• Non ci sono risultati.

Identità come «superiorità»

L’identità culturale europea: il rapporto problematico tra unità e differenze

2. L’identità attraverso le differenze

2.4 Identità come «superiorità»

La crescente separazione tra Est e Ovest era in realtà frutto di un processo durato secoli, al quale contribuirono, come abbiamo visto, viaggi, esplorazioni, commerci e campagne militari. Ma oltre a questo, a partire dalla metà del Settecento furono due i principali fattori a influenzare profondamente le relazioni tra i due poli. Il primo, che abbiamo in parte già evidenziato, era costituito dalla crescente, sistematica conoscenza dell’Oriente che si andava diffondendo in Europa, cui diedero impulso la politica coloniale, nonché la curiosità per ciò che era esotico o inconsueto, affiancate da scienze quali l’etnologia, l’anatomia, la

133 Possiamo ricordare, in tal senso, le numerose teorie legate allo «Stato di natura», che vanno da Hobbes e Locke fino a Rousseau, il quale vedeva una divaricazione sostanziale tra passato e presente, nei termini della distinzione tra la società e la natura umana. Si veda in tal senso J.J. Rousseau, Discorso sull’origine e i fondamenti dell’ineguaglianza tra gli uomini, a cura di V. Gerratana, Editori Riuniti, Roma 1968.

134 Cfr. P. Rossi, L’identità dell’Europa, Il Mulino, Bologna 2007, oppure E.W. Said,

Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 1991. Questo è ad

esempio il caso della Cina, la cui storia si presentava non come quella di un paese barbaro, ma piuttosto come la storia di un paese che ha saputo, prima di ogni altro, a dar vita ad una propria civiltà, una civiltà che poi si è arrestata nel proprio sviluppo. Si apriva così la possibilità di pensare l’incivilimento come un processo che si è realizzato seguendo direzioni indipendenti tra loro: l’una, più antica, in Cina, e l’altra, più recente, nel mondo europeo. Questo cambiava completamente le carte in tavola, dal momento che la vicenda storica dell’Europa risultava così del tutto relativizzata, e veniva meno al tempo stesso la necessità, ritenuta fino ad allora imprescindibile, del legame tra civiltà e religione cristiana.

- 114 -

filologia e la storiografia, alle quali si aggiunse un consistente corpus di opere di vario genere. Il secondo fattore, inevitabilmente, venne ad essere costituito dalla posizione di forza dell’Europa nei confronti dell’Oriente, con quest’ultimo che veniva sempre più percepito, ad Ovest, come un partner debole a livello politico, culturale e persino religioso. Vi sono numerosi esempi di questa evoluzione: il filosofo tedesco Herder135 scriveva, nelle sue Idee per la filosofia della storia

dell’umanità136, di uno «spirito generale dell’Europa» al quale i popoli asiatici, e

in particolare i turchi, erano rimasti estranei. L’Europa appariva ormai come una sola grande unità culturale, con una propria identità definita sulla base della differenza dal mondo asiatico. Nasceva così la coscienza di una comunità di popoli legati da un forte legame, ovvero una comune civiltà, pur nella diversità dei loro destini; nasceva l’«idea di Europa». Ma questa consapevolezza apriva anche la strada a tutta una serie di nuovi confronti, come tra le strutture politiche dell’Europa e quelle degli altri paesi, tra i costumi europei e i costumi dei popoli asiatici: il riconoscimento dell’identità europea passava in altri termini attraverso la ricerca di convergenze e divergenze con e rispetto agli «altri», e quindi anche attraverso il riconoscimento, più o meno aperto, dell’identità altrui.

A tutto ciò però non restava estranea la classica impostazione etnocentrica propria del pensiero europeo, implicita, come abbiamo già visto, nella contrapposizione tra libertà e dispotismo, o in quella più generale tra civiltà e barbarie. Anche quando esaltavano la morale naturale della Cina o vedevano nel Confucianesimo la religione più prossima a una fede puramente razionale, i

philosophes restavano fortemente convinti del primato dell’Europa: essa era il

continente più piccolo per dimensione ma anche il più importante, o quanto meno quello maggiormente progredito nel cammino verso una civiltà sempre migliore e più evoluta. L’Asia poteva anche essere stata la culla della civiltà, ma era l’Europa a rappresentarne il culmine, e quindi proprio alla cultura europea spettava il

135

Cfr. J.G. Herder, Idee per la filosofia della storia dell’umanità, Zanichelli, Bologna 1971. Johann Gottfried Herder (Morąg, 25 agosto 1744 – Weimar, 18 dicembre 1803) fu un filosofo e teologo tedesco. Il suo pensiero, vasto e complesso, muove dalla filosofia del linguaggio e della storia fino ad approdare all’estetica e alla polemica nei confronti della ragione kantiana.

136

Cfr. Ivi. Herder era convinto che lo sviluppo dell’umanità e dei vari popoli sia caratterizzato da un processo che attraversa più fasi. In tal senso la fase finale, che corrisponderebbe all’epoca dell’Europa moderna, viene considerata come la fase della maturità, caratterizzata dal pieno raggiungimento della civiltà e dall’egemonia della ragione.

- 115 -

compito di diffondere i «lumi» all’intero pianeta. Questa convinzione aveva in effetti anche una base oggettiva, in quanto si fondava sull’innegabile superiorità della tecnologia europea, soprattutto nel campo della navigazione e degli armamenti. In fondo si può dire dunque che, tra le varie e fondamentali componenti della cultura europea, sia venuta a trovarsi quest’idea: l’idea di un’identità europea radicata nella superiorità rispetto agli altri popoli e alle altre culture, in particolare attraverso la possibilità da parte degli occidentali di coltivare le più svariate forme di rapporto con l’Oriente senza mai perdere la propria posizione di superiorità relativa. E, d’altra parte, “come avrebbe potuto andare diversamente, nel lungo periodo della straordinaria ascesa dell’Europa, dal tardo rinascimento all’epoca presente? Lo scienziato, l’umanista, il missionario, il mercante, il condottiero potevano recarsi materialmente in Oriente e raccogliere in esso ogni sorta di informazioni, incontrando un’opposizione scarsa o nulla”137

. Purtroppo però tale convinzione, tale idea, fu ben presto generalizzata, offrendo una legittimazione di natura teorica e non solo alla spinta espansiva delle maggiori potenze europee negli altri continenti.

All’inizio dell’Ottocento si ebbe una svolta nell’atteggiamento europeo nei confronti dell’Asia, una svolta che portò alla formazione di strutture coloniali, in primo luogo da parte dell’impero britannico nel sub-continente indiano, sorto in sostituzione dell’originaria Compagnia delle Indie. All’età degli scambi commerciali seguiva così quella della colonizzazione, che comportò un massiccio investimento di capitali e lo sfruttamento su larga scala della manodopera indigena, nonché la recezione dei modelli amministrativi e burocratici della madrepatria. Le potenze europee, forti della crescente capacità produttiva cui dava luogo il processo di industrializzazione da loro avviato, cercarono di ridurre l’Asia, così come l’Africa, a terra di conquista138

. Lo schema di uno sviluppo unilineare, comune a tutte le società, ben si prestava a fornire una giustificazione a tal riguardo, e a questo scopo servì largamente la più recente antropologia

137 E.W. Said, Orientalismo. L’immagine europea dell’Oriente, Bollati Boringhieri, Torino 1991, p. 17.

138

Cfr. G. Galasso, Storicismo e identità europea, Milano 2009. Il processo di incivilimento, da condurre attraverso il «rischiaramento» che solo la cultura illuministica poteva fornire, che doveva contribuire al passaggio dalla barbarie alla civiltà lasciava posto ad una sistematica politica di potenza che esportava nel mondo asiatico i conflitti e le rivalità tra le maggiori nazioni europee.

- 116 -

evoluzionistica, fiorita non a caso in due paesi fortemente impegnati nel processo di colonizzazione come l’Inghilterra vittoriana e gli Stati Uniti in piena espansione. Il medesimo schema si ritrovava del resto anche nella prospettiva rivoluzionaria che pronosticava il passaggio dalla società borghese-capitalistica a una futura società senza classi, come nell’analisi marxiana delle forme di società precapitalistiche139. Lo sviluppo del capitalismo e la sua diffusione in tutto il globo si presentavano, agli occhi di Marx, come la condizione necessaria per la nascita del proletariato industriale: fuori d’Europa il capitalismo non poteva svilupparsi da sé, poteva soltanto essere importato.

Anche l’identità europea mutava perciò significato. Nel momento in cui l’Europa creò una rete politico-economica che tendeva a coprire tutto il globo, e nel momento in cui le diverse aree geografiche del commercio internazionale si unificarono in un solo mercato, il «mercato mondiale»140 di cui parlava Marx, questa identità si traduceva in una nuova, per così dire, consapevolezza, la coscienza di una superiorità costitutiva della civiltà europea, definita spesso in termini razziali, che giustificava la missione civilizzatrice dell’Europa nel resto del mondo. Agli europei era toccata la sorte di guidare l’umanità, imponendo alle altre società i propri costumi e le proprie istituzioni, diffondendo in esse le proprie idee, il proprio sapere e le proprie conquiste tecniche e scientifiche: l’identità europea si traduceva nel «fardello dell’uomo bianco»141

.

139 Cfr. K. Marx, Formen, die der kapitalistischen Produktion vorhergehn, trad. it. Forme di

produzione precapitalistiche, a cura di D. Fusaro, Bompiani, Milano 2009. Marx pone l’accento

sull’analisi della legge generale dello sviluppo storico e del legame reciproco dei diversi modi di produzione che si sono succeduti nel tempo, convinto che non sia possibile comprendere il funzionamento del mondo capitalistico senza prima averne analizzato la genesi storica.

140

Cfr. K. Marx, Per la critica dell’economia politica, Clinamen, Firenze 2011. Marx sosteneva che il mercato mondiale era il risultato necessario del capitalismo in concomitanza alla contemporanea e crescente diffusione del colonialismo.

141 Il fardello dell'uomo bianco (il cui titolo originale in inglese è The White Man's Burden) è una poesia dello scrittore e poeta britannico Rudyard Kipling. Pubblicata per la prima volta nel 1899, la poesia venne in seguito letta come un manifesto dell’imperialismo e del colonialismo, in riferimento alla necessità di «civilizzare» i paesi estranei alla tradizione europea. Per la lettura di questa e altre poesie dell’autore si veda R. Kipling, Poesie, a cura di T. Pisanti, Newton Compton,

- 117 -