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Parole in "comune". Il linguaggio della pubblica amministrazione italiana tra conservazione e innovazione

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Academic year: 2021

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Università di Pisa

Dipartimento di Scienze Politiche

Scuola di Dottorato in Scienze Politiche e Sociali

Parole in “Comune”

Il linguaggio della pubblica amministrazione

italiana tra conservazione e innovazione

Settore scientifico disciplinare: SPS/08

Tutor

Prof. Andrea Salvini

Candidata

Antonella Cirillo

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Ne’ i governi ove la nazione o direttamente o per via di rappre-sentanza entra nella discussione de’ suoi interessi e nella forma-zion delle leggi, l’arma della parola è una potenza conservatrice dei diritti del cittadino, e aiutatrice nel tempo stesso della politi-ca potestà, alla quale non basta l’esser forte nella saggezza delle sue operazioni, se non va forte egualmente nell’eloquenza de’ suoi delegati […]. Licurgo era solito di sacrificare alle Muse on-de averle propizie nella sposizione on-delle sue leggi. Io non so quanto le Muse sorridano alla discussione e sanzione delle mo-derne; so bene che senza un linguaggio a tutti palese, a tutti lim-pido, evidentissimo, le leggi diventano non regola di doveri, ma semenzaio di fraudolenze e d’errori, e di liti e di dispute scanda-lose; so, a dir breve con Cicerone, che le armi fondano le repub-bliche, l’eloquenza le custodisce, e vuolsi qui intendere per elo-quenza una ben parlante Politica. Negli eterni conflitti dell’inte-resse particolare col generale la sola parola trova il contatto a-michevole di questi estremi, la sola parola compone i lamenti della sempre inquieta e sempre difficile moltitudine, la sola paro-la sa concordare paro-la volontà di chi comanda, colparo-la volontà che obbedisce. La logica della forza non è atta che a fomentarne l’inimicizia; e fu sentenza di profondo uomo di stato quella di So-focle nel Filottete, ove disse che non la mano, ma la lingua go-verna tutto fra gli uomini.

Vincenzo Monti, Introduzione a Della necessità dell’eloquenza (1804), in Id., Prose varie, Milano, 1841, pp. 251-252.

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Indice

Introduzione p. 7

Capitolo I

Il linguaggio amministrativo dall’Unità d’Italia ad oggi » 15

1. Lingua e unità nazionale » 15

1.1. Questioni sociali alle origini della questione della lingua » 18 1.2. La situazione sociolinguistica al momento dell’Unità » 22 2. La lingua della burocrazia: un “tipo linguistico unitario” » 28 3. Pratiche linguistiche tra pratiche burocratiche » 31 4. Le insidie dell’antilingua: “effettuare” versus “fare” » 39 5. Comunicazione pubblica e integrazione sociale » 43

6. Gli anni Novanta del cambiamento » 48

6.1. Tra innovazione e retorica dell’innovazione » 55 6.2. Dal governo alla governance: verso il superamento del modello burocratico? » 58 6.3. La comunicazione integrata ed “integrativa” » 67 7. La “svolta linguistica” nelle organizzazioni complesse » 75

Capitolo II

La riforma del linguaggio amministrativo » 85

1. Premessa. Un percorso incompiuto » 85

2. Sociolinguistica dell’italiano burocratico » 92 3. Per un’analisi linguistica dei testi amministrativi » 98 4. Per un confronto internazionale sul tema » 110 5. Il percorso giuridico della semplificazione del linguaggio amministrativo » 115 5.1. Il “codice” dell’amministrazione digitale » 125

5.2. La formazione “interrotta” » 131

6. Leggibilità e comprensibilità dei testi amministrativi » 137

6.1. Alcuni indicatori culturali » 143

6.2. La reading literacy » 147

7. L’autore dalla parte del destinatario » 155

7.1. Principi e strategie di cooperazione testuale » 157 7.2. Competenze linguistiche, sociolinguistiche, comunicative » 162

Capitolo III

Analisi sociologica intorno alla conservatività del codice » 167

1. Framework teorico e obiettivi della ricerca » 167 2. Disegno, fasi e metodologia della ricerca » 171

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3. Tra “concetti sensibilizzanti” e primi “indizi empirici” » 179 3.1. Burocrazia e autoreferenzialità linguistica » 181 3.2. La lingua del potere, il potere della lingua

3.3. La “gabbia” linguistica: il linguaggio delle leggi

» »

189 193 3.4. La complessità dell’agire linguistico amministrativo » 199 3.5. Ritualismo burocratico e “incapacità addestrata” » 204 3.6. “Conflitto di ruoli” nella comunicazione esterna » 208 3.7. Un codice di prestigio a difesa di poteri e privilegi » 210 4. In sintesi, i termini della questione della lingua amministrativa » 213

Capitolo IV

Un’indagine empirica sugli ostacoli all’innovazione linguistica » 217

1. Lo studio di un caso: il Comune di Pisa » 217

2. Note epistemologiche e metodologiche » 223

3. Dall’analisi testuale all’indagine comprendente: tecniche d’indagine » 232 3.1. Analizzare i documenti amministrativi » 233 3.2. Comprendere il punto di vista degli attori amministrativi » 236

3.2.1. Il focus group » 239

3.2.2. L’intervista in profondità » 244

3.2.3. I resoconti formativi » 249

4. I risultati emersi » 253

4.1. L’inevitabile autoreferenzialità e complessità linguistica » 253 4.2. Tra dovere d’ufficio e servizio pubblico » 262

4.3. “Prigionieri dell’abitudine” » 268

4.4. «Tutèlati e tutela il tuo ente» » 274

5. Conclusioni. L’innovazione linguistica tra limiti strutturali e soggettivi » 285

Appendice I

Testi e riscritture a fronte » 293

Appendice II

Analisi di un resoconto formativo » 339

Appendice III

Le “Linee guida per la corretta redazione dei provvedimenti

amministrativi” del Comune di Pisa » 343

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Introduzione

Al centro dello studio che qui si presenta è una specifica varietà linguistica – il linguaggio amministrativo – intesa non soltanto come codice simbolico riproduttivo e rappresentativo della realtà sociale ma come pratica sociale mediante cui i parlanti esercitano il potere di interpretazione e di costruzione di mondi sociali possibili1.

Nella storia delle lingue a questioni più prettamente linguistiche si sono sempre accompa-gnate questioni di ordine sociale e politico: essendo la lingua, secondo una celebre defini-zione romantica, “espressione dello spirito di un popolo” nella sua interezza, della sua visio-ne e pratica del mondo2; e, nei termini propri della tradizione sociologica funzionalistica, un “fatto sociale” sempre in rapporto di interdipendenza con gli altri fatti sociali e con la totali-tà sociale.

Ragioni dell’intimo e profondo legame di interconnessione tra lingua e società sono da ri-cercarsi dunque nella stessa definizione di “lingua”, nelle sue origini e nelle sue funzioni. La lingua, in quanto espressione simbolica di una comunità di parlanti, risulta infatti ontolo-gicamente e pragmaticamente cooriginaria alla sua fondazione e nel tempo intrattiene con il vivere comunitario un rapporto circolare di codeterminazione: ne riflette gli sviluppi storici ed evolve sulla base di eventi, riforme e tendenze che ne dettano il corso successivo e, con-temporaneamente, in virtù del suo intrinseco “potenziale di razionalità”, essa agisce nella storia assegnandole direzioni annunciate e tracciate sul piano simbolico.

E così, nel passaggio “epocale” che in questa dissertazione interessa analizzare critica-mente dal paradigma tradizionale di amministrazione pubblica “burocratica”, “autoreferen-ziale”, “bipolare” e “sovra-ordinata” al moderno modello di amministrazione “relazionale”, “colloquiale” e “condivisa”, il linguaggio amministrativo non si limita a riflettere processi di riorganizzazione e ristrutturazione istituzionale e dinamiche culturali già in atto; inteso

1

Scrive a tal proposito l’antropologo linguistico Alessandro Duranti: «Nell’idea stessa che bisogna cambia-re linguaggio (o meglio “cambia-registro” come dicambia-rebbero i sociolinguisti) per parlacambia-re di argomenti diversi, c’è l’assun-zione implicita di una forte corrispondenza tra parole e al’assun-zione. Se per fare cose diverse occorrono linguaggi di-versi, allora vuol dire che il linguaggio non è solo veicolo tramite il quale far viaggiare idee ma strumento fon-damentale per l’attuazione di progetti di vita. Le forme e i contenuti del dire aiutano il parlante a rendere pos-sibile diversi mondi, siano essi reali o possibili». Nella lingua parlata nella Samoa – fa notare l’autore – “fai” indica per esempio sia “dire” che “fare” e “uiga” sia “significato” che “azione”; la dimensione rappresentativa del linguaggio è dunque inscindibile da quella performativa. Cfr. A. Duranti, Il fare del linguaggio, «Quaderni del ramo d’oro», n. 6, 2004, pp. 149-179.

2

W. von Humboldt, Über die Verschiedenheit des menschlichen Sprachbaue (1836), in Gesammelte

Schriften, Bd. 7, hrsg. von A. Leitzmann, Deutsche Akademie der Wissenschaften, Berlin, 1907. Trad. it. di D.

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più propriamente nei termini di “agire linguistico”, in tali fenomeni esso interviene piuttosto attivamente: assumendo pertanto un ruolo di prioritaria e indiscutibile rilevanza in funzione dell’avanzamento dei percorsi, tra loro strettamente interconnessi, di modernizzazione e de-mocratizzazione dell’agire amministrativo e di cittadinanza inclusiva, partecipativa e attiva sui quali si concentra più specificamente il nostro interesse di studio.

La cornice teorica entro cui la ricerca trae le mosse e si sviluppa è costituita dunque dagli studi e dalle riflessioni sociologiche, classiche e moderne, prodotte intorno allo stretto rapp-orto di interdipendenza tra lingua e società, tra dimensione linguistico-simbolica e dinamica sociale. In particolare, i principali orientamenti teorici allo studio del linguaggio della pub-blica amministrazione sono qui acquisiti dalla sociologia del linguaggio – specifica area di-sciplinare, nell’interdisciplinarità degli studi sul linguaggio, che si occupa dell’«organizza-zione sociale del comportamento linguistico»3, degli usi linguistici e degli atteggiamenti dei parlanti nei confronti di tali usi –; dalla sociologia della comunicazione pubblica e istituzio-nale – ambito di studio affermatosi nel nostro Paese tra le scienze della comunicazione a seguito dei rilevanti mutamenti legislativi, organizzativi e culturali intervenuti nel settore pubblico a partire dagli anni Novanta –; e dalla sociologia dell’organizzazione e della pub-blica amministrazione per quanto concerne l’inquadramento dell’analisi dell’innovazione linguistica all’interno del più ampio processo di rinnovamento dell’agire organizzativo e, segnatamente, amministrativo.

Sulla base di sollecitazioni intellettuali provenienti da letture di cui si renderà conto nel prosieguo del lavoro, nonché di precise sollecitazioni empiriche che chiariremo più avanti, ci siamo in generale interrogati, da una parte, sul potere che la varietà linguistica cosiddetta “burocratica” esercita «nei processi di costruzione della realtà sociale, nella formazione del-le rappresentazioni sociali e deldel-le identità individuali e coldel-lettive, nonché neldel-le relazioni e interazioni che gli attori stabiliscono tra loro»; e dall’altra, sull’«influenza che sul linguag-gio hanno le strutture sociali»4. Più concretamente, a partire dal riconoscimento della cen-tralità dei processi discorsivi e delle dinamiche linguistiche improntate all’accessibilità e al-la trasparenza dell’agire amministrativo nel cambiamento in senso democratico delal-la strut-tura amministrativa, delle relazioni tra amministrazioni e cittadini e dunque della realtà so-ciale in generale, ci siamo posti l’obiettivo di comprendere in che senso, d’altra parte, la realtà organizzativa complessivamente considerata, nelle sue dimensioni strutturali e

sog-3

La definizione è tratta da J.A. Fishman, The Sociology of Language, Rowley, Mass, 1971. Trad. it.: La

sociologia del linguaggio, Officina, Roma, 1975, p. 65.

4

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gettive, intervenga nella conservazione di un determinato registro linguistico; che a sua vol-ta, per effetto del rapporto circolare tra lingua e società richiamato in apertura, contribuisce alla legittimazione dell’esistente ostacolando pertanto processi innovativi e azioni riformi-stiche.

Volendo illustrare sinteticamente l’itinerario di ricerca percorso, nel primo capitolo, in seguito ad una ricostruzione storica del consolidamento della varietà linguistica burocratica a partire dalla nascita del moderno sistema amministrativo fino all’affermazione della co-municazione pubblica e quindi ai nostri giorni, l’area di ricerca è stata circoscritta ai muta-menti strutturali e culturali intervenuti nel settore pubblico negli ultimi decenni; con specifi-ca attenzione ai specifi-cambiamenti più strettamente comunispecifi-cativi intrapresi nell’ottispecifi-ca dell’abban-dono di flussi comunicativi unidirezionali e asimmetrici tra amministrazioni e cittadini e dello sviluppo di processi comunicativi “di interesse generale”, “di pubblica utilità” e “di servizio” strutturati secondo modalità relazionali bidirezionali, interattive e simmetriche. È nel contesto di tali cambiamenti – in parte intrapresi a livello legislativo, istituzionale e or-ganizzativo, in parte sperimentati, in parte soltanto auspicati – che assume una fondamen-tale importanza lo studio dei limiti di natura linguistica che si frappongono all’innovazione amministrativa e alla partecipazione consapevole e riflessiva dei cittadini ai processi di

de-cision making allargati e inclusivi.

I processi di democratizzazione esigono anzitutto che a una comunicazione intesa nel senso formale del termine, ossia come mera trasmissione del messaggio dall’emittente al ri-cevente, subentri una concezione sostanziale dell’azione comunicativa pubblica incentrata sulla prioritaria attenzione al “versante della comprensione” e dunque sull’efficacia e sulla riuscita dell’atto comunicativo. In assenza di un’effettiva comprensione e di una reale con-divisione dei contenuti informativi da parte del destinatario, ogni atto comunicativo è de-stinato – sembrerebbe ovvio ma si vedrà come spesso non lo sia nella realtà organizzativa degli uffici pubblici – inevitabilmente a fallire. Da qui l’affermazione tra i moderni diritti di cittadinanza, accanto al diritto di accesso ai prodotti comunicativi pubblici e di partecipazio-ne al procedimento amministrativo (legge 241/1990) e al diritto a un’informaziopartecipazio-ne chiara e trasparente (legge 150/2000), del diritto alla comprensione di atti e testi amministrativi di interesse generale. Tuttavia affinché tale diritto possa essere realmente esercitato – in ottem-peranza altresì al controverso principio della presunzione di conoscenza della legge (“i-gnorantia legis non excusat”) –, le istituzioni pubbliche dal canto loro sono chiamate neces-sariamente ad assumere il dovere civico di farsi capire, adeguando la produzione dei testi alla loro ricezione e rispettando il principio di “cooperazione comunicativa” tra autore e

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let-tore: in modo da ridurre il più possibile – ma, come si vedrà, non più di quanto sia possibi-le – il divario comunicativo esistente tra la lingua specialistica delpossibi-le istituzioni e la lingua comune della generalità della popolazione e quindi la distanza relazionale tra istituzioni e cittadini.

Termini desueti e inutilmente astratti e specialistici, costruzioni sintattiche complesse e tortuose, scarsa attenzione per la progettazione testuale e per l’organizzazione logica delle informazioni, eccessiva formalità e pedissequa dipendenza del linguaggio amministrativo dal linguaggio delle leggi, ambiguità espressive, carenze e eccedenze informative sono tutti fattori linguistici e comunicativi che – come hanno messo opportunamente in risalto studi linguistici e sociolinguistici condotti negli ultimi decenni – ostacolano la comprensione ef-fettiva e diffusa dei testi pubblici. Nel secondo capitolo, mediante un’analisi secondaria dei principali dati statistici disponibili sulla situazione culturale del nostro Paese, abbiamo inte-so leggere tali “disfunzioni linguistiche” in connessione con alcuni problemi culturali della realtà nazionale al fine di comprendere l’entità del “dislivello comunicativo” tra istituzioni e cittadini. La stessa definizione socio-linguistica di linguaggio burocratico come sottocodice del codice giuridico nell’architettura dell’italiano contemporaneo, contraddistinto dagli ele-vati livelli di formalità della situazione comunicativa (“variabile diafasica”) e padroneggiato sostanzialmente in modo esclusivo dagli “addetti ai lavori” e da parlanti che occupano una posizione più alta nella scala di stratificazione sociale (“variabile diastratica”), è esemplifi-cativa delle difficoltà di leggibilità e di comprensibilità che i testi amministrativi presentano in connessione con il contesto socio-culturale in cui essi svolgono la loro funzione suppo-stamente comunicativa.

Dallo studio linguistico dei testi amministrativi e dall’analisi congiunta della situazione culturale del Paese emergono gravi criticità nel rapporto della pubblica amministrazione con la cittadinanza che possono essere affrontate unicamente mediante interventi diretti e sostanziali nella progettazione, nella redazione e nella revisione della testualità pubblica. L’attenzione nell’ideazione degli atti linguistici istituzionali nei confronti del destinatario, e dei livelli di comprensione delle differenti tipologie di destinatario, diventa così, a livello “performativo”, strumento di cambiamento in senso democratico della struttura e delle rela-zioni sociali e quindi – si auspica che possa diventare –, a livello “espressivo”, riflesso di una struttura e di relazioni sociali democratiche.

Sul fronte politico-istituzionale nazionale, la promozione di un linguaggio maggiormente accessibile e trasparente come condicio sine qua non per la realizzazione di una società ef-fettivamente democratica ha dato vita un ventennio fa, ancorché in ritardo rispetto ad altri

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contesti pubblici internazionali, al percorso culturale, giuridico e formativo noto con l’e-spressione – non priva di ambiguità e non foriera di fraintendimenti e pregiudizi – di “sem-plificazione del linguaggio amministrativo”. Gli interventi e le misure adottate, sull’esem-pio delle politiche di plainness linguistica di origine statunitense, nella revisione della te-stualità pubblica, sulla base di indicazioni discendenti da direttive, disposizioni e progetti finalizzati ministeriali e da guide, manuali di stile e strumenti elettronici di ausilio alla scrit-tura rivolti appositamente ai dipendenti pubblici, hanno riscontrato nella realtà lavorativa degli uffici una serie di limiti di applicazione e di resistenze strutturali e culturali che abbia-mo inteso porre come oggetto specifico di studio. L’obiettivo della ricerca è diventato dun-que più precisamente dun-quello di riuscire a individuare, mediante il confronto diretto con i

te-sti e i soggetti amministrativi, i fattori sottostanti all’assunzione di un comportamento

lin-guistico di tipo burocratico che, in quanto tali, fungono da ostacolo all’innovazione in senso democratico dell’agire amministrativo. Nonostante infatti nei corsi di formazione e nei la-boratori di scrittura emergano – come attestano unanimemente i formatori impegnati nella scrittura amministrativa – una profonda sensibilità tra i dipendenti pubblici nei confronti dei problemi comunicativi e un atteggiamento, almeno in linea di principio, positivo nei con-fronti della semplificazione del linguaggio amministrativo, più forti si rivelano nella realtà organizzativa degli uffici gli ostacoli all’attuazione dei criteri di scrittura controllata ed effi-cace elaborati e proposti dagli esperti – comunicatori, linguisti e giuristi.

L’operazione che, in sintonia con gli obiettivi critici che si poneva la sociolinguistica in I-talia ai suoi albori, abbiamo definito di “smascheramento” risponde innanzitutto a interessi di studio e professionali di chi scrive: direttamente impegnata nella progettazione e nella conduzione di attività formative in materia di scrittura e di semplificazione del linguaggio amministrativo presso enti pubblici. La ricerca prende le mosse infatti da bisogni cono-scitivi sollecitati e maturati nel corso degli interventi formativi, dunque a diretto contatto con i soggetti amministrativi, chiamati oggi a farsi interpreti attivi del cambiamento; ed è finalizzata, tra l’altro, nei termini di osservazione “riflessiva”, ad offrire le indicazioni di contesto essenziali per una progettazione formativa “partecipata” e “situata” che possa ri-spondere più adeguatamente a bisogni formativi preliminarmente rilevati sul campo.

Trascorso un ventennio dalla pubblicazione del primo codice di stile a cura di Sabino Cassese (1993), si ritiene altresì che sia giunto il tempo opportuno per avviare indagini sullo stato dell’arte del percorso di miglioramento dell’efficacia e della qualità linguistica dei testi amministrativi e per tentare di comprenderne opportunità e limiti; quali conoscenze preli-minari e necessarie al proseguimento di un percorso che emerge ancora alle sue prime fasi

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sperimentali. In particolare, se le opportunità sono chiaramente annunciate dalle riforme in materia di informazione e comunicazione pubblica e dalla conseguente introduzione di strutture, professioni, strumenti e canali preposti all’attivazione e alla cura dei processi co-municativi, meno evidenti risultano al contrario le resistenze che la riforma linguistica in-contra all’interno della realtà organizzativa della pubblica amministrazione.

Ad oggi non risulta che tale direzione di ricerca sia stata approfonditamente seguita sul piano empirico5; sebbene le sedi formative offrano spesso l’opportunità di rinvenire le mo-tivazioni che spingono i dipendenti pubblici ad adottare determinati comportamenti lingui-stici e di ottenere, indirettamente, indicazioni sullo stato di avanzamento del percorso di in-novazione linguistica. Sollecitati anche noi dalla raccolta di “indizi” empirici riscontrati nel-le sedi formative, ma procedendo oltre, abbiamo inteso costruire un progetto di ricerca fina-lizzato ad analizzare in profondità, e dunque limitatamente a una specifica realtà ammini-strativa, comportamenti linguistici e, intorno a questi, opinioni, credenze, atteggiamenti dif-fusi tra gli attori amministrativi.

L’analisi condotta si inserisce naturalmente all’interno di una prospettiva di ricerca più ampia sul linguaggio della pubblica amministrazione che non potrebbe, anche in considera-zione del carattere limitato degli strumenti, delle risorse e delle competenze a nostra dispo-sizione, trovare alcun compimento in questa sede: sia l’analisi linguistica e sociolinguistica dei testi amministrativi sia l’analisi sociologica delle motivazioni che spingono gli attori amministrativi ad adottare un dato comportamento linguistico richiederebbero infatti si-nergie intellettuali e operative diffuse a livello nazionale e l’impiego di differenti tecniche d’indagine – anche afferenti all’approccio metodologico quantitativo – capaci per esempio di cogliere dinamiche precipue in atto in realtà organizzative di piccole, medie e grandi di-mensioni, territorialmente centrali e periferiche, del Nord, del Centro e del Sud, e apparte-nenti ai diversi livelli del vasto e complesso apparato amministrativo.

Riprendendo le fasi del lavoro compiuto, una volta individuate, mediante un approccio di studio prevalentemente sistemico-funzionalista, le funzioni della comunicazione pubblica e

5

Riguardo allo studio del linguaggio della pubblica amministrazione “dalla parte dell’emittente merita di essere segnalata a livello nazionale una ricerca empirica condotta sui “Contesti d’uso” da Matteo Viale (Uni-versità di Padova) e pubblicata in Studi e ricerche sul linguaggio amministrativo, Cleup, Padova, 2008. Nel-la ricerca è indagato, tramite questionario, il rapporto degli attori amministrativi con Nel-la scrittura amministra-tiva e il ruolo della formazione scolastica e dell’apprendimento di tipo “organizzativo” nell’assunzione di un determinato stile linguistico e infine l’atteggiamento dei dipendenti pubblici nei confronti delle politiche e de-gli interventi di semplificazione. Si tratta, a quanto ci risulta, dell’unica ricerca nel panorama nazionale che per alcuni aspetti persegue obiettivi conoscitivi molto vicini ai nostri; con percorsi, strumenti d’indagine e li-velli di profondità differenti. Particolarmente utile inoltre per un confronto sul tema della semplificazione del linguaggio amministrativo vista dai dipendenti pubblici, il resoconto formativo di D. Zorzi, Atteggiamento

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del linguaggio amministrativo nell’evoluzione del subsistema amministrativo e del sistema sociale complessivo (primo capitolo), e rilevate, accanto alle «funzioni manifeste», «le con-seguenze inattese» e le «disfunzioni» dell’agire linguistico amministrativo (secondo capito-lo), ci siamo proposti di indagare i motivi per cui, nonostante le denunce e le riforme in

ma-teria di trasparenza e chiarezza comunicativa, la riforma linguistica della pubblica ammi-nistrazione stenti a compiere significativi passi in avanti (terzo e quarto capitolo).

Nel terzo capitolo ci siamo dedicati ad alcuni approfondimenti teorici, supportati dalla raccolta di primi “dati” empirici, intorno alla conservatività del linguaggio in generale e del linguaggio delle istituzioni in particolare, alla ricerca di orientamenti utili ad una più corret-ta imposcorret-tazione della ricerca empirica. La scelcorret-ta di addentrarsi maggiormente nelle questio-ni linguistiche istituzionali e burocratiche ci ha consentito innanzitutto di prevedere come certi livelli di “autoreferenzialità linguistica” siano inevitabili in quanto necessari alla legit-timazione istituzionale, all’esercizio del potere e al buon funzionamento della “macchina” amministrativa. Si tratta, a parere di chi scrive, di un’“avvertenza” fondamentale da cui muovere per non correre il rischio di pensare – e nelle attività di ricerca di invitare a pensare – al linguaggio burocratico come un codice “settoriale” e “di casta” che debba essere sosti-tuito sic et simpliciter con un codice comunicativo condiviso; e per non confondere la sem-plificazione del linguaggio amministrativo con un’operazione semplicistica consistente nel-la mera traduzione dal “burocratese” ad una sorta di “lingua delnel-la strada”. Sono questi pre-giudizi e stereotipi diffusi non soltanto, com’è più facilmente comprensibile, tra i cittadini utenti degli uffici pubblici alle prese con il difficile compito della comprensione, ma finan-che tra gli stessi formatori, in particolare laddove la programmazione dell’intervento forma-tivo non tiene debitamente conto delle specificità e della complessità dei bisogni formativi che emergono esclusivamente a stretto contatto con la realtà organizzativa. I limiti, in ter-mini di ricadute positive, delle cosiddette “linee guida”, laddove diffuse spesso proposte come “ricette” in grado di assicurare in ogni situazione il successo comunicativo, e dei corsi di formazione che sono proliferati a partire dagli anni Novanta sulla semplificazione del lin-guaggio amministrativo, diffusi come si suol dire a “macchia di leopardo”, in modo episo-dico e occasionale, sono in gran parte da addebitarsi proprio a una concezione della forma-zione come aforma-zione estranea alla realtà lavorativa e “calata dall’alto”.

Dallo studio di alcuni “concetti sensibilizzanti” tratti dalla letteratura sociologica e socio-linguistica prodotta sul tema è emersa una prima possibile “conclusione” teorica, ovviamen-te generale e generica, che è stata in seguito indagata dettagliatamenovviamen-te e approfondita sul piano empirico. La lingua della burocrazia, utilizzata per il raggiungimento di certi scopi

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organizzativi, sembra rimanere intrappolata negli schemi della razionalità formale e nelle maglie strette della “gabbia d’acciaio” di weberiana memoria; sotto mutate e imprevedibili condizioni, rispetto a quelle previste dalla legge e dalle procedure organizzative interne, es-sa si rivela difatti inappropriata al perseguimento dei fini comunicativi e, nella sua rigidità, incapace dei necessari adattamenti richiesti dalle situazioni concrete e mutevoli. Il carattere formale e rituale di un dato comportamento linguistico pare prendere il sopravvento su qualsiasi considerazione di ordine sia strumentale sia valoriale; e la comunicazione esaurirsi nell’atto della trasmissione e prescindere dal raggiungimento effettivo degli scopi. Sulla funzione essenzialmente relazionale, comunicativa e “semiotica” del linguaggio prevarreb-be, secondo un noto processo di “trasposizione delle mete”, quella funzione formale – il comportamento linguistico fine a se stesso – atta ad alimentare l’autoreferenzialità essenzia-le alla stabilità del sistema amministrativo e politico e alla essenzia-legittimazione del potere. Tali ri-flessioni trovano una loro conferma anche sul piano empirico, laddove, per esempio, i sog-getti intervistati ammettono di essere innanzitutto preoccupati di tenere comportamenti ligi al “dovere d’ufficio” piuttosto che dell’effettiva comprensione dei testi; e in una serie di al-tre opinioni diffuse intorno all’inevitabilità dell’“agire linguistico” di tipo burocratico in vir-tù del suo carattere formale, tecnico, specialistico, professionale, prestigioso e autorevole.

Nel quarto capitolo si presenta infine l’analisi in profondità di uno specifico caso di stu-dio selezionato sulla base, oltre che di ragioni di opportunità dettate dalle coordinate spazio-temporali della ricerca, della significatività delle esperienze formative intraprese negli ulti-mi anni tra gli enti locali – individuati quest’ultiulti-mi operativamente come unità d’analisi rile-vante per le finalità della nostra ricerca nell’ambito della vasta e poliedrica realtà rappresen-tata dalla “pubblica amministrazione”. Si ritiene infatti che le condizioni di ricerca siano in-tanto maggiormente favorevoli in relazione all’obiettivo conoscitivo che ci siamo prefissati – ossia, ripetiamo, quello di individuare le resistenze all’innovazione linguistica – in quelle realtà amministrative in cui un percorso di innovazione linguistica sia stato comunque in-trapreso e in cui sia diffusa una certa consapevolezza del problema comunicativo.

Lo studio del singolo caso del Comune di Pisa, reso possibile da una lunga e assidua col-laborazione universitaria alle attività formative dell’ente e dalla attenta e fattiva collabora-zione di “mediatori istituzionali” alle attività di ricerca empirica, ci ha consentito di racco-gliere informazioni assai utili – altrimenti non facilmente reperibili – alla comprensione del-le più profonde resistenze, di carattere strutturadel-le e di carattere soggettivo, che si frappongo-no all’infrappongo-novazione linguistica; per una sintesi delle quali si rinvia alle conclusioni – ovvia-mente aperte – di questo lavoro.

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Capitolo I

Il linguaggio amministrativo dall’Unità d’Italia a oggi

1. Lingua e unità nazionale

La secolare “questione della lingua”, su cui soprattutto a partire dal Cinquecento erano in-tervenuti e si erano confrontati letterati, politici e intellettuali italiani1, si riproponeva nei giorni dell’Unità d’Italia come problema consustanziale a quello dell’unificazione politi-co-amministrativa. In un paese contraddistinto da una estrema frammentazione territoriale e linguistica e da una profonda disomogeneità di condizioni storiche, economiche e socio-culturali, l’adozione di una lingua comune rappresentava senz’altro il primo passo fonda-mentale verso il superamento dei tanti dualismi che di fatto corrodevano la penisola (in particolare Nord-Sud, città-campagna, ceti colti-ceti incolti) e verso la formazione di una prima salda coscienza politica nazionale2. Ma, d’altra parte, era parimenti evidente come la stessa unità linguistica si sarebbe potuta ottenere soltanto congiuntamente e per effetto di un reale processo di unificazione politico-amministrativa.

Il nazionalismo linguistico risorgimentale – inteso come aspirazione nelle politiche cul-turali pre-unitarie all’omogeneità negli abiti e nei caratteri linguistici subnazionali – si fon-deva così con la rivendicazione dell’autonomia politica della nazione e acquistava «valore concretamente politico»: divenendo «segno e simbolo di unità nazionale»3; l’ideale della lingua comune, intrinsecamente collegato al principio di nazionalità, contribuiva e insieme traeva alimento dallo sviluppo di un’embrionale coscienza collettiva unitaria.

Il neonato Stato unitario, impegnato a portare avanti il progetto di accentramento am-ministrativo, dotandosi di un apparato organizzativo capillarmente diffuso su tutto il terri-torio nazionale, si faceva interprete attivo – sebbene, come è noto, in modo più o meno

di-1

La nascita della “questione della lingua” viene in realtà fatta risalire al De vulgari eloquentia (1303-05), il trattato in cui Dante propone il volgare come lingua “illustre”, “cardinale”, “regale e curiale” degna di assurgere a lingua letteraria. La superiorità della lingua popolare risiederebbe innanzitutto nel fatto che essa, a differenza delle lingue grammaticali, coincide con la lingua materna, primaria e naturale, che tutti gli uo-mini apprendono nei primi anni della loro vita e che dunque già condividono. Essa sarebbe l’unica lingua in grado di assicurare pertanto unità linguistica, culturale e politica. Per approfondimenti sulla “questione della lingua” si rinvia, tra i tanti, al testo di Claudio Marazzini, Da Dante alla lingua selvaggia. Sette secoli di

di-battiti sull’italiano, Carocci, Roma, 2009 (1a

ed. 1999). 2

In occasione della celebrazione dei Centocinquant’anni dell’Unità d’Italia il 2-4 dicembre 2010 si è te-nuta a Firenze la IX edizione del Convegno Asli (Associazione per la Storia della lingua italiana) in collabo-razione con l’Accademia della Crusca e con l’alto patronato del Presidente della Repubblica. Gli atti sono pubblicati in: A. Nesi, S. Morgana, N. Maraschio, a cura di, Storia della lingua italiana e Storia dell’Italia

unita. L’italiano e lo stato nazionale, Franco Cesati Editore, Firenze, 2011.

3

(16)

scutibile – della difficile transizione dagli assetti comunitari alla moderna società nazionale. L’unificazione linguistica, contemplata nel programma e nell’azione politico-istituzionale complessiva, accanto all’unificazione legislativa e amministrativa, allo sviluppo delle infra-strutture pubbliche e alle politiche educative e culturali di scolarizzazione di massa, emerge-va come strumento fondamentale di edificazione della società moderna: da ottenersi appun-to mediante l’inclusione e il coinvolgimenappun-to delle classi subalterne di ogni parte d’Italia.

In assenza di una lingua che potesse dirsi effettivamente “nazionale” – sebbene celebra-ta da letterati e patrioti, essa era infatti ancora «straniera in patria» (De Mauro) –, durante gli anni del compimento dell’unità nazionale si discuteva del ruolo determinante che avreb-bero comunque esercitato in direzione di un’ampia partecipazione al processo di costruzio-ne dell’identità nazionale un ceto intellettuale unitario, una cultura egemocostruzio-ne e una lingua colta. Scriverà a tal proposito Antonio Gramsci durante gli anni della prigionia: «ogni qual-volta che affiora, in un modo o nell’altro, la quistione della lingua, significa che si sta im-ponendo una serie di altri problemi: la formazione e l’allargamento della classe dirigente, la necessità di stabilire rapporti più intimi e sicuri tra gruppi dirigenti e la massa popolare-nazionale, cioè di riorganizzare l’egemonia culturale»4.

Le questioni della lingua sono dunque questioni “essenzialmente” sociali: nei dibattiti sulla lingua, dibattendo del medium linguistico, contemporaneamente si discute di possi-bili ordinamenti del mondo e di possipossi-bili ordini sociali, di riproduzione e strutturazione di relazioni sociali, di fondazione di unità comunitarie e sociali. La lingua, in virtù della sua funzione di mediazione simbolica, è infatti costitutiva delle stesse società umane. Ricor-deremo per inciso che il linguista francese E. Benveniste alla facoltà esclusivamente uma-na del linguaggio riconosceva anzitutto il «potere coesivo che di un aggregato di individui fa una comunità e che crea la possibilità stessa della produzione e della sussistenza collet-tiva»5.

Anche Ferdinand Tönnies, agli albori della sociologia, notava come la lingua fosse non soltanto un «mezzo o strumento per farsi capire», ma innanzitutto «comprensione vivente [consensus], e al tempo stesso contenuto e forma della comprensione. Similmente a tutti gli altri moti espressivi consapevoli, la sua espressione è conseguenza spontanea di sentimen-ti profondi e di pensieri predominansentimen-ti». All’interno della comunità, in cui è il legame della volontà essenziale (Wesenwille) a tenere uniti i membri in una totalità organica, «non serve

4

A. Gramsci, Quaderno 29. Note sullo studio della grammatica (1935), in Id., Quaderni del carcere, vol. III, Einaudi, Torino, 2001 (1a ed. 1975), p. 2346.

5

É. Benveniste, Problèmes de linguistique générale II, Gallimard, Paris, 1974. Trad. it. Problemi di

(17)

l’intenzione di farsi comprendere, quasi che essa fosse un mezzo artificiale alla cui base vi sia un’incomprensione naturale»6

. La “lingua materna”, espressione simbolica della volontà comune, agisce come sistema di significazione alla base della comprensione naturale tra madre e figlio e tra membri della comunità e fondativo della stessa unità biologica e spiri-tuale del vivere sociale.

Il passaggio dalle forme associative pre-moderne, solidamente ancorate a uno spazio geografico ben delimitato e tenute insieme da legami e vincoli sociali naturali e spontanei, al nuovo contesto di compresenza nazionale da organizzare e amministrare sulla base di grandi distanze fisiche e “spirituali”, richiedeva nuovi razionalismi linguistici che potesse-ro riflettere e insieme porre in essere nuove forme di solidarietà, nuove formazioni sociali.

La questione della lingua che si riproponeva nel nostro Paese durante il processo di uni-ficazione nazionale era essenzialmente una delle questioni sociali e politiche più impellen-ti che le isimpellen-tituzioni del neonato Stato unitario erano chiamate ad affrontare all’interno del vasto e articolato programma di unificazione politico-amministrativa e di modernizzazione degli assetti sociali. L’Italia nel 1861 era ancora un paese essenzialmente agricolo e «di co-munità». La comunità, intesa contemporaneamente come «struttura materiale e infrastrut-tura dello spirito», come prassi e pensiero, come luogo dai confini fisici regionali ben deli-mitati e cultura comunitaria, rallentava – e, come si sa, per certi versi, nelle sue persistenze e “nostalgie” moderne tuttora continua a rallentare – il «trascendimento localistico» in no-me della «cittadinanza universalistica»7, rendendo assai difficile e faticosa la transizione verso la modernità. Chiusura, separatezza e autoreferenzialità apparivano quali risvolti ne-gativi di un vivere comunitario tradizionale che si opponevano allo sviluppo di forme di so-lidarietà organica e di responsabilità collettiva richieste in vista del processo di unificazio-ne nazionale.

6

F. Tönnies, Gemeinschaft und Gesellschaft. Grundbegriffe der reinen Soziologie, Reislad, Leipzig, 1887. Trad. it. di G. Giordano a cura di R. Treves: Comunità e società, Comunità, Milano, 1963, p. 63. Quella del sociologo tedesco è una concezione del linguaggio non meramente strumentale ma essenzialista e onto-logica che richiama alla mente le teorie filosofiche presocratiche e bibliche sull’intimo rapporto di coorigi-narietà tra essere e linguaggio. Nella teoria creazionistica della tradizione cristiana è attraverso la parola

(da-bar) che Dio crea il mondo ed entra in relazione con la comunità degli uomini: un evento linguistico è alle

origini del creato. Similmente, eventi linguistici intramondani risultano intrinsecamente collegati alla fonda-zione delle comunità degli uomini, di quelle primitive e moderne. Sia in epoca romantica che nelle teorie fi-losofiche sviluppatesi sul linguaggio nel Novecento si riprenderà e verrà approfondito l’intimo legame tra essere e linguaggio. Tra tutti, Martin Heidegger intenderà il linguaggio come «casa dell’essere» e «dimora dell’uomo»: solo in quanto gettato in un orizzonte linguistico già dato, all’esserci è offerta la possibilità di a-scoltare e prendere parte al linguaggio, partecipare della verità che esso disvela e condividerla con gli altri. Cfr. M. Heidegger, Brief über den Humanismus, in Platons Lehre von der Wahrheit (1942), Francke, Bern, 1947. Trad. it. di F. Volpi: Lettera sull’umanismo, Segnavia, Adelphi, Milano, 1987.

7

M.A. Toscano, Prove di società. Come uscire dallo stile pubblico «all’italiana», Donzelli, Roma, 2011, p. 8.

(18)

Nella «ricerca di una società possibile»8, a livello teorico e a livello sperimentale, a livel-lo ideolivel-logico e a livellivel-lo pratico, la burocrazia statale giocò un ruolivel-lo indubbiamente fonda-mentale: lo Stato si fece infatti «promotore di società, agente di socializzazione e politico sociale», «interprete dell’istanza di società e di modernità»9

. Suo prioritario compito istitu-zionale e obbligo morale fu, in assenza di un “popolo” e di una partecipazione popolare al processo di costruzione dell’unità nazionale, quello di porre le condizioni di base, organiz-zative e ideali, per una partecipazione collettiva alla costruzione dell’assetto sociale unita-rio, alla ricerca del bene comune, allo sviluppo di un’etica pubblica.

Il popolo doveva innanzitutto essere formato e dotato di strumenti espressivi e comuni-cativi affinché potesse partecipare all’edificazione della società moderna. Pertanto, una delle prime questioni che lo Stato appena costituito si trovava ad affrontare nel governo e nell’amministrazione delle diverse realtà territoriali, nella sua «opera razionalizzatrice»10, verteva sugli ostacoli alla formazione di una lingua unica, rappresentati innanzitutto dalla ricchezza vitale e pullulante dei dialetti comunitari e delle culture che essi esprimevano – e che, nell’esprimere, rivendicavano – contro l’omogeneizzazione e il livellamento lingui-stico. Le «lingue materne» parlate nei ristretti confini delle comunità regionali – in virtù del legame profondo che intrattengono con il luogo fisico e lo spirito originario della comuni-tà – opponevano infatti una tenace resistenza ai tentativi istituzionali di creazione di un’u-nica e solida “infrastruttura linguistica” che fungesse da collante sociale e culturale del-l’intera società nazionale.

Ma il progetto dell’unità linguistica obbediva nello stesso tempo alle logiche accentratri-ci e standardizzatriaccentratri-ci funzionali al governo più efficace e sapiente della cosa pubblica. Sol-tanto dinanzi a un tessuto socio-culturale omogeneo – quantomeno formalmente –, lo Sta-to burocratico avrebbe infatti potuSta-to applicare procedure impersonali e neutrali ed eserci-tare nel modo più “razionale” possibile il suo potere legale.

1.1. Questioni sociali alle origini della questione della lingua

Finanche i dibattiti cinquecenteschi intorno all’individuazione di una norma e di una i-dentità linguistica per la letteratura e la scrittura colta non avevano riguardato unicamente argomenti letterari. Già a quel tempo voci autorevoli si erano levate in merito all’impor-tanza che avrebbe potuto rivestire l’utilizzo di un codice linguistico unitario e

caratterizza-8 Ivi, p. 6. 9 Ivi, p. 49. 10 Ivi, p. 71.

(19)

to da una minore distanza tra scritto e parlato nel colmare il divario socio-culturale venuto-si a creare tra la lingua della ristretta fascia di persone colte e quella della larga fascia del-la popodel-lazione, tra del-la lingua delle situazioni ufficiali e solenni e queldel-la d’uso comune e quotidiano.

Ricorderemo per esempio che nel 1530 Francesco Guicciardini in uno dei suoi più noti

Ricordi politici e civili denunciava l’oscurità comunicativa che avvolge il «palazzo», sede

del potere politico-amministrativo, polemicamente contrapposto alla «piazza», emblema della vita sociale ed economica della popolazione:

Non vi maravigliate che non si sappino le cose delle età passate, non quelle che si fanno nelle provincie o luoghi lontani: perché, se considerate bene, non s’ha vera noti-zia delle presenti, non di quelle che giornalmente si fanno in una medesima città; e spesso tra ‘l palazzo e la piazza è una nebbia sì folta o uno muro sì grosso che, non vi penetrando l’occhio degli uomini, tanto sa el popolo di quello che fa chi governa o del-la ragione perché lo fa, quanto delle cose che fanno in India» (Ricordi, 141). E anno-teremo ancora che solo qualche anno dopo l’umanista fiorentino Benedetto Varchi definiva il linguaggio utilizzato negli uffici pubblici un codice criptico, «un gergo a uso di lingua furfantina molto strano (Storia fiorentina, XVI, 4).

Le riflessioni dei letterati dell’epoca non erano dunque esenti da preoccupazioni di carattere socio-politico e vi trovavano largo spazio denunce e proteste contro l’utilizzo di codici set-toriali altamente indiziati per la loro farraginosità, opacità, inaccessibilità al vasto pubblico.

Considerazioni del medesimo genere avevano sollecitato a partire dal tardo Medioevo l’introduzione del volgare nelle cancellerie. Al fine di ricercare soluzioni al problema del-l’incomprensibilità della testualità pubblica da parte di larghi strati della società, notai e cancellieri ricorsero al volgare, e nella forma municipale e in quella latinizzata, per la re-dazione dei statuti cittadini e di postille e commenti ai documenti ufficialmente ancora scrit-ti in lascrit-tino – seppure già in un lascrit-tino meno aderente alla norma grammascrit-ticale classica. Da lingua orale praticata dai banditori per la divulgazione delle disposizioni pubbliche ai cit-tadini, “la lingua del popolo” diventò progressivamente anche lingua scritta e con valore legale. Il volgare municipale assurse così nella storia della lingua italiana a modello lin-guistico istituzionale da imitare: nel Duecento e nel Trecento l’affermazione di una cultu-ra che non esagereremo a definire “di servizio” aveva condotto negli uffici alla ricerca e all’adozione di un linguaggio che rendesse le comunicazioni accessibili a maggiori strati della popolazione.

Negli anni successivi l’uso scritto del volgare in atti notarili, grida, decreti, statuti e ban-di si intensificò notevolmente. Tuttavia, come ricorda Gramsci, già con la caduta dei

(20)

Co-muni e l’avvento dei principati «una casta di governo staccata dal popolo, cristallizza questo volgare, allo stesso modo che si era cristallizzato il latino letterario. L’italiano è di nuovo una lingua scritta e non parlata, dei dotti e non della nazione»11.

Nel Quattrocento fanno la loro comparsa le cosiddette “koinè cancelleresche” regionali e sovra-regionali: ovverosia formazioni linguistiche ibride e “diatopicamente”12 marcate, in cui accanto al latino della tradizione giuridica e curiale confluivano tratti della lingua lo-cale e di quella fiorentina – quest’ultima il modello linguistico letterario per eccellenza non troppo distante dalla lingua parlata dal popolo fiorentino; alla cui diffusione un contributo decisivo diedero mercanti e funzionari in viaggio per la penisola e, naturalmente, l’avven-to della stampa. Tuttavia, la maggiore omogeneizzazione linguistica tra le lingue degli uf-fici pubblici municipali e regionali, sebbene segnasse una tappa importante nel percorso di formazione della lingua nazionale – e contemporaneamente di un particolare registro lin-guistico –, lasciava irrisolto il problema della distanza della lingua “alta” e ufficiale dalle lingue “basse” e comunemente parlate nella vita quotidiana e pratica. L’italiano era fonda-mentalmente padroneggiato da cerchie ristrette di dotti e utilizzato in contesti e situazio-ni ufficiali e solensituazio-ni e per lo più soltanto nelle scritture.

Inoltre, con la dominazione spagnola prima e francese in seguito, la lingua degli uffici, arricchendosi di numerosi forestierismi provenienti dal lessico politico-amministrativo “più prestigioso” e di più lunga tradizione degli Stati invasori (“giunta” da “junta”, disguido” da “descuido”), si allontanava ancor di più dalla lingua della comunicazione quotidiana. Risale ai tempi della conquista napoleonica l’ingresso nella lingua italiana dello stesso ter-mine “burocrazia”, ripreso dal francese bureaucratie, a sua volta derivante da bureau (“uf-ficio”) e dal termine greco krátos (“potere”); e di altri «francesismi sformati» comunemente considerati di «zecca italiana», come quelli riportati da Edmondo De Amicis con toni umo-ristici e altrettanto preoccupati nella sua guida popolare al «buon italiano»: «circostanziare, debuttare, decampare, defezionare, dettagliare, dilazionare, formalizzare, negligentare, rivo-luzionare, terrorizzare» e molti altri ancora provenienti prevalentemente dal gergo militare francese e dall’introduzione dei Codici napoleonici13.

Secondo quanto riportano gli intellettuali umanisti dell’Ottocento, nel Sei-Settecento, per effetto della profonda crisi della civiltà classica, si registra un vero e proprio

“imbarba-11

Gramsci, op. cit., vol. I, p. 355. 12

In sociolinguistica la variabile “diatopica” indica il rapporto di variazione della lingua rispetto allo spa-zio geografico. Cfr. G. Berruto, Le varietà del repertorio, in A. Sobrero (a cura di), Introduspa-zione

all’italia-no contemporaneo. La variazione e gli usi, vol. II, Laterza, Roma-Bari, 1993.

13

E. De Amicis, L’idioma gentile, Fratelli Treves, Milano, 1905; ed. cit.: Baldini Castoldi Dalai, Milano, 2006, p. 290.

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rimento” e “inquinamento” dell’“idioma gentile”. Tra le prese di posizione pre-unitarie con-trarie all’ingresso dei forestierismi nella lingua italiana, sebbene distinta dalle posizioni pu-riste più intransigenti, famosa l’invettiva di Vincenzo Monti «contra il barbaro dialetto mi-seramente introdotto nelle pubbliche amministrazioni, ove penne sciaguratissime propaga-no e consacrapropaga-no tutto il dì l’igpropaga-nominia del propaga-nostro idioma»14

. La parola, definita dal “princi-pe dell’italica poesia” «abito del “princi-pensiero», sulla bocca e nelle mani di chi scrive e parla «viziosamente» rischiava al contrario di mascherare il pensiero e degenerare in menzogna.

Anche all’interno degli stessi uffici pubblici non mancarono critiche accese contro lo sta-to di corruzione in cui versava la lingua italiana e in particolare contro la prolissità, l’oscuri-tà e la sgradevolezza dell’italiano burocratico. Il funzionario lombardo-veneto Giuseppe Dembsher, nel suggerire alcuni criteri regolativi per migliorare lo stile di scrittura delle cancellerie, invitava a limitare l’uso dei termini stranieri ai soli casi di necessità. Sarà possi-bile produrre testi chiari e comprensibili – scriveva il funzionario delle pubbliche costruzio-ni – solo «se si eviteranno i vocaboli di multiforme sigcostruzio-nificato; se la costruzione sarà la più semplice possibile; se i periodi saranno brevi; se non si adopreranno voci nuove o straniere che in caso di assoluta necessità». I funzionari hanno «il massimo bisogno, come il massi-mo dovere, di spiegarsi in guisa che certamente, e senza il più lieve equivoco intendere si possa quello che ebbero in pensiero di dire»15.

La purezza e il prestigio della lingua italiana dovevano essere salvaguardati dallo “stile gonfio”16, ampolloso, barocco e artificioso con cui venivano rese vaghe, ambigue e compli-cate le leggi. Secondo quanto riportato da Piero Calamandrei durante i lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, Ugo Foscolo, incaricato nel 1801 dal Ministero della guerra della Repubblica Cisalpina di progettare un codice penale militare, annunciò che nel redi-gerlo avrebbe utilizzato «uno stile rapido, calzante, conciso, che non [lasciasse] pretesto al-l’interpretazione delle parole, osservando che assai giureconsulti grandi anni e assai tomi

14

V. Monti, Introduzione a Della necessità dell’eloquenza (1804), in Id., Prose varie, presso Giovanni Resnati e Gius. Bernardoni di Gio., Milano, 1841, p. 253.

15

G. Dembsher, Manuale, o si guida per migliorare lo stile di cancelleria, Destefanis, Milano, 1830, cit. in S. Scotti Morgana, Letterati, burocrati e lingua della burocrazia nel primo Ottocento, in «Studi lingui-stici italiani», 10, 1984, pp. 44-75 (cit. pp. 64-66). Si ricordano inoltre altri famosi testi dedicati all’argomento: L’Elenco di alcune parole oggidì frequentemente in uso, le quali non sono ne’ vocabolari italiani di Giu-seppe Bernardoni (1812), il Vocabolario di parole e modi errati che sono comunemente in uso

special-mente negli uffizi di Pubblica Amministrazione di Filippo Ugolini (1848) e il Lessico dell’infima e corrot-ta icorrot-talianità di Pietro Fanfani e Coscorrot-tantino Arlia (1881).

16

L’espressione è di Montesquieu, il quale nello Spirito delle leggi ammonisce: «Le leggi non debbono essere sottili; sono fatte per persone di mezzano intendimento; non sono esse un’arte di logica, ma la sempli-ce ragione d’un padre di famiglia». Cfr. C.L. de Secondat barone di Montesquieu, De l’esprit des lois, Baril-lot et fils, Gèneve, 1748. Trad. it: Lo spirito delle leggi, vol. III, per Giovanni Silvestri, Milano, 1838, Libro XXIX, cap. XVI, p. 333.

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spesero per commentare leggi confusamente scritte. Si baderà ancora a una religiosa esat-tezza della lingua italiana»17.

Foscolo mostrava di essere in linea con il pensiero del giurista illuminista Cesare Becca-ria, il quale nei Delitti e delle pene (1764) nell’ottica della prevenzione dei delitti aveva più volte denunciato l’oscurità delle leggi, scritte «in una lingua straniera al popolo» che pone il cittadino nelle condizioni di essere «in dipendenza di alcuni pochi, non potendo giudicar da se stesso qual sarebbe l’esito della sua libertà, o dei suoi membri, in una lingua che formi di un libro solenne e pubblico un quasi privato e domestico». Al contrario, aveva osservato il giurista «quanto maggiore sarà il numero di quelli che intenderanno e avranno fralle mani il caro codice delle leggi, tanto men frequenti saranno i delitti, perché non v’ha dubbio che l’ignoranza e l’incertezza delle pene aiutino l’eloquenza delle passioni»18

.

1.2. La situazione sociolinguistica al momento dell’Unità

Dopo alterne vicende intellettuali, la questione della lingua riemerge come questione emi-nentemente sociale nell’ambito del processo risorgimentale che porterà alla fondazione del Regno d’Italia: l’assenza di una lingua letteraria vicina all’uso comune, sul modello delle altre nazioni europee, di un’unica lingua giuridica e burocratica19 e di un’unica lingua d’u-so comune padroneggiata dalla maggioranza della popolazione dalle Alpi alla Sicilia, che potesse pertanto superare le barriere comunicative geografiche e socio-culturali presenti nella penisola, ostacolava di fatto lo sviluppo di quell’identità nazionale essenziale per un effettivo processo di unificazione. Tuttavia, secondo quel rapporto già richiamato di inti-ma circolarità tra lingua e società, la stessa suddivisione della penisola in varie e dispara-te unità politiche e le diseguaglianze economiche e sociali, che la rivoluzione industriale aveva contribuito ad accrescere, alimentavano la persistenza del mosaico dei dialetti a di-scapito di una lingua panitaliana che non trovava le condizioni di base strutturali e simbo-liche per affermarsi. Nei decenni precedenti l’Unità, il dialetto godeva ancora di un forte prestigio linguistico e sociale: era utilizzato dagli strati popolari ma anche da quelli colti, dalle aristocrazie e dalle borghesie, nelle situazioni informali e più trascurate ma anche in quelle formali ed ufficiali. Racconta Tullio De Mauro che finanche il primo re di Italia, Vittorio Emanuele, si esprimeva in dialetto con i suoi ministri.

17

Assemblea Costituente, Atti, III, Discussioni, Camera dei deputati, Roma, 1947, p. 1743. 18

C. Beccaria, Oscurità delle leggi, in Id., Dei delitti e delle pene, a cura di R. Fabietti, Mursia, Milano, 1973, cap. V.

19

Si veda anzitutto C. Marazzini, Plurilinguismo giuridico e burocratico prima dell’Unità d’Italia, in «Plurilinguismo», 3, 1996, pp. 69-82.

(23)

Secondo le stime elaborate da De Mauro sulla base dei dati del primo censimento Istat, nel 1861 erano in grado di parlare e capire la lingua italiana di base toscana solo il 2,5% dei cittadini italiani sopra i 5 anni di età (630.000 su 25.000.000 di abitanti): una esigua minoranza della popolazione italiana dunque; per lo più toscani (400.000) – ossia italofoni dalla nascita –, gli abitanti di Roma (70.000) – in possesso di un uso più o meno corretto della lingua italiana per la vicinanza morfologica, fonologica e lessicale della lingua locale a quella comune e la maggiore diffusione nella capitale di istituti scolastici popolari – e i pochi alfabetizzati delle altre città italiane (160.000)20. Nelle scuole, in particolare in quelle rurali, i maestri continuavano a svolgere le loro lezioni nei vari dialetti: sia per venire incon-tro alle esigenze degli allievi in grado di comprendere unicamente la lingua locale, sia per-ché molti di essi non dimostravano ancora un livello adeguato di padronanza della lingua letteraria; anche a causa della scarsa mobilità geografica e della misera retribuzione, che quando non obbligava gli insegnanti a svolgere ulteriori lavori non incentivava certamente processi di riqualificazione professionale.

Stante agli stessi dati Istat, circa il 78% degli italiani adulti non sapeva né leggere né scri-vere21; percentuale che saliva al 90% in alcune zone del Mezzogiorno e al 100% nel caso delle donne. La lingua scritta risultava ancora appannaggio esclusivo dei ceti colti e be-nestanti e dunque contrassegno di classe; mentre il resto della popolazione continuava a servirsi del sempre vivo e vitale dialetto per comunicare nella vita quotidiana. Neppure quel 20% di popolazione alfabeta poteva in realtà definirsi realmente tale: essendo necessaria, secondo quanto rileva De Mauro sulla base dell’inchiesta Corradini condotta in Italia nei primi anni del Novecento, la frequenza di almeno qualche anno della scuola post-elementa-re per acquisipost-elementa-re un possesso post-elementa-reale della capacità di leggepost-elementa-re e scrivepost-elementa-re e una padronanza ac-cettabile e duratura della lingua.

20

T. De Mauro, Storia linguistica dell’Italia unita, cit. Nel 1982 Arrigo Castellani, proponendo una cor-rezione dei dati riportati da De Mauro, conclude “più ottimisticamente” che al momento dell’Unità d’Italia erano in grado di capire e leggere l’italiano 2.200.000 abitanti su una popolazione di 25 milioni di abitanti (il 9,52%). Cfr. A. Castellani, Quanti erano gli italofoni nel 1861?, in «Studi linguistici italiani», 8, 1982, pp. 105-129. Si tratta, come ha opportunamente sottolineato Francesco Bruni, di dati anch’essi discutibili in quanto trascurano la presenza non facilmente rilevabile degli italiani regionali o dialetti italianizzati, di si-tuazioni di bilinguismo (italiano e dialetto) e di diversi livelli di competenza linguistica. Non si distingue per esempio tra una competenza attiva (capacità di produrre atti linguistici appropriati) e una competenza

passiva (capacità di comprendere atti linguistici prodotti da un interlocutore). Solo a partire dal

censimen-to del 1951 si iniziò inoltre a operare una distinzione tra “semianalfabeti”, “analfabeti” e “alfabeti” a pieno titolo. Si rimanda per approfondimenti a F. Bruni (a cura di), L’italiano nelle regioni. Storia della lingua

ita-liana, Garzanti, Milano, 1996.

21

Come emerge dalla comparazione con altri paesi europei, negli stessi anni in Svezia la percentuale di analfabeti si aggira intorno al 10%, in Prussia al 20%, in Inghilterra e Svizzera al 30%, in Austria e Fran-cia al 40%, in Spagna al 75%, in Russia al 90%.

(24)

Nella situazione linguistica dell’Italia unitaria «si palesavano – pertanto – le profonde fratture che nel corso storico si erano create non solo tra regione e regione ma anche tra l’u-na e l’altra classe sociale»22

. Lo squilibrio linguistico riproduceva fedelmente il divario e-conomico-culturale tra Nord e Sud del Paese e lo stato di diseguaglianza sociale tra classi egemone e classi subalterne.

In un contesto di diffuso analfabetismo e di notevole frammentazione linguistica, la pub-blica amministrazione del nuovo Stato unitario per adempiere alle proprie funzioni era chia-mata ad affrontare i problemi comunicativi sia sul fronte esterno della ricezione delle infor-mazioni che su quello interno della produzione. Si doveva, per un verso, intervenire a fa-vore dello sviluppo delle competenze linguistiche degli italiani, in particolare mediante la lotta all’analfabetismo e incentivando l’abbandono dei dialetti in nome della lingua unitaria, e per l’altro uniformare e rendere maggiormente comprensibili al più vasto pubblico i do-cumenti di interesse comune prodotti.

I testi amministrativi, per la loro funzione prevalentemente informativa e regolativa, ossia in quanto rivolti a trasmettere notizie e conoscenze e a disciplinare la vita quotidiana e pra-tica dei cittadini, ed essendo altresì il principale veicolo di erogazione dei servizi pubblici, avrebbero rappresentato i primi testi in lingua italiana con cui la maggior parte della popo-lazione sarebbe entrata in contatto. Essi dovettero rivestire all’epoca una vera e propria fun-zione pedagogica nella divulgafun-zione e nel consolidamento di «un tipo linguistico unitario» (De Mauro). Nonostante, come testimoniano i dati riportati, fatta eccezione per il ceto bu-rocratico e i ceti colti, la popolazione rimanesse ancora prevalentemente dialettofona e a-nalfabeta.

Una volta “fatta l’Italia”, gli interventi ministeriali in materia di unificazione e di istitu-zionalizzazione della lingua unitaria dovevano mirare – come recitava la celebre frase che si fa risalire a Massimo D’Azeglio – a “fare gli italiani”. E così nel 1868 il ministro della Pub-blica istruzione Emilio Broglio incarica Alessandro Manzoni, dal 1827 socio corrispon-dente dell’Accademia della Crusca23, di presiedere la commissione istituita con il compito

22

De Mauro, Storia linguistica, cit., p. 45. Si veda anche: B. Migliorini, Storia della lingua italiana, San-soni, Firenze, 1960; P. Trifone, L. Serianni (a cura di), Storia della lingua italiana, 3 voll., Einaudi, Torino, 1993-1994; P.V. Mengaldo, Storia della lingua italiana, il Mulino, Bologna, 1994; P. Trifone, Lingua e

identi-tà. Una storia sociale dell’italiano, Carocci, Roma, 2006.

23

L’Accademia della Crusca, nata a Firenze alla fine del ’500 e pubblicato il primo Vocabolario della lingua italiana nel 1612, era stata soppressa (fusa nell’Accademia fiorentina) da Pietro Leopoldo nel 1783 e ripristinata sotto Napoleone nel 1811. Nel 1863 l’Accademia pubblicava il primo volume della Quinta edi-zione del Vocabolario, interrotta poi con regio decreto dell’11 marzo 1923 del ministro della Pubblica istru-zione Giovanni Gentile. L’Accademia svolse un ruolo fondamentale nel percorso di costruistru-zione della lingua nazionale preservandola costantemente da parole e locuzioni antiquate, straniere, “corrotte” e incerte. Cfr. S. Parodi, Quattro secoli di Crusca: 1583-1983, Accademia della Crusca, Firenze, 1983.

(25)

di «ricercare e di proporre tutti i provvedimenti e i modi coi quali si possa aiutare e rendere più universale in tutti gli ordini di popolo la notizia della buona lingua e della buona pro-nunzia». Le due sezioni, quella milanese e quella fiorentina, in cui era suddivisa la commis-sione presentarono proposte differenti: di contro a Manzoni, che nella sua relazione

Dell’u-nità della lingua e dei mezzi di diffonderla candidava il fiorentino dell’uso vivo e parlato

dalla classe colta a lingua nazionale, affidando all’insegnamento scolastico il compito della divulgazione della lingua parlata nell’allora provvisoria capitale del Regno, si levavano le voci contrarie dei membri della commissione fiorentina: alcuni, in particolare i più con-servatori e puristi dell’Accademia della Crusca, impegnati a difendere la superiorità estetica e civile dell’“idioma gentile” delle tre corone fiorentine, dell’“aureo Trecento”, dalla corrut-tela dei tempi moderni, e altri, i più innovatori, promotori della necessità di integrare il mo-dello linguistico manzoniano con quelli popolari.

Le reazioni non mancarono anche al di fuori dei lavori della commissione. Graziadio Isaia Ascoli, tra tutti, interveniva a difesa della pari dignità culturale delle altre parlate locali e suggeriva il ricorso a metodi a suo dire meno coattivi nella diffusione della lingua uni-taria; la quale, a suo dire, si sarebbe imposta spontaneamente e “dal basso” all’interno di un processo di estensione del benessere sociale e del medesimo tessuto culturale a tutto il Pae-se. In sintesi, l’Ascoli riteneva che fosse necessario intervenire sul substrato socio-econo-mico per assicurare l’unificazione linguistica e culturale del Paese e non viceversa; che bi-sognasse incoraggiare l’azione di forze centrifughe di contrasto ai particolarismi regionali (accentramento demografico, economico, politico, sociale e culturale, da ottenersi in parti-colare mediante un’organizzazione scolastica uniforme su tutto il territorio nazionale), sen-za dover imporre l’assimilazione attraverso una lingua solo virtualmente unitaria. L’Ascoli aveva ben presente la storia dell’unificazione linguistica tedesca, resa possibile, nonostante la situazione di frammentazione politica e religiosa, dalla fortuna del modello linguistico e culturale derivato dalla traduzione della Bibbia di Lutero in tutto il territorio nazionale, al di là di ogni articolazione geografica e stratificazione socio-culturale.

Nonostante le vive opposizioni dei tradizionalisti e dei liberisti, il ministro Broglio ap-provò infine la politica linguistica manzoniana e avviò i lavori di stesura del Novo

vocabo-lario della lingua italiana secondo l’uso di Firenze (1873-1897). Risalgono inoltre proprio

a quegli anni numerosi dizionari regionali di traduzione dal dialetto al nuovo italiano. Nei decenni successivi si avverarono anche le profezie dell’Ascoli. Furono piuttosto fe-nomeni politici, economici e sociali a incrementare l’unificazione linguistica della peniso-la e non l’unità linguistica a favorire quelpeniso-la politica. Alpeniso-la diffusione delpeniso-la lingua nazionale

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nelle diverse realtà geografiche contribuirono in particolar modo l’accentramento buro-cratico, la creazione della prima rete ferroviaria nazionale, la diffusione e gli sviluppi della stampa, l’istituzione della leva obbligatoria nazionale nel 1875 – per cui i cittadini di sesso maschile furono chiamati ad abbandonare il proprio paese di origine per prestare servizio altrove –, il crollo delle barriere protezionistiche tra le regioni che avevano limitato la circo-lazione di capitali e manodopera, le migrazioni dalla campagna verso la città e dal Sud a-gricolo e arretrato verso il Nord in via di industrializzazione (dunque l’urbanizzazione e l’o-smosi demografica) e, in particolare, le norme sull’obbligatorietà della scuola elementare inferiore laica e gratuita (legge Coppino del 15 luglio 1877)24 atte a contrastare l’endemica piaga dell’analfabetismo25, gli sviluppi nell’istruzione postelementare (al di sotto del 15% ancora nel 1931) e nei mezzi di informazione di massa (cinema, radio e televisione). Grazie dunque al concorso favorevole di più fattori, strutturali e sovrastrutturali, in pochi decen-ni, dal 1871 al 1911, fu infatti possibile registrare una notevole diminuzione della percen-tuale di analfabeti, precisamente dal 75% al 40% della popolazione. L’italiano parlato si avvicinò all’italiano scritto e i dialetti, in particolar modo nelle realtà urbane, si trasforma-rono gradualmente in varietà regionali più simili alla lingua ufficiale. L’adeguamento del codice socio-linguistico meno “prestigioso”, ossia di status gerarchicamente inferiore, a quello dominante riguardò tutti i livelli della struttura linguistica: il lessico, la fonologia, la morfologia e la sintassi.

Cambiamenti radicali si verificarono anche nel repertorio linguistico della popolazione: si consolidò proprio nei primi decenni del Novecento una condizione di diglossia26 tra ita-liano e dialetto che, nonostante la variazione nei decenni in termini quantitativi, persiste ancora ai nostri giorni. La fotografia sociolinguistica di quegli anni restituisce una situazio-ne di compresenza dei due codici: l’uno utilizzato situazio-nelle situazioni comunicative più formali e ufficiali e l’altro in contesti familiari e amichevoli. Per descrivere più esattamente il

rap-24

Ci limitiamo a ricordare che rispetto alla Legge Casati del 13 novembre 1859, la legge emanata dal mi-nistro Coppino introduceva sanzioni e ammende per i genitori responsabili dell’inadempienza dell’obbligo scolastico dai 6 ai 9 anni, ossia fino alla terza elementare.

25

Rinviamo, per esigenze di sintesi, all’ampia ricostruzione di Tullio De Mauro del profondo rapporto di interconnessione tra variazioni linguistiche e variazioni sociali all’indomani dell’Unità. Cfr. T. De Mauro,

Nuove condizioni linguistiche, cap. III, in Storia linguistica dell’Italia unita, cit.

26

Il concetto di diglossia è stato teorizzato da Charles A. Ferguson nel 1959 per descrivere lo stato di convivenza tra una varietà “alta” e “standard” e un’altra “bassa” e “vernacolare”. Più precisamente si tratta di «una situazione linguistica relativamente stabile in cui, in aggiunta ai dialetti […], vi è una varietà sovrap-posta molto divergente ed altamente codificata (spesso grammaticalmente più complessa), veicolo di un va-sto e rispettato corpus letterario […] che viene appresa in larga parte per mezzo dell’istruzione formale e viene usata per lo più per scopi formali e nella forma scritta, ma che non è mai usata da nessun settore della comunità per la comune conversazione». Cfr. C.A. Ferguson, Diglossia, in «World», XV, 1959, pp. 325-340. Trad. it. di Franca Orletti: Diglossia, in P.P. Giglioli, G. Fele, Linguaggio e contesto sociale, il Mulino, Bologna, 2000 (1a ed. 1973) pp. 185-205 (p. 198).

Figura

Figura 1. Architettura dell’italiano contemporaneo
Figura 2. Indice Gulpease
Figura 3. Livelli di lettura – Indice Gulpease
Tabella 1. Confronto percentuali cumulate Ocse e Italia per livelli di reading literacy

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