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Analisi sociologica intorno alla conservatività del codice

3. Tra “concetti sensibilizzanti” e primi “indizi” empiric

3.1. Burocrazia e autoreferenzialità linguistica

La lingua della burocrazia, distinguendosi dalla lingua comune, “tecnicizzando” e ridefi- nendo semanticamente termini della lingua comune, non fa altro che ricalcare e sostenere i livelli di “autoreferenzialità” necessari alla “macchina” burocratica per l’esercizio legale e razionale del suo potere: la lingua del potere è sempre da intendersi infatti “espressione” e contemporaneamente “pratica” del potere; «espressione della logica del potere» ma anche «fondamento dei rapporti di potere» e «fonte di produzione del potere»37.

36

G. Berruto, Le varietà del repertorio, in Sobrero A. (a cura di), Introduzione all’italiano contemporaneo.

La variazione e gli usi, vol. II, Laterza, Roma-Bari, 1993, p. 8.

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Crespi F., Linguaggio e rapporti di potere, in Id., Sociologia del linguaggio, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 123. L’autore si rifà in particolare all’analisi di Michel Foucault sui “dispositivi linguistici” microquotidiani e onnipervasivi del potere, sul rapporto tra pratiche discorsive e rapporti reticolari di potere (M. Foucault,

L’ordre du discours, Gallimard, Paris, 1971. Trad. it.: L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Einaudi, Torino, 1972); e agli studi della pragmatica della comunicazione umana sul

potere della “definizione della relazione” nei rapporti di potere (P. Watzlawick, J.H. Beavin, D.D. Jackson,

Pragmatics of Human Communication, Norton & Co., New York, 1969. Trad. it. di M. Ferretti: Pragmatica della comunicazione umana, Astrolabio, Roma, 1971).

Mediante un determinato codice linguistico, la burocrazia si assicura quella cesura socia- le e culturale dal “mondo profano” richiesta dalla specializzazione del sapere e dalla profes- sionalizzazione delle competenze e necessaria alla tutela della razionalità e tecnicità dell’a- gire amministrativo. Soltanto “gli addetti ai lavori amministrativi” conoscono infatti “le re- gole del gioco”, formali e sostanziali, in aderenza alle quali governare insicurezze, “pertur- bazioni” e disordini sempre in agguato nell’organismo sociale; essi si comportano in ciò a- nalogamente ai sacerdoti e ai tecnici delle religioni del mondo che, come ha dimostrato Max Weber, praticano «il ritiro dal mondo» al fine di esercitare «il dominio sul mondo me- diante le forze magiche conseguite con il ritiro dal mondo»38.

La burocrazia si comporterebbe in tal senso come la ierocrazia; la quale, per assolvere al- la funzione di mediazione tra il soprannaturale e il naturale, tra la trascendenza e l’imma- nenza, deve necessariamente mantenersi distaccata da quel mondo profano che è chiamata ad amministrare mediante tecniche necessariamente “esoteriche” e “riti segreti”: qualora si aprisse completamente al mondo esterno, essa perderebbe infatti, sia oggettivamente sia simbolicamente, la sacralità (“sacer” è per definizione ciò che è separato dal resto della co- munità) del suo potere e il ruolo esclusivo di direzione spirituale della collettività.

Gli studi sociologici classici hanno abbondantemente chiarito come lo Stato e il suo ap- parato burocratico si presentino inevitabilmente separati – in virtù degli stessi processi di ra- zionalizzazione e di specializzazione funzionale – dalla società che devono costantemente sottrarre al caos e riportare all’ordine: devono mantenersi “pragmaticamente” e “semanti- camente” distinti da essa in modo da assicurarsi una “sapienza” interna coerente e solida ne- cessaria per portare avanti efficacemente l’opera “razionalizzatrice” e “normativa” all’inter- no del sistema sociale complessivo39.

L’autoriferimento, inteso come chiusura e separatezza, ma anche come culto della norma e cieco formalismo, come impersonalità e rigidità, è in verità ciò che consente alla burocra- zia di dar vita a procedure organizzate e stabili, ad attività standardizzate, a programmi e schemi d’azione necessari per l’esercizio e la legittimazione del proprio potere nell’ordina-

mento del mondo e, nello stesso tempo, al riparo dalla sua destabilizzante complessità.

Come ha dimostrato Max Weber, solo applicando deduttivamente la razionalità del di- ritto ai casi particolari, ossia agendo “in nome della legge” astratta e generale, ed esercitan-

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M. Weber, Zwischenbetrachtung. Theorie der Stufen und Richtungen religiöser Weltablehnung (1916), in

Gesammelte Aufsätze zur Religionssoziologie, vol. I, Mohr, Tübingen, 1920-21, pp. 536-573. Trad. it. a cura di

A. Ferrara: Considerazioni intermedie. Il destino dell’Occidente, Armando, Roma, 2006 (rist.), p. 49. 39

Deve essere in tal senso l’espressione “intelligenza delle istituzioni” utilizzata da Donolo. Cfr. C. Donolo,

do il potere nel modo formalmente più razionale – sulla base di leggi e regolamenti ammi- nistrativi, netta divisione del lavoro, competenze e saperi specializzati, controlli rigidi e ge- rarchici, impersonalità assoluta, ecc. –, la burocrazia riesce a perseguire il fine dell’ugua- glianza formale di tutti i cittadini e a mantenersi al di sopra delle condizioni materiali e soggettive e dei vari particolarismi. Si ricorderà che anche nella dottrina hegeliana dello Stato, l’incarnazione della ragione universale nello Stato di diritto è ciò che consente alle sue istituzioni di trascendere il particolare in nome dell’universale, gli interessi individuali in nome del bene collettivo40.

L’agire linguistico, come espressione e veicolo dell’agire amministrativo, riproduce la medesima tensione tra razionalità formale e razionalità sostanziale. I termini tecnici e spe- cialistici della lingua della burocrazia devono, per un verso, essere necessariamente distin- ti dalle parole del “mondo della vita” per essere funzionali all’esercizio formale del potere burocratico. D’altra parte, allontanandosi dal repertorio linguistico comune, la lingua della burocrazia costituisce inevitabilmente un ostacolo ai processi comunicativi pubblici – in particolar modo nell’odierna amministrazione pubblica relazionale e “condivisa”.

La stessa interazione tra Stato e società diviene possibile sulla base della continua dia- lettica tra chiusura e apertura, tra interno ed esterno, tra certezze e incertezze, tra ordine e caos. Tale dialettica è peraltro alla base del concetto stesso di “potere”: che è da intendersi sempre, seguendo ancora l’insegnamento weberiano41, come “relazione di potere” tra attori sociali che occupano una posizione più o meno asimmetrica – chi detiene il potere e chi, riconoscendolo come legittimo, vi presta obbedienza – ma legati tra loro da vincoli recipro- ci; più propriamente, quindi, come “esercizio” di potere, come “consenso” e “dissenso”, co- me attribuzione e riattribuzione di senso alla stessa relazione di potere da parte degli attori coinvolti. Analogamente a qualsivoglia relazione sociale, il potere implica infatti “reciproci-

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Tali forme di razionalità tecnica e amministrativa, come è tristemente noto dall’esperienza storica, non sono esenti da degenerazioni e involuzioni totalitarie: il sistema sovietico per esempio è stato “soffocato” da quello stesso apparato ideologico, burocratico e tecnico messo a punto per la sopravvivenza dell’organismo e dalla “strumentalizzazione” della “razionalità strumentale” finalizzata al dominio della realtà esterna al di sopra di ogni valutazione etica e morale. Gli individui, a cui “la ragion di Stato” promette emancipazione e progresso, diventano puri ingranaggi della macchina amministrativa. Come hanno dimostrato massimi espo- nenti della scuola di Francoforte (Horkheimer e Adorno e Harendt), la pretesa conciliazione del finito con l’infinito promessa dalla ragione si svela in realtà pura repressione delle singolarità nella totalità e livella- mento delle differenze.

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Max Weber distingue la «potenza» (Macht) dal «potere» (Herrschaft): definisce la prima come «possibili- tà di far valere entro una relazione sociale, anche di fronte ad un’opposizione, la propria volontà quale che sia la base di questa possibilità» e il secondo come «possibilità di trovare obbedienza, presso certe persone, a un comando che abbia un determinato contenuto». Egli nota come nel sistema di potere, l’obbedienza non discen- da dalla coercizione e dall’imposizione di una volontà ma dal conferimento di senso a un determinato comando e dunque dal riconoscimento della legittimità del potere da parte di chi vi obbedisce. M. Weber, Wirtschaft

und Gesellschaft, Mohr, Tubingen, 1922. Trad. it. a cura di P. Rossi: Economia e società, Edizioni di Co-

tà d’azione”: esso si rivela un agire dotato del senso intenzionato da parte di chi comanda e di chi obbedisce. Si spiegano così, sulla base della fluidità e dell’instabilità dei rapporti di forza, delle diverse semantiche ed ermeneutiche del potere, le sue continue metamorfosi42.

È noto come nelle associazioni moderne, rispetto alle comunità tradizionali in cui prevale l’agire affettivo e tradizionale – in termini tönniesiani “il comune sentire” –, la disposizione all’agire è dettata dall’agire razionale rispetto allo scopo e al valore. In campo vi sono dun- que interessi, vantaggi e principi che un ordinamento legittimo, statuito razionalmente, deve tutelare. Chi detiene il potere lo esercita sulla base di livelli di “razionalità” condivisa, atti- vamente o passivamente, con coloro che al potere obbediscono. È infatti sulla «credenza nella legalità di ordinamenti statuiti, e del diritto di comando di coloro che sono chiamati ad esercitare il potere in base ad essi»43 che poggia il potere legittimo.

Similmente alla lingua della ierocrazia, quella della burocrazia sembrerebbe dunque, da un certo punto di vista, non poter essere totalmente condivisa: in quanto “fatto esteriore e costrittivo” rispetto all’individuo, funzionale al sapiente esercizio del potere burocratico e al buon governo della cosa pubblica. Le parole delle istituzioni, partecipando del processo più generale dell’“organizzare” – inteso nei termini di Karl Edward Weick come costruzione della realtà sociale da parte di professionisti – partecipano della funzione di vincolare e condizionare le vite e le azioni degli individui.

Il carattere “ermetico” della lingua, il fatto che essa non sia riducibile a quella comune, pare insito, come ha suggerito Pierre Bourdieu, nel dominio simbolico che le istituzioni e- sercitano nello spazio sociale mediante quella categorizzazione e formalizzazione delle e- sperienze necessaria a evitare «il caos cognitivo». Si pensi all’effetto di neutralità, imper- sonalità, imparzialità, ufficialità, che certe formule espressive giuridico-burocratiche co- me il passivo e l’impersonale consentono, o all’effetto di oggettività, universalizzazione e

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Si rimanda sul punto agli studi sull’analitica del potere condotta da Michel Foucault tra il 1971 e il 1976 e raccolti in italiano in Microfisica del potere. Interventi politici, Einaudi, Torino, 1977. Scrive Foucault a pro- posito del potere “microfisico” e dinamico che si insinua negli interstizi delle relazioni umane: «il potere non è qualcosa che si divide tra coloro che lo possiedono o coloro che lo detengono esclusivamente e coloro che non lo hanno o lo subiscono. Il potere deve essere analizzato come qualcosa che circola, o meglio come qualcosa che funziona solo a catena. Non è mai localizzato qui o lì, non è mai nelle mani di alcuni, non è mai appro- priato come una ricchezza o un bene. Il potere funziona, si esercita come un’organizzazione reticolare». Ivi, p. 184. In tal senso il potere va sempre analizzato nella sua relazionalità e non come forma stabile di domi- nio da parte di un dato governo, una data struttura politica o classe sociale. Sul punto si rimanda, tra tutti, a: A. Borghini, Metamorfosi del potere: stato e società nell’era della globalizzazione, FrancoAngeli, Milano, 2003; M.A. Toscano, Introduzione. Il potere, il tempo, le forme, in «Rivista trimestrale di scienza dell’ammini- strazione», 4, 2011, pp. 11-18.

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perentorietà garantito dall’uso dell’indicativo, il modo verbale dell’obiettività, e in parti- colare da tempi verbali constativi e performativi44.

L’oscurità e la difficile accessibilità del linguaggio amministrativo devono in sintesi esse- re analizzate in connessione con la tradizionale “chiusura”, separatezza, autoreferenzialità, segretezza delle amministrazioni e con le logiche organizzative “autoritative” radicate nel- l’esercizio dei pubblici poteri. Come ha messo in rilievo Stefano Sepe:

[…] il problema dello stile burocratico in Italia è stato […] largamente sottovalutato anche a causa della tradizionale “separatezza” dell’amministrazione pubblica rispetto ai cittadini, visti più come “sudditi” che come soggetti con i quali i poteri pubblici devono interagire in maniera paritaria. Il linguaggio oscuro è stata una delle conseguenze “lo- giche” di un’amministrazione autoritativa. A funzioni di controllo degli “amministrati” si addiceva un vocabolario per “iniziati”. Il basso livello di comprensione dei messaggi prodotti dagli uffici pubblici ha ricevuto, peraltro, indiretta legittimazione dal principio […] della segretezza pressoché totale degli atti amministrativi45

.

Le testimonianze raccolte, come si vedrà, contengono chiari riferimenti allo «scollamento

del linguaggio degli uffici pubblici dalla realtà dei parlanti» (CP, res. 6).

Espressione dell’autoreferenzialità burocratica è anche la circolarità interna dei docu- menti amministrativi: essi, infatti, prima che essere scritti pensando al destinatario finale so- no scritti innanzitutto con l’obiettivo di superare controlli interni (da parte di dirigenti e nu- clei di valutazione) ed esterni (da parte di ragioneria e corte dei conti); i quali valutano posi- tivamente la conformità dei testi a modelli tradizionali e inibiscono viceversa nuove prati- che di scrittura46.

Spesso i dipendenti pubblici che partecipano ai corsi di formazione lamentano che in- terventi formativi in materia di semplificazione linguistica dovrebbero essere indirizzati «prima di tutto a coloro che hanno funzioni dirigenziali» (PS17), «rivolti soprattutto o al-

meno condivisi dai dirigenti» (PS36), dato che essi sono, oltre che firmatari di numerosi te-

sti interni ed esterni, coloro che sollecitano l’uso di modelli prestabiliti, di un linguaggio ri- gidamente conforme a quello giuridico e il ricorso a uno stile consolidato e, a loro giudi- zio, affidabile di scrittura.

44

P. Bourdieu, La force du droit. Eleménts pour une sociologie du champ juridique, in «Actes de la recher- che en sciences sociales», 64, 1986, pp. 3-19.

45

S. Sepe, Introduzione, Linguaggio e potere: oscurità delle leggi e del lessico burocratico, in Id. (a cura di), La semplificazione del linguaggio amministrativo, Presidenza del Consiglio dei ministri, Sspa, Roma, 2003, p. 6, reperibile su:http://www.matteo viale.it/biblioteche/approfondimenti/sepe.pdf

46

Cfr. A. Fioritto, M.S. Masini, S. Salvatore, Guida alle parole della pubblica amministrazione, in A. Fioritto, Manuale di stile. Strumenti per semplificare il linguaggio delle amministrazioni pubbliche, il Muli- no, Bologna, 1997, p. 70.

Tra gli autori dei testi amministrativi si deve infatti spesso distinguere tra l’autore mate- riale del testo e l’autore giuridico, ossia il responsabile che deve approvare e firmare il testo. Analogamente, oltre al destinatario reale del testo, per il funzionario che deve scrivere il te- sto esiste un destinatario intermedio che lo deve valutare. E solo se quest’ultimo giudicherà positivamente il testo, il compito del sottoposto potrà dirsi terminato. Da qui l’attenzione prioritaria piuttosto che al destinatario reale della comunicazione al parere dei propri supe- riori47.

Sulla base di tali giudizi è possibile trarre una qualche conferma dell’opinione di Antonio Gramsci quando scriveva: «A differenza dei funzionari francesi ed inglesi, che scrivono per il popolo, quelli italiani scrivono per i loro superiori». Sarebbero pertanto i rapporti gerar- chici a sollecitare un certo conformismo nella scrittura48.

Il meccanismo per cui al destinatario reale e finale della comunicazione si sostituisce quello intermedio (il giudizio del superiore) può essere per molti versi ricondotto al feno- meno noto negli studi sociologici sulla comunicazione come “distorsione comunicativa”: del senso e dunque anche dei fini reali della comunicazione. I dipendenti tendono, consape- volmente o inconsapevolmente, a distorcere, oltre che la forma, i contenuti della comunica- zione verso l’alto per effetto del prevalere ancora una volta sull’agire comunicativo di un agire rigidamente regolato da norme e gerarchie49.

Le cose cambiano quando ad essere messo in discussione è proprio – come si è visto nel primo capitolo – il potere burocratico tradizionale in nome di forme di potere allargato e reticolare e di «democratizzazione della democrazia»50: quando è la stessa logica strategica delle istituzioni a prevedere un maggiore coinvolgimento degli individui nell’agire lingui- stico e sociale delle istituzioni in vista della ricerca del bene comune – o a legittimazione del bene comune supposto e proposto; quando, nonostante il rischio sempre in agguato di “astute” strumentalizzazioni e manipolazioni51

, il rapporto tra istituzioni e individuo assume

47

Alcuni denunciano inoltre «la mancanza di una preparazione adeguata dei quadri dirigenziali in ma-

teria» e accennano all’interesse «a mantenere un linguaggio di casta». Dal Questionario di gradimento

somministrato al termine del corso di formazione tenuto presso la Provincia di Savona nell’anno 2009. 48

A. Gramsci (1947), Quaderni dal carcere, Einaudi, Torino, vol. I, 1975, p. 571. 49

J. Habermas, Theorie des kommunikativen Handelns, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1981. Trad. it.

Teoria dell’agire comunicativo, 2 voll., il Mulino, Bologna 1986 (in particolare vol. I). Habermas include tra

le forme di azione sociale, oltre all’«agire teleologico», all’«agire comunicativo» e all’«agire drammaturgico», quello «regolato da norme» e orientato da aspettative di comportamento.

50

B. de Sousa Santos (a cura di), Democratizzare la democrazia: i percorsi della democrazia partecipa-

tiva, Città aperta, Troina, 2003; U. Allegretti, Democrazia partecipativa: un contributo alla democratizza- zione della democrazia, in Id. (a cura di), Democrazia partecipativa. Esperienze e prospettive in Italia e in Europa, Firenze University Press, Firenze, 2010, pp. 5 e ss.

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È stato notato come «nell’epoca della rete le organizzazioni sembrano godere di uno strano destino: da un lato l’individualizzazione dell’azione sociale sembra suggerire la declinante fortuna di questa forma di azione

forme relazionali e dà vita a dialettiche comunicative improntate a una maggiore democra- ticità. È allora, nel momento in cui i circuiti decisionali si moltiplicano e si diramano e nel momento in cui anche l’“utenza” è chiamata a prendere parte alla definizione e alla pro- gettazione dei servizi ad essa destinati perché siano adeguati, che la concezione formale e strumentale dell’agire istituzionale disvela le sue insufficienze e inadeguatezze; ed entra in crisi anche quel razionalismo linguistico praticato all’insegna dell’agire amministrativo au- toreferenziale, oltremodo specialistico e proposto nella sua impersonalità e universalità.

Ed entra in crisi anche la concezione tecnocratica ed elitaria dell’agire istituzionale. Il governo meritocratico dei “re-filosofi” della Repubblica platonica, dei “custodi” o dei “guardiani” che dir si voglia, fondato sulla coniugazione di sapere e potere nelle mani di po- chi saggi ed esperti, sulla specializzazione delle competenze e delle tecniche necessarie a guidare la “macchina statale”, sulla legittimazione delle decisioni razionali anche se non proprio democratiche52, si rivela innanzitutto incapace di calcolare, controllare e prevenire le conseguenze rischiose del potenziale di razionalità rispetto allo scopo. Come ha messo in evidenza Ulrich Beck a proposito del sistema politico: «nella società democratica la politica non può essere solo razionale, ma deve essere anche emozionale. Le soluzioni efficienti so- no naturalmente necessarie, ma accanto a esse vi sono le passioni, la capacità di ascoltare, la giustizia, gli interessi, la fiducia, le identità, gli inevitabili contrasti; del resto si tratta di aspetti così intrinsecamente complessi che l’idea che vi sia un’unica soluzione ottimale […] è del tutto illusoria»53.

La lingua della burocrazia si scopre dunque inevitabilmente in contrasto con il valore dell’inclusione e della partecipazione democratica. Il sociologo tedesco intravede nel «mi-

collettiva, dall’altro c’è chi sostiene che la nostra è sempre più l’epoca delle organizzazioni e che non vi è più alcun ambito sociale che non sia interessato dall’apparato istituzionale». Rispetto a chi, nell’indagare le meta- morfosi delle organizzazioni e dei loro rapporti con l’individuo, pone in evidenza lo “scollamento” della di- mensione istituzionale da quella sociale e il maggiore “affrancamento” dell’azione dalla struttura sociale, c’è chi avverte che in realtà non trova reale smentita ai nostri giorni la stretta connessione tra dimensione struttura- le e vita sociale: dimostrazione ne è la contemporanea dilatazione dell’apparato organizzativo e i livelli di rigi- dità assicurati all’azione organizzativa dall’emergere di nuove forme di potere simbolico non meno vincolanti e pervasive di quelle tradizionali. Lo stesso processo di individualizzazione può essere dunque interpretato all’in- terno e alla luce di quello di istituzionalizzazione: in contesti fortemente istituzionalizzati, in cui le strutture for- mali evolvono sulla base di “miti razionalizzati” che identificano gli scopi istituzionali con quelli socialmente rilevanti, gli interessi dei singoli diventano risorse e premesse dell’agire istituzionale. Cfr. S. Capuano, L’a-

stuzia delle istituzioni. Trasformazione delle organizzazioni nell’era globale, Le Lettere, Firenze, 2009, p. 21.

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R. Dahl, Controlling nuclear weapons. Democracy versus guardianship, Syracuse, New York, 1985. Trad. it.: Democrazia o tecnocrazia?, il Mulino, Bologna, 1987 ; L. Gallino, Tecnici e tecnocrazia, in Diziona-

rio di sociologia, Utet, Torino, 1978, pp. 716-722 ; P.P. Portinaro, Aristocrazie artificiali. Governo dei custodi, elitismo, tecnocrazia, in «Filosofia politica», 1995, IX, pp. 389-406.

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U. Beck, Risikogesellschaft. Aufdem Weg in eine andere Moderne, Suhrkamp Verlag, Frankfurt a.M., 1986. Trad. it: La società dei rischio. Verso una seconda modernità, Carocci, Roma, 2000, p. 60.

racoloso linguaggio dell’appartenenza» la possibilità di recuperare il «senso civico» soffo- cato dalla burocratizzazione della politica e dalla razionalizzazione dei mondi sociali:

[…] la lingua è l’unica cosa che ci è rimasta. Nei simboli, che si creano e si raffor- zano nel discorso e nell’ascolto pubblico, si forma, sia pure in forma conflittuale, quel senso civico di cui molti, a quanto pare, sentono la mancanza. Per questo la lingua arti- ficiale della tecnocrazia […] è da considerarsi un cancro della cultura democratica. Il

linguaggio è il luogo e il mezzo in cui e attraverso cui si produce e si custodisce il so-