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Rinnovazione istruttoria in appello ed overturning: prospettiva europea e soluzioni domestiche

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Academic year: 2021

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UNIVERSITA’ DI PISA

Dipartimento di Giurisprudenza

Corso di Laurea Magistrale in Giurisprudenza

Tesi di Laurea

Rinnovazione istruttoria in appello ed overturning:

prospettiva europea e soluzioni domestiche

Il Relatore Il Candidato

Prof.ssa Valentina Bonini Lorenzo Frediani

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7 INTRODUZIONE

Il presente elaborato intende esaminare la tematica della rinnovazione istruttoria dibattimentale in appello. Volge perciò lo sguardo alla disciplina dell’articolo 603 c.p.p., ovvero la fonte indicante quali presupposti siano richiesti affinché si possa o si debba rinnovare: questo in quanto sono prescritte tanto ipotesi di rinnovazione discrezionali, quanto obbligatorie. Infatti vi sono casi azionabili su richiesta di parte, in merito a prove già acquisite nel dibattimento di primo grado o prove nuove, nei quali il giudice potrà discrezionalmente valutare se sia o meno in grado di decidere allo stato degli atti, incidendo così sulle sorti della richiesta. Sempre tra quelli attivabili su impulso di parte, emergono richieste inerenti a prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado, dove l’utilizzo del verbo declinato all’indicato presente “dispone”, chiarisce la posizione delle medesime come obbligatorie. Inoltre la rinnovazione può essere disposta

ex officio, se il giudice la ritiene assolutamente necessaria. Questa

descrizione fino a poco tempo fa poteva essere esaustiva, ma, a seguito della c.d. Riforma Orlando, è doveroso far menzione di un’ipotesi ulteriore, da aggiungere a quelle dal carattere vincolante. Ci si riferisce al comma 3

bis del succitato articolo che dispone: “nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale”. In questo articolo si percepisce la volontà del

Legislatore di limitare i casi in cui la prima condanna per l’imputato possa derivare da un giudizio “ex actis”: si tratta di una problematica focale per il presente lavoro, dato che, prima dell’intervento del Legislatore, si è, in tal senso, registrato lo sforzo della Corte di legittimità e, soprattutto, della Corte europea dei diritti dell’uomo. Infatti la Corte edu è stata la prima ad aver dato impulso al dibattito, domandandosi quali scenari si sarebbero aperti se il giudice ad quem avesse compiuto overturning di una sentenza assolutoria, sondando quali correttivi possono porsi per tutelare un imputato che viene condannato per la prima volta in appello.

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Dalla descrizione delle ridotte ipotesi di riassunzione, ne deriva la concezione dell’appello come giudizio ordinariamente cartolare, che solo eccezionalmente, può essere connotato da oralità. E’ così marcato il confine tra regola e eccezione. Ciò in quanto si ricerca una maggiore fluidità nell’iter processuale, altrimenti appesantito dal costante contraddittorio nella formazione della prova. La scelta di una siffatta configurazione per il giudizio di secondo grado deriva dalla presunzione di completezza dell’istruttoria di prime cure, altrimenti sanabile ricorrendo al recupero straordinario di oralità e immediatezza. Perciò le riflessioni giurisprudenziali e dottrinali sono incentrate sulla bontà o meno di un giudizio cartolare, sul possibile rispetto dell’articolo 111 Cost, che appare chiaro nel richiedere il contraddittorio nella formazione della prova, acuendo, poi, i dubbi in ipotesi di ribaltamento di sentenze di proscioglimento: può in tali casi, come in passato la Corte di legittimità ha disposto, essere davvero sufficiente la sola formulazione di una motivazione rafforzata? Quando il giudice di seconde cure contesta la valutazione effettuata su una prova dal giudice a quo, è lecito ritenere bastevole il ricorso ad una più puntuale e specifica giustificazione logica o dovrà, come avvenuto per il giudice la cui valutazione sia contestata, saggiare vis a vis la fonte, promuovendo rinnovazione?

E’ principalmente sul dibattito inerente ai meccanismo del ribaltamento di sentenze assolutorie che si incentra la tesi. Ciò in quanto, soprattutto in tempi recenti, le risposte a tali interrogativi si sono fatte sempre più fitte. Si tratta di un quadro complesso, ove la complessità deriva dal fatto che le soluzioni prospettate provengono da fonti interne diverse, oltre che multilivello, e spesso non coerenti tra loro. Perciò saranno sottoposte ad analisi le pronunce della Corte di legittimità, alla luce del contestuale orientamento giurisprudenziale europeo, nonché degli interventi del Legislatore, della Corte Costituzionale e perfino delle Corti di merito. Saranno diverse le soluzioni proposte, passando dal riconoscimento o diniego di rinnovazione in caso di overturning assolutorio, alla possibile estensione a riti speciali o a qualsiasi ipotesi di ribaltamento di sentenze di primo grado; questo perché distinte saranno anche le fondamenta del

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ragionamento: in tal senso sarà emblematica la contrapposizione tra chi fa perno sul rispetto del principio dell’al di là di ogni ragionevole dubbio ex articolo 533 c.p.p. e chi sulla tutela di immediatezza e oralità.

Il presente elaborato quindi, dopo la descrizione dei principi che reggono l’appello, si concentra sull’evoluzione normativa e la relativa disciplina per il giudizio di secondo grado alle porte della c.d. Riforma Orlando. Quindi partendo da una prospettiva statica della rinnovazione, cioè come si presentava prima della legge 103 del 2017, si ricercano i “moti” che hanno portato il Legislatore a riconsiderarne l’assetto. Promuovendo un percorso diacronico, in primis è stata posta attenzione alle numerose sentenze della Corte Edu in tema di overturning: ciò anteponendo al relativo contenuto, la descrizione della gerarchia delle fonti e il vincolo che rappresentano per l’ordinamento italiano. Questo spiega anche la conseguente centralità del tema a livello domestico, anche se decenni dopo le prime pronunce europee. Un carattere che segna la giurisprudenza europea in merito alla tematica della rinnovazione istruttoria e la distingue da quella nazionale è la coerenza: infatti, salvo rare ipotesi, si legge un’invidiabile linearità in ambito sovranazionale, nonostante un esteso arco temporale tra le varie pronunce. La pronuncia più risalente riguarda il caso Heikhatani c. Svezia, degli anni ’80, celebrativa di un principio ausiliario al tema della rinnovazione: ovvero il diritto dell’uomo all’udienza pubblica. La giurisprudenza sovranazionale, in quell’occasione, ha sottolineato il diritto alla rinnovazione del contatto diretto tra giudice e prova come estrinsecazione del diritto all’udienza pubblica nel giudizio d’impugnazione. Affrontando il dibattito europeo, non era possibile non soffermarsi sulle sentenze più celebrate sul tema: Dan c. Moldavia e Hanu c. Romania. La prima è emblematica del “credo europeo” in ambito di prove dichiarative esclusive o determinanti: da qui il principio chiave: “in linea di principio, chi

ha la responsabilità di decidere sulla colpevolezza o innocenza di un accusato, dovrebbe avere la possibilità di ascoltare personalmente il testimone in persona e stabilire la sua credibilità, aggiungendo l’inidoneità

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confermando la precedente, da una visione di tale principio come consolidato e aggiunge che, qualora la parte non si attivi, spetterà al giudice comunque agire. Perciò, salvo le recenti Kashlev c. Estonia e Chiper c. Romania, che avvalorano il sufficiente ricorso ad una motivazione rafforzata in presenza dei specifici presupposti, la Corte Edu manda segnali non equivoci all’Italia in merito al modus operandi da seguire in casi di

overturning di sentenze di proscioglimento. Tuttavia il recepimento

domestico è timido e tardivo rispetto agli spunti del Giudice dei diritti dell’uomo: in merito si può parlare di un prima e un dopo Dan c. Moldavia perché, anche se nella sentenza non si riscontra un contenuto innovativo, solamente da tale momento in poi la Suprema Corte si avvicina all’orientamento delle pronunce europee. Infatti, anteriormente, risultava ferma la convinzione che al giudice d’appello si imponesse solo un’obbligo di motivazione rafforzata nel capovolgimento assolutorio. Successivamente alla suddetta sentenza invece, la Corte si apre al concetto di doverosità della rinnovazione istruttoria dibattimentale in ambito di ribaltamenti assolutori. Su tutte le pronunce, può citarsi quanto contenuto nella sentenza Dasgupta: “in caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza

assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell'affermazione della responsabilità penale dell'imputato, senza avere proceduto, anche d'ufficio, a norma dell'art. 603 c.p.p., comma 3, a rinnovare l'istruzione dibattimentale attraverso l'esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado”. Questo può ricondursi al primo vero

passaggio verso una tanto attesa linearità: invero la sentenza Dasgupta sembra finalmente coerente con l’impostazione europea, allontanandosi dall’interpretazione restrittiva di quest’ultima che la Cassazione forniva. Allo stesso modo, la successiva sentenza a Sezioni Unite Patalano avvalora tale interpretazione, estendendolo anche al rito abbreviato, e così fa il Legislatore del 2017, traducendo il dictum in norma per mezzo del comma 3 bis dell’articolo 603 c.p.p.. Alla luce di questa sintetica carrellata, quindi,

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si potrebbe concludere che è finalmente giunta la quadratura del cerchio. Tuttavia, emerge una prima crepa attraverso la sentenza Marchetta che estende il dovere di rinnovare ad ogni caso di ribaltamento, di contro incidentalmente negato dalla Dasgupta, successivamente ricomposta dalla stessa Corte a Sezioni Unite, negando la suddetta logica di ampliamento ad ogni caso di overturning. Una seconda, invece, in itinere, in grado di compromettere l’operato del Legislatore: in riferimento alla questione di legittimità costituzionale dell’articolo 603 c.p.p., sollevata dalla Sezione Penale della Corte d’Appello di Trento. Sarà, perciò, necessario attendere la pronuncia della Corte Costituzione per comprendere se l’attuale orientamento consolidato ne uscirà rafforzato o compromesso.

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12 CAPITOLO I

I PRINCIPI NAZIONALI E SOVRANAZIONALI DELL’APPELLO

Sommario: 1 Il principio del doppio grado di giurisdizione.2 Il modello accusatorio.3 Il principio del ragionevole dubbio. 4 Il principio del giusto processo: tra l’articolo 111 della Costituzione e l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

1 IL PRINCIPIO DEL DOPPIO GRADO DI GIURISDIZIONE

L’appello è un mezzo di impugnazione ordinario, attraverso il quale le parti possono chiedere al giudice di secondo grado di controllare una decisione di primo grado che le stesse ritengono viziata in fatto o in diritto.1Dalla

definizione dell’istituto è possibile cogliere la facoltà per le parti di sottoporre la cognizione ad una figura diversa da quella che ne ha giudicato la controversia in primo grado, al fine di poter promuovere un riesame sulla stessa. E’ la finalità di garantire alle parti che, in caso di doglianza avverso la prima decisione, il raggiungimento delle verità processuali si esprima per mezzo di un doppio grado di giudizio, a plasmare la ratio dell’impugnazione2. In tale angolo visuale, l’errore assume “non solo una connotazione del giudizio umano, ma anche uno strumento idoneo al raggiungimento della conoscenza”, da cui ne deriva che “la consapevolezza di questo metodo euristico impone che la scoperta di un fatto avvenga per gradi successivi”3. Poichè il convincimento umano può essere fallace

occorre predisporre correttivi per tutelare l’individuo dall’errore: da questa

1 P. Tonini, Diritto processuale penale, Giuffrè editore, Varese,2009, pagina 659

2 Vedi: S. Sottani, Un sistema in trasformazione, in Le impugnazioni penali, a cura di Gaito, I, Torino

1998, pag 33 e ss

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premessa è possibile rintracciare il fondamento del doppio grado di giudizio di merito4.

Possono così essere individuati gli interessi che muovono il processo penale: se da un lato infatti sembra opportuno prevedere più gradi, funzionali all’attribuzione di maggiore stabilità alla verità processuale, dall’altro vi è l’esigenza di fissare un termine ultimo di conoscenza, a seguito del quale l’accertamento contenuto nella sentenza dovrà fare stato. Da tale angolo prospettico si può spiegare la fisiologia dell’iter processuale, che non si confà di un unico grado ma nemmeno di una molteplicità degli stessi. Invero il principio del doppio grado di giudizio si pone a presidio di diritti processuali tra loro contrapposti ma bilanciabili. Esso è infatti al contempo orientato a tutelare il diritto di difesa e ad assicurare la ragionevole durata del processo, in quanto un’eccessiva dilazione comprometterebbe un interesse, proprio anche dell’imputato, di definizione in tempi rapidi del processo penale.

Il primo passo verso la definizione del principio del doppio grado di giudizio risiede nel puntualizzare la negazione di un suo utilizzo da parte del Legislatore5 e nell’assenza di disciplina riscontrabile nel diritto positivo. In

dottrina, tuttavia, tale principio è stato definito come: “un modello al quale le

concrete soluzioni adottate de jure condito e discusse de iure condendo possono essere più o meno vicine secondo il loro tenore”6. Da queste parole

emerge una generale condivisione del doppio grado, che trae origine da molteplici motivazioni: l’anzianità e il più alto grado dei giudici d’appello, la possibilità di avvalersi della motivazione del giudice a quo, ovvero una serie di elementi che segnano il convincimento quindi di un controllo più scrupoloso e puntuale attuabile mediante più gradi.7

4 Vedi: S. Furfaro, Doppio grado di giudizio di merito sulla prova “a carico”, in Principi europei del

processo penale a cura di A. Gaito, Dike,2016, pag 523

5 Il termine doppio grado è di derivazione dottrinale, non impiegato invece dal Legislatore 6 Cit: E.F. Ricci, Doppio grado di giurisdizione, Enciclopedia giuridica Treccani, Roma,1989, pag 1 ss 7 Tra i sostenitori del mantenimento del doppio grado in dottrina: E. Mele, Doppio grado di

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A livello dottrinale può essere citata, tra le tesi a sostegno del doppio grado, l’autorevole posizione8 che riconosce come la radice di tale garanzia

processuale debba essere rintracciata nel disposto del 2 comma dell’articolo 24 della legge 11.3.1953 n 87. Nella succitata legge, contenente norme su costituzione e funzionamento della Corte costituzionale, è presente, per l’appunto, l’articolo 24, indicante che, qualora l’eccezione di illegittimità costituzionale venga respinta per manifesta irrilevanza o infondatezza, l ‘eccezione possa essere riproposta all’inizio di ogni grado ulteriore del processo. L’estensione compiuta da tale dottrina, rivolta a definire il doppio grado come rimedio di carattere generale sempre e comunque esperibile, è fondata sulla collocazione sistematica della legge in questione all’interno delle fonti di diritto e dall’ allargamento dei giudici abilitati a sollevare questioni di costituzionalità, da cui ne deriverebbe l’interpretazione dell’articolo 24 come “strumento idoneo a condizionare

ogni processo giurisdizionale alla necessaria articolazione in due gradi di giudizio”9.

Al principio in esame è possibile riconoscere una duplice valenza, essendo un istituto volto a tutelare sia gli interessi dell’ordinamento che quelli del singolo cittadino coinvolto nell’accertamento giurisdizionale: sul primo versante consente di privilegiare la certezza delle situazioni giuridiche sulle aspirazioni individuali; sul secondo invece, la necessità di un controllo sulla decisione impone di sottoporre la controversia ad un secondo scrutinio, con prevalenza, in tale ottica, delle istanze liberali su quelle istituzionali tese alla stabilità di sistema.10

Va peraltro affermato come il doppio grado di giudizio non possa essere necessariamente descritto come una garanzia per l’imputato: quest’ultima affermazione potrebbe, a rigor di logica, essere enunciata solo condividendo una visione restrittiva del principio, ovvero richiedendo necessariamente una seconda pronuncia confermativa di condanna, come

8 Tesi espressa da G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema

costituzionale italiano, Giuffrè, Milano,1993, pag 1 e ss

9 Cit G. Serges, op cit, pag 1 e ss

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garanzia per il condannato, sulla base di un modello di doppia conforme11.

Infatti, se di contro, si accogliesse una visione più ampia dello stesso, come diritto per entrambe le parti di impugnare, l’appello potrebbe promuovere effetti peggiorativi per l’imputato, perdendo l’accezione di tutela per il singolo, in quanto mosso anche da un’ulteriore finalità, ovvero dalla volontà di difendere l’interesse dell’ordinamento. Da tale angolo visuale è possibile smentire la formula: “la non costituzionalizzazione del principio del doppio

grado di giudizio è tradizionalmente affermata in relazione al parametro del diritto di difesa”12 espressa sul tema dalla Consulta.

Nonostante possa apparire ovvia la risposta positiva circa l’esistenza di una tutela costituzionale per l’istituto dell’appello, attraverso una lettura motivata sia dall’esperienza giudiziaria che dalla convinzione che sia opportuno in ogni circostanza offrire un rimedio al manifestarsi dell’errore, che sembrerebbero dare impulso a tale conclusione, la risposta alla suddetta domanda deve invece essere negativa13. Infatti la Carta costituzione nel

1948 ha sì riconosciuto il principio del doppio grado di giurisdizione, non però a livello del diritto civile o penale ma solamente nella giustizia amministrativa14.Tale opzione ermeneutica non comporta necessariamente

una menomazione per la tutela dei diritti individuali, come infatti acutamente sottolineato in dottrina: “una ripetizione del giudizio per un numero più alto

possibile di volte offre maggiori possibilità di individuare la soluzione più giusta da dare al caso, è evidente che nulla dimostra che più giusta sia proprio la soluzione che viene trovata per ultimo”15. L’assenza di una

copertura costituzionale, come già indicato, non è risultata di ostacolo per un accoglimento a livello di legislazione processuale, tale da estendere la

11 Modello in uso nel diritto canonico, che ritiene esaustivo il secondo grado solo qualora sia rivolto

alla conferma del primo.

12 Cfr: Corte Cost, n487 del 1995

13 Vedi: L. Grilli, L’appello nel processo penale, Cedam, Milano,2001, pag 7 e ss

14 Vedi: A. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, in Rivista Dir.

Proc.,1978, pag 35. L’autore descrive la scelta dell’assemblea costituente di negare la costituzionalizzazione del doppio grado, attribuendo alla Corte di Cassazione la veste di “garante dell’habeas corpus”.

15 Citazione tratta da: A. Pizzorusso, Doppio grado di giurisdizione e principi costituzionali, op cit,

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sua incidenza non solo a livello di processo ordinario o amministrativo, ma anche a processi speciali e forme di tutela giustiziale; per quest’ultime è stato riconosciuto come proprio l’articolazione in due gradi di giudizio di merito possa considerarsi una delle più rilevanti forme di garanzia in esse previste16. La conferma di questo moto estensivo del principio del doppio

grado oltre i confini del procedimento ordinario è tangibile nel relativo riconoscimento anche riguardo il processo tributario e il giudizio contabile, che porta a concludere come ormai lo stesso abbia assunto una natura di criterio generale, unificante la giurisdizione.

Circa il rispetto del doppio grado, non è tuttavia mancata in dottrina17 una

visione critica fondata sui presupposti che il ricorso in Cassazione possa già essere satisfattivo del principio di giustiziabilità degli atti dei pubblici poteri e di come il doppio grado non assicuri efficienza all’azione amministrativa, sia per il rallentamento dell’azione penale procrastinando il momento decisionale, sia per l’incertezza generata dal riconoscimento della seconda pronuncia come in ogni caso più corretta della prima. In tale ottica, il principio in esame esprime un’anacronistica struttura gerarchica degli organi giudicanti, concependo una subordinazione del giudice di primo grado rispetto a quello di appello, quando invece, per doverosa linearità con il dettato dell’articolo 101 2 comma della Costituzione, dovrebbe essere presente come unica condizione di soggezione che investe il magistrato, quella alla legge.18

Sull’esegesi giurisprudenziale del principio, va osservato come la Consulta si sia espressa ripetutamente sul doppio grado19, attraverso pronunce

accumunate dall’averne smentito natura di principio costituzionalmente garantito. Esso non impone infatti di assicurare alle parti la loro conservazione di ogni grado di giudizio, potendo invece essere soggette a sottrazione di una fase dell’iter. Una soluzione sostenuta nonostante

16 Tesi espressa da G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema

costituzionale italiano, op cit, pag 1 e ss

17 Vedi: S. Sottani, Le impugnazioni penali, op cit, pag51 18 Vedi: S. Sottani, Le impugnazioni penali, ibidem

19 Vedi: Corte Cost, sentenze n 8 del 1982, nn 62 e 47 del 1981; n.186 del 1980, n 274 del 1974, nn

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l’articolo 24 della Costituzione garantisca il diritto di difesa con la formula:

“in ogni stato e grado del processo”. Da tale lettura, che non riconosce

copertura costituzionale al principio, ne deriverebbe una piena discrezionalità per il Legislatore ordinario di limitare o anche escludere per la parte il diritto all’esercizio dell’impugnazione, scelta che però non è stata concretizzata, tanto che è stato previsto il positivo riconoscimento normativo dell’appello. Le pronunce della Corte costituzionale non hanno suscitato piena condivisione in dottrina, ove è dominante una visione estensiva del doppio grado. Infatti è stato sostenuto che il doppio grado dovrebbe essere riconosciuta rilevanza costituzionale nonostante il parere contrario offerto dalla giurisprudenza costituzionalistica.20

Se, come precedentemente indicato, non è possibile rintracciare un’esplicita disposizione a livello costituzionale, a livello sovranazionale, nei testi fondamentali sulla salvaguardia dei diritti umani, il principio si manifesta nel riconoscimento di uno specifico diritto: le fonti in questione sono l’art 2 prot.agg.7 Cedu 21e art 14 co.5 del p.i.d.c.p 22. L’articolo 14 dei Patti

internazionali sui diritti civili e politici recita: “ogni individuo condannato per

un reato ha diritto a che gli accertamenti della sua colpevolezza e condanna siano riesaminati da un tribunale di seconda istanza in conformità della legge”. La giurisprudenza costituzionale si è pronunciata anche su tale

fonte, negando che nella stessa possa evincersi il riconoscimento al doppio grado di giudizio e che possa spiegare effetti sull’ordinamento nazionale. Allo stesso modo ha ritenuto conforme al Patto un sistema ove sia presente un riesame nel merito di un giudizio di condanna per delitti, solamente in ipotesi di accoglimento di un ricorso con il quale si denuncino veri e propri vizi nello svolgimento del processo e nella formazione del convincimento del giudice23. Questa impostazione è rintracciabile nei lavori preparatori al

20 Vedi: G. Serges: “Il valore del giudicato nell’ordinamento costituzionale, GIUR. IT., 2009, pag 12 21 Il Prot.Agg n.7, adottato il 22 novembre 1984 e reso esecutivo in Italia il 9 aprile 1990, è stato

modificato dal Prot. Agg: n.11, adottato l’11 maggio 1997, entrato in vigore in Italia l’1 novembre 1998.

22 Il Patto Adottato dalle Nazioni Unite il 6 dicembre 1966, è entrato in vigore in Italia il 15 dicembre

1978.

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codice del 1988, nell’intenzione di arginare il proliferare dell’esercizio di appello e di accelerarne lo svolgimento tramite la sottrazione dell’obbligo di rinnovazione del dibattimento. Il fondamento della pronuncia della Corte costituzionale risiede nella natura programmatica attribuita alla fonte internazionale24 e nella presenza, nel Patto, di un articolo indicante la

possibilità per gli Stati parti di adottare le misure legislative necessarie per conferire efficacia ai diritti ivi enunciati25. Il mancato riconoscimento per il

Patto della natura di norma di diritto internazionale generalmente riconosciuta, esclude il meccanismo di adattamento automatico altrimenti previsto, quindi, per l’assenza di una specifica previsione costituzionale, la fonte internazionale non può equipararsi ai parametri costituzionali, con la conseguenza che gli effetti della stessa possano essere spiegati solo tramite legge ordinaria che ne contenga ordine di esecuzione26.

Mentre, a livello europeo, il disposto dell’art 2 prot. Agg. n7 CEDU indica: “ogni persona dichiarata colpevole da un tribunale ha diritto di far esaminare

la dichiarazione di colpevolezza o condanna da un tribunale della giurisdizione superiore. L’esercizio di tale diritto, ivi inclusi i motivi per cui può essere esercitato, è disciplinato dalla legge”27 .In quest’ultimo articolo

sono citate anche le eccezioni del caso: reati minori , imputato giudicato in prima istanza da tribunale superiore o dichiarato colpevole e condannato per un ricorso avverso il suo proscioglimento .Sui limiti a tale diritto la Corte europea si è espressa anche in relazione a quelli che possono essere posti a livello nazionale, considerandoli leciti purché rivolti a uno scopo legittimo e non pregiudicanti la sostanza del diritto: questa pronuncia28 è stata

sovente interpretata in chiave restrittiva, in direzione di realtà che non

24 Vedi: Corte cost, n27 del 1979

25 Vedi: Corte cost, n62 del 1981 e n188 del 1980

26 Vedi: Corte cost, nn 246 dell’146 del 1996, 15 del 96 e 188 del 1980

27 Cfr: Corte Edu, 6.9.2005, Gurepka c. Ucraina, ha precisato che, seppur l’accesso alla giustizia in

senso lato, trova tutela nel diritto stabilito nell’art.13 C.E.D.U. ad un ricorso effettivo davanti ad una istanza nazionale, in tale norma non può essere ricompreso un diritto all’appello, o ad un secondo grado di giurisdizione che, invece, quando la condanna assume il carattere “penale” secondo il significato riconosciuto dallo stesso art 2, trova la sua fonte in questa disposizione .Già da Corte edu 17.1.1970, Delcourt e Belgio , è stato negato il riconoscimento dell’art.6 come parametro per invocare un secondo grado di giurisdizione.

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prevedono il doppio grado di giurisdizione o, qualora previsto, comunque subordinato a condizioni vessatorie, quando può essere invece rivolto anche a deficit garantistici in funzione di prove nuove acquisite in sede di impugnazione di merito (coinvolgenti quindi anche aspetti della legislazione italiana, quali la delimitazione dei confini della rinnovazione istruttoria, elemento centrale della presente analisi). Quest’ultima visione ha comportato l’affermazione, sulla base di una lettura congiunta delle due fonti in materia, che il doppio grado sarebbe violato ogni qual volta che l’imputato sia condannato per la prima volta in appello, ribaltando la pronuncia assolutoria di primo grado29.

Dall’analogia dei due articoli nel positivo riconoscimento ad un doppio grado per il solo condannato e nella declinazione del relativo esercizio secondo legge interna, emergono anche significative differenze: dai parametri per la normativa interna, ai ricorsi esperibili dinnanzi a giurisdizioni sovranazionali, dando vita così ad un fenomeno di “garanzie concorrenti”. Il dettato della disposizione convenzionale esclude vittima del reato e pubblica accusa come soggetti titolari del diritto al doppio grado, mentre la dicitura “persona dichiarata colpevole” si considera formula ad ampio respiro, ricomprendendo sia condannato che responsabile civile e civilmente obbligato per l’ammenda.

A fondamento di una possibile estensione per la pubblica accusa è stato invocato il principio della parità delle armi, contrastato però dall’ineguaglianza tra le parti che caratterizza il processo penale.

Il diritto al riesame può essere scandito per il condannato nella dichiarazione di colpevolezza e nella condanna, quindi anche quando le due specifiche possano non essere allineate.

Nel sottolineare le differenze tra i due riferimenti sovranazionali circa il diritto al doppio grado, la giurisprudenza europea ha attribuito maggiore discrezionalità agli stati, sia per modalità di esercizio che motivi, non rintracciabile invece a livello di Patti internazionali. L’interpretazione della

29 Vedi: P. Ferrua, Il sindacato di legittimità sul vizio di motivazione, in studi sul processo penale,

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Corte europea ha assunto toni formali, nella considerazione che vi sia rispetto del principio qualora sia garantito uno qualsiasi tra i rimedi esperibili, anche fosse di sola legittimità30; questa convinzione non è stata condivisa

dal Comitato diritti umani31: citando soprattutto l’iniquità di un giudizio di sola

legittimità ad essere di effettivo controllo sul merito circa l’affermazione di responsabilità.

E’ invece allineata alla visione della Corte europea la generale impostazione dottrinale sulla norma pattizia, in quanto un’eccessiva estensione del doppio grado comprometterebbe un sistema di impugnazioni già di per sé eccessivamente garantista, ritenendo l’esperimento del ricorso di legittimità sufficientemente tutelante, attribuendo alla fonte sovranazionale una qualifica di norma programmatica, in piena di simmetria con quanto riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale32 .Non si tratta quindi di

pronunce self executing, non potendo promuovere effetti immediati in assenza di specifiche misure legislative di attuazione33.

Nelle eccezioni previste nel suddetto articolo 2 del Protocollo aggiuntivo, non si comprende l’esclusione del caso di condanna emessa da giurisdizione superiore, segnalante l’irrazionale parallelismo tra giurisdizione superiore e infallibilità della pronuncia. In tali ipotesi, negare una valutazione di merito sulla responsabilità significa sminuire la portata garantistica del diritto riconosciuto, alla luce di un fumus di correttezza della pronuncia, motivato dalla sua costituzione da parte di un giudice superiore, che appare ingiustificato. La circoscrizione del diritto al doppio grado è stata

prima facie ricondotta alla puntualizzazione del legislatore europeo circa la

negazione di un diritto ad una terza istanza. Parte della dottrina muove dall’ opposta considerazione: altrimenti l’articolo finirebbe per certificare un’effettiva iniquità, escludendo un possibile controllo su travisamento del fatto o sull’omessa valutazione della controprova se si tratta di una

30 Crf: Corte Edu,8.1.2009, Patsouris c. Grecia; Id, 8.1.2009. Panou c. Grecia, Id 27.6.2002, Depiens

c. Francia

31 Com. Dir. Umani, 20.7.2000, Gomez Velasquez c. Spagna 32 Vedi: Corte cost, n27 del 1979

33Una tesi espressa da G. Serges, Il principio del “doppio grado di giurisdizione” nel sistema

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condanna che ha origine in appello per la prima volta34. Una visione

confermata da quella parte della giurisprudenza che, prima dell’introduzione della lettera e) dell’art 606, qualificava come necessaria la verifica di legittimità in chiave sostanziale della condanna in appello a seguito di assoluzione in primo grado per l’imputato. La sopravvenienza dell’art 606 c.p.p non ha però risolto la problematica circa il travisamento del fatto, così come nel giudizio a seguito di impugnazione possono essere acquisite nuove prove a carico, per le quali appare vanificato il rispetto del diritto all’effettivo riesame del merito circa affermazione di responsabilità e condanna, in quanto influenzato dai limiti di deduzione dei vizi in sede di legittimità.

Una volta detto che il doppio grado può implicitamente risiedere nel nostro ordinamento e esplicitamente trovare riconoscimento nelle fonti previste a livello internazionale, rimane irrisolto l’enigma se il secondo grado di giudizio debba essere qualificato come un nuovo giudizio sul medesimo fatto o possa consistere, a seconda delle ipotesi, nel riesame di una precedente statuizione o nella mera valutazione della correttezza, sostanziale o formale, della decisione di primo grado : tra una dimensione rescindente o rescissoria del rimedio di secondo grado.

2 IL MODELLO ACCUSATORIO

Le caratteristiche degli ordinamenti nazionali risultano influenzate dal contesto politico statale che li circonda e dallo scopo che si intende raggiungere con il processo. In uno Stato moderno, si è posto l’accento in maniera più preponderante sulle garanzie delle parti rispetto a quanto avvenisse in passato. Tuttavia alla tutela dei diritti dei singoli che vengono in contatto con i meccanismi processuali, sulla quale si è posta sempre più

34 Crf: T. Padovani, il doppio grado di giurisdizione. Appello dell’imputato, appello del p.m, principio

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attenzione, deve essere affiancata un’ulteriore esigenza che lo Stato ricerca, l’efficienza, ovvero la capacità richiesta al processo nell’essere in grado di rispondere alla violazione della legge penale. Dalla prevalenza dell’uno o dell’altro interesse sono emersi due modelli contrapposti, inquisitorio e accusatorio: il primo più in linea con il principio di autorità, più incline, per l’appunto, a perseguire efficienza, invece il secondo esprimente libertà e un sistema garantista35. In epoca medievale il procedimento si

articolava sul modello inquisitorio, caratterizzato dal principio di autorità segnante la figura dell’organo giudicante. Questi disponeva di piena discrezionalità circa la ricerca delle verità processuali e di un ampio novero di facoltà sullo stesso accentrate (nell’essere parte del processo contestualmente come accusa e difesa oltre che organo giudicante). L’inquisitore aveva pieno potere di iniziativa processuale e di libera formazione della prova36; egli era posto in un quadro in cui regnava il

principio di presunzione di reità, per cui non dovevano essere le prove fornite dal giudice istruttore volte a supportare la pronuncia di condanna, quanto l’imputato a doversi affrancare delle accuse che allo stesso venivano mosse. Da tale angolo visuale ne deriva che non emergeva la necessità di disciplinare la materia probatoria, in quanto qualsiasi controllo sull’attività dell’organo giudicante avrebbe potuto ostacolare l’accertamento della verità37, intesa come verità “unica”, raggiunta senza la collaborazione delle

parti, promuovendo anche il ricorso alla tortura se fosse stato necessario38.

Il modello accusatorio nasce, per così dire, di reazione a quello inquisitorio, si fonda sul principio dialettico, e sulla convinzione, sorta nel contesto storico della rivoluzione francese, che la verità si potesse ottenere solamente attraverso le attività delle parti39, definendo invece la figura del

magistrato, come arbitro terzo e imparziale, con la funzione di risolvere gli inevitabili contrasti e valutare il riscontro del materiale probatorio fornito dal

35 Vedi: F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Giuffrè editore, Milano, pag 27 e ss

36 Vedi: S. Farini, A. Trinci e S. Tovani, Compendi di diritto processuale penale, Dike, 2017 pag. XXIV 37 Vedi: G. Foschini, Sistema del diritto processuale penale, Giuffrè, Milano,1956, pag204

38 Vedi: G. Ubertis, La conoscenza del fatto nel processo penale: la ricerca della verità giudiziale,

Giuffrè, Milano,1992, pag 6 ss

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contributo differenziato di accusa e difesa. Le parti hanno iniziativa nella proposizione dell’accusa e delle prove, quest’ultime divenute oggetto di puntuali discipline, in quanto è dalle stesse che si ottiene la verità processuale: destinata ad emergere in un contesto retto dalla parità delle armi e dalla presunzione di non colpevolezza riferibile all’accusato. Infatti, l’esito del giudizio non deriva da una passiva ricezione delle risultanze istruttorie da parte del magistrato, ma da un’attiva partecipazione di tutti i soggetti processuali che intervengono con la loro personalità e da diverse prospettive in ogni momento dello sviluppo procedimentale, influenzandone inevitabilmente il corso40. Dall’inversione dell’onere probatorio, che impone,

contrariamente alle convinzioni antecedenti, che sia la colpevolezza a dover essere debitamente provata, ne deriva per il giudice la facoltà di pronunciare condanna solo quando le prove certifichino in modo lampante l’effettiva responsabilità. Le antitesi create dai due modelli lascia poi spazio, generalmente ad un sistema misto, come nel contesto nazionale antecedente la riforma del 1987, dove, di contro, con l’intervento modificativo si ricercava invece un modello processuale dai caratteri del sistema accusatorio.

Un tratto caratterizzante il processo retto dal metodo accusatorio risiede nel rispetto del contraddittorio, del quale sono corollari principi quali immediatezza e l’oralità, che possono essere collocati nel procedimento di primo grado dove regna la diretta escussione delle prove dichiarative, ma che rischiano invece di non concretizzarsi in un appello dalla struttura “cartolare”. Se da un lato sono riconoscibili nel processo penale aspetti tipicamente accusatori, quali il diritto alla prova delle parti e la relativa formazione in contraddittorio, nella logica di controlli verticali progressivi fondati su una dimensione cartolare, dove l’estensione del materiale probatorio rappresenta un’eccezione, emergono caratteri esprimenti una dimensione inquisitoria41.

40 Vedi: G. Ubertis, Fatto e valore nel sistema probatorio penale, Giuffrè, Milano,1979, pag93 41 Vedi: A. Gaito, Riformiamo le impugnazioni penali senza rinunciare al giusto processo, Archivio

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3 IL PRINCIPIO DEL “RAGIONEVOLE DUBBIO”

Il descritto passaggio da un sistema inquisitorio ad uno accusatorio ha inciso significativamente sulla disciplina probatoria. Invero, dall’inversione dell’onere probatorio, che impone, contrariamente alla convinzioni antecedenti, che sia la colpevolezza a dover essere debitamente provata, deriva per l’organo giudicante la facoltà di pronunciare condanna solo quando le prove consentono di affermare oltre ogni ragionevole dubbio l’effettiva responsabilità dell’imputato. Si tratta di un principio che ha trovato recente manisfestazione, nel dettato del 1 comma dell’articolo 533 c.p.p., per mezzo della c.d. Legge Pecorella42.43

Sulla portata del principio in analisi si è espressa anche la giurisprundenza di legittimità. La Suprema Corte ha affermato che il medesimo rappresenta il confine al libero convincimento del giudice, che l’ordinamento ha posto per impedire che il risultato del processo sia mosso da “apprezzamenti

discrezionali, soggettivi e meramente arbitrali”44. La portata dell’enunciato

spiega effetti sull’intero ordinamento processuale: trova espressione nelle garanzie fondamentali inerenti al processo penale, quali la presunzione di innocenza dell’imputato, che pone l’onere della prova a carico dell’accusa e racchiude l’enunciazione del principio in dubio pro reo; dipana effetti anche in base all’obbligo di motivazione e giustificazione razionale della decisione a norma degli articoli 111 comma 6 Cost. e 192 comma 1 c.p.p..45

Attraverso un ulteriore intervento la giurisprudenza di legittimità ha riconosciuto al magistrato la possibilità di pronunciare condanna solamente nei casi in cui “ il dato probatorio acquisito lascia fuori solo eventualità

remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili in rerum

natura, ma la cui concreta realizzazione nella fattispecie concreta non trova

42 Legge 20.02.2006 n46

43 Il primo comma dell’art 533 c.p.p. recita: “il giudice pronuncia sentenza di condanna se l’imputato

risulta colpevole del reato contestatogli al di là di ogni ragionevole dubbio”.

44O. Longo, L’oltre ogni ragionevole dubbio come regola di giudizio, in Filodiritto,

https://www.filodiritto.com/articoli/2009/08/loltre-ogni-ragionevole-dubbio-come-regola-di-giudizio/

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il benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell’ordine naturale delle cose e della razionalità umana”46.

Nel procedimento di impugnazione, la garanzia della presunzione di non colpevolezza gioca un ruolo cruciale soprattutto con riguardo all’overturning di sentenze assolutorie in primo grado, tema centrale dei recenti dibattiti della giurisprudenza di legittimità. Il convincimento, che motiva la scelta del giudice ad quem di ribaltare la sentenza di primo grado, deve forgiarsi su prove assunte quanto meno analogamente a quanto previsto in prima battuta, escludendo, ad esempio, che un compendio cartolare possa essere sufficiente per pronunciare condanna per la prima volta in appello. Questa dinamica attribuisce alla disciplina dell’articolo 603 c.p.p. una funzione di tutela della presunzione di non colpevolezza, nel momento in cui impone - come per la testimonianza - un nuovo esame di fronte al giudice di secondo grado: di modo che quest’ultimo possa evincere, rispetto ai soli verbali, informazioni circa l’attendibilità del teste e, solo a seguito del rispetto dell’oralità, attribuire il giusto peso alla prova in funzione del suo convincimento.

La giurisprudenza di legittimità nel caso Dasgupta, dopo aver definito il quadro fisiologico della rinnovazione in appello, ha indicato, nel momento in cui possa essere riscontrato un vizio di mancata rinnovazione, il difetto di motivazione della pronuncia, causato proprio per la violazione della formula del 1 comma dell’articolo 533 c.p.p. che consente il ricorso in cassazione per la lettera e) del 606 c.p.p..

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4 IL PRINCIPIO DEL GIUSTO PROCESSO: TRA L’ARTICOLO 111 DELLA COSTITUZIONE E 6 DELLA CONVENZIONE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

Il principio del giusto processo ha ottenuto positivo riconoscimento sul piano costituzionale con la L. cost. 23-11-1999, n. 2. e con l’introduzione di 5 nuovi commi che sono riferibili ad ogni processo, in particolar modo a quello penale avvenuta con la L.1-3-2001, n. 6347. Nell’articolo 111 della Carta

costituzionale, dove al primo comma è indicato che il giusto processo è regolato dalla legge, per cui, per apposita riserva di legge, solo il Legislatore può regolarne lo svolgimento, è possibile rintracciare quali siano le caratteristiche cardine. Alla tesi esposta, che fonda la definizione di giusto processo sulla presenza dell’insieme dei principi articolati nei commi successivi, è possibile affiancare l’idea di giusto come legante all’ideale di giustizia, preesistente rispetto alla legge e in linea con quei diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo, che lo Stato, in base all’articolo 2 del dettato costituzionale, si impegna a riconoscere48.

Tra gli elementi costitutivi il giusto processo può essere citato il necessario svolgimento processuale di fronte ad un giudice terzo ed imparziale, garanzia che viene assicurata soltanto nel suddetto articolo, visto che nessuna altra norma costituzionale converge su tale tutela, mediante la disciplina di incompatibilità, astensione, ricusazione e rimessione, ovvero meccanismi finalizzati ad arginare ipotesi che altrimenti potrebbero comprometterne l’imparzialità. Allo stesso modo possono essere citate la parità tra accusa e difesa, la cui accezione deve essere distinta dal processo civile, ove emerge una totale uguaglianza; in ambito penale esprime la ricerca di equilibrio tra i poteri4950, soprattutto nel promuovere

47 Vedi: https://www.laleggepertutti.it/dizionario-giuridico/giusto-processo 48 Vedi: P. Tonini, Diritto processale penale, Giuffè editore,2009, Firenze, pag 20 e ss 49 Vedi: P. Tonini, op cit, pag 20

50 Sulla possibile disparità tra le facoltà delle parti giustificata dal principio di ragionevolezza, vedi:

Corte Cost. 26/2007, indicante come la posizione istituzionale del pubblico ministero e le esigenze di corretta amministrazione di giustizia possano ammettere una asimmetria tra le parti del processo

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un’analogia tra le facoltà nella fase di ricerca e formativa della prova; e lo svolgimento processuale in contraddittorio, ove il giudice è chiamato a decidere sulle base del materiale probatorio che le parti hanno fornito in contrapposizione dialettica, essendo quindi centrale non solo il diritto all’ammissione e valutazione delle prove rilevanti, ma anche il diritto a partecipare al momento formativo della prova ad opera della controparte51.

Da questi principi può evincersi per il sistema processuale un’assonanza al modello accusatorio.

Inoltre nel suddetto articolo risiede l’enunciazione della ragionevole durata assicurata dalla legge, in quanto, nonostante il positivo riconoscimento “del termine ragionevole dell’udienza” nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo, nessuna norma costituzionale ne recepiva il riferimento prima della legge del 1999, trattandosi di un intervento reso necessario dalle molteplici sanzioni subite dall’Italia poiché ad essa irrogate dalla Corte europea. Nonostante l’imposizione europea di tutelare un’equa tempistica del processo, non è totale l’aderenza costituzionale alla formula dell’art 6 Cedu: in quest’ultimo è possibile ricercare l’enunciazione di un diritto soggettivo immediatamente azionabile, mentre a livello interno è presente un vincolo alla legge ordinaria. Invero, la diversità deriva dal fatto che la Corte Costituzionale non ha la facoltà di monitorare la durata di ogni singolo processo, ma solamente le disposizioni che comportano l’allungamento delle tempistiche, inutili passaggi di atti tra organi, superflue formalità che non trovano giustificazione in esigenze repressive o garanzie difensive52. Il

termine “ragionevole” esprime, ancora una volta, il bilanciamento tra efficienza, che richiede concentrazione e continuità nella trattazione dei processi, e le garanzie per l’imputato e la qualità dell’accertamento processuale.

51 Nella partecipazione alla fase formativa della prova è possibile ravvisare il concetto di

contraddittorio in senso forte, che Tonini distingue dal contraddittorio in senso debole, rappresentante la minore garanzia per l’imputato del diritto all’emanazione, da parte dell’organo giudicante, della decisione audita altera parte. P. Tonini, Diritto processuale penale, op cit, pag 20

52 Vedi: P. Tonini, op cit, pag 21, dove l’autore, per sostenere la diversità tra fonte nazionale e

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Dal 3 comma, l’articolo 111 della Carta costituzionale non fa altro che riprodurre la struttura dell’art 6 comma 3 lettera d) della Convenzione europea, contenente i diritti spettanti “alla persona accusata di reato” nel contesto del “processo penale”. Nell’approccio alle succitate formule è possibile compiere una scissione, la prima, non avendo un significato tecnico, può infatti essere letta in ottica estensiva, ovvero “accusato” intendendo sia imputato che sottoposto ad indagini, mentre per la seconda prevale un’idea circoscritta di processo, escludendo la fase delle indagini preliminari, visto la suddivisione codicistica nella fase di procedimento e di processo. Una possibile soluzione auspicabile potrebbe fondarsi nella ricerca di un’impostazione razionale sulla base del singolo caso, attribuendo ai termini il significato più coerente con il diritto che viene riconosciuto.53

Nell’indicazione dei singoli diritti di stampo europeo rientra, per la persona sottoposta ad indagini, quello di essere “informata riservatamente della natura dei motivi” dell’accusa “nel più breve tempo possibile”54.

Nuovamente la scelta dei termini non è casuale, il più breve tempo possibile è infatti rimesso alla salvaguardia dei molteplici interessi coinvolti: se infatti la celere informazione è funzionale all’indagato per poter raccogliere prove a discarico che, successivamente, potrebbero non essere più disponibili, dall’altra faccia della medaglia vi è la necessità di salvaguardare la segretezza delle indagini, conditio sine qua non per le attività a sorpresa del pubblico ministero nell’addivenire a conclusioni efficaci e genuine. Così come la menzione di “riservatamente” rimanda al doveroso rispetto della privacy della persona sottoposta ad indagini.

Ulteriore garanzia prevista risiede nel diritto di disporre “del tempo e delle condizioni necessarie per preparare la sua difesa”, formula che rimanda alla predisposizione di termini di difesa per l’imputato e della facoltà di ottenere un difensore d’ufficio o gratuito patrocinio.

Tra il novero dei diritti enunciati nella Costituzione, centrale è il diritto di “interrogare o di far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo

53 Vedi: P. Tonini, op cit, pag 21

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carico”, ovvero esprimibile come la facoltà di confrontarsi con l’accusatore davanti ad un giudice55. Sono tuttavia sottolineabili due elementi discordanti

rispetto al dettato convenzionale: la puntualizzazione domestica, non presente a livello europeo, che ciò avvenga davanti al giudice, risultante una più ampia tutela per l’imputato, e la sostituzione della parola “testimoni” con “persone”, ricomprendendo una più estesa articolazione di soggetti, quali il dichiarante-imputato, che altrimenti sarebbero esclusi dall’interpretazione tecnica dell’ufficio di testimone. Infine nella formula “far interrogare” è possibile ricondurre anche le ipotesi di esame condotto dal giudice.

Proseguendo l’analisi dell’articolo, in esso si fa menzione del diritto per l’imputato “di ottenere convocazione e interrogatorio di persone a sua difesa

nelle stesse condizioni dell’accusa e l’acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore”, da quest’ultima parte della citazione potrebbe essere

letto il diritto all’acquisizione senza il filtro dell’organo giudicante in termini di ammissibilità, che tuttavia non appare ragionevole anche alla luce della parità con quanto previsto per l’accusa.

Infine viene riconosciuta la facoltà di farsi assistere da un interprete nel processo, chiaramente riferibile ad ipotesi in cui l’imputato non sia in grado di interloquire e comprendere la lingua italiana. Sempre sulla base del raffronto con la stessa polare convenzionale dei diritti ad un equo processo, nei meccanismi interni non si fa menzione di un diritto necessariamente gratuito, così come dall’impostazione tecnica del concetto di “processo” si dovrebbe escludere l’assistenza linguistica nelle fasi procedimentali.

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30 CAPITOLO II

IL PERCORSO EVOLUTIVO E LA MORFOLOGIA ASSUNTA DALL’APPELLO FINO ALLE PORTE DELLA RIFORMA ORLANDO

Sommario:1 Breve evoluzione storica dell’appello: dalle origini alla riforma del 1988. 2 Il codice del 1988. 3 La legge Pecorella e le successive sentenze della Corte costituzionale. 4 L’abrogazione del 4 comma dell’articolo 603 c.p.p. 5 Appello: linee generali del mezzo di impugnazione. 5.1 Appello principale e incidentale. 5.2 Limiti alla cognizione e divieto di

reformatio in peius. 6 Rinnovazione ante riforma Orlando. 6.1 Prova

assolutamente necessaria. 6.2 I casi di rinnovazione fuori dall’articolo 603 c.p.p.

1 BREVE EVOLUZIONE STORICA DELL’APPELLO: DALLE ORIGINI ALLA RIFORMA DEL 1988

Se non è opportuno fotografare le origini dell’appello negli istituti romani della provocatio ad populum, intercessio e infitiatio, maggiore assonanza può rintracciarsi con l’appellatio sviluppatasi con il procedimento della

cognitio extra ordinem56: ovvero un procedimento sorto al di fuori del sistema processuale dell’ordo iudiciorum57, e quindi senza i vincoli della giurisdizione ordinaria.

Si tratta di una serie di moduli giuridici che si affiancarono prima, e sostituirono poi, le questiones; ciò avvenne contestualmente all’attenzione prestata dagli imperatori all’amministrazione della giustizia. La giurisdizione divenne così diretta espressione dell’auctoritas principis, così come i

56 Modello processuale che si affiancò al processo formulare, che fino al momento era in auge, per

poi sostituirlo, divenendo sistema unico a partire dal 342 D.C.

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magistrati divennero gerarchicamente sottoposti al potere e la giustizia si sostanziò nel rispetto delle forme processuali58.

In tale contesto l’appello era un mezzo di impugnazione ordinario “normalmente esperibile da chiunque avesse un interesse giuridicamente

apprezzabile in un rapporto controverso, già giudicato con una sentenza valida, e mediante il quale, se riconosciuto procedibile, si otteneva che la cognizione della causa venisse devoluta ex novo ad un giudice superiore, restando di regola sospesi gli effetti della sentenza precedente fino alla nuova pronuncia di conferma, annullamento o riforma”59. Il titolare di tale

interesse poteva proporre impugnazione in prima persona o a mezzo procuratore, introducendola per mezzo di un negozio giuridico processuale che poteva avere forma orale - facendo risultare la dichiarazione nei verbali di causa - ma generalmente assumeva forma scritta, consistente in libella che contenevano i nomi delle parti e gli estremi della sentenza. Non sembrava invece necessario, a pena di inammissibilità, indicare i motivi dell’appello, anche se di fatto erano previste le motivazioni funzionali ad una valutazione di ammissibilità, per l’istaurazione e la continuazione del giudizio60.

L’appello penale poteva esprimersi solo avverso una sentenza finale valida che, se non fosse stata impugnata, avrebbe spiegato i propri effetto. Tale aspetto connotava il rimedio come volto a reprimere ingiustizia e non invalidità61, che invece poteva essere denunciata in ogni momento, senza

necessario ricorso all’impugnazione62.

Una particolarità del processo, inerente ai poteri del giudice di secondo grado, era riconducibile al fatto che gli stessi potevano esprimersi solo a seguito della pronuncia del giudice a quo di appellationem recipere, ovvero una dichiarazione connotata di solennità che indicava ammissibilità e fondatezza del ricorso. Esistevano anche sentenze, quali quelle

58 Vedi: G. Petrella, Le impugnazioni nel processo penale, I, Giuffrè, Milano,1965, Pag 1 59R. Orestano, Appello (diritto romano), in Nss.dig.it, I.1, Torino,1957, pag 724

60 Vedi: C.U. Del Pozzo, Appello (diritto processuale penale), in Nss, dig.it., L1, Torino, 1956, pag753 61 In epoca imperiale l’irregolare costituzione del giudice così come l’eccesso di potere erano vizi

che escludevano l’appellabilità

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pronunciate da imperatore o delegati, che avevano espressa clausola di inappellabilità.

Tale modello conosce una innovazione all’epoca dei Severi. In tale periodo si istaura infatti una scissione nella valutazione del giudice a quo: egli da un lato deve operare una valutazione formale sulle cause di ammissibilità, dall’altro un giudizio di merito sull’infondatezza dell’impugnazione. Qualora l’esito del controllo fosse stato positivo veniva rilasciata una litterae

dimissoriae, che documentava il fatto giuridico e attestava, per il giudice ad quem che il rapporto fosse regolarmente costituito, residuando per

quest’ultimo, un giudizio esclusivamente di merito63.

Un’importante metamorfosi dell’appello si ebbe con l’istaurazione della

conditio extra ordinem, visto che dal precedente assetto delle questiones -

dove l’appello assumeva la forma di un nuovo giudizio con la causa discussa ex novo - si passò all’idea di un giudizio critico sul provvedimento impugnato. Questo cambiamento si concretizza pienamente con la costituzione di Valentiniano, Teodosio e Arcadio, dove, in ambito civile, emerge il divieto di nuove domande e ragioni in appello, salvo possibili eccezioni64.La sentenza emessa in appello era pienamente sostitutiva di

quella di primo grado, anche in ipotesi di conferma, ove gli effetti si spiegavano dalla nuova decisione, e poteva nuovamente essere appellata, fin tanto che Giustiniano non puntualizzò che, dopo la terza sentenza, non fosse più possibile impugnare, divenendo l’ultimo decisum inattaccabile ed esecutivo. Non è rintracciabile nel diritto romano l’idea dell’effetto devolutivo, vista la cognizione piena del giudice ad quem e la piena corrispondenza dei poteri giudiziali nei due gradi di giudizio, dove l’unico limite era riscontrabile in un’impugnazione parziale. Mentre era previsto l’effetto estensivo nei riguardi del non appellante, qualora l’appello fosse fondato sulla medesima causa defensionis.

Con la caduta dell’impero romano si verifica una cristallizzazione dell’istituto dell’impugnazione nei territori dell’impero bizantino, mentre in Italia, nelle

63 Vedi: G. Petrella, Le impugnazioni, op cit, pag 1

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zone di conquista dei barbari invasori, furono molteplici gli interventi riformativi, soprattutto tra i Longobardi. Nel diritto germanico primitivo non era presente l’idea di appello. L’unico istituto avvicinabile era la

blasphematio iudicii, che consentiva una nuova analisi dell’assemblea sulla

decisione presa, purché non fosse ancora definitiva.

A seguito dell’editto di Rotari si definisce la possibilità di presentare ricorso al re, sia per un proprio desiderio di giustizia, sia per denunciare le irregolarità compiute dal giudice. Le parti del giudizio erano quindi appellante e magistrato. Se veniva riscontrato un errore di giudizio, potevano essere previste pene pecuniarie per risarcire il privato e il sovrano. La posizione del sovrano come giudice di ultima istanza si rafforza con lo stato Carolingio nell’istaurazione del iudicium aequitatis, finalizzato a correggere le inevitabili imperfezioni della legge: sorge così una struttura che prevede il possibile reclamo al sovrano a cui si affianca l’appello ad un giudice intermedio, le cui funzioni sono esercitate dai missi dominici (la competenza regia opera in via residuale, quando i missi non devono o non possono occuparsi del ricorso)65.

Nel diritto canonico medievale la struttura si arricchisce con restitutio in

integrum, revocatio e querela nullitatis. Quest’ultima, in passato separata

dall’appello e rivolta al medesimo giudice che aveva emesso sentenza, con la finalità di denunciare errores in procedendo, viene assimilata nell’appello, divenendo così strumento di gravame e contestualmente azione di annullamento.

Con il code louis del 1670 l’appello resta uno strumento di gravame e viene introdotta la sua applicazione automatica, ovvero prescindendo dalla volontà del condannato, esercitata ogni qual volta che le pronunce disponevano torture o pene afflittive molto gravi. In tale contesto, oltre alla specificazione dei motivi, si diffonde anche il principio del divieto di

reformatio in peius, le cui origini sembrano rimandare al riscontro, per la

prima volta, in un passo di Ulpiano.

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Le prime opere sistematiche che analizzano l’appello sono databili tra il XV e il XVII secolo ad opera dei giureconsoli, mentre nel secolo successivo compaiono i codici criminali che ne disciplinano l’istituto. Nel codice di procedura penale del regno italico formulato nel 1807 viene riconosciuto il diritto al secondo grado avverso le sentenze del giudice di pace, dei tribunali correzionali e delle corti di prima istanza, con l’espressa previsione del divieto di reformatio in peius66. Nei successivi codici interni riecheggia l’influenza del code d’istruction in vigore dal 1811, nell’introduzione di un sistema processuale misto nel bilanciamento tra le esigenze dell’inquisitorio e accusatorio. Il primo codice di procedura penale italiano è promulgato nel 1913. Esso, pur formalmente legato ad un modello misto, assumeva i toni accusatori. Nonostante l’importanza dell’opera, fu aspramente criticato67 e

non stupisce che nel 1925 il governo fascista promosse delega legislativa, che condusse alla realizzazione del codice Rocco del 1930. Si tratta di una realizzazione influenzata dal contesto del regime, innovativa in ambito procedurale, nel presentare un iter connotato da particolare complessità: una possibile fase preprocessuale gestita dalla polizia giudiziaria, una fase istruttoria finalizzata alla raccolta del materiale probatorio, all’articolazione delle ragioni delle parti e alla formazione delle prove. L’istruttoria poteva essere sommaria, condotta dal p.m. e rivolta ai casi più semplici, o esaustiva, seguita dal giudice istruttore e riferita ad ogni altro caso. Qualora non fossero stati sufficienti i presupposti per pronunciare proscioglimento, veniva introdotta la fase di dibattimento pubblico, ovvero “una fase nella

quale, secondo una comune valutazione, si faceva sentire in maniera notevole, e non di rado eccessiva, il peso delle risultanze istruttorie”68.

A seguito del secondo conflitto mondiale, il codice reazionario sopravvisse, però con il contestuale sorgere dell’idea di una necessaria revisione, soprattutto spinta dalla ricerca di conformità con la Costituzione del 1948

66 Vedi F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Giuffrè editore,2008, Milano, pag 8 e ss

67 Vedi: F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano,1979, pag 84, nel descrive il codice come

malvisto generando, per volontà del governo, un consulto di terapeuti, ovvero una commissione presieduta da Ludovico Mortara costituita nel 1915

68 Vedi: M. Pisani, Il lungo cammino del codice del 1988 in Pisani-Molari-Perchinunno-corso,

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nel frattempo realizzata69. Un primo intervento modificativo si ebbe con la

l.18 giugno del 1955 n517 che intervenne su un centinaio di articoli, descritto come “la piccola riforma”, segnante la convinzione di un necessario intervento a più ampio respiro, da attuare successivamente. I tentativi atti a riformare il quadro vigente non mancarono, come il progetto Carnelutti e la delega legislativa al governo della Repubblica per la riforma del codice degli anni 60 e la legge delega del 3 aprile 1974 per la formulazione del nuovo codice di procedura penale.

2 IL CODICE DEL 1988

Attraverso la formulazione della legge delega del 16 febbraio del 1987 il Parlamento aveva indicato le direttive che il governo era chiamato a rispettare nella formulazione del nuovo codice di procedura penale. Gli obiettivi che l’intervento mirava a concretizzare erano tre: attuare i principi della Costituzione, conformare le norme processuali a quelle Convenzioni internazionali oggetto di ratifica nazionale relative al riconoscimento di diritti della persona e, infine, attuare i caratteri del sistema accusatorio secondo i criteri dei centocinque principi direttivi insiti nella legge delega: generando un modello non puro, ma condizionato dalle linee fornite dal Parlamento italiano. Il progetto preliminare è stato formato da una commissione nominata dal Ministro di Giustizia Vassalli, mentre il testo definitivo è entrato in vigore il 24 ottobre 1989.

Il nuovo codice si fonda su tre principi fondamentali: il principio della separazione delle funzioni, riscontrabile nel ruolo del giudice atto a dirigere l’assunzione delle prove e decidere senza svolgere indagini e del pm di ricercare, ma non assumere, il materiale probatorio; quello della netta ripartizione delle fasi processuali, ovvero nella suddivisione in indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, volto a garantire che le

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prove in dibattimento siano assunte in pieno contraddittorio e che un giudice valuti la necessità di rinvio a giudizio e la fondatezza dell’accusa; infine nel principio della semplificazione del procedimento , se il processo ordinario offre adeguate garanzie ma tempi lunghi, possono essere introdotti procedimenti semplificati come abbreviato, patteggiamento,immediato, direttissimo e per decreto70

Riguardo le innovazioni introdotte in appello, il lietmotiv è il medesimo riscontrabile nella legge delega del 1974, ovvero la scarsa attenzione attribuita alla disciplina delle impugnazioni. Invero, ciò è spiegabile nella mancanza di riflessioni e dibattito, che invece si erano accessi in relazione al giudizio di primo grado e che sono stati di impulso agli interventi innovatori che il codice ha prodotto in tale ambito. La riforma degli strumenti impugnativi ha concretizzato una mera razionalizzazione del sistema vigente71, attraverso un contenimento delle impugnazioni e una

semplificazione delle forme, mediante la predisposizione di limiti all’appellabilità di sentenze emesse a conclusione di alcuni procedimenti speciali e della sentenza dibattimentale; così come ha ricercato una più marcata separazione tra giudizio di merito e legittimità, attraverso una riduzione del controllo sui vizi di motivazione senza ostacolare l’estensione delle facoltà della Corte nelle ipotesi di annullamento senza rinvio. Una puntuale modifica è riscontrabile nell’ampiamento delle ipotesi di decisioni in camera di consiglio per l’appello, non potendo, però, tale sforzo essere equiparato a quelli riversati al primo grado72.Nel nuovo codice del 1988

l’interezza della disciplina delle impugnazioni risiede nel libro IX, senza interventi volti ad intaccare la previgente impostazione caratterizzata da tre possibili gradi di giudizio, due di merito e uno di legittimità. Infatti l’intento era quello di rimanere conformi all’impianto tradizionale73, in quanto nella

legge delega non era possibile rintracciare “innovative e radicali

70 Vedi: P. Tonini, Diritto processuale penale, op cit, pag 14 e 15

71Vedi: O. Sechi, Le impugnazioni, in Di Federico, Gaito, Margaritelli, Sechi, Seghetti, Il monitoraggio

del processo penale, Bologna, 1995, pag 175

72 A. Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè editore, Milano, 1989, pag 301 e ss 73 Vedi: S. Sottani, Un sistema in trasformazione, in Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, vol.

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