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Storia e identita europea: il problema della Costituzione

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Academic year: 2021

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U

NIVERSITÀ DEGLI

S

TUDI DI

P

ISA

DIPARTIMENTO DI CIVILTÀ E FORME DEL SAPERE

CORSO DI LAUREA IN STORIA E CIVILTÀ

TESI DI LAUREA

IN

STORIA CONTEMPORANEA

Storia e identità europea: il problema della

Costituzione

RELATORE

Prof. Alberto Mario Banti

CONTRORELATORE

Dott. Arturo Marzano

CANDIDATO

Gioacchino Iannelli

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Indice

Introduzione

p. VI

Capitolo I

L’Europa degli albori: archeologia di un’identità

1. Caratteri originali e di parallelismo p. 15 2. Gli Asburgo e la Res publica cristiana

2.1 Il tentativo di Carlo V p. 19

2.2 Il tentativo di Filippo II p. 26 2.3 Il tentativo di Ferdinando II p. 33

3. Il tentativo di Luigi XIV p. 41

4. Il tentativo di Napoleone Bonaparte p. 51

5. La «Lunga Pace» p. 61

6. La Germania e il mito del «Reich Millenario»

6.1 Il tentativo di Guglielmo II: la Prima guerra mondiale p. 68

6.2 “Unirsi o perire” p. 72

6.3 Il tentativo di Adolf Hitler: la Seconda guerra mondiale p. 79 7. Verso l’Unione europea

7.1 Le nuove consapevolezze degli europei p. 84

7.2 Un futuro incerto p. 86

Capitolo II

L’identità culturale europea: il rapporto problematico tra unità e differenze

1. L’identità culturale europea

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1.2 Un caso particolare p. 93

1.3 L’Europa e l’identità europea in una prospettiva storico-filosofica

p. 95

1.4 Cos’è l’identità europea? p. 101 2. L’identità attraverso le differenze

2.1 L’Europa e il mondo turco-islamico p. 105 2.2 L’Europa e il mondo russo p. 108 2.3 L’evoluzione identitaria nel rapporto con l’Asia p. 111 2.4 Identità come «superiorità» p. 113 3. Dalle identità locali all’identità europea

3.1 La nascita dell’identità e dello Stato nazionale p. 117 3.2 Città ed imperi: l’evoluzione dell’identità nazionale p. 120 3.3 L’identità etnica come mezzo di affermazione p. 122 3.4 Il traguardo: un’identità debole e frammentaria p. 124 4. L’evoluzione dell’Europa contemporanea e della sua identità

4.1 La strada verso l’integrazione tra impegni e difficoltà p. 129

4.2 Un’evoluzione ambigua p. 134

4.3 I rapporti tra Europa e America p. 139

4.4 Integrazione senza unità p. 144

5. Quale identità?

5.1 La strada verso l’identità p. 148 5.2 Un progetto da concretizzare p. 150

Capitolo III

La prova della Costituzione

1. Cos’è la Costituzione europea?

1.1 Costituzione e identità p. 154

1.2 Un progetto nella tradizione dei Lumi p. 156 1.3 La tutela dei diritti fondamentali p. 159 1.4 Una separazione dei poteri più chiara p. 162

1.5 Il peso delle parole p. 164

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1.7 Il metodo comunitario e la Costituzione economica dell’Europa

p. 169

1.8 «Imperfetta, ma insperata» p. 173 2. Gli antefatti della Costituzione

2.1 Il mandato di Laeken: la Convenzione sull’avvenire dell’Europa

p. 175

2.2 I membri della Convenzione p. 176 2.3 Un crocevia di visioni e di interessi divergenti p. 180 2.4 Appartenenze politiche e rappresentanze di interessi p. 183 2.5 I lavori della Convenzione p. 186 2.6 Dalla Convenzione alla Conferenza intergovernativa p. 188 3. La struttura della Costituzione

3.1 Un trattato che getta le basi di una Costituzione p. 192

3.2 Sostituire i trattati p. 195

3.3 Il prezzo del riordino p. 198

3.4 Prima parte: le disposizioni costituzionali p. 199 3.5 Seconda parte: la Carta dei diritti fondamentali p. 201 3.6 Terza parte: il consolidamento delle basi giuridiche e delle

disposizioni istituzionali

p. 202

3.7 Quarta parte: le disposizioni generali e finali p. 205 3.8 I protocolli e le dichiarazioni annesse alla Costituzione p. 206 4. Il seguito degli eventi

4.1 La concomitanza tra Convenzione e allargamento p. 209 4.2 La ratifica e l’entrata in vigore p. 211 4.3 I risultato: la Costituzione nella coscienza degli europei p. 215

Conclusioni

p. 221

Fonti

p. 232

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Desidero ringraziare tutti coloro che mi hanno aiutato durante questo percorso. Un ringraziamento al prof. Banti per la cura, la professionalità e la continua assistenza che mi ha fornito durante la realizzazione della tesi, e al Dott. Marzano per la disponibilità dimostrata. Un ringraziamento alla città e all’università di Pisa, che in due anni mi hanno dato tanto. Un ringraziamento alla mia famiglia, che mi ha sostenuto costantemente. Infine, un ringraziamento agli amici che ho conosciuto qui a Pisa, senza i quali questo percorso non sarebbe stato altrettanto bello ed entusiasmante.

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VI

Introduzione

A partire dai primissimi anni del nuovo millennio, per la precisione dalla metà del primo decennio di questo nostro ventunesimo secolo, la storia dell’Europa e della sua forma istituzionale più evoluta, l’Unione europea, è stata interessata da profondi cambiamenti, sensazionali passi in avanti e drammatici dietrofront. Una delle prove più significative di quanto detto è rappresentato dal progetto della Costituzione europea, il cui scopo, oltre a quello di sostituire e unificare i vari trattati che costituivano la base giuridica dell’Unione, sarebbe stato quello di fornire un chiaro assetto politico alle sue istituzioni e competenze, alle modalità decisionali e alla politica estera. Il processo scaturito e portato avanti all’epoca dalla Convenzione è stato il frutto di un bisogno autentico, della necessità da parte dell’Europa di dover affrontare le importanti sfide del nuovo millennio. Si sarebbe potuto parlare, in tal senso, di seconda nascita dell’Europa? Nascita, cioè, non più solo come unità storica, culturale e religiosa consapevole, ma come confederazione unica, dotata di leggi e di istituzioni politiche comuni precedentemente inimmaginabili, nonché come plausibile protagonista della scena globale. I collegamenti tra quella vecchia Europa e la nuova dimensione attesa dai più fiduciosi sono in realtà ancora ben presenti ma complessi: “Tanto per iniziare c’è la semplice presenza fisica di questo passato nell’architettura, nella planimetria e nell’arte. Quelle familiari forme gotiche rinascimentali e barocche, da Oxford a Danzica, ci fanno sentire a casa anche quando siamo all’estero. È talmente ovvio che dimentichiamo quanto sia insolito. Non è così in nessun altro continente. Poi ci sono gli spazi tra gli edifici antichi, i vuoti lasciati dalle bombe. […] Si potrebbe obiettare che sto ignorando tutto ciò che l’Europa ha di negativo. Non è così. La maggior parte dei nostri paesi è caratterizzata da classi dirigenti chiuse, composte da politici miopi, opportunisti, spesso corrotti. Contrariamente al mito euroscettico la burocrazia di Bruxelles ha dimensioni in realtà piuttosto

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ridotte, ma compensa facendosi ancor più burocratica. Gran parte delle nostre economie sono ancora purtroppo non competitive. Le popolazioni autoctone sono in calo e non riusciamo a far sentire a proprio agio gli immigrati, soprattutto gli immigrati musulmani. Anche questi problemi abbiamo in comune”1

. Nel frattempo all’interno del nostro continente si ha una storia sorprendente da raccontare, quella del massimo successo nella diffusione pacifica della libertà mai ottenuto nella storia recente. In ogni singolo aspetto la causa dell’Europa e quella della democrazia procedevano di pari passo. Probabilmente l’Unione europea potrà anche non essere molto democratica, ma nel promuovere la democrazia ha ottenuto i massimi successi.

Il dibattito europeo ha ritrovato così, nel corso degli ultimi quindici anni, la sua dimensione storica, quella delle origini, quando la pace in Europa sembrava così fragile. L’Unione europea potrebbe essere osservata in questo modo, come una sorta di fronte comune, ovvero come somma di unioni. Unione d’emergenza, innanzitutto, perché il mondo era e resta sempre più pericoloso, un mondo dove gli squilibri economici e sociali moltiplicano i conflitti politici e aggravano le minacce terroristiche. Il mondo ha bisogno dell’Europa perché è essa è un bastione che si oppone allo scontro di civiltà. Le idee e i valori dell’Europa sono necessari al consolidamento del diritto e della giustizia. Unione politica ed economica, dato che l’Unione europea, anche, in passato, ha permesso e permette alla democrazia politica di ritrovare ed affermare il suo primato sull’organizzazione amministrativa, oltre a dare la possibilità ai ministri delle Finanze di inspirare una nuova dinamica nella zona Euro, facendo dell’Europa un’area economicamente più attraente, la risposta migliore di fronte alle delocalizzazioni. Unione sociale, poiché l’occupazione e il progresso sociale vengono costituzionalmente riconosciuti come obiettivi perseguiti dall’Unione europea. Dieci articoli specifici riguardavano direttamente la politica sociale dell’Europa, oltre a quelli relativi all’occupazione o alla coesione sociale, impegnandoci per il rispetto delle minoranze, la perfetta uguaglianza tra donne e uomini, la lotta contro l’esclusione, la tutela della salute, un elevato livello di educazione, la preservazione dell’ambiente. L’economia sociale di mercato

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VIII

riconosce il dialogo sociale costituzionalizzando i concetti di parti sociali. Quanto alla società, l’Europa rafforza allo stesso tempo lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. Unione culturale infine, dal momento che la dimensione culturale europea può essere rafforzata attraverso la consacrazione, tra gli obiettivi perseguiti dall’Unione, della diversità culturale e linguistica, ma anche con il passaggio alla maggioranza qualificata per l’approvazione di norme che istituiscano programmi europei di rilievo per poter sfruttare al meglio le opportunità del mercato Ue e le tecnologie digitali, conservare e condividere il patrimonio culturale europeo, sostenere l’industria culturale .

Ciò non costituisce assolutamente, rispetto agli altri, un elemento secondario, ma per molto tempo, forse più di quanto s’immagini, ha rappresentato una traccia fondamentale, un punto di partenza. D’altra parte l’Europa non ha quasi mai avuto una propria unità civica, politica o storica, ma per secoli ha avuto una sua unità civile, culturale e spirituale. La stella polare di riferimento e di contrasto, in questo ambito, è costituita dal Cristianesimo, ma anche l’arte e la filosofia greca, il diritto romano, i moti rinascimentali, l’illuminismo liberale e del movimento operaio, inteso come lotta per l’uguaglianza e per la giustizia sociale, hanno giocato il loro innegabile ruolo. Un’Europa dunque da costruire nella speranza e non solo nel realismo dell’economia e della politica. Una comunità che sappia ancora tendere verso ideali e orizzonti più alti, stimolati dalla cultura, da una “politica” che riveli il senso più nobile del termine e da una spiritualità che non è solo confessione religiosa, ma anche ricerca del senso ultimo dell’esistenza e dei valori morali e umani che trascendono interessi e conseguenze. Certo, a prima vista l’Europa si rivela come un mosaico, un vero e proprio arcipelago di culture: c’è l’area latina e l’area germanica, oltre a quella baltica più a nord, c’è l’area celtica, l’area slava e l’area balcanica. Naturalmente non è semplice delineare ora la planimetria di questa storia culturale che ha nel Cristianesimo, ma non solo, il proprio lessico di base. Si tratta, infatti, di un rapporto estremamente complesso, non di rado dialettico e fin conflittuale, che però risulta decisivo per la comprensione della nostra stessa identità. Ed è su questa traiettoria, seguendo il percorso lungo la scia dell’anima culturale che pulsa sotto la superficie della nostra civiltà, che occorre impedire la dissoluzione della nostra specificità, della

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nostra autenticità, della nostra identità. Occorre pertanto lottare contro le innumerevoli spinte disgregatrici, contro la smemoratezza nei confronti delle proprie radici, dei valori costitutivi, dell’identità genuina dell’Europa. “Una lotta contro la superficialità e la banalità, contro la vacuità, la volgarità e la bruttezza, ed un ritorno all’etica e alla bellezza che erano le stelle fisse del cielo della civiltà europea nei secoli. Pertanto c’è un ultimo impegno da evocare per ritornare ad essere autenticamente europei ed è quello della lotta contro gli estremi, gli eccessi, la spirale delle pure antitesi. La cultura greca ci ricordava come il sapiente è un uomo μεθόριος, da crinale, capace di procedere con intelligenza e cautela sul vertice tagliente di un monte , lungo il quale si distendono due versanti. Da un lato, infatti si può scivolare lungo il versante di un sincretismo che diventa relativismo incolore e che spegne e dissolve la nostra identità specifica. D’altro lato c’è il rischio di precipitare lungo il versante del fondamentalismo che diventa esclusivismo acceso e che cancella ogni rispetto e ignora ogni valore altrui, in una sorta di foga iconoclastica, feroce e impaurita al tempo stesso, nei confronti di tutto ciò che è diverso”2

. Al contrario, è indispensabile ritrovare la grande tradizione del dialogo, del confronto tra le culture. La nuova Europa, sempre più larga ed eterogenea, è costantemente alla ricerca di quel che la tiene insieme: la cultura è, appunto, una delle risposte, per quanto si possa pensare in realtà il contrario, ovvero che è essa, a causa delle differenze che mette in luce, a dividere le persone. Tuttavia, la cultura europea è più forte grazie alle sue differenze, nel bisogno di trovare il modo di gestire queste diversità senza annullarle in un denominatore comune. La cultura europea non è però un dato di fatto, non è qualcosa che può essere semplicemente descritto, è un processo o un obiettivo, la cui definizione implica la politica e non può essere data a tavolino perché deve essere applicabile dalle persone a ciò che è ora e a ciò che sarà in futuro. Krzystzof Michalski, all’interno di un’intervista sui temi dell’allargamento dei confini europei, dell’immigrazione e della religione, ne propone un esempio: “Credo che la questione dell’immigrazione sia un ottimo esempio. È un’illusione ritenere che le politiche sull’immigrazione possano basarsi su qualche concetto culturale europeo pronto per l’uso che arrivi a definire i nostri confini. Dove

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X

possiamo andare, dove gli altri possono arrivare, a quanti possiamo permettere l’accesso e cosa essi debbano apprendere per poter diventare come noi, dei bravi cittadini europei. No. Chi siamo è una domanda aperta”3

.

Partendo da questi e altri presupposti, attraverso la presente tesi il mio proposito è quello di mostrare come le fondamenta dell’Europa siano sotto molti aspetti comuni, e che al tempo stesso siano molto più forti e antiche di quanto non si possa pensare, al punto tale da rappresentare un fondamentale punto di partenza per le comunità e le istituzioni europee che si sono venute a formare a partire dalla secondo metà del Novecento. Come l’Europa, già prima del XX secolo, si sia venuta storicamente a definire, sviluppando le propria caratteristiche e una propria identità, per quanto problematica, sia di carattere culturale che politico. In altri termini il vecchio continente è stato in grado di dar vita ad un percorso che, tra alti e bassi, ha permesso lo sviluppo della civiltà così come la conosciamo, sino a raggiungere il proprio culmine ai nostri giorni. L’Europa è quindi innanzitutto storia, ma è anche cultura e politica. In che modo? Storia, dicevo, dal momento che gli europei hanno da sempre presentato, nonché messo in pratica, caratteri e fattori che li accomunavano. Rispetto ai propri predecessori romani o ai competitori ottomani, gli europei sono stati meno soggetti ai processi che Edward Gibbon definiva di «declino e caduta»4. Gli europei non sono stati, in realtà, meno soggetti alla corruzione, agli interessi particolari o al conflitto delle fazioni. Hanno però elaborato sistemi politici più flessibili e pluralisti, insieme ad una cultura più aperta all’incontro con la diversità. L’età Moderna ha segnato, sotto questo punto di vista, il superamento di un passato ormai remoto attraverso la volontà di andare oltre, di scoprire ciò che era ignoto. Ecco dunque che gli europei furono in grado di conquistare il mondo intero, per poi perderlo, ma non prima di averlo trasformato irreversibilmente, nel bene e nel male, e avergli trasmesso alcuni dei loro caratteri originali, che sono stati al tempo stesso le armi della loro conquista: le istituzioni politiche complesse, il pluralismo giuridico, culturale, politico, in alcuni casi tolleranza, ma anche nazionalismo e razzismo, e alla fine regole istituzionali e pratiche discorsive qualificate come democratiche, inclusive

3

K. Michalski, Cosa tiene unita l’Europa, in «La Repubblica», 8 dicembre 2004, p. 37. 4 Cfr. E. Gibbon, Declino e caduta dell’Impero romano, Mondadori, Milano 1990.

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a determinate condizioni. Questi strumenti e caratteri originali potenti e contraddittori hanno costruito in quattro secoli le società europee rendendole più attrezzate nel confronto competitivo. I suoi abitanti partivano da condizioni per certi aspetti di debolezza, o almeno di disordine, che invece si sono rivelate punti di forza: una Chiesa rivale della politica, in continua competizione con il potere; un ceto dirigente militare forte della sua nascita e proprietà terriera, assai spesso ribelle; una molteplicità di tessuti urbani, di ordinamenti, di parti politiche in conflitto. Per consolidare ciò che erano diventati, essi disponevano di prodotti sociali, politici e culturali disordinati, plurali, flessibili e aggressivi. Loro malgrado, in realtà, perché al tempo stesso non sono riusciti a unificare i sistemi di comando né a eliminare al loro interno la pluralità delle opinioni e delle pratiche sociali e giuridiche. Ed ecco che si tocca il problema cruciale dell’identità: chi sono gli europei, chi siamo noi europei?

Cultura, dunque, o meglio identità culturale. Ancora oggi l’attualità del problema è oltremodo grande, tanto a livello nazionale che europeo. In considerazione della frenetica globalizzazione da un lato, e della federalizzazione e regionalizzazione in atto in molti Stati costituzionali, dall’altro, e in considerazione dei dubbi che sussistono in relazione al mercato mondiale, osserviamo in tutto il mondo un ripensamento della cultura in quanto forza costitutiva dell’identità, della libertà come libertà in riferimento diretto alla dignità dell’uomo, a differenza della libertà economica e della sua rilevanza prettamente strumentale, e delle differenze culturali, dal pluralismo alla tutela delle minoranze. Attualmente la «cultura», nell’accezione creata da Cicerone, è oggetto di una serie impressionante di tematiche in numerosi campi, mentre gli argomenti si moltiplicano. Il problema dell’identità va inserito in questo contesto, laddove occorre costantemente riprendere il riferimento al concreto, cioè agli uomini e ai cittadini, anche alle minoranze e ai gruppi, agli Stati costituzionali e alle loro forme di strutturazione interna, ma soprattutto all’individuo. I singoli elementi della fondazione dell’identità culturale sono palesi, di ordine processuale e da intendersi in funzione dei mutamenti storici: il passo necessario è quello di saper riconoscere le nemesi e gli scherzi che il destino dell’Europa ha giocato alle identità con esso collegate, e a quello indispensabile per accogliere la tensione tra

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sé e sé, tra il sé e l’altro dentro e fuori da noi: “le identità hanno a che fare con le maschere e il recitare una o più parti su una scena composta da cerchi concentrici – la città, il paese, l’Europa, il mondo – non può prescindere da un atteggiamento almeno in parte ironico verso tutta la rappresentazione e il proprio ruolo. Auspicare che quelle future siano identità dell’ironia vuol dire sperare che siano così salde da accettare di oscillare, spostarsi, modificarsi, da non doversi basare – come quelle nate in regime di scarsità economica e contrapposizione culturale – su irrigidimenti ed esclusioni; e che consentano sempre l’ironia verso se stessi e verso le illusioni di grandezza e le pretese egemoniche del vecchio soggetto”5

. In un’Europa che si unisce, si dovrebbe adottare una politica identitaria di carattere prudenziale, al riparo sia dall’eurocentrismo che dall’emarginazione. In tal senso, anche il progetto di Costituzione del 2004 sarebbe potuto diventare un nuovo elemento di politica identitaria.

Politica, infine, perché l’Europa nel corso degli ultimi cinquant’anni circa ha tentato anche questo esperimento, cercando di arrivare a quell’unione di carattere politico appunto alla quale non era stata in grado di approdare precedentemente, nemmeno nel corso dei lunghi secoli passati. In tal senso il progetto di Costituzione è stato esemplare e ha rappresentato la volontà di compiere un decisivo passo in avanti verso il futuro delle Comunità europee. Sin dalle prime discussioni che lo hanno accompagnato, tale progetto ha avuto vita non facile ed un percorso particolarmente ostacolato. Il trattato stesso, una volta elaborato dalla Convenzione incaricata di realizzarlo, si mostrò ricco di novità ma anche di compromessi, al fine di non spingersi troppo «oltre», per quanto avrebbe apportato delle migliorie non di poco conto, come ad esempio l’istituzione della carica permanente per il presidente del Consiglio europeo. Il trattato, però, non presentava soltanto luci, ma anche numerose ombre: è chiaro che, rifacendosi alla storia europea, bisogna considerare quanti tabù rimasti tali in precedenti occasioni sono stati infranti dalla Convenzione, ma anche che quest’ultima non fu in grado di soddisfare completamente le aspettative. L’opinione di Romano Prodi, all’epoca presidente della Commissione europea, relativamente al risultato dei

5 L. Passerini, Introduzione: dalle ironie delle identità alle identità delle ironie, in L. Passerini (a cura di), Identità culturale europea. Idee, sentimenti, relazioni, La Nuova Italia, Firenze 1998, p. 25.

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lavori della Convenzione, era che: “il Trattato costituzionale è nato da un vero dibattito democratico, e come tale segna una svolta decisiva nella storia del processo di integrazione comunitario. La Convenzione è infatti riuscita a produrre un testo di natura costituzionale, superando il metodo del negoziato diplomatico fra i soli rappresentanti dei governi e dando voce a tutte le fonti di legittimità dell’Unione: governi, parlamenti nazionali, Parlamento europeo, commissione. […] Il testo finale approvato dai membri della Convenzione e presentato a Salonicco nel giugno 2003 andava nella giusta direzione”6

. Ciononostante, su alcuni punti la Convenzione non era stata in grado di raggiungere i risultati auspicati, né la Conferenza intergovernativa fu in grado di compiere il salto di qualità necessario e di mostrare fino in fondo tutto il coraggio che il processo di integrazione europea e il momento storico avrebbero richiesto. Il potere di veto, ad esempio, era stato mantenuto in troppi casi, soprattutto in materie primarie come la politica estera, diventando uno strumento rischioso, dal momento che esso rappresenta una vera e propria «dittatura» del singolo, una negazione della democrazia e quindi prevalentemente un mezzo per provocare la paralisi dell’Unione. C’era da sperare che i governi europei mostrassero più coraggio e visione. Ma, ancora a tal riguardo, “questa constatazione ci permette di continuare ad avere una visione coraggiosa del nostro futuro, una visione in grado di farci superare gli ostacoli all’affermazione di un’Unione forte e capace di agire in modo democratico ed efficace. […] In conclusione, la Convenzione ha sostanzialmente evidenziato il riconoscimento di 50 anni di successi. Sebbene sia emerso con forza il bisogno di alcuni chiarimenti, tuttavia nessuno ha mai messo in questione gli incredibili risultati raggiunti dalla Comunità nel passato: il suo straordinario patrimonio normativo e istituzionale ed un progetto politico unico sulla scena mondiale. […] Se anche il processo di ratifica si concluderà a buon fine, allora potremmo finalmente dire che contrariamente al triste epilogo di un celebre romanzo di Hemingway, il pesce pescato dalla Convenzione non sarà stato divorato dagli squali prima di raggiungere la riva. Altrimenti, dovremo ricominciare da quello che avremo tra le mani, dovremo essere creativi, trovare una nuova strada per ridare vigore e speranza all’Europa. Perché l’Europa che

6 R. Prodi, Prefazione, in F. Bassanini, G. Tiberi (a cura di), La Costituzione europea: un primo

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stiamo costruendo è un progetto di cui non possiamo fare a meno, è il quadro indispensabile se vogliamo conservare oggi e assicurare alle generazioni future pace e prosperità. Perché l’Europa è l’unica prospettiva, l’unica idea, a favore della quale non possiamo mai stancarci di lavorare assiduamente”7. Un messaggio ottimista, dunque, carico, se vogliamo, di speranza per il progetto che si avviava ad affrontare la sua fase più ardua. Una fase dalla quale non uscì, in realtà, particolarmente bene, dal momento che, a partire dal fallimento del processo di ratifica del trattato costituzionale, l’Unione europea ha affrontato mille altre difficoltà, spesso non riuscendo a fornire risposte adeguate e attirando, in particolare negli ultimi anni, numerose critiche relative alle gestione di molti di quei problemi. Ma l’ottimismo che è, ed è stato, alla base di molti di quei progetti europei che un tempo potevano apparire pure utopia e che sono poi andati a concretizzarsi, trasformando la storia del nostro continente e aprendoci ad una nuova dimensione, per lo più sconosciuta al passato, fatta di globalizzazione, apertura e tolleranza, potrebbe essere ancora una volta considerato un importante punto di partenza, poiché sottintende spesso, anche se non sempre, volontà di portare avanti e di tradurre concretamente aspettative e speranze coltivate non da uno solo, ma più persone, fermamente convinte nei loro propositi e capacità. Allora, forse, in un frangente storico segnato pericolosamente dal ritorno in auge di fattori che sembravano ormai appartenere ad un passato remoto, quali l’aperta bellicosità di alcuni tra i maggiori protagonisti della politica mondiale, la chiusura delle frontiere e gli spostamenti coatti di intere masse di popolazione in fuga da guerra e fame, occorrerebbe soltanto ritrovare l’ottimismo e la speranza che avevano permesso di realizzare i più importanti traguardi della storia europea più recente.

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Capitolo I

L’Europa degli albori: archeologia di

un’identità

1. Caratteri originali e di parallelismo

Considerandola da un punto di vista strettamente geografico e umano, l’Europa non è facilmente identificabile. Essa, infatti, si presenta come una parte del ben più grande continente asiatico, rispetto al quale non risulta delimitata da precisi confini naturali. Non a caso si parla di Eurasia per indicare la massa continentale che comprende entrambi i continenti, Europa e Asia. Tuttavia, anche se i suoi confini geografici non sono propriamente definibili, l’Europa presenta comunque una forte riconoscibilità rispetto ai territori asiatici limitrofi. Questa caratterizzazione è il prodotto della peculiare evoluzione storica che è alla base della sua civiltà, della sua cultura e della sua mentalità. Seppure attraversati da numerose, vistose e spesso profonde differenze, i popoli europei hanno comunque un sostrato comune, una base diffusa che li unisce e al tempo stesso li differenzia da popoli, vicini e lontani, con esperienze storiche diverse. Non è facile delimitare l’area di quella che possiamo chiamare «civiltà europea» e, chiaramente, non tutti gli studiosi sono concordi sulla stessa posizione e su di una sola ipotesi. C’è, per esempio, chi parla di civiltà euro-atlantica, comprendendo insieme la «vecchia» Europa e i paesi sviluppati del Nord America, ovvero Stati Uniti e Canada, e chi invece ne sottolinea differenze tali da far parlare di due civiltà completamente diverse.

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Tali sviluppi caratterizzano la storia europea fin dagli albori, ma essi cominciano a diventare particolarmente interessanti durante i lunghi secoli della storia Moderna; un periodo che, per l’Europa, rappresentò un successo senza eguali, il trionfo di uno dei poli di civilizzazione del nostro pianeta rispetto, e ai danni, di tutti gli altri. Un successo che, in realtà, non è stato permanente, che si è rivelato effimero poiché gli altri popoli del mondo hanno successivamente potuto, nel XX secolo, riequilibrare e perfino avviare un ribaltamento dei rapporti di forza di un tempo. D’altra parte l’Europa si è quasi suicidata nel corso del Novecento, sprofondando in un baratro di violenza e di barbarie senza precedenti e perdendo una parte del potere e del prestigio che aveva accumulato. Per una parte essenziale, comunque, il successo europeo è stato duraturo e notevole, e quindi l’eredità della modernità permane, perché è stata sviluppata, sulla scia del modello indicato dagli europei, una trasformazione generale e irreversibile del rapporto tra l’umanità ed il pianeta che essa abita. “Nel bene come nel male, la Terra non sarà più quella che è stata abbastanza stabilmente fino al Cinquecento, e anche oltre; in quel particolare rapporto tra uomo e ambiente, fra produzione e risorse, fra natura e cultura, fra vita e morte, fra sicurezza e paura, fra sacro e profano, fra libertà e necessità, fra società e potere. Questa trasformazione generale è stata il frutto del traboccante sviluppo europeo”8

.

Le armi, o gli strumenti, con cui gli europei hanno realizzato tale sviluppo sono numerose. Tra queste possiamo ricordare, ad esempio, lo sviluppo capitalistico, arrivando con il tempo a sostituire una cultura della mobilità, della ricchezza e della crescita a una cultura della stabilità, del prestigio e dell’imposizione dell’autorità. Cosi facendo, gli abitanti dell’Europa hanno sviluppato enormemente le potenzialità del mercato, le capacità produttive e la propensione all’innovazione, creando le condizioni sociali e culturali più favorevoli allo sviluppo. Oltre al capitalismo, gli europei si sono valsi anche di un’altra caratteristica importante: i poteri statali, ovvero una sofisticata elaborazione e coordinazione delle istituzioni. Se prima il potere era considerato come nelle mani di una sola ed unica autorità, successivamente si sono differenziati gli ambiti e si è cominciato a considerare legittimo che

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professionalità e interessi diversi entrassero in competizione tra di loro, e che questa competizione fornisse un livello superiore di efficienza o di giustizia. È stata quindi elaborata e complicata l’organizzazione dei diversi poteri: militari, amministrativi, politici e giudiziari. Sono state moltiplicate le distinzioni di competenze, gli ambiti di responsabilità, le giurisdizioni, le limitazioni e i controlli incrociati dei rispettivi campi. Senza questa sorprendente capacità di articolazione e senza la stabilità fornita ai poteri pubblici, gli europei non avrebbero mai potuto affrontare gli enormi problemi organizzativi e politici che derivavano dall’entità delle loro ambizioni. Infine bisogna considerare un ulteriore strumento, quello dell’integrazione culturale, ovvero della capacità di conoscere, studiare e integrare sotto il profilo culturale la diversità9. Gli stessi europei sono nati, d’altra parte, attraverso una grande «acculturazione», cioè dall’incontro e dalla fusione di culture molto diverse appartenenti agli antichi popoli che avevano abitato il continente10. Nel lanciarsi alla conquista del mondo, gli europei hanno dovuto imparare a valutare gli altri sistemi di valori con cui entravano in contatto di volta in volta e trovare i modi per studiarli, per sottometterli, per convertirli, per risolvere a proprio vantaggio un confronto competitivo. Se non del tutto, sono stati almeno in parte in grado di farlo e di accettarlo. In definitiva proprio da questo sviluppo enorme, da questa profonda differenziazione della politica e della cultura tutto il mondo è stato conquistato, nel bene e nel male. La vicenda di questa conquista e di questa trasformazione coincide, come già detto, soprattutto con la storia dell’Europa moderna.

A partire da questo periodo hanno inizio i cambiamenti più interessanti. All’inizio del XVI secolo l’Europa era divisa in un’infinità di Stati e circoscrizioni territoriali più o meno ampie, certamente non omogenei: vi erano, ad esempio, forti monarchie nazionali, come la Francia, l’Inghilterra e la Spagna, ma vi era anche un’altra entità molto particolare, il Sacro Romano Impero, che governava nominalmente sui territori corrispondenti all’attuale Germania e non solo, e che, in realtà, si trovava sotto il potere di grandi feudatari, gelosi della propria autonomia. Oltre a queste entità di maggior portata, l’Europa risultava ancora suddivisa in numerosissimi Stati a scala regionale o, addirittura, cittadina, spesso

9 Cfr. G. Galasso, Storicismo e identità europea, Milano 2009. 10 Cfr. P. Rossi, L’identità dell’Europa, Il Mulino, Bologna 2007.

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solo delle vere e proprie città-Stato, variamente indipendenti o semi-indipendenti11. È in questo contesto che presero avvio una serie di tentativi egemonici, ovvero tentativi da parte di grandi potenze europee, diverse a seconda delle occasioni, di imporre il proprio predominio sull’intero continente. I primi tre tentativi di creare un’Europa unita posta sotto un’unica bandiera ebbero come protagonisti gli esponenti di una dinastia che avrebbe fatto la storia dell’Europa stessa, gli Asburgo, nelle persone di Carlo V, Filippo II e Ferdinando II. Il quarto ed il quinto tentativo di dominio continentale ebbero invece per protagonista la Francia, prima con Luigi XIV, il Re Sole, e poi con Napoleone Bonaparte, che generò una serie di cambiamenti che non furono mai più cancellati. Giungiamo infine al XX secolo e al sesto tentativo di dominio continentale, compiuto stavolta dalla Germania tra la Prima e la Seconda guerra mondiale, da Guglielmo II a Hitler e la macchina da guerra nazista. Tutti questi tentativi, che percorrono un lungo arco temporale, della durata di circa tre secoli, si risolsero in altrettanti fallimenti, per ragioni differenti ma al tempo stesso simili. In tutti i casi, infatti, nessuna delle potenze in questione ha mai avuto un margine di vantaggio sulle altre tale da potere prevalere, da poter ottenere una vittoria netta. Ogni volta infatti che una potenza, sia che fosse l’Impero di Carlo V, sia che fosse la Francia di Napoleone, diventava abbastanza forte e pericolosa da intraprendere uno di questi tentativi egemonici, le altre forze si coalizzavano per sconfiggerla e ristabilire l’equilibrio. Ogni tentativo risulta comunque importante, e ha contribuito a scrivere una parte importante della storia attuale d’Europa.

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2. Gli Asburgo e la Res publica cristiana

2.1 Il tentativo di Carlo V

Il primo tentativo egemonico per l’unificazione dell’Europa che caratterizza i lunghi e intensi secoli della storia Moderna affonda le propria radici in epoca rinascimentale, tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo. La prima metà del Cinquecento infatti è occupata dalle «Guerre d’Italia», fra Francia e Spagna. Fu proprio la Francia a dare inizio a queste guerre nel 1494, che ebbero come obiettivo principale il possesso dell’Italia, e in particolar modo di Milano. Alla fine le perse, nella grande battaglia di San Quintino (1557) e con la pace di Cateu-Cambrésis (1559), ma almeno non andò incontro ad una completa disfatta, riuscendo a salvaguardare la propria autonomia e, dopotutto, a difendere i propri confini, poiché ottenne di non essere circondata dal proprio nemico. Occorre comunque seguire il filo degli eventi che condusse al sogno, o potremmo dire miraggio, di un uomo, Carlo V, che tentò di unificare l’Europa sotto il proprio dominio.

Nel 1494 il signore di Milano, Ludovico il Moro12, desiderando eliminare il re di Napoli, suo maggiore avversario, fece appello all’allora re di Francia Carlo VIII13, suggerendogli di far valere come proprie le pretese su Napoli della casa francese d’Angiò, i cui possedimenti erano stati incamerati recentemente da Parigi. Il re di Francia discese nella penisola, attraversando l’Italia senza praticamente colpo ferire, e conquistò la città di Napoli usando, come si ebbe a dire per l’occasione, “invece della polvere da sparo, il gesso per segnare le case dove alloggiare i suoi ufficiali”14

. Ovunque il re era accolto da fazioni politiche

12 Cfr. G. Gullino, G. Muto, E. Stumpo, Il Mondo moderno. Manuale di storia per l’università, Monduzzi, Bologna 2007. Ludovico Maria Sforza detto il Moro (Milano, 3 agosto 1452 – Loches, 27 maggio 1508) fu duca di Bari dal 1479, poi duca di Milano dal 1494 al 1499. Durante il suo regno Milano conobbe il pieno rinascimento ed egli stesso fu anche un noto mecenate, soprattutto per aver ospitato alla propria corte Leonardo da’ Vinci.

13 Cfr. Ivi. Carlo VIII (Amboise, 30 giugno 1470 – Amboise, 7 aprile 1498), della dinastia regnante dei Valois, fu re di Francia dal 1483 al 1498. La sua fallimentare discesa nella penisola italiana diede inizio alle cosiddette Guerre d’Italia, ovvero una lunga serie di conflitti nell’ambito dei quali le due principali monarchie del tempo si disputarono il controllo della penisola.

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convinte e del tutto intenzionate a utilizzarlo contro altre fazioni politiche avversarie. D’altra parte la grande maggioranza delle parti e dei sistemi politici italiani erano filofrancesi. Ma gli schieramenti erano estremamente instabili, e di fronte all’eventualità di una vittoria schiacciante della monarchia di San Luigi, si formò improvvisamente una coalizione15 contro la Francia capeggiata da Venezia, volta a difendere la libertà nella penisola, alla quale aderirono tutti, anche quella Milano che aveva richiamato il sovrano straniero a risolvere i propri interessi. Carlo VIII fu così costretto a lasciare Napoli e l’Italia.

Nessun equilibrio tuttavia poteva durare tra gli Stati e le repubbliche italiane: Venezia si era a sua volta eccessivamente rafforzata dal successo ottenuto contro i francesi, e venne formata una nuova schiacciante coalizione, la Lega di Cambrai, capeggiata questa volta dal papa Giulio II16. Lega alla quale aderirono, alleati momentaneamente, anche la Spagna, la Francia e l’Impero, e che fu in grado di sconfiggere la potenza veneziana nella sanguinosa battaglia di Agnadello nel 1509. La città lagunare non venne definitivamente annientata, poiché dimostrò una sorprendente tenuta sociale. Tuttavia le sue ambizioni di dominio in Italia risultarono troncate per sempre. Fu allora che il pontefice cambiò fronte, capeggiando una «Lega Santa» con Venezia e la Spagna contro i francesi. Lanciò l’interdetto contro Luigi XII17

, succeduto nel frattempo a Carlo VIII e cugino del precedente sovrano, e riuscì a bloccarne le ambizioni sullo Stato di Milano, che erano più forti che mai perché relative anche al suo patrimonio personale: il nuovo re di Francia era infatti discendente per parte di madre dalla famiglia milanese dei Visconti, che aveva dominato la città prima degli Sforza. I francesi, vittoriosi

15 Cfr. G. Gullino, G. Muto, E. Stumpo, Il Mondo moderno. Manuale di storia per l’università, Monduzzi, Bologna 2007. La prima Lega Santa, o Lega di Venezia, nacque dietro iniziativa della Repubblica di Venezia e venne sostenuta dal papa Alessandro VI. Vide anche la partecipazione del re di Napoli Ferdinando d’Aragona e degli Sforza di Milano.

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Cfr. Ivi. Giulio II, nato Giuliano della Rovere (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), fu papa della Chiesa cattolica dal 1503 alla sua morte. Fu senza ombra di dubbio uno dei più importanti pontefici dell’epoca rinascimentale: succeduto al suo grande rivale Rodrigo Borgia, che era stato eletto pontefice con il nome di Alessandro VI, fu uno dei massimi esponenti della politica delle alleanze che caratterizzò gli Stati regionali della penisola tra la fine del XV e l’inizio del XVI secolo.

17 Cfr. Ivi. Luigi XII, detto il «Padre del Popolo» (Blois, 27 giugno 1462 – Parigi, primo gennaio 1515), fu Re di Francia dal 1498 al 1515, unico membro del ramo cadetto dei Valois-Orléans a diventare monarca.

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comunque a Marignano nel 1515, con la pace di Noyon si erano attestati a Milano, pur rinunciando a Napoli.

Al momento in cui era stata firmata la pace, entrambi gli enormi patrimoni, quello spagnolo e quello imperiale, fra i quali i francesi si erano incuneati, inserendosi nell’area di Milano, stavano per confluire nella persone del giovane Carlo. L’avventura di Carlo V, in realtà, si sarebbe conclusa con un sostanziale fallimento, soprattutto in rapporto alle immense ambizioni. Era succeduto ai nonni materni sul trono di Spagna, e fu eletto dopo il nonno paterno Massimiliano sul trono imperiale. Un’accorta politica matrimoniale intrapresa proprio da quest’ultimo aveva portato gli Asburgo a ereditare una vastissima entità territoriale, come non si vedeva dai tempi dell’Impero Romano, che comprendeva il nucleo costituito dal Sacro Romano Impero, corrispondente ai territori dell’attuale Germania e Austria, i Paesi Bassi, la Borgogna, la Franca Contea, la Spagna e il regno di Napoli, nonché le ricchissime colonie dell’America Latina. L’estensione territoriale dei domini che venne a ritrovarsi una volta divenuto imperatore e re di Spagna naturalmente lo incoraggiò nel tentativo di realizzare un progetto estremamente ambizioso: quello di unificare l’Europa sotto il profilo politico e di estirpare l’eresia per dare al suo dominio uniformità religiosa. Una

Res publica cristiana, ma di stampo continentale, perché avrebbe dovuto

abbracciare l’intera Europa occidentale e centrale, posta sotto una sola guida sia politica che religiosa, quella della famiglia Asburgo. Profondamente cattolico, Carlo V considerava l’unità religiosa come fattore fondamentale e irrinunciabile per cementare l’unità politica dei sudditi. Avrebbe quindi regnato per quarant’anni, cercando di realizzare uno degli ultimi grandi tentativi di veder edificare e trionfare un impero cristiano universalista.

Alla morte di Ferdinando d’Aragona18, nel 1516, l’erede naturale di una

Spagna unificata da meno di quarant’anni era la figlia dei re cattolici e madre di Carlo, Giovanna, dichiarata tuttavia pazza. A capo del partito che non intendeva affrontare il rischio di un vuoto di potere si era trovato proprio il figlio sedicenne

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Cfr. Ivi. Ferdinando di Trastámara, meglio noto come Ferdinando d’Aragona o Ferdinando il Cattolico (Sos, 10 marzo 1452 – Madrigalejo, 23 gennaio 1516), fu dapprima re di Sicilia, titolo che ottenne nel 1468 e che avrebbe mantenuto fino alla morte e, in seguito al matrimonio con Isabella I di Castiglia, re consorte di Castiglia dal 1474 al 1504.

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di Giovanna, Carlo, che venne nominato direttamente re, anziché reggente in nome della madre, e diventando noto come Carlo I di Spagna. Molte comunità urbane si ribellarono in difesa dei propri privilegi, e chiedevano che Carlo rimanesse reggente, anziché re. Così facendo la monarchia si sarebbe indebolita, e le città e le aristocrazie sarebbero diventate più forti. La costruzione dello Stato monarchico in Spagna era un processo assai più vitale che in Italia, ma anche lì era soggetto a battute d’arresto e a tentativi di blocco. Le città erano i luoghi in cui venivano regolati giuridicamente e istituzionalmente la maggior parte dei conflitti tra comunità: cittadini contro stranieri, poveri contro ricchi, famiglie di fede cristiana ormai da diverse generazioni e famiglie cristiane convertitesi solo di recente (soprattutto dall’ebraismo e dall’islam), ma anche fra fazioni, gruppi e corporazioni in cui i confini delle giurisdizioni seguivano la complicata geografia delle separazioni fra identità diverse. Erano i luoghi in cui le comunità e i tribunali si accordavano per proteggere il valore che sinteticamente e simbolicamente definivano «libertà». Anche laddove le città non erano più, o non erano mai veramente state autonome repubbliche comunali, la propensione naturale a salvaguardare le loro identità e a contrastare, o a contrattare, la trasformazione dei sistemi politici era comunque forte. Così la recente costruzione di istituzioni centralizzate fu sottoposta, dopo l’incoronazione di Carlo, a un grave pericolo, con la rivolta di veri e propri difensori di molte comunità urbane che rivendicavano il rispetto delle autonomie: i cosiddetti «comuneros». Al di fuori della penisola iberica, anche Palermo si ribellò: cacciò il viceré e l’inquisitore e fece appello non già ad una tradizione repubblicana che non aveva, ma alla fragile ed instabile concordia delle famiglie della nobiltà e del popolo cittadino contro la sovranità spagnola.

Carlo era nato e cresciuto nelle Fiandre, che ereditava dalla nonna paterna Maria di Borgogna19, ed era completamente estraneo ai riconoscimenti reciproci di lealtà che reggevano i sistemi di fedeltà spagnoli. Ciononostante, in cinque anni

19 Cfr. Ivi. Maria di Borgogna (Bruxelles, 13 febbraio 1457 – Bruges, 27 marzo 1482) governò i territori borgognoni dei Paesi Bassi e fu duchessa di Borgogna dal 1477 fino alla sua morte. Come unica figlia di Carlo il Temerario, Duca di Borgogna, e di Isabella di Borbone, ereditò i vasti territori borgognoni in Francia e nei Paesi Bassi in seguito alla morte del padre. Ciò la rese la più ricca ereditiera d’Europa e, al fine di ostacolare le mire espansive di Parigi sui propri domini, sposò l’imperatore Massimiliano I d’Asburgo.

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riuscì a pacificare il regno, a salvarne l’unità e a trovare una via d’uscita politica alla crisi, assistito in questo operato dal suo consigliere Adriano di Utrecht20. Nel 1519 morì l’altro suo nonno, l’imperatore Massimiliano21

, e si aprì una sorta di vera e propria campagna elettorale presso i sette grandi elettori dell’Impero, per la quale occorreva mettere in campo grandi disponibilità finanziarie. Furono proposti come candidati anche i re di Francia e Inghilterra. Ma il re di Spagna aveva il vantaggio di essere un Asburgo granduca d’Austria, il candidato interno che poteva rinsaldare, in un quadro universalista e lungimirante, l’identità tedesca. Ma, nell’ambito del suo disegno di impero universale, Milano era fondamentale, in quanto restava lo snodo principale delle comunicazioni fra Spagna e Impero, e la guerra con la Francia inevitabilmente riprese. Francesco I22, nuovo re di Francia, fu sconfitto e fatto prigioniero dagli imperiali e dagli spagnoli a Pavia, nel 1525. Allora l’Impero, l’Italia e la Spagna sembrarono saldamente unite in un solo blocco, e il progetto di unione continentale in procinto di realizzarsi. Ma gli equilibri restavano comunque poco stabili, e ancora una volta in Italia si allearono tutti contro il vincitore, proprio mentre l’imperatore e re di Spagna, pur vittorioso, si era però venuto a trovare nella massima difficoltà per difendere la cristianità dal conflitto religioso e dai turchi. La coalizione, una nuova «Lega Santa» stretta questa volta con i francesi, fu voluta da Clemente VII23, il successore di Adriano

20 Cfr. Ivi. Adriano VI, nato Adriaan Florenszoon Boeyens d'Edel (Utrecht, 2 marzo 1459 – Roma, 14 settembre 1523), fu il 218º papa della Chiesa cattolica dal 1522 fino alla sua morte. Nel 1507 venne nominato tutore del futuro imperatore Carlo V, che all'epoca aveva solo sette anni, e con il quale avrebbe sviluppato, nel corso del tempo, un profondo rapporto di reciproca stima e affetto. A dimostrazione di ciò, venne prima nominato inquisitore generale d’Aragona nel 1516 e, quando Carlo partì per i Paesi Bassi nel 1520, reggente di Spagna.

21 Cfr. Ivi. Massimiliano I d'Asburgo (Wiener Neustadt, 22 marzo 1459 – Wels, 12 gennaio 1519) fu imperatore del Sacro Romano Impero dal 1493 fino alla sua morte. Considerato come uno tra i più importanti detentori del titolo di imperatore, Massimiliano ebbe un ruolo particolarmente importante in politica estera, per quanto sfortunato sul piano bellico, prima attraverso il matrimonio con Maria di Borgogna, ma soprattutto con una brillante politica matrimoniale, che ebbe come risultato quello di ingrandire enormemente i territori controllati dall’Impero. Favorì il matrimonio del suo unico figlio ed erede maschio, Filippo il Bello, con Giovanna, figlia dei Re Cattolici, dal quale nacquero Carlo e Ferdinando, futuri imperatori.

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Cfr. Ivi. Francesco I di Valois (Cognac, 12 settembre 1494 – Rambouillet, 31 marzo 1547) fu re di Francia dal 1515 fino alla sua morte. Fu uno dei più ostici avversari dell’imperatore Carlo V, a causa delle mire espansionistiche sull’Italia, frutto del suo legame di parentela con i Visconti, che lo portarono a credere suo pieno diritto prendere possesso di Milano. Dopo una prima discesa nel 1515, le sue mire si concretizzarono nuovamente nel 1521. Queste, insieme al timore per la minacciata autonomia della Francia, lo portarono allo scontro con l’Imperatore e re di Spagna. 23 Cfr. Ivi. Clemente VII, nato Giulio Zanobi di Giuliano de' Medici (Firenze, 26 maggio 1478 – Roma, 25 settembre 1534), esponente della famiglia fiorentina dei Medici, fu il 219º papa della Chiesa cattolica dal 1523 fino alla sua morte. Il suo pontificato, che coincise con il lungo regno di

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VI, benché fosse stato quasi un servo dell’imperatore stesso. Clemente VII proseguiva la politica papale di appoggiarsi ora all’uno, ora all’altro dei belligeranti in un estremo tentativo di fare di Roma la protagonista dell’unificazione dell’Italia, un’unificazione che, non potendo essere raggiunta con forze proprie, doveva essere ancora una volta il risultato di un difficile equilibrio internazionale. “L’identità degli italiani si stava consolidando in quei decenni nella consapevolezza della divisione e della subordinazione: un’identità insieme scettica e cinica. Come se, dopo aver difeso con successo la propria libertà al tempo dei Comuni, ora fosse venuta meno definitivamente la risorsa indispensabile della vita urbana, la concordia, e le fazioni potessero solo appoggiarsi sul ventre mutevole dei rapporti di forza. Lo stesso pontefice Clemente VII dovette sembrare una specie di traditore della propria causa, ovvero virtualmente alleato dei nemici della Fede contro l’Impero: i protestanti che in quegli anni stavano spaccando l’unità religiosa della Germania e i turchi, che stavano dilagando in Ungheria”24.

In tutta risposta le truppe imperiali, i soldati noti come «lanzichenecchi», calarono sulla penisola, trovando sul loro cammino solo le «Bande nere»: una compagnia di ventura, capeggiata da un altro Medici25, cugino del papa, un aristocratico sanguinario, emblema dell’Italia cinica e scettica che sceglieva di giocare ruoli militari minori sul tavolo dei mutevoli rapporti di forza europei. Molti dei soldati tedeschi erano luterani, e si abbatterono sulla Città Eterna nel 1527 saccheggiandola per un anno, come non era mai più successo dai tempi di Alarico, circa undici secoli prima. Un episodio che, dal punto di vista dei contemporanei, venne ritenuto come un castigo di Dio. Firenze, nel frattempo, ebbe un ultimo sussulto repubblicano e antimediceo, dal 1527 al 1530. Ma il presunto spirito della «libertà dell’Italia», che ancora si sbandierava e si cercava di difendere, era ormai completamente finito. Clemente VII, detenuto per mesi in

Carlo V, fu attraversato da importanti episodi, tra cui lo scisma anglicano, la realizzazione della Seconda Lega Santa, allo scopo di riportare la pace tra i regnanti cristiani, e il “Sacco di Roma”. 24 P. Viola, L’Europa moderna: storia di un’identità, Einaudi, Torino 2004, p. 120.

25 Cfr. G. Gullino, G. Muto, E. Stumpo, Il Mondo moderno. Manuale di storia per l’università, Monduzzi, Bologna 2007. Giovanni delle «Bande Nere», al secolo Giovanni di Giovanni de' Medici (Forlì, 6 aprile 1498 – Mantova, 30 novembre 1526) fu un noto condottiero italiano d’epoca rinascimentale. Fu uno degli ultimi comandanti di una compagnia di ventura e, secondo l’opinione di Niccolò Machiavelli, fu l’unico capace di arginare, anche se solo in parte, la discesa di Carlo V in Italia.

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Castel Sant’Angelo, accettò di incoronare solennemente a Bologna Carlo V imperatore. In cambio la repubblica fiorentina fu schiacciata dagli imperiali e restituita ai Medici, la famiglia del papa. Molto più tardi l’episodio sarebbe stato assunto nella ricostruzione della memoria nazionale italiana come l’ultima eroica difesa della Patria prima del Risorgimento.

Ci vollero altri trent’anni, sessantacinque dopo la discesa di Carlo VIII e l’inizio delle Guerre d’Italia, affinché i francesi fossero definitivamente sconfitti e rinunciassero a tutta l’Italia, che rimase spagnola. Con la pace di Cateau-Cambrésis, Milano, Napoli e la Sicilia restavano sotto la diretta dominazione spagnola, insieme alla Sardegna e ad alcune piazzeforti sparpagliate sulla costa toscana. A partire da quel momento, la penisola sarebbe stata politicamente controllata dagli spagnoli per circa un secolo e mezzo. La bilancia dell’interminabile conflitto si era spostata inevitabilmente a favore della Spagna, ma la Francia aveva almeno raggiunto uno dei suoi scopi, ovvero quello di non essere circondata da una sola potenza ostile che, alla lunga, avrebbe potuto aver ragione della sua tenace resistenza. L’imperatore Carlo V avrebbe infine abdicato nel 1556 separando Germania e Spagna: al fratello, divenuto imperatore come Ferdinando I, restavano i possedimenti austriaci, a cui si aggiungevano la Boemia e l’Ungheria, di cui Ferdinando era già re, e ovviamente il trono imperiale, mentre il figlio, salito al trono come Filippo II, ereditava la Spagna, insieme al dominio dell’Italia e dei Paesi Bassi, e con il nuovo, enorme e ricchissimo impero coloniale. L’unione di Germania, Italia e Spagna, il progetto universalistico di unificazione europea troppo ambizioso degli Asburgo, non sopravviveva dunque ai decenni di guerra e di conflitti, religiosi e non.

Eppure Carlo aveva potuto mettere in campo risorse immense, probabilmente impensabili per un unico sovrano: l’esercito spagnolo, all’epoca il più potente e meglio equipaggiato d’Europa, l’oro, che cominciava ad affluire in sempre maggiore quantità dall’America, il Papato mediceo suo alleato, benché scostante e infido, e le ricchezze e i possedimenti italiani sempre più saldamente controllati. Sembra quasi impossibile che, pur avendo a disposizione mezzi così potenti per l’epoca, e pur trovandosi in una situazione a dir poco favorevole, così come non se ne sarebbero ripetute in futuro, l’uomo più potente del suo tempo

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aveva finito per fallire nel centrare il suo obiettivo, quello di creare un’Europa unita, una vera e propria Res publica cristiana di tipo continentale sotto il dominio e la guida degli Asburgo. D’altra parte l’imperatore aveva dovuto fronteggiare due nemici che si erano rivelati troppo forti: la Francia e, in secondo luogo, i turchi. La prima era stata sconfitta a Pavia nel 1525 ma aveva ripreso la guerra, senza mai arrendersi e opponendo una strenua difesa. Un anno più tardi, nel 1526, i turchi avevano battuto gli ungheresi nella battaglia di Mohàcs, attestandosi saldamente nelle pianure danubiane, e sarebbero stati in grado, per il successivo secolo e mezzo circa, di far arretrare i confini dell’Europa, premendo sulle frontiere orientali dell’impero. Oltre ai nemici esterni, Carlo aveva dovuto confrontarsi con degli insuperabili nemici interni. In particolar modo l’imperatore aveva dovuto tenere testa nei territori dell’Impero ad un profonda frattura tra le diverse comunità, molto più grave di quella a cui si era opposto in Spagna e in Italia, perché fondata non solo sulla difesa delle antiche libertà repubblicane o sulle ambizioni dinastiche, o sul conflitto di giurisdizioni, o sulle incongruenze dei diritti privati o pubblici, ma su di una profonda e completa riforma religiosa. Carlo V, che di fatto voleva essere il restauratore, nonché il signore, di un nuovo impero cristiano, fu al contrario il primo testimone della frattura pressoché definitiva della cristianità occidentale. Quando abdicò, pur ancora nel pieno dei suoi poteri e delle sue facoltà, lo fece perché dovette rinunciare al sogno che aveva ispirato la sua missione politica: quello di tenere insieme la comunità cristiana e assicurarle la pace, creando così in Europa un’istituzione che non avrebbe avuto pari.

2.2 Il tentativo di Filippo II

Il sogno degli Asburgo, tuttavia, non si era ancora concluso del tutto, per quanto attraverso Carlo V la possibilità di realizzare un’unione politica e religiosa sul piano continentale avesse toccato in qualche modo il suo apice, o comunque fosse andata vicina a concretizzarsi per davvero. Da Asburgo ad Asburgo, il successore di Carlo V o, per meglio dire, uno dei suoi due successori, suo figlio

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Filippo, incoronato come re di Spagna nel 1556, a seguito dell’abdicazione del padre, cercò in parte di ripercorrere le sue orme, per quanto i tempi fossero ormai cambiati e il frangente storico necessario per la realizzazione di tale impresa, si potrebbe dire, fosse già trascorso. Uno dei primi, fondamentali atti presi dal re di Spagna Filippo II all’indomani della sua incoronazione fu quello di dare alla Spagna un nuovo assetto, differente rispetto al passato. Innanzitutto il nuovo sovrano decise di muovere il primo passo con la capitale, cominciando per certi aspetti ex novo: Madrid era infatti una capitale nuova, il prodotto più recente della crescita istituzionale dello Stato. Fu scelta da Filippo II come centro del suo regno nel 1561, e vi fu costruito un vastissimo palazzo destinato ad ospitare il re con la sua corte e la sua estremamente complessa macchina di governo: l’Escorial. In memoria della battaglia di San Quintino26, vinta pochi anni prima dagli spagnoli nel giorno di San Lorenzo, il palazzo era costruito in forma di graticola, l’attrezzo del martirio del santo, un inno alla sofferenza offerta a Dio dal cattolicesimo tridentino e alla gravità dei problemi che si dovevano affrontare. Il re vi passava le sue lunghe e intense giornate di lavoro, esaminando personalmente le carte preparate dai suoi uffici e dai suoi burocrati, e relative all’enorme complessità dell’amministrazione di uno dei più grandi imperi che fosse stato costruito fino ad allora, nel quale, secondo un’affermazione attribuita al suo padre e predecessore, «non tramontava mai il sole». Al fine di realizzare quello che era stato, e che era ancora, lo scopo della sua famiglia, il monarca spagnolo avrebbe dovuto affrontare tre grandi sfide: quella dell’efficienza amministrativa e uniformità dei propri immensi possedimenti, e di nuovo quelle rappresentate dai grandi nemici esterni, i protestanti da un lato, i turchi dall’altro.

La prima di queste sfide ebbe un risvolto politico fondamentale, poiché produsse il prototipo di quel modello che poi è stato chiamato «monarchia assoluta». Le Cortes (l’equivalente spagnolo del Parlamento inglese o degli Stati

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Cfr. Ivi. La battaglia di San Quintino, combattuta il 10 agosto 1557 tra l'esercito francese e quello spagnolo, fu un episodio determinante nell’ambito delle Guerre d’Italia, combattute tra la Spagna e la Francia per il possesso dei territori italiani. La battaglia si svolse in Picardia, presso la roccaforte di Saint-Quentin, che sbarrava all'esercito spagnolo la via di penetrazione più rapida verso Parigi. L'esercito spagnolo, comandato da Emanuele Filiberto di Savoia, ebbe la meglio su quello francese. In realtà Filippo II non riuscì ad approfittare, non completamente almeno, di questa schiacciante vittoria, dato che due anni più tardi firmò la pace a Cateau-Cambrésis senza essere riuscito a piegare la Francia.

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Generali francesi) furono sottomesse dal monarca e indotte ad accettare fortissimi incrementi della fiscalità. Successivamente il re si circondò di consigli composti da nobili castigliani di sua fiducia: il consiglio della Real Camera, il consiglio delle Indie, d’Italia, delle Fiandre e della Suprema Inquisizione. L’Inquisizione fu uno dei potenti strumenti nelle mani di Filippo: fece il vuoto tra le fila degli intellettuali presunti luterani, in realtà forse solo erasmiani, e costrinse le classi dirigenti all’obbedienza e al silenzio. Viceversa fu indulgente con i piccoli peccatori o bestemmiatori e in generale con il popolo, dal quale assicurò un largo consenso alla monarchia, condannando e mandando al rogo i ricchi e perdonando in generale i poveri. Assecondava, anzi promuoveva ogni forma di più totale intolleranza. Lo sforzo di uniformità condotto dalla monarchia, considerato positivamente dagli ambienti ad essa vicini, introdusse delle chiusure che nel tempo si sarebbero rivelate nocive, per cui si può dire che la potenza messa in mostra, la vittoria esterna e l’ordine interno abbiano paradossalmente fatto male alla Spagna. Fu considerata affidabile solo la vecchia nobiltà castigliana, che era stata a sua volta depurata dalle intromissioni di ceti sociali emergenti o di famiglie convertite di recente dall’ebraismo o dall’islam, favorendo un’ulteriore forma di chiusura. L’intolleranza si rivolse soprattutto contro i moriscos, gli ex sudditi musulmani del Sultanato di Granada27. L’Inquisizione li colpì con una serie di divieti che andavano ad attaccare le loro tradizioni e usanze culturali più importanti, come ad esempio di parlare arabo, di fare il bagno o di portare le vesti tradizionali. Decisero pertanto di ribellarsi e di combattere, dando inizio ad una vera e propria rivolta nel 1568 e arrivando a resistere anche per molti mesi agli eserciti del re, finché non furono sconfitti e in seguito, tra il 1570 ed il 1571, deportati e dispersi. Tuttavia non furono in grado di integrarsi, e i superstiti sarebbero stati definitivamente espulsi quarant’anni dopo.

La seconda e la terza sfida che Filippo II affrontò, in difesa della fede cattolica contro i protestanti e contro i turchi, portarono la Spagna ad alterne vicende, spesso non fortunate. I Paesi Bassi spagnoli erano un paese

27 Cfr. Ivi. Il Sultanato di Granada, era stato l’ultimo regno musulmano in Spagna, caduto nel 1492 come risultato della Reconquista operata dai Re Cattolici.

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estremamente urbanizzato, ricco e colto, patria di Erasmo da Rotterdam28 e di quel tanto di tolleranza che i primi decenni del Cinquecento avevano potuto conoscere e sperimentare. Vi era nato e cresciuto Carlo V, e tanto l’ispanizzazione quanto la crescente pressione fiscale operata da Madrid trovavano forti resistenze nella nobiltà e nei patriziati urbani. L’economia era florida, specialmente nella zona meridionale dei Paesi Bassi, corrispondente all’attuale Belgio, dove le manifatture tessili erano fiorenti, e le tensioni sociali fra lavoratori salariati e ceti mercantili vivaci. Proprio in questo contesto conflittuale si era diffuso un calvinismo alquanto estremista e intollerante. Vi si erano rifugiati anche anabattisti profughi dall’orribile massacro di Münster29

. Incurante dei malumori locali, autorevolmente rappresentati dall’aristocrazia, Filippo II annunciò l’introduzione nei Paesi Bassi dell’Inquisizione. Fu allora, nel 1566, che la grande aristocrazia fiamminga si mise alla testa di una vera rivolta nazionale, che prese la bandiera del calvinismo. Erano gli stessi anni in cui una parte della feudalità francese faceva la stessa cosa, mentre alcune delle grandi famiglie inglesi avevano invece optato per il cattolicesimo. La carta religiosa era d’altra parte una delle più efficaci da usare per unire le comunità locali riunite intorno ai loro ceti aristocratici, contro il crescente potere della monarchia.

Dopo una prima vittoria spagnola, la rivolta calvinista e nazionale ebbe inizio nel 1572, ironicamente proprio lo stesso anno del massacro di San Bartolomeo30. Era ormai una grande insurrezione di classi dirigenti e popolari, forte e unitaria soprattutto nel Nord, l’attuale Olanda, dove gli insorti, esperti marinai e pescatori, che erano i soprannominati i «pezzenti del mare», divennero

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Cfr. Ivi. Erasmo da Rotterdam, pseudonimo di Desiderius Erasmus Roterodamus (Rotterdam, 1466/1469 – Basilea, 12 luglio 1536), è stato un teologo, umanista e filosofo olandese. La sua opera più nota è l’«Elogio della follia». È considerato il maggiore esponente del movimento dell'Umanesimo del suo tempo, oltre ad essere stato il principale ispiratore di altri grandi intellettuali e statisti dell’Europa moderna.

29 Cfr. Ivi. Il massacro di Münster segna, in qualche modo, un punto di non ritorno per la storia degli anabattisti. Dopo essere stati attaccati e sconfitti dai principi cattolici e luterani insieme in Turingia, e perseguitati a Zurigo dalle autorità che avevano aderito a idee riformate vicine a quelle di Lutero, si rifugiarono appunto nella città di Münster dove rovesciarono il vescovo e fondarono con la forza una sorta di anarchia comunista e poligamica che fu successivamente schiacciata nella terribile repressione del 1535.

30 Cfr. Ivi. Il massacro o, più semplicemente, la notte di San Bartolomeo è il nome che sta a indicare la famosa e tremenda strage compiuta nella notte tra il 23 ed il 24 agosto del 1572 dalla fazione cattolica ai danni degli ugonotti che si erano radunati in gran numero a Parigi in occasione delle nozze tra la sorella del re, Margherita di Valois e Enrico IV di Borbone, re di Navarra e futuro re di Francia.

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