• Non ci sono risultati.

BREVE EVOLUZIONE STORICA DELL’APPELLO: DALLE ORIGINI ALLA RIFORMA DEL

Se non è opportuno fotografare le origini dell’appello negli istituti romani della provocatio ad populum, intercessio e infitiatio, maggiore assonanza può rintracciarsi con l’appellatio sviluppatasi con il procedimento della

cognitio extra ordinem56: ovvero un procedimento sorto al di fuori del sistema processuale dell’ordo iudiciorum57, e quindi senza i vincoli della giurisdizione ordinaria.

Si tratta di una serie di moduli giuridici che si affiancarono prima, e sostituirono poi, le questiones; ciò avvenne contestualmente all’attenzione prestata dagli imperatori all’amministrazione della giustizia. La giurisdizione divenne così diretta espressione dell’auctoritas principis, così come i

56 Modello processuale che si affiancò al processo formulare, che fino al momento era in auge, per poi sostituirlo, divenendo sistema unico a partire dal 342 D.C.

31

magistrati divennero gerarchicamente sottoposti al potere e la giustizia si sostanziò nel rispetto delle forme processuali58.

In tale contesto l’appello era un mezzo di impugnazione ordinario “normalmente esperibile da chiunque avesse un interesse giuridicamente

apprezzabile in un rapporto controverso, già giudicato con una sentenza valida, e mediante il quale, se riconosciuto procedibile, si otteneva che la cognizione della causa venisse devoluta ex novo ad un giudice superiore, restando di regola sospesi gli effetti della sentenza precedente fino alla nuova pronuncia di conferma, annullamento o riforma”59. Il titolare di tale

interesse poteva proporre impugnazione in prima persona o a mezzo procuratore, introducendola per mezzo di un negozio giuridico processuale che poteva avere forma orale - facendo risultare la dichiarazione nei verbali di causa - ma generalmente assumeva forma scritta, consistente in libella che contenevano i nomi delle parti e gli estremi della sentenza. Non sembrava invece necessario, a pena di inammissibilità, indicare i motivi dell’appello, anche se di fatto erano previste le motivazioni funzionali ad una valutazione di ammissibilità, per l’istaurazione e la continuazione del giudizio60.

L’appello penale poteva esprimersi solo avverso una sentenza finale valida che, se non fosse stata impugnata, avrebbe spiegato i propri effetto. Tale aspetto connotava il rimedio come volto a reprimere ingiustizia e non invalidità61, che invece poteva essere denunciata in ogni momento, senza

necessario ricorso all’impugnazione62.

Una particolarità del processo, inerente ai poteri del giudice di secondo grado, era riconducibile al fatto che gli stessi potevano esprimersi solo a seguito della pronuncia del giudice a quo di appellationem recipere, ovvero una dichiarazione connotata di solennità che indicava ammissibilità e fondatezza del ricorso. Esistevano anche sentenze, quali quelle

58 Vedi: G. Petrella, Le impugnazioni nel processo penale, I, Giuffrè, Milano,1965, Pag 1 59R. Orestano, Appello (diritto romano), in Nss.dig.it, I.1, Torino,1957, pag 724

60 Vedi: C.U. Del Pozzo, Appello (diritto processuale penale), in Nss, dig.it., L1, Torino, 1956, pag753 61 In epoca imperiale l’irregolare costituzione del giudice così come l’eccesso di potere erano vizi che escludevano l’appellabilità

32

pronunciate da imperatore o delegati, che avevano espressa clausola di inappellabilità.

Tale modello conosce una innovazione all’epoca dei Severi. In tale periodo si istaura infatti una scissione nella valutazione del giudice a quo: egli da un lato deve operare una valutazione formale sulle cause di ammissibilità, dall’altro un giudizio di merito sull’infondatezza dell’impugnazione. Qualora l’esito del controllo fosse stato positivo veniva rilasciata una litterae

dimissoriae, che documentava il fatto giuridico e attestava, per il giudice ad quem che il rapporto fosse regolarmente costituito, residuando per

quest’ultimo, un giudizio esclusivamente di merito63.

Un’importante metamorfosi dell’appello si ebbe con l’istaurazione della

conditio extra ordinem, visto che dal precedente assetto delle questiones -

dove l’appello assumeva la forma di un nuovo giudizio con la causa discussa ex novo - si passò all’idea di un giudizio critico sul provvedimento impugnato. Questo cambiamento si concretizza pienamente con la costituzione di Valentiniano, Teodosio e Arcadio, dove, in ambito civile, emerge il divieto di nuove domande e ragioni in appello, salvo possibili eccezioni64.La sentenza emessa in appello era pienamente sostitutiva di

quella di primo grado, anche in ipotesi di conferma, ove gli effetti si spiegavano dalla nuova decisione, e poteva nuovamente essere appellata, fin tanto che Giustiniano non puntualizzò che, dopo la terza sentenza, non fosse più possibile impugnare, divenendo l’ultimo decisum inattaccabile ed esecutivo. Non è rintracciabile nel diritto romano l’idea dell’effetto devolutivo, vista la cognizione piena del giudice ad quem e la piena corrispondenza dei poteri giudiziali nei due gradi di giudizio, dove l’unico limite era riscontrabile in un’impugnazione parziale. Mentre era previsto l’effetto estensivo nei riguardi del non appellante, qualora l’appello fosse fondato sulla medesima causa defensionis.

Con la caduta dell’impero romano si verifica una cristallizzazione dell’istituto dell’impugnazione nei territori dell’impero bizantino, mentre in Italia, nelle

63 Vedi: G. Petrella, Le impugnazioni, op cit, pag 1

33

zone di conquista dei barbari invasori, furono molteplici gli interventi riformativi, soprattutto tra i Longobardi. Nel diritto germanico primitivo non era presente l’idea di appello. L’unico istituto avvicinabile era la

blasphematio iudicii, che consentiva una nuova analisi dell’assemblea sulla

decisione presa, purché non fosse ancora definitiva.

A seguito dell’editto di Rotari si definisce la possibilità di presentare ricorso al re, sia per un proprio desiderio di giustizia, sia per denunciare le irregolarità compiute dal giudice. Le parti del giudizio erano quindi appellante e magistrato. Se veniva riscontrato un errore di giudizio, potevano essere previste pene pecuniarie per risarcire il privato e il sovrano. La posizione del sovrano come giudice di ultima istanza si rafforza con lo stato Carolingio nell’istaurazione del iudicium aequitatis, finalizzato a correggere le inevitabili imperfezioni della legge: sorge così una struttura che prevede il possibile reclamo al sovrano a cui si affianca l’appello ad un giudice intermedio, le cui funzioni sono esercitate dai missi dominici (la competenza regia opera in via residuale, quando i missi non devono o non possono occuparsi del ricorso)65.

Nel diritto canonico medievale la struttura si arricchisce con restitutio in

integrum, revocatio e querela nullitatis. Quest’ultima, in passato separata

dall’appello e rivolta al medesimo giudice che aveva emesso sentenza, con la finalità di denunciare errores in procedendo, viene assimilata nell’appello, divenendo così strumento di gravame e contestualmente azione di annullamento.

Con il code louis del 1670 l’appello resta uno strumento di gravame e viene introdotta la sua applicazione automatica, ovvero prescindendo dalla volontà del condannato, esercitata ogni qual volta che le pronunce disponevano torture o pene afflittive molto gravi. In tale contesto, oltre alla specificazione dei motivi, si diffonde anche il principio del divieto di

reformatio in peius, le cui origini sembrano rimandare al riscontro, per la

prima volta, in un passo di Ulpiano.

34

Le prime opere sistematiche che analizzano l’appello sono databili tra il XV e il XVII secolo ad opera dei giureconsoli, mentre nel secolo successivo compaiono i codici criminali che ne disciplinano l’istituto. Nel codice di procedura penale del regno italico formulato nel 1807 viene riconosciuto il diritto al secondo grado avverso le sentenze del giudice di pace, dei tribunali correzionali e delle corti di prima istanza, con l’espressa previsione del divieto di reformatio in peius66. Nei successivi codici interni riecheggia l’influenza del code d’istruction in vigore dal 1811, nell’introduzione di un sistema processuale misto nel bilanciamento tra le esigenze dell’inquisitorio e accusatorio. Il primo codice di procedura penale italiano è promulgato nel 1913. Esso, pur formalmente legato ad un modello misto, assumeva i toni accusatori. Nonostante l’importanza dell’opera, fu aspramente criticato67 e

non stupisce che nel 1925 il governo fascista promosse delega legislativa, che condusse alla realizzazione del codice Rocco del 1930. Si tratta di una realizzazione influenzata dal contesto del regime, innovativa in ambito procedurale, nel presentare un iter connotato da particolare complessità: una possibile fase preprocessuale gestita dalla polizia giudiziaria, una fase istruttoria finalizzata alla raccolta del materiale probatorio, all’articolazione delle ragioni delle parti e alla formazione delle prove. L’istruttoria poteva essere sommaria, condotta dal p.m. e rivolta ai casi più semplici, o esaustiva, seguita dal giudice istruttore e riferita ad ogni altro caso. Qualora non fossero stati sufficienti i presupposti per pronunciare proscioglimento, veniva introdotta la fase di dibattimento pubblico, ovvero “una fase nella

quale, secondo una comune valutazione, si faceva sentire in maniera notevole, e non di rado eccessiva, il peso delle risultanze istruttorie”68.

A seguito del secondo conflitto mondiale, il codice reazionario sopravvisse, però con il contestuale sorgere dell’idea di una necessaria revisione, soprattutto spinta dalla ricerca di conformità con la Costituzione del 1948

66 Vedi F. Nuzzo, L’appello nel processo penale, Giuffrè editore,2008, Milano, pag 8 e ss

67 Vedi: F. Cordero, Procedura penale, Giuffrè, Milano,1979, pag 84, nel descrive il codice come malvisto generando, per volontà del governo, un consulto di terapeuti, ovvero una commissione presieduta da Ludovico Mortara costituita nel 1915

68 Vedi: M. Pisani, Il lungo cammino del codice del 1988 in Pisani-Molari-Perchinunno-corso, Manuale di procedura penale, Bologna,2001 pag 1

35

nel frattempo realizzata69. Un primo intervento modificativo si ebbe con la

l.18 giugno del 1955 n517 che intervenne su un centinaio di articoli, descritto come “la piccola riforma”, segnante la convinzione di un necessario intervento a più ampio respiro, da attuare successivamente. I tentativi atti a riformare il quadro vigente non mancarono, come il progetto Carnelutti e la delega legislativa al governo della Repubblica per la riforma del codice degli anni 60 e la legge delega del 3 aprile 1974 per la formulazione del nuovo codice di procedura penale.

2 IL CODICE DEL 1988

Attraverso la formulazione della legge delega del 16 febbraio del 1987 il Parlamento aveva indicato le direttive che il governo era chiamato a rispettare nella formulazione del nuovo codice di procedura penale. Gli obiettivi che l’intervento mirava a concretizzare erano tre: attuare i principi della Costituzione, conformare le norme processuali a quelle Convenzioni internazionali oggetto di ratifica nazionale relative al riconoscimento di diritti della persona e, infine, attuare i caratteri del sistema accusatorio secondo i criteri dei centocinque principi direttivi insiti nella legge delega: generando un modello non puro, ma condizionato dalle linee fornite dal Parlamento italiano. Il progetto preliminare è stato formato da una commissione nominata dal Ministro di Giustizia Vassalli, mentre il testo definitivo è entrato in vigore il 24 ottobre 1989.

Il nuovo codice si fonda su tre principi fondamentali: il principio della separazione delle funzioni, riscontrabile nel ruolo del giudice atto a dirigere l’assunzione delle prove e decidere senza svolgere indagini e del pm di ricercare, ma non assumere, il materiale probatorio; quello della netta ripartizione delle fasi processuali, ovvero nella suddivisione in indagini preliminari, udienza preliminare e dibattimento, volto a garantire che le

36

prove in dibattimento siano assunte in pieno contraddittorio e che un giudice valuti la necessità di rinvio a giudizio e la fondatezza dell’accusa; infine nel principio della semplificazione del procedimento , se il processo ordinario offre adeguate garanzie ma tempi lunghi, possono essere introdotti procedimenti semplificati come abbreviato, patteggiamento,immediato, direttissimo e per decreto70

Riguardo le innovazioni introdotte in appello, il lietmotiv è il medesimo riscontrabile nella legge delega del 1974, ovvero la scarsa attenzione attribuita alla disciplina delle impugnazioni. Invero, ciò è spiegabile nella mancanza di riflessioni e dibattito, che invece si erano accessi in relazione al giudizio di primo grado e che sono stati di impulso agli interventi innovatori che il codice ha prodotto in tale ambito. La riforma degli strumenti impugnativi ha concretizzato una mera razionalizzazione del sistema vigente71, attraverso un contenimento delle impugnazioni e una

semplificazione delle forme, mediante la predisposizione di limiti all’appellabilità di sentenze emesse a conclusione di alcuni procedimenti speciali e della sentenza dibattimentale; così come ha ricercato una più marcata separazione tra giudizio di merito e legittimità, attraverso una riduzione del controllo sui vizi di motivazione senza ostacolare l’estensione delle facoltà della Corte nelle ipotesi di annullamento senza rinvio. Una puntuale modifica è riscontrabile nell’ampiamento delle ipotesi di decisioni in camera di consiglio per l’appello, non potendo, però, tale sforzo essere equiparato a quelli riversati al primo grado72.Nel nuovo codice del 1988

l’interezza della disciplina delle impugnazioni risiede nel libro IX, senza interventi volti ad intaccare la previgente impostazione caratterizzata da tre possibili gradi di giudizio, due di merito e uno di legittimità. Infatti l’intento era quello di rimanere conformi all’impianto tradizionale73, in quanto nella

legge delega non era possibile rintracciare “innovative e radicali

70 Vedi: P. Tonini, Diritto processuale penale, op cit, pag 14 e 15

71Vedi: O. Sechi, Le impugnazioni, in Di Federico, Gaito, Margaritelli, Sechi, Seghetti, Il monitoraggio del processo penale, Bologna, 1995, pag 175

72 A. Nappi, Guida al nuovo codice di procedura penale, Giuffrè editore, Milano, 1989, pag 301 e ss 73 Vedi: S. Sottani, Un sistema in trasformazione, in Le impugnazioni penali, a cura di A. Gaito, vol. 1, Utet, Torino, 1998, pag 38

37

enunciazioni di principio”74.Oltre all’esclusivo ricorso per cassazione di

condanne riguardanti contravvenzioni punite in concreto con la sola pena dell’ammenda o con pena alternativa ed al ricorso per saltum delle decisioni appellabili, nell’intento di arginare un possibile uso dilatorio dell’impugnazione75, l’elemento innovativo centrale che ha riguardato il

secondo grado è la reintroduzione76, con le dovute modifiche, dell’appello

incidentale77.

Lo scopo che si voleva ottenere dall’introduzione dell’impugnazione incidentale, una volta scongiurata la richiesta di eliminare il divieto di

reformatio in peius per l’imputato al tempo discussa, era quello di arginare

l’abuso del ricorso in appello generato appunto dal mantenimento del divieto78.Tale facoltà incidentale è esercitabile da entrambe le parti,

generando asimmetria con quanto previsto nel codice Rocco del 1930, che, proprio per il riconoscimento del diritto ad impugnare in via incidentale al solo p.m., aveva visto la Corte costituzionale dichiarare illegittima la norma contenente tale indicazione, ovvero l’articolo 51579.

3 LA LEGGE PECORELLA E LE SUCCESSIVE SENTENZE DELLA