia statutaria nella Costituzione repubblicana L’avvento della Costituzione nel 1948 rappresentò l’occasio- ne lungamente attesa per operare una modificazione dell’assetto delle amministrazioni locali, che fosse - se non del tutto innova- tivo - almeno in grado di superare i maggiori inconvenienti che l’uniformità centralista aveva prodotto soprattutto dopo l’esperien- za fascista. In particolare, conseguenze assai poco auspicabili de- rivavano dal fatto che la predisposizione di un ordinamento pre- definito dei comuni faceva si che piccoli centri con pochissimi abitanti e città assai popolose dovessero essere rette dalle mede- sime disposizioni. Proprio in previsione della riforma costituzio- nale si avanzavano proposte volte ad introdurre dei criteri di differenziazione, che potessero apportare qualche utilità ai fini di una maggiore aderenza dell’ordinamento locale alle diverse realtà20: tuttavia, già il profilarsi di questo proposito – ossia il cer- care dei modelli differenziati ma comunque predefiniti di orga- nizzazione locale - era indicativo del fatto che i tempi non era- no ancora maturi per proporre e far approvare un progetto di riconoscimento di piena autonomia degli enti locali minori, che iniziasse dalla libera scelta della formula di governo.

In particolare non piaceva la proposta di diversificare gli ordinamenti comunali puntando su una distinzione tra centri urbani e rurali, perchè si trattava di un criterio molto poco affi- dabile, basato in ultima analisi sul dato della popolosità, nono- stante si potesse portare più di un esempio di comune scarsa- mente popolato, ma centro di importanti uffici pubblici, di uni- versità, di corti d’appello, e all’inverso di centri con molti abi- tanti ma a sviluppo tipicamente rurale21.

20 Atti dell’Assemblea costituente, seduta del 17 luglio 1947

21 Orlando, Principi di diritto amministrativo, Firenze, 1915, p. 188, Gio- venco, voce: Comune, in Novissimo digesto italiano, vol. III, Torino, 1959, p. 825.

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In ogni caso, i costituenti non accolsero queste proposte e operarono una scelta piuttosto originale, basata sulla considera- zione che soltanto il riconoscimento di una totale autonomia sul piano statutario, e dunque organizzatorio, avrebbe potuto porta- re a dare pieno spazio agli innumerevoli elementi che possono caratterizzare le realtà locali, sotto il profilo economico, cultura- le, sociale. Il legislatore costituzionale rinunciò perciò ad una ti- pizzazione che non poteva mai essere completa, assumendo un atteggiamento considerato da taluni volto a conprimere le auto- nomie locali, solo formalmente riconosciute. Altri, invece, sosten- nero che così procedendo si è aperta la strada alla più piena autonomia anche statutaria, per la cui completa attuazione però si è dovuta attendere la legge 142 del 199022.

Non è qui la sede adatta per riepilogare le aspre critiche23 e i plausi che rispettivamente furono rivolte alla Costituzione, relativamente alle norme che di autonomie locali si occupavano - ed in specie l’art. 128, attualmente abrogato; ciò che invece preme sottolineare è che fino al 1990 era stata sostanzialmente disattesa l’ affermazione contenuta all’art. 5 della Cost.24 secondo cui la Repubblica non solo riconosce le autonomie locali ma si impegna a promuoverle, il che implica un atteggiamento dina- mico di promozione e incitamento allo sviluppo. Nulla di ciò invece, era avvenuto in un contesto nel quale ancora i più pic- coli comuni e le maggiori città sono stati costretti ad adattarsi ad un medesimo modello di governo, basato su tre organi - con-

22 In argomento si vedano le affermazioni di Staderini, in La potestà statutaria dei minori enti locali territoriali e la riforma della legge comunale e provinciale, in Foro Amm.vo, 1977, p. 1; ed in L’autonomia statutaria de- gli enti locali nel sistema costituzionale e nelle prospettive di riforma, In Nuova Rassegna di legislazione, dottrina e giurisprudenza, 1988, II.

23 Tra i tanti, si veda Giannini, I Comuni, in Congresso celebrativo del centenario delle leggi amministrative di unificazione, Vicenza, 1967, p. 22; Cas- sese, Tendenze dei poteri locali in Italia, in Riv. Trim. Dir. Pubbl., 1973, 283.

24 In questo senso: Benvenuti, La regione come organismo tecnico, in La regione ed il governo locale, 1965, p. 41; Tosato, La Regione nel sistema costituzionale, in Justitia, 1964, 114. Esposito, Autonomia e decentramento nell’art. 5 della Costituzione, in la Costituzione italiana,Padova 1954; M.S.

Giannini, Autonomia locale ed autogoverno, in Corriere amministrativo, 1948, p. 1057 e ss.

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siglio comunale, giunta e sindaco - che si sono rivelati troppi nelle realtà più semplici, al punto da rendere farraginosi i meccanismi decisionali ed attuativi, altrove invece inadeguati rispetto all’ingente carico di lavoro. Questo fenomeno ha chia- ramente messo in luce l’esigenza di rompere senz’altro lo sche- ma tradizionale secondo cui i Comuni e le Province non pos- sono compiere delle opzioni in merito alla loro organizzazione di base, riconoscendo che soltanto l’ente che può autorganiz- zarsi può effettivamente esprimere una amministrazione della realtà locale secondo principi di efficienza ed imparzialità.

Ecco, dunque, che coloro i quali sostengono che la Costi- tuzione abbia già riconosciuto agli enti locali minori potestà sta- tutaria, offrono una lettura corretta della Carta, anche se pri- ma della legge 142 del 1990 potevano soltanto limitarsi a pro- porre che questo principio avesse finalmente attuazione da parte del legislatore ordinario, segnalando appunto che si sarebbe dovuto consentire ai comuni di seguire moduli costituzionali dif- ferenziati, di istituire controlli interni, di regolamentare il fe- nomeno della partecipazione, di gestire i servizi locali.

Fino a quel momento, invece, la potestà organizzatoria dei Comuni è stata ridotta a ben poca cosa, se si tien conto del fatto che si sono sviluppate prassi contrarie al principio di au- tonomia degli enti locali minori - e dunque contrarie agli artt.

5, 114, 118 Cost. (quest’ultimi due profondamenti revisionati) - come ad esempio quella di emanare leggi sia statali che re- gionali - di attribuzione le prime, di delega di funzioni le se- conde - che non si sono limitate ad attribuire genericamente nuove competenze ai Comuni, in modo che potessero poi essi stessi stabilire in che modo esercitarle, ma hanno individuato anche specificamente l’organo dell’ente che dovrà attivarsi.

Tuttavia, neppure l’intervento della Corte costituzionale valse a scongiurare questa pratica, assai limitativa dei poteri organiz- zatori degli enti minori, in quanto ne fu sancita invece la con- formità a Costituzione25, a dimostrazione della necessità di un improcrastinabile intervento del legislatore al fine di riscrivere i confini delle autonomie riconosciute dall’ordinamento, tenuto conto del fatto che l’intento del costituente era senz’altro quello

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di rendere i comuni autonomi sia rispetto allo Stato che alle Regioni. Ed in effetti il nuovo intervento del legislatore ordina- rio non si fece attendere dando prima luogo alla L.265/9926, che mirò a rafforzare gli ambiti di autonomia particolarmente in materia di organi di governo, poi all’attuazione del T.U.E.L n.267 del 2000 che senza dubbio hanno rappresentato un passo in avanti nel cammino, ancora lungo e niente affatto concluso, ver- so la completa autonomia degli enti locali , se è vero che tali provvedimenti normativi tesero, come meglio si vedrà in prosie- guo, a riconoscere maggiore autonomia statutaria, normativa e organizzatoria a Comuni e Province per affrancarli sia dai con- dizionamenti statali che regionali.

25 Corte Costituzionale, sent. n. 319/1983. Contra e per una interpreta- zione estensiva del potere organizzativo degli enti in esame si veda la sent.

n° 94 T.A.R. Puglia, in Trib. Amm. Reg. 1994 p. 1611 e ss., che appare pre- monitrice delle intenzioni di rafforxamento della attività statutaria degli enti comunali e provinciali, attuate poi dal legislatore costituzionale.

26 V. Italia, Lo statuto dell’ente locale dopo la l. 265/99, Milano 1999, p. 4; AA. VV. Autonomia e ordinamento degli enti locali (a cura di V. Italia), Milano 1999, p. 355; Vigneri – Riccio (a cura di) Nuovo ordinamento e sta- tus degli amministratori, Rimini, 1999, p. 455

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IL FONDAMENTO DELLA POTESTÀ STATUTARIA

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1. Il principio autorganizzativo quale strumento necessa- rio per l’attuazione dell’autonomia locale

Che il riconoscimento a Comuni e Province della facoltà di darsi un proprio statuto fosse da considerare come il primo pas- so verso il raggiungimento di quella concreta autonomia a cui il nostro Testo costituzionale sembra mirare, lo si intese già anni addietro, e precisamente quando si arrivò a ristrutturare demo- craticamente gli organi rappresentativi locali mediante l’elezione a suffragio universale. Si credette, allora, che questo rinnovamen- to delle strutture portanti dei Comuni e delle Province, in so- stanza attuasse fedelmente il modello autonomistico espresso dalla Costituzione1.

Ben presto, però, si capì che quanto fatto non solo non aveva aggiunto nulla o quasi alla condizione che rimaneva di netta subordinazione degli enti oggetto di studio ma che, si ripropo- neva, altresì, un modello di autonomia locale ben lontano da quello teorizzato dai nostri costituenti. Ne è conseguito che per oltre 40 anni l’intero dettato costituzionale relativo agli enti ter- ritoriali minori è rimasto per lo più inattuato, dato che sono sta- te prospettate via via nozioni di autonomie2 che solo apparente-

1 In questo senso, v. G.Berti, Crisi e trasformazione dell’amministra- zione locale in Riv. trim. dir. pubbl. 1973, p. 684.

2 Al riguardo, M.Nigro, Il governo locale. Storia e problemi, Roma, 1979-1980, p. 59, il quale sottolinea che la nozione di autonomia rimane tuttora una nozione oscura soprattutto per le numerose influenze ideologi- che che essa ha dovuto subire.

per l attuazione dell autonomia locale. 2. I comuni e le Province quali ordinamenti originari e particolari. 3. I principali problemi relativi al ruolo che dovrà assumere la struttura organizzativa locale nell’ambito dell’ordina- mento complessivo. 4. I rapporti tra l’amministrazione centrale e le ammi- nistrazioni locali alla luce delle disposizioni vigenti. 5. I criteri organizza- tivi espressi dagli articoli 5 e 114 della Costituzione. 6. Il rapporto tra il revisionato articolo 114 della Costituzione e leggi statali in materia.

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mente valorizzavano il ruolo dei poteri locali minori, ma che in realtà conservavano il vecchio sistema incentrato su autarchia e centralizzazione dell’organizzazione3.

L’errore più evidente è stato quello di concepire l’autono- mia degli enti locali essenzialmente come autonomia normativa, ossia “come capacità di emanare norme giuridiche che lo stato assume nel proprio ordinamento giuridico4”, trascurando, così, quel principio essenziale che ispira il nostro Testo costituziona- le, ovvero il momento organizzativo delle autonomie.

Tale ordine di idee trova origine nel fatto che parte della nostra dottrina (quella sicuramente meno sensibile alle esigenze autonomistiche) ha sempre mostrato il timore che il far emerge- re dalla Carta costituzionale anche un’autonomia organizzatoria di Comuni e Province, potesse ben presto risultare il tassello de- finitivo per la concreta realizzazione di quell’autonomia di indi- rizzo politico da più autori indicata come il vero elemento capa- ce di innescare un processo di smembramento dell’unità stata- le5. Si spiega così l’orientamento assunto dal legislatore statale che, pur di vedere scomparire dalle leggi comunali e provinciali ogni residuo di potestà statutaria, ha manifestato una propensio- ne a riconoscere alle autonomie territoriali minori una sempre più ampia potestà regolamentare6 che, benchè non fosse più solo

3 AA.VV., Autonomia politica regionale, Milano, 1975, p. 25 ss.

Zanobini,Corso di diritto amministrativo,II vol.; Virga, L’organizzazione ammi- nistrativa, Padova 1958; G. Treves, L’organizzazione amministrativa, Torino, 1967.

4 È quanto riferisce Colzi, La Provincia ed il Comune nell’ordinamento costituzionale, in Commentario a cura di Calamendrei-Levi, 1953, p. 404. Nel medesimo ordine di idee, v. F. Pizzetti, Il sistema costituzionale delle autono- mie locali, Milano, 1979, p. 798ss.; M.S.Giannini, Autonomia (Teoria generale e diritto pubblico), In Enc. Dir. IV°, 1959, p. 356 ss.; F. Pergolesi, Sistema delle fonti normative, Milano, 1973, p. 71 ss.

5 Occorre rilevare che non pochi studiosi hanno spesso identificato l’au- tonomia politica con l’autonomia normativa in nome della tutela dell’unità statale, in proposito, C. Esposito, Autonomie locali cit. 1954. In senso diver- so, T. Martines, Studio sull’autonomia politica delle regioni, RTDP, 1959, p.

140. G. Berti,La pubblica amministrazione come organizzazione,Padova 1968, pp. 62, 63, 64.

6 L’esempio più evidente è dato dal D.P.R. 616 del 1977 che ha cerca- to di ridisegnare il ruolo dei poteri locali mediante il trasferimento di interi blocchi di competenze, articolati per settori organici, in modo unitario. C’è

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costituita da semplici norme di dettaglio esecutive di leggi stata- li, ha circoscritto non di poco il raggio di azione degli enti in parola. In altre parole, le tendenze accentratrici hanno, pur di scongiurare l’idea che dalla Carta fondamentale potesse desumersi una potestà statutaria a Comuni e Province, deciso di convoglia- re nella sola potestà regolamentare l’autonomia degli enti locali minori con la mortificante conseguenza di renderla di fatto ste- rile. A tal proposito, giova ricordare gli interventi di illustri stu- diosi, che, pur muovendosi su terreni diversi, hanno poi tutti finito coll’escludere un tal importante riconoscimento. Limitan- dosi agli anni a noi più recenti, spiccano gli studi svolti da Bar- tole e da Casetta-Sica7. Nel primo l’idea di fondo era rappre- sentata dal fatto che poichè la nostra Costituzione poneva su due distinti livelli di autonomia le Regioni, i Comuni e le Province, negava che l’autonomia degli enti minori potesse trasmodare in facoltà di dettare i principi essenziali per la propria organizza- zione. Nel medesimo ordine di idee è da ricondurre lo studio di Casetta-Sica; questi ultimi, puntando sul carattere soggettivo dell’autonomia dei Comuni e delle Province, hanno sostenuto che in nessun modo la potestà statutaria di Comuni e Province può essere posta sullo stesso piano di quella delle Regioni, e che tale diversità di ruoli è confermata dal fatto che gli atti degli enti locali minori sono sottoposti allo stesso tipo di controllo cui sog- giacciono gli atti amministrativi regionali. Come è evidente, le tesi appena delineate, sebbene di indubbio valore scientifico, sono facilmente criticabili poichè entrambe s’imbattono in un vizio di fondo, ossia quello di ignorare che la Costituzione repubblicana

da rilevare che alcuni autori hanno persino cercato di desumere implicitamen- te dal D.P.R. 616/77 il riconoscimento di una potestà statutaria a favore dei comuni e delle Province, in questo senso, G.Amato e A. Barbera, Manuale di diritto pubblico, Bologna, 1997, p. 573. Si è dell’opinione, tuttavia, che, in via di fatto, la normativa in esame non abbia chiarito del tutto il sistema del ri- parto delle attribuzioni tra Comuni e altri enti, tanto che oggi sono molti ad essere convinti che una delimitazione razionale delle attribuzioni comunali avrebbe giovato non solo gli enti locali, ma anche allo stesso Stato.

7 Bartole, Brevi note sui limiti dell’autonomia delle Regioni, in Giur.

Cost., 1965, p. 267; Sica, Contributo cit. p. 146.

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ha riconosciuto, e quindi garantito, il momento giuridico oggettivo dell’organizzazione comunitaria locale8.

In effetti, rileggendo il Testo fondamentale relativo al ruolo delle autonomie territoriali alla luce della riforma del Titolo V, non sem- bra che esistano seri dubbi sul fatto che la Costituzione, ispirata alla valorizzazione delle pluralità, operi chiaramente a favore del potenziamento della potestà auto-organizzativa degli enti in parola.9 Ma qui sta il punto nodale del discorso; la potestà organizzati- va a cui si riferisce il nostro Testo fondamentale non deve essere intesa quale involucro vuoto capace poi di risultare una sorta di schermo all’evolversi dell’autonomia locale10; al contrario, deve es- sere concepita quale espressione di un effettivo contenuto materia- le volto alla realizzazione di determinati scopi, i quali dipendono poi direttamente da tale contenuto11.

È a questa sola figura organizzativa che la nostra Costituzione sembra mostrare interesse, poichè è l’unica capace di qualificare l’autonomia locale come il risultato di relazioni intercorrenti tra ordinamenti12. Ecco perchè appare fondata la tesi secondo la quale quanto disposto dall’art. 4, 2° c. della L.n.131/2003 sia, ancor pri- ma che principio innovativo dell’intera legislazione in materia, prin- cipio attuativo di quel modello autonomistico e pluralistico di cui si fa portavoce la Carta fondamentale13. Le stesse figure dell’autono- mia e del decentramento14, più volte menzionate dal Testo fonda-

8 Al riguardo, G. Berti, La pubblica amministrazione cit. p. 61;

M.Giannini, Diritto amministrativo, cit. pp. 94-95. Di recente AA.VV. il nuo- vo ordinamento della Repubblica (a cura di F. Pizzetti), 2003, p. 89.

9 Si veda anche Atti parlamentari, Camera dei deputati, X legislatura, Commissione I, seduta del 5 dicembre 1990.

10 L’articolo 97 della Costituzione, in effetti, ponendo l’organizzazione quale momento centrale dell’amministrazione, riconosce che dalla struttura organizzativa dipende non solo il buon andamento degli uffici, bensì anche il modo concreto di condursi degli uffici medesimi nella loro attività.

11 Giannini, Autonomia (Saggio sui concetti di autonomia), in Studi di diritto costituzionale in memoria di L. Rossi, Milano, 1952, p. 200 ss

12 In proposito, G. Guarino L’organizzazione pubblica, Milano, 1977 p. 95-96.

13 Si cfr. A. Ferrara,L’incerta collocazione dell’ordinamento degli enti lo- cali tra federalismo e municipalismo e il nodo delle “funzioni fondamentali”, in www. Federalismi.it n. 5/2004

14 Ibidem

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mentale, s’informano direttamente a principi di organizzazione oggettiva15, dato che solo sulla base di questi elementi è possibi- le liberare l’amministrazione locale dal vincolo della burocrazia e porla concretamente come realtà autonoma.

2. I Comuni e le Province quali ordinamenti originari e particolari

Autonomia statutaria, quindi, quale elemento essenziale del- l’autonomia locale, nonchè principio accolto dal Testo costituzio- nale. Sostenere il contrario equivarrebbe a correre il rischio di rendere arido il momento essenziale dell’amministrazione locale;

di ricomprimere la sua attività a mera espressione statica e for- male; in altri termini, di riproporre le amministrazioni locali quali soggetti dotati di personalità giuridica16 e subordinati all’ammini- strazione statale-centrale, nonostante la nostra Carta fondamen- tale manifesta apertamente la volontà di considerarle reali centri di potere, ossia quali “ordinamenti”.17

Quanto detto sembra avere una valenza di notevole portata:

gli enti Comuni e Province sono riconosciuti dal riformato arti- colo 114 della Costituzione quali ordinamenti particolari ed ori- ginari, espressione di un potere obiettivo. Com’è noto, l’innova- zione accolta dalla nostra Costituzione ha dovuto assistere, in tutti questi anni, ad una sorta di inerzia da parte del legislatore18. La dottrina tradizionale, in effetti, ha sempre manifestato una certa diffidenza nel configurare la potestà auto-organizzatoria dei po- teri locali minori quale valorizzazione e concretizzazione della loro autonomia, arrivando addirittura a sostenere che tale riconosci-

15 Sul valore del decentramento quale criterio atto a disciplinare un momento organizzativo -Roversi- Monaco, Profili giuridici del decentramento nell’organizzazione amministrativa, Padova, 1970, p. 125.

16 G. Berti, La pubblica amministrazione, cit. p.8.

17 v. C. Mortati, Istituzioni di diritto pubblico, IX ed., Padova 1965 p.

99; A. Pubusa, Sovranità popolare e autonomie locali, Milano, 1983, p. 18.

18 Sul punto, M.S.Giannini, I comuni, cit. p. 28, 1965.

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mento potesse essere lesivo del principio di unità e di indivisibilità espresso dal Testo costituzionale19.

Pare invece che non si possa cogliere il reale ruolo degli enti lo- cali, se non si valorizzano appieno i criteri auto-organizzativi che tali realtà esprimono.In verità già con il 1° e 2° c. dell’art. 4 della legge 142/90, e poi con l’art. 6,2° c. del Tuel n. 267/2000, che hanno ricono- sciuto a Comuni e a Province la facoltà di dettare le norme fonda- mentali per la propria organizzazione, dimostrano come il legislatore il statale si decise ad intraprendere quel percorso di profondo rinnova- mento che la Carta fondamentale gli aveva chiaramente delineato20.

Non bisogna dimenticare, infatti, che la Carta repubblicana ha da sempre posto, tra i suoi obiettivi principali, il riassetto delle autonomie locali, dimostrandosi chiaramente a favore del superamento del tradi- zionale rapporto esistente tra enti locali e Stato-amministrazione che si concretizzava, com’è noto, in un semplice rapporto tra soggetti dotati di personalità giuridica. Il solenne principio secondo il quale il legisla- tore statale deve adeguare la sua attività legislativa ai metodi ed ai criteri delle autonomie locali, significa principalmente che il Testo fondamen- tale si è ispirato al criterio di un rapporto tra ordinamenti21, nel quale Stato e realtà locali esprimono entrambi la loro originarietà e la loro indipendenza.

Da ciò si evince che il carattere auto-organizzativo delle autono- mie in esame viene dalla Costituzione non solo definito rilevante, ben- sì addirittura essenziale ai fini della concreta attuazione dell’autonomia locale22; gli articoli 5 e 114, dimostrano che la nostra Carta fondamen-

19 Gueli, Concezione dello Stato e del diritto e tecnica giuridica, in Riv.

Trim. Dir. Pubbl., 1956, p. 946 ss.

20 v. Italia, Lo statuto dell’ente locale, dopo la l. 265/99, cit., p.7; AA.VV.

Autonomia e ordinamento degli enti locali, cit., p. 19 ss.; Vigneri , Riccio (a cura di) Nuovo ordinamento e status degli amministratori, cit., p. 20 ss.

21 Con ciò si vuole indicare la distinzione che la nostra Carta fonda- mentale opera in seno allo Stato fra ordinamento generale ed ordinamenti particolari, ciascuno dei quali ha un proprio fondamento che ne assicura la vigenza. In tal guisa, consegue che non pare azzardata la tesi secondo la quale si istaurerebbe tra gli ordinamenti in esame un rapporto di effettiva equiardinazione, nel quale il carattere dinamico risulterebbe principalmente dalla attività oggettiva degli ordinamenti particolari, i quali, così, si porreb- bero quali parti costituenti lo stesso ordinamento generale complessivo.

22 In questo senso, Esposito, Autonomia locale, cit. pag. 89 più note; C.

Corsi, L’autonomia statutaria dei Comuni e delle Province, Milano 1995,pp.94

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tale si è ispirata ad un sistema pluralistico di centri di potere23, i quali traendo il proprio esistere da comunità diverse da quella statale, possono essere portatori anche di un proprio indirizzo politico-amministrativo24. Il principio secondo cui il nostro ordi- namento giuridico complessivo riconosce la presenza di ordina- menti territoriali, particolari ed originari, pur rimanendo sempre dell’avviso che la sovranità risiede nel solo ordinamento comples- sivamente inteso25, acquista sempre maggior credito.

In altri termini, il nostro Testo costituzionale ha decisamen- te abbandonato la teoria secondo la quale nell’ordinamento generale complessivo era possibile solo riscontrare una pluralità di soggetti rappresentata dagli uffici dello Stato e dagli enti pub- blici strumentali, per valorizzare, viceversa, una pluralità di po- teri indipendenti, capaci, attraverso la loro normazione, di con- dizionare le stesse direttive statali.

A questo punto sembra lecito domandarsi quali possano es- sere gli elementi necessari affinchè si individui un ordinamento.

Prendendo in prestito la definizione che di ordinamento ha dato un nostro autorevole studioso, qual è M.S. Giannini, dicesi ordinamento “quel gruppo organizzato ed effettivamente produt- tore di norme26”. Ne consegue, che, qualora si volessero ricerca- re gli elementi27 costituenti un ordinamento, la ricerca ricadreb- be indiscutibilmente su tre componenti: l’organizzazione, la nor- mazione, un nucleo componente un gruppo. Ora, se si ripercor-

e ss; Di recente, R.Leonardi, Il governo nel territorio nel “tiro alla fune” delle competenze tra Stato, Regione enti locali, in Foro amministrativo, n.12/2003 p.

213 e ss.

23 Berti, Il principio organizzativo, cit. pp. 123 e ss.

24 Giardini, Politica e amministrazione nello Stato fondato sul decentra- mento, Milano, 1981, p. 179.

25 In tema di relazioni tra il concetto di autonomia e quello di sovrani- tà, Romano S., Frammenti cit. p. 16 ss., il quale partendo dalla concezione dello stesso Stato quale persona giuridica, ha ritenuto che nell’orbita della sovranità rimanesse assorbita l’autonomia. In senso contrario, G.Berti, La pubblica amministrazione, cit., p. 61-62.

26 M.S Giannini, Diritto amministrativo, cit., p. 97.

27 M.S.Giannini, Gli elementi degli ordinamenti giuridici, in Riv. Trim.

Dir. Pubbl. 1958.

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