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Il ruolo dell'intersoggettività nella vergogna

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Academic year: 2021

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Corso di laurea in Filosofia e Forme del Sapere

TESI DI LAUREA MAGISTRALE

Il ruolo dell’intersoggettività nella vergogna

RELATORE

Prof.ssa Alessandra Fussi

CORRELATORE Leonardo Massantini

CANDIDATO Matteo Manca

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INDICE

Introduzione ... 3

1 In Defense of Shame ... 7

1.1 La vergona è essenzialmente sociale? ... 7

1.2 I problemi di questa teoria... 28

1.2.1 a) Vergogna privata ... 28

1.2.2 b) Vergogna sociale ... 49

1.2.3 c) Vergogna e Autonomia ... 72

2 Ripensare la Vergogna ... 99

2.1 The Unity Problem ... 99

2.2 Vergogna e paura sociale ... 102

2.3 Delusione di Sé e Vergogna: uno sguardo alla fenomenologia .... 107

2.4 Vergogna e Innocenza ... 118

2.5 L’ingrediente mancante ... 124

2.6 Vergogna e autovalutazione negativa ... 131

2.7 Umiliazione ... 140

2.8 Vergogna e presentazione di sé ... 147

3 Vergogna e Solitudine ... 159

3.1 Ripensare il rapporto tra Sé e Altro ... 159

3.2 La struttura del Sé ... 162

3.3 Vergogna e Autocoscienza ... 176

3.4 Oltre la dicotomia ... 181

Conclusioni ... 184

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Introduzione

Il principale interesse della filosofia è mettere in questione e comprendere idee assolutamente comuni che tutti noi impieghiamo ogni giorno senza pensarci sopra. Uno storico può chiedere cosa è accaduto in un certo tempo del passato, ma un filosofo chiederà "Che cos'è il tempo?". Un matematico può studiare le relazioni tra i numeri, ma un filosofo chiederà "Che cos'è un numero?". Un fisico chiederà di cosa sono fatti gli atomi o cosa spiega la gravità, ma un filosofo chiederà come possiamo sapere che vi è qualcosa al di fuori delle nostre menti. Uno psicologo può studiare come i bambini imparano un linguaggio, ma un filosofo chiederà "Cosa fa in modo che una parola significhi qualcosa?". Chiunque può chiedersi se è sbagliato entrare in un cinema senza pagare, ma un filosofo chiederà "Cosa rende un'azione giusta o sbagliata?"1.

Che cos’è la vergogna?

Tutti noi conosciamo quella dolorosa e atroce sensazione che si prova quando subiamo questa emozione: la nostra persona sembra essere posta improvvisamente in discussione, ci sentiamo svalutati, inadeguati, impotenti e il nostro unico desiderio è quello di scomparire dalla faccia della terra. Ma se è vero che non abbiamo alcuna difficoltà a capire quando viviamo questa esperienza emotiva, o a riconoscere quando sono gli altri a provarla, non troviamo altrettanto facile definirla concettualmente e individuare i motivi per cui è avvertita in maniera così drammatica e straziante. Quale aspetto della nostra persona è colpito quando ci vergogniamo? E che tipo di valutazione è insita in quest’emozione?

Chiunque abbia provato a indagarne la natura e i suoi processi sa bene che rispondere a queste domande è un compito tutt’altro che semplice. La vergogna è complessa e sfaccettata, può sorgere in forme e intensità differenti e manifestarsi in circostanze e contesti profondamente diversi tra loro. Possiamo vergognarci per

1 Thomas Nagel, What Does It All Mean? A very short Introduction to Philosophy, Oxford

University Press, New York, 1987, trad. it. A. Besussi, Una brevissima introduzione alla filosofia, Il Saggiatore, Milano, 1996, pp. 7-8.

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esserci comportati in maniera disonesta, o peggio, per aver rubato o ucciso, ma possiamo certamente provare vergogna anche per il nostro aspetto fisico, per la nostra condizione sociale o per l’esser stati sorpresi a fare qualcosa che avremmo voluto rimanesse una questione privata. Il suo dominio non riguarda quindi, come la colpa, esclusivamente la sfera deontologica, ma si estende anche in quegli ambiti o situazioni su cui non abbiamo alcun potere o responsabilità. Questo rende complicato capire in cosa realmente consista e in che modo contribuisca alla nostra vita sociale ed etica. Se in molte occasioni la vergogna sorge per aver disatteso un proprio ideale, un valore o uno standard personale, e quindi si mostra intimamente connessa alla nostra interiorità e alle persone che siamo e vorremmo essere, altre volte quest’emozione non nasce in relazione a cosa riteniamo giusto o sbagliato, ma semplicemente in risposta a quello che gli altri pensano o potrebbero pensare nei nostri riguardi. Non si capisce insomma se ci troviamo davanti ad un’emozione capace di mettere in luce l’autonomia dell’individuo e avere una valenza morale positiva, oppure di fronte ad una reazione emotiva connessa perlopiù all’apparenza e alla reputazione. A complicare ulteriormente il quadro vi è inoltre l’idea che, a detta di alcuni, non sarebbe semplicemente moralmente superficiale, ma in generale un’emozione dannosa e distruttiva poiché, diversamente dalla colpa, la quale ci induce a mettere in atto azioni riparatrici nei confronti dell’altro, non solo contribuisce alla nascita o allo sviluppo di stati depressivi o psicopatologici, ma promuove comportamenti antisociali e di distanza interpersonale. Lungi dall’avere un ruolo positivo nelle nostre vite allora, essa dovrebbe essere evitata in quanto eterodiretta e potenzialmente dannosa.

Negli ultimi decenni coloro che si sono occupati della vergogna, hanno sempre cercato di riconciliare questi due aspetti, e più in generale, di rispondere in maniera separata o congiunta a questi due interrogativi:

• La vergogna è un’emozione privata o sociale?

• Esercita una funzione positiva o negativa da un punto di vista morale?

Sebbene nel corso di queste pagine avrò modo di esprimere il mio punto di vista riguardo al secondo quesito, l’obiettivo principale di questo lavoro sarà

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quello di cercare e trovare una soluzione esaustiva al primo problema. Come vedremo, la teoria della vergogna più diffusa in letteratura sostiene che l’emozione dipende dal fallimento di una norma o valore che il soggetto avrebbe voluto esemplificare e, seppur con delle grandi differenze, autori come Kant, Gabriele Taylor e John Rawls, solo per citarne alcuni, si sono espressi in favore di questa tesi. Esaminando le cause che originano questa esperienza emotiva e ricercando quale parte del nostro Sé è in gioco quando ci vergogniamo, il mio proposito è quello di mostrare, contro questa posizione, come l’elemento essenziale dell’emozione non sia tanto un’autovalutazione negativa dovuta all’incapacità di personificare determinati standard o ideali, ma più precisamente un attacco alla nostra identità sociale.

Prendendo come punto di riferimento i lavori di Paul Gilbert, Heidi. L. Maibom, Aristotele, gli studi di Gruenewald Sally, S. Dickerson e Margaret E. Kemeny e molti altri, il mio proposito sarà dunque quello di far vedere come la vergogna dipenda fortemente della presenza dell’Altro e come essa stessa coincida con una reazione alla paura di poter essere esclusi o rifiutati socialmente.

Il metodo che utilizzerò per mostrare come una teoria sociale possa offrirci una visione unificata dell’emozione è il seguente: nel primo capitolo analizzerò la teoria della vergogna che Julien A. Deonna, Raffaele Rodogno e Fabrice Teroni presentano nel libro In Defense of Shame. A mio avviso questa rappresenta una delle più forti e accurate versioni della visione tradizionale: descriverla mi permetterà di comprendere e mettere in luce le ragioni di chi sostiene tale modello esplicativo e le strategie adottate per ricondurre tutti gli episodi di vergogna, compresi quelli che ad un primo sguardo non paiono riguardare l’interiorità del soggetto, al fallimento dell’esemplificazione di un proprio valore. Sebbene la soluzione proposta da DRT sia originale e per certi versi molto interessante, presenterò in tre sezioni quelli che a mio parere sono i motivi per cui non possiamo accettare il loro tentativo di ricondurre la vergogna ad una questione privata.

Nel secondo capitolo, partendo dall’analisi della fenomenologia, e corroborando la tesi sull’indispensabilità dell’Altro con riferimento a risultati empirici, il mio compito sarà quello di dimostrare come la vergogna sia

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strettamente connessa alla dimensione sociale e come essa risponda al bisogno fondamentale e innato di appartenenza e accettazione. Vedremo come questa teoria non solo trova una conferma dal punto di vista evolutivo, ma permette di dar conto e comprendere tutti quegli episodi che la teoria tradizionale è costretta a catalogare come casi irrazionali o di falsa vergogna. Nel corso della trattazione avrò modo di affrontare altre questioni di notevole importanza: mi chiederò ad esempio cosa distingue la vergogna dall’imbarazzo, cosa la differenzi dall’umiliazione, in che misura sia legata alla responsabilità personale, e spiegherò perché, come ci spiegano ad esempio Castelfranchi e Poggi, non richieda necessariamente un abbassamento dell’autostima o un’autovalutazione negativa.

Nel terzo e ultimo capitolo dedicherò infine la mia attenzione alla più grande critica che può essere rivolta a chi abbraccia una teoria sociale della vergogna: se l’Altro è indispensabile per suscitare questa emozione, come è possibile spiegare gli episodi di vergogna solitaria in cui nessuno spettatore, reale o immaginato che sia, è presente? Vedremo come questa obiezione, così come l’ostinato tentativo di ricondurre la vergogna all’autonomia del soggetto, si basa su una concezione individualistica del Sé che perde di vista la sua natura sociale e il ruolo essenziale che l’Altro ricopre nel processo di costruzione della nostra identità.

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1 In Defense of Shame

1.1 La vergona è essenzialmente sociale?

In In Defense of Shame2 Julien A. Deonna, Raffaele Rodogno e Fabrice Teroni si pongono un duplice obiettivo: da una parte quello di investigare la natura della vergogna e le caratteristiche che ne hanno da sempre supportato una sua visione eteronoma e pessimistica; dall’altra quello di dimostrare l’infondatezza di questa tesi, rivalutando l’importanza dell’emozione in questione e proponendo una nuova immagine in grado di restituirle autonomia e dignità.

La struttura del libro rispecchia narrativamente questi intenti e la metodologia utilizzata viene chiarita sin dalle prime pagine. Nella prima parte viene analizzata l’idea secondo cui la vergogna sarebbe un’emozione superficiale, implicherebbe una sottomissione alle opinioni altrui e, poiché incoraggerebbe atteggiamenti violenti e socialmente improduttivi, sarebbe ragionevolmente da considerare dannosa sia per noi stessi che per chi ci circonda. Nella seconda parte, DRT mostrano le fragilità delle motivazioni che hanno portato a questa concezione essenzialmente sociale della vergogna e ad una sua descrizione in termini negativi e immorali, sviluppando contemporaneamente un nuovo modello teorico capace di sfatare questi falsi pregiudizi e offrire invece una descrizione dell’emozione più sistematica e veritiera. Il processo di decostruzione e smantellamento della tesi considerata illegittima e priva di fondamento è quindi accompagnato dall’edificazione in parallelo di un account diametralmente opposto, che colloca le cause della vergogna non più fuori dalla sfera individuale, ma al proprio interno. Lungi dall’essere eteronoma e prodotta esclusivamente dalla disapprovazione altrui, essa si configura come quella personale e profonda esperienza di dolore, intrinsecamente legata all’incapacità del soggetto di esemplificare i valori ai quali egli è attaccato.

2 J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame: The Faces of an Emotion, Oxford

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Il nuovo ritratto della vergogna apre la strada alla terza parte del libro, dedicata alla rivalutazione del suo ruolo morale e sociale e alla necessità di lasciarsi alle spalle la visione pessimistica e distorta dell’emozione. Nella quarta parte vengono invece esplorate le implicazioni che i risultati teorici raggiunti nel corso del testo avrebbero nei contesti legali e di pubblico interesse.

Quello che farò in questo capitolo sarà concentrarmi esclusivamente sulle prime due parti e illustrare quelli che a mio parere risultano elementi problematici per abbracciare l’account non sociale tracciato da DRT.

Proprio per la sua chiarezza esplicativa, il modo migliore di comprendere la struttura argomentativa di In Defense of Shame è quello di ripercorrerne linearmente le tappe, lasciandosi guidare dagli autori dapprima nella comprensione delle ragioni che supportano e avvalorano l’opinione comune, dappoi nel rovesciamento di questo punto di vista attraverso l’introduzione e l’esposizione dettagliata di una nuova teoria della vergogna.

Per far crollare quella che per essi è semplicemente una visione distorta dell’emozione, DRT trovano necessario attaccarla alle basi, mettendo in dubbio la veridicità degli enunciati che la tengono in piedi. Se la vergogna infatti non gode di una buona fama e tra coloro che studiano le emozioni è considerata o moralmente irrilevante, o addirittura moralmente dannosa, ciò è dovuto all’accettazione incondizionata di due credenze, chiamate nel libro polemicamente “dogmi”.

Il primo dogma dipinge la vergogna come un’emozione essenzialmente sociale, superficiale ed eteronoma: il soggetto che si vergogna spesso si ritrova a sottostare ad uno standard imposto dall’esterno, non suo e col quale può essere completamente in disaccordo. La vergogna risulterebbe essere allora più legata a una moralità dell’apparire che all’idea di un soggetto moralmente autonomo che agisce in base a ciò che ritiene giusto. Il secondo dogma descrive invece la vergogna come strettamente correlata a istinti antisociali, mancanza di empatia, ira, ansia, tendenze depressive e comportamenti autodistruttivi; tutte caratteristiche dunque che portano a ritenere la vergogna non solo scarsamente connessa alla moralità, ma persino un’emozione immorale che sarebbe preferibile debellare.

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Per non rendere la trattazione eccessivamente lunga, in questa sezione non tratterò il tentativo degli autori di dimostrare la falsità del secondo dogma, ma mi dedicherò esclusivamente alla critica che essi muovono al primo. Dopo aver delineato e spiegato il punto di vista di DRT, mi soffermerò sulle perplessità e le motivazioni che mi portano a dubitare della definizione di vergogna proposta in In

Defence of Shame.

La disamina degli autori prende le mosse da una frase che ricorre spesso nei libri di filosofia e psicologia che si occupano dell’argomento: “la vergogna è un emozione sociale”. Questa credenza, che più di tutte ha contribuito alla creazione del primo dogma, necessita di essere compresa e spiegata.

DRT fanno intelligentemente notare che un enunciato del genere si presta a diverse interpretazioni e non è facile capire quale significato voglia effettivamente esprimere. Vuole forse dire che l’oggetto della vergogna è sempre sociale? Vuole sostenere che i valori rilevanti per la vergogna sono sempre acquisiti dalla società e dal contesto in cui viviamo? Oppure vuole suggerire che l’esperienza della vergogna si verifica sempre di fronte a qualcuno?

Facendo riferimento al carattere multidimensionale delle emozioni, DRT danno una risposta a ognuna di queste domande3.

Object Is the particular object of shame always social?

Genesis What role does society play in the acquisition of the values relevant for shame?

Cognitive Antecedent Do the reasons for which we feel have fundamental links with society?

Context Does shame always take place in a social context? Chiaramente coloro che sostengono il carattere essenzialmente sociale della vergogna non si riferiscono al suo oggetto; infatti, sebbene esistano situazioni in cui è possibile vergognarci per qualcun’altro, solitamente è un’emozione che si rivolge direttamente al nostro Sé. Né tantomeno sembrano alludere alla sua genesi: è vero che la comunità gioca un ruolo fondamentale

3 Le tabelle che seguiranno vengono adoperate da J. A. Deonna e F. Teroni nell’articoloIs Shame a Social Emotion, in (eds.) A. Konzelmann Ziv, K. Lehrer & H. B. Schmid, Self-Evaluation: Affective and Social Grounds of Intentionality, Springer, New York, 2011, pp. 193-212, il quale costituisce

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nell’acquisizione dei valori e degli standard per cui ci vergogniamo, ma ciò vale anche per molte altre emozioni e non si capisce dunque il perché la vergogna debba essere ritenuta più sociale ad esempio dell’ira, della colpa, dell’orgoglio o dell’indignazione. La risposta deve allora essere rintracciata sia nel contesto in cui questa emozione viene suscitata, sia negli antecedenti cognitivi4, ovvero le ragioni

e le cause che stanno alla base dell’autovalutazione negativa del soggetto che prova vergogna. Vengono delineate a questo punto cinque possibili tesi che potrebbero qualificare la vergogna come sociale:

Social theses about shame’s cognitive antecedents.

Thesis(1): shame requires taking an outside perspective on what we do or who we are.

Thesis(2): whether we agree or not with the negative judgement that is passed on us is irrelevant to the self-evaluation present in shame.

Thesis(3): shame is concerned with our standing vis-à-vis others.

Social theses about shame’s context.

Thesis(4): shame requires a real-life audience.

Thesis(5): shame requires at least an imagined audience.

La prima ad essere esclusa è la tesi (4), secondo la quale la vergogna richiede sempre uno spettatore reale. Nonostante la maggior parte delle volte ci si vergogna davanti a qualcuno, esistono indubbiamente molte situazioni in cui questo non avviene. Anche se gli autori non citino Sartre a questo proposito, è difficile non pensare al famoso esempio del guardone, dove l’uomo che spia dalla serratura, scambiando un rumore per una presenza, prova un’intensa vergogna al solo pensiero di esser stato visto5. Anche nella letteratura non è raro trovare esempi di vergogna solitaria; uno di questi ci è suggerito da Alba Montes Sanchez

4 In In Defense of Shame gli autori non utilizzano questo termine, che compare invece in Is shame a social emotion?, ma si riferiscono più in generale alla dimensione valutativa dell’emozione. 5 Vedi J. P. Sartre, L’Être et Le Néant, Gallimard, Paris 1943, trad. it. di G. del Bo, L’essere e il nulla,

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che, riportando un passaggio di Tolstoy, ci ricorda di quando Anna Karenina nel treno di ritorno da Mosca per San Pietroburgo, si vergogna nel ripensare al ballo con Vronsky:

«She sits alone in the train, with no audience, trying to fight her intense and anguishing shame by telling herself that her behavior to Vronsky was proper, that she did not betray her husband and nobody can blame her for anything. It is clear, however, that she does not dare to admit, even to herself, that a respectable and decent married woman like herself could have fallen in love with a dashing young officer like Vronsky. But who is the audience that is assessing her here in light of her unacknowledged feelings? And how to explain that she felt no shame at the party, while flirting and dancing with Vronsky in front of the high society of Moscow, and she only comes to feel it while she sits alone in the train?».6

Malgrado sia sola, nel momento in cui si rende conto di non essere stata in grado di gestire i suoi sentimenti e immagina cosa i presenti al ballo avessero potuto pensare di lei, Karenina si vergogna profondamente. In questa situazione l’emozione si genera acquisendo una nuova prospettiva su se stessi e sulla propria situazione, senza che sia richiesta la presenza reale dell’altro.

Un altro caso di vergogna retrospettiva7, in cui si nota chiaramente la non indispensabilità dello sguardo altrui, ci è presentato da Peter Goldie in The Mess

Inside.8 Durante una festa in ufficio un uomo completamente ubriaco balza sopra un tavolo e comincia a cantare a squarciagola una stupida canzone. Solo il giorno dopo, esauritisi gli effetti dell’alcool, prova una forte vergogna nel realizzare di essersi reso ridicolo davanti a tutti i colleghi.

Non è difficile insomma pensare a delle situazioni in cui il soggetto prova quest’emozione pur non essendo in compagnia di qualcuno. Questo spiega perché

In Defense of Shame gli autori non si soffermano troppo sull tesi (4), ma ci

invitano piuttosto a non pensare in maniera troppo rigida il concetto di presenza. Ѐ possibile infatti che nei casi di vergogna solitaria e retrospettiva, sebbene non ci

6 Cfr. Alba Montes Sánchez, Social Shame Versus Private Shame: A real Dichotomy?, PhaenEx, Vol.

8, No. 1, 2013, pp. 28-58, p. 29.

7 Va precisato che con questo termine non si intende il ricordare di un episodio di vergogna, bensì

sentire vergogna allo stato presente ripensando a fatti o situazioni passate.

8 Peter Goldie, The Mess Inside: Narrative, Emotion, and the Mind, Oxford University Press, 2012,

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sia nessuno in carne e d’ossa davanti a noi, l’emozione sorga perché l’altro viene perlomeno immaginato o richiamato alla mente. Questa ipotesi introduce la tesi (5) che al pari della precedente necessita, per poter essere accettata, di essere passata al vaglio.

Un’interpretazione forte di questo argomento la troviamo all’interno di

The Chrysanthemum and the Sword: Patterns of Japanese Culture in cui Ruth

Benedict sostiene9 che per provare vergogna è necessario perlomeno immaginare

uno spettatore critico. Per DRT il problema di questa tesi è che si mostra carente dal punto di vista fenomenologico: immaginare qualcuno che ci critica significa rappresentarci mentalmente la persona che esprime il giudizio nei nostri confronti e implica la possibilità di accedere a tale rappresentazione attraverso l’introspezione. Se così fosse però, dovremmo essere in grado di saper rispondere alla domanda “chi è che mi sta criticando?” e sfortunatamente bisogna riconoscere che il più delle volte non ne siamo capaci: «if I realize that I have been walking along all day with a rather large stain on my shirt, the shame I might feel can involve more or less articulated thoughts about others, but certainly not necessarily the picturing of any one person or audience in particular.»10. Dal momento in cui immaginare qualcuno presuppone conoscere l’identità di questo qualcuno, la tesi (5) non riesce dunque a spiegare quei casi in cui non riusciamo a dare un volto a colui che ci giudica negativamente. Inoltre, gli autori aggiungono, poiché talvolta immaginare uno sguardo critico non suscita per forza di cose l’emozione della vergogna, l’immaginazione11 oltre a non essere criterio

necessario, non si rivela essere neppure criterio sufficiente; dev’essere osservato infatti che quando ci troviamo in disaccordo col giudizio rivoltoci, siamo più inclini a provare emozioni come ira e indignazione. Una teoria della vergogna dovrebbe, invece, essere in grado di spiegare perché sorge quest’emozione piuttosto che un’altra.

9 Ruth Benedict, The Chrysanthemum and the Sword: Patterns of Japanese Culture, Houghton

Mifflin, New York, 1974 [1946], p. 222.

10 Cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., pp. 25-26.

11 «Alternatively, and this in our opinion more adequately locates the role of imagination in

shame, we may say that we engage in imaginative projects featuring an audience in order to explore and assess with emotional reactions fit witch situations and/or would be deemed adequate by a given audience.». Cfr. J. A. Deonna, F. Teroni, Is Shame a Social Emotion?, cit., p. 4.

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Quest’ultima considerazione ci pone davanti alla tesi (2) e chiude l’analisi delle due tesi analizzate finora. Dalle considerazioni fatte da DRT è emerso che l’audience, sebbene spesso determinante per suscitare la vergogna, non è comunque un elemento indispensabile per essa. Le ragioni per cui la vergogna è detta sociale non paiono dunque legate al contesto in cui questa emerge, quanto piuttosto alle motivazioni che sono in grado di suscitarla. L’indagine deve allora spostarli dalla sfera contestuale alla dimensione valutativa, di cui fanno parte la tesi (1), la tesi (2) e la tesi (3).12

La tesi (2) ci dice che la vergogna può essere suscitata indipendentemente dall’accordo o il disaccordo con la critica rivoltaci. Posso essere terribilmente deluso di un mio lavoro e vergognarmi nel constatare che i miei genitori ne sono altrettanto scontenti. Così come posso pensare di aver fatto un ottimo compito, eppure provare vergogna nel sentir il mio insegnante dirmi il contrario. Per i sostenitori della tesi (2) la vergogna è sociale perché presuppone che il soggetto aderisca a degli standard imposti dall’esterno; poco importa se concorda con tale standard o se lo percepisce contrario ai propri principi.

Se facciamo un passo indietro e riguardiamo alla tesi di R. Benedict, è possibile anticipare ciò che corrobora l’idea dell’eteronomia e ciò che invece invalida questa ipotesi.

Abbiamo appena visto come l’interpretazione dell’antropologa americana sia stata scartata da DRT poiché, oltre ad essere insoddisfacente da un punto di vista fenomenologico, risulta incapace di dar conto di quei casi in cui anche immaginando uno spettatore critico noi non ci vergogniamo. Mi permetto qui di aggiungere altri due motivi, che meritano di essere considerati per affrontare meglio la tesi (2), per i quali la teoria non può essere considerata adeguata. Il primo di essi è che la spiegazione di R. Benedict non copre quelle situazioni in cui ci vergogniamo anche se il giudizio rivoltoci non è negativo. Come ricordano

12 In In Defense of Shame gli autori chiamano queste Strands della concezione sociale della

vergogna. Questa dicitura non coincide esattamente con quella utilizzata in Is Shame a Social

Emotion?: Il primo strand riguarda la tesi (2), il secondo strand la tesi (1), il terzo strand coincide

con tesi (3). Per evitare confusioni utilizzerò esclusivamente la dicitura con cui ho iniziato l’analisi e mi rifarò esclusivamente alla tabella utilizzata da J. A. Deonna e F. Teroni in Is Shame a Social

Emotion, cit. Una breve analisi delle tesi (2) e (3) si trovano anche in J. A. Deonna, F. Teroni, Shame’s Guilt Disproved, Critical Quarterly, Vol. 50, No. 4, 2008, pp. 65-74.

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Gabriele Taylor e Bernard Williams «ci si può vergognare di essere ammirati dal pubblico sbagliato nella maniera sbagliata.»13. Il secondo errore consiste nel pensare che la valutazione negativa dell’altro riesca sempre ad innescare la nostra vergogna, facendo coincidere così questa emozione con il concetto di disonore. Ciò rappresenta uno sbaglio poiché l’infamia e la perdita della reputazione non sono un fenomeno emozionale ma una condizione sociale14 e il verdetto della comunità non sempre dà origine a esperienze di vergogna: un individuo potrebbe non vergognarsi qualora si dovesse trovare in uno stato di infamia così come un altro potrebbe provare vergogna per cose assolutamente non disonorevoli per la società in cui vive. Anthony O’Hear15 ci ricorda che nell’Iliade il personaggio di

Tersite non si vergogna nonostante venga pubblicamente screditato e osteggiato. Oppure si pensi al caso di immoralità di Diogene di Sinope16 o al rifiuto della morale corrente di Gesù Cristo e di chi nel corso della storia ha compiuto rivoluzioni sessuali17. Esempi di questo tipo mettono in crisi l’idea secondo cui la vergogna sia un’emozione che si basi, indipendentemente dalla nostra opinione a riguardo, sulla subordinazione del giudizio altrui.

La tesi (2), non riuscendo a spiegare perché nasca proprio quest’emozione e non altre, sembra quindi soffrire di una grave mancanza: se in caso di dissenso posso vergognarmi così come reagire con indifferenza, ira o disprezzo, cos’è che innesca la vergogna?

Richard Wollehim, uno dei maggiori sostenitori dell’eteronomia della vergogna, ha portato avanti una teoria in grado di eludere questa difficoltà, ed è proprio da questo autore che DRT avviano la loro disamina.

13 Bernard Williams, Shame and Necessity, University of California Press, Berkeley Los Angeles,

1993, trad. it. di M. Serra, Vergogna e necessità, Il Mulino, Bologna, 2007, p. 99. Gabriele Taylor criticò Sartre rimproverandolo di aver eccessivamente semplificato la nozione di audience. Servendosi del famoso esempio della modella di Scheler, mostrò come il giudizio dello spettatore non dev’essere per forza negativo; propose inoltre il caso di Cordelia per far notare come sia possibile vergognarsi anche non accettando la valutazione altrui. V. G. Taylor, Pride, Shame and

Guilt. Emotions of Self-Assessment, Oxford University Press, Oxford 1985, pp. 59-65.

14 Alba Montes Sánchez, Shame and the Internalized Other, Etica & Politica / Ethics & Politics,

XVII:2, 2015, pp. 180-199, p. 185.

15 Anthony O'Hear, Guilt and Shame as Moral Concepts, Proceedings of the Aristotelian Society

Vol. 77, 1976, pp- 73-86, p. 77.

16 Phil Hutchinson, Shame and Philosophy: An Investigation in the Philosophy of Emotions and Ethics, Palgrave Macmillan, 2008, p. 107.

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Influenzato dalle teorie di Freud, Wollehim sostenne l’idea secondo cui l’individuo, durante il corso della propria vita, interiorizzerebbe gradualmente delle figure che giocherebbero un ruolo fondamentale nel suscitare emozioni come colpa e vergogna:

«Internal figures must be capable of realizing an agency that can be, from the point of view of the person whom it regulates, heteronomous, and yet possessed of the appropriate authority: that is, it can, through the impact that it makes upon the person's sense of self, oblige him to adopt towards himself the attitude implicit in shame or guilt, alien though it may seem to him. Furthermore, internal figures must have a way, not just of instantiating, but also of reconciling, these two attributes. The authority that they wield must be one that is undiminished by heteronomy, and they do not have to compromise on their heteronomy to acquire the authority they need.[…]That internal figures can stand in for an agency that can be heteronomous derives from how they come into being. That they can exercise the appropriate authority derives from how they are phantasized.[…] it is because internal figures originate, through an incorporative phantasy, from external figures, that, once they have been internalized, they may well continue to address the person who now harbours them as an alien force. They may set themselves to make the person feel shame or guilt on occasions when the person finds no reason to do so.»18.

La storia della loro formazione conferisce a queste figure un’autorità al quale è impossibile resistere: indipendentemente dall’accordo o il disaccordo col loro giudizio, esse sono capaci di farci vergognare. Il motivo per cui ci sottomettiamo alla loro valutazione e non rispondiamo con ira o indignazione qualora la pensassimo diversamente, è dovuto all’elusività di queste figure, che anche se sono capaci di aver pieno controllo su noi stessi, sono senza volto e senza un’identità precisa. Wollheim quindi non solo sostiene la tesi (2), che dipinge la vergogna come un’emozione della subordinazione e di conseguenza come moralmente superficiale, ma abbraccia anche una versione moderata della tesi (5): a prescindere dal mezzo e dal modo in cui essa viene rappresentato, l’audience rimane indispensabile per suscitare la vergogna. L’immaginazione non è né sufficiente né necessaria per causare l’emozione, ma è semplicemente una delle facoltà attraverso la quale è possibile richiamare alla mente lo spettatore.

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L’altro di cui parla Wollheim ha tratti sfuggevoli, contorni non chiari e spesso ci parla con più voci. Egli è costitutivo del nostro Sé, è il prodotto delle nostre interazioni sociali, delle nostre esperienze e di un graduale e complesso processo di interiorizzazione.

La critica di DRT è indirizzata ancora una volta alla descrizione fenomenologica, considerata il tassello debole della teoria: sebbene Wollheim abbia ragione nel notare che quando ci vergogniamo ci sentiamo impotenti, incapaci di reagire, sopraffatti da una forza aliena su cui non possiamo niente, esistono episodi di vergogna in cui non viviamo quest’emozione come un assalto e conseguente sottomissione al giudizio altrui. Per comprendere la forza di questa obiezione basta pensare a quei casi in cui ci vergogniamo anche se il giudizio altrui è tutt’altro che negativo o a tutte quelle situazioni in cui l’emozione emerge pur concordando con la critica rivoltaci19.

Wollheim ha cercato di avvalorare la tesi dell’eteronomia facendo leva sull’autorità delle figure interiorizzate, ma purtroppo secondo DRT la sua descrizione fenomenologica non riesce a dar conto di quelle situazioni in cui la vergogna non è vissuta come assoggettamento ad una forza aliena e asservimento a giudizi che non ci appartengono. La teoria che verrà proposta in In Defence of

Shame sarà un’alternativa meno carica teoricamente, capace di spiegare anche i

casi di vergogna in cui concordiamo con l’altro e tutte quelle situazioni in cui il suo giudizio non pare essere determinante nel produrre l’emozione.

Gli autori passano a questo punto ad analizzare la tesi (3). Coloro che la sostengono ritengono che la vergogna sia un’emozione essenzialmente sociale per il ruolo che in essa gioca la reputazione. Ci vergogniamo quando sentiamo minacciata la nostra immagine sociale, quando percepiamo che la nostra privacy è stata violata, quando in generale appariamo agli occhi degli altri sminuiti o veniamo sorpresi in una situazione compromettente. Supponiamo di aver trovato un modo che ci permette di non pagare le tasse e potere farla franca: sappiamo di star facendo qualcosa di ingiusto e illegale, ma la cosa non ci tocca più di tanto e,

19 «In particular, is it really the case – as Wollheim seems to think – that when we happen to

agree with the relevant criticism, this agreement plays no role in explaining why we feel shame? Why say, for example, that it is only the charge of cowardice I am subjected to, and not my conviction that I behaved cowardly, which explains at least in part my shame?», cfr. J. A. Deonna e F. Teroni, Is Shame a Social Emotion, cit., pp. 5-6.

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anzi, ci sentiamo fieri e orgogliosi di aver trovato un metodo per infrangere la legge senza pagarne le conseguenze. Sfortunatamente il nostro piano si rivela un fallimento, veniamo arrestati e chiunque viene a scoprire della nostra malefatta. La nostra reputazione va in frantumi, proviamo una vergogna tale da non riuscire più guardare in faccia i nostri figli, i nostri amici, vorremmo solo scomparire e non essere chi siamo diventati agli occhi degli altri. Sapevamo di star facendo qualcosa di sbagliato, ma lo tolleravamo con estremo disinteresse; ora invece ci vergogniamo perché non riusciamo a sopportare l’idea che gli altri ci vedano come dei ladri e ci giudichino in malo modo.

Regolate dallo stesso principio paiono anche tutte quelle situazioni in cui viene esposto al pubblico qualcosa che dovrebbe rimanere confinato all’ambito personale: ovviamente nessuno crede ci sia qualcosa di sbagliato nel far l’amore con la propria moglie o nell’espletare i propri bisogni fisiologici, ma tutti proveremmo vergogna nell’esser visti in tali situazioni.

Per chi propugna la tesi (3) l’elemento essenziale al fine di suscitare l’emozione è quindi l’apparire. La vergogna nasce quando qualcuno ci vede in un modo in cui non vorremmo esser visti: o perché stiamo facendo qualcosa di inappropriato che se scoperto nuocerebbe al nostro status di membro della comunità, o perché veniamo sorpresi a far qualcosa di appropriato ma che vorremmo rimanesse una questione privata.

Questa diagnosi ha ovviamente importanti conseguenze dal punto di vista morale. La vergogna appare più sensibile a cosa gli altri pensano di noi piuttosto che al nostro giudizio su cosa e giusto o sbagliato fare. Se reagiamo con vergogna dopo aver commesso qualcosa di immorale non è perché ci rendiamo conto di aver fatto qualcosa che non avremmo voluto e dovuto fare, tant’è che se non veniamo visti non ci vergogniamo nemmeno, ma ci vergogniamo perché ci preoccupiamo della nostra reputazione e di come l’altro ci possa giudicare. Chi si vergogna è allora interessato all’apparire moralmente giusto e non ad esserlo davvero. Poiché la paura di essere giudicati negativamente funge da inibitore e ci trattiene dal commettere azioni ingiuste, essa non è del tutto irrilevante dal punto di vista morale, ma non ha comunque una connessione profonda con la moralità. Se essa non sorge per aver tradito la nostra responsabilità e autonomia, ma

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semplicemente dalla preoccupazione per la nostra immagine, si rivela essere un’emozione moralmente superficiale.

Così come la tesi (2), la tesi (3) si focalizza non tanto sulle condizioni che suscitano la vergogna (contesto), ma su una caratteristica della dimensione valutativa in grado di spiegare la particolare correlazione con l’audience. Tra le due c’è comunque un importante differenza che è necessario sottolineare: l’individuo che si vergogna, per i sostenitori della tesi (3), non acquisisce i valori o i giudizi altrui, ma vede semplicemente il suo onore minacciato. Ciò che rende la vergogna sociale non è più la subordinazione a uno standard imposto dall’esterno, ma piuttosto la realizzazione del soggetto che il suo comportamento, ciò che ha fatto o omesso, possa mettere in pericolo la sua reputazione facendogli “perdere la faccia”.

Sebbene l’idea riesca a coprire molti casi in cui proviamo quest’emozione, DRT non credono sia appropriato modellare una teoria sulla vergogna su di essi. È vero che noi spesso sentiamo vergogna quando ci rendiamo conto di star proiettando un’immagine negativa di noi stessi, ma non sempre l’opinione degli altri è il catalizzatore dell’emozione. Nell’articolo Is shame a social emotion J. A. Deonna e F. Teroni propongono un esempio che non sembra richiedere né la sottomissione al giudizio di un’audience (2), né pare legato all’apparire agli altri in una situazione in cui non vorremmo esser visti (3):

«A writer may happen to live in a society that despises intellectual achievements. He may well still desire to write a good novel and, when perceiving his inability, be ashamed of what he has written. Such an episode of shame has nothing to do with the way he defines himself socially, for he can be well aware of his actual social context.»20

Sam non si vergogna per paura di cosa possano pensare gli altri del suo scritto. Non c’è alcun interesse per la sua reputazione o di come possa giudicato da uno sguardo esterno. Addirittura, nella società in cui vive i successi intellettuali vengono disprezzati. Perché allora l’aspirante scrittore si vergogna?

20 Cfr. Ivi, p. 7.

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L’esempio non solo individua la debolezza della tesi (3), ma ci indica anche la strada che DRT vogliono percorrere: se effettivamente nessuno spettatore reale è presente, né Sam immagina qualcuno la cui opinione è importante per lui, allora forse l’altro non è poi così importante come si è sempre creduto. Sam, per DRT, prova vergogna per aver fallito nel difendere e soddisfare un proprio valore. Questa posizione rappresenta un duro attacco all’account sociale e a tutti coloro che sostengono il carattere eminentemente interpersonale della vergogna. Mostrare che la vergogna non è sempre connessa al modo in cui gli altri ci guardano e ci giudicano, costituisce il primo passo verso la costruzione di una nuova teoria dell’emozione. Se esistono delle situazioni in cui ci vergogniamo anche stando soli, allora la vergogna non può e non deve essere considerata eteronoma e superficiale.

Nell’articolo citato, per confutare l’idea che la vergogna sia connessa inevitabilmente alla sfera sociale e che implichi necessariamente una lesione alla nostra immagine, viene introdotta la distinzione tra vergogna superficiale e vergogna profonda. Alla prima categoria appartengono tutti gli episodi in cui ci si vergogna semplicemente per essere stati visti e/o per la paura che qualcuno possa giudicarci in malo modo per ciò che siamo o abbiamo fatto. Della seconda fanno parte tutti i casi in cui proviamo vergogna anche se nessuno è presente. La vergogna che possiamo provare per esser stati improvvisamente sorpresi senza vestiti nella nostra camera da letto, è radicalmente diversa da quella che potremmo provare nel ripensare alla volta in cui, anche se non visti da nessuno, abbiamo commesso un’azione moralmente ripugnante. Quest’ultimo tipo di vergogna viene classificata come profonda perché, anche se in assenza di testimoni, è vissuta generalmente in maniera più drammatica e dolorosa.

In In Defense of Shame questa differenziazione è espressa attraverso i termini di vergogna sociale e vergogna personale: «Shame is social when the relevant values concern the way we appear to others; it is personal when the self-relevant value has nothing to do with appearances.» 21.

21Cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit. p. 138. A mio parere la

terminologia sociale/personale è da preferire. Parlare di vergogna superficiale e vergogna profonda non solo non aiuta a capire la teoria di DRT, ma è addirittura fuorviante: come vedremo

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Per poter comprendere questa distinzione è doveroso introdurre la definizione di vergogna proposta dagli autori e spiegare brevemente in che modo l’emozione è per essi connessa alla nostra identità.

«Shame, we argue, consists in the subject’s painful experience of one of her traits or behavior as reflecting her own incapacity to meet, even minimally, the demands consubstantial with some of the values to which she is attached.».22

Per DRT la vergogna si configura dunque come quella spiacevole esperienza che il soggetto prova nel realizzare che una sua azione, un suo comportamento o un tratto fisico o della sua personalità, riflette l’incapacità di esemplificare, persino in misura minima, un valore a cui egli è attaccato.

Questa tesi trova il suo senso all’interno di una particolare concezione del Sé: ciò che dà forma alla nostra identità e traccia i confini del nostro carattere e della nostra personalità sono proprio i valori che scegliamo di ottemperare. Sono i nostri valori23 che danno forma alle nostre aspettative riguardo a noi stessi e agli altri, ed è solo attraverso essi che noi valutiamo i nostri comportamenti e quelli di chi ci circonda.

Quando in In Defense Of Shame si parla di vergogna personale, si fa riferimento a quelle situazioni in cui il soggetto fallisce nell’esemplificare valori che non hanno niente a che fare con la presenza o l’opinione di altre persone. Questo tipo di vergogna non richiede spettatori, non riguarda l’apparire o l’esser percepito e considerato da altri individui in una certa maniera. Se pensiamo all’esempio di Sam, l’altro non gioca effettivamente alcun ruolo. L’emozione non nasce perché il suo status sociale viene minacciato; egli si vergogna per non esser stato in grado di incarnare un ideale che sente suo. Ideale peraltro non condiviso dalla società in cui vive.

Coloro che propugnano la tesi (3) potrebbero comunque uscire da questa analisi indeboliti, ma non totalmente sconfitti: anche accettando l’esistenza di

a breve infatti, i motivi per cui la vergogna è sociale non sono affatto superficiali, ma radicati anch’essi nell’intimità e autonomia del soggetto che prova l’emozione.

22 Cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., pp. 16-17.

23 Sulla connessione tra emozioni e valori si veda Kevin Mulligan, From Appropriate Emotions to Values, The Monist, Vol. 81, No. 11, 1998, pp. 161- 188.

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situazioni in cui l’apparenza non è il catalizzatore dell’emozione, è innegabile che in molti casi l’emozione viene prodotta dall’esser visti, o anche solo dal pensare di esser visti.

Ѐ a questo punto che DRT compiono il passo cruciale che permette di ribaltare completamente il punto di vista ordinario: dopo aver mostrato che è possibile provare vergogna senza che nessun altro sia presente, essi ci spiegano come anche in quei casi laddove l’altro pare avere un ruolo fondamentale nel suscitare l’emozione, la vergogna è profondamente connessa all’autonomia del soggetto che la prova. Si prenda in considerazione questo esempio:

«Suppose it is summer and Sam cannot stand the insufferable heat in his office. He decides to lock his door, removes his shirt and trousers, and falls asleep. Some time later, he is woken up. He opens his eyes to realise he is face to face with the secretary of the department who stares at him in disbelief. Sam is deeply ashamed.»24

Questo è uno dei casi in cui la presenza dell’altro sembra assolutamente essenziale per potersi vergognare ed è davvero difficile poter pensare che l’esser visto e l’opinione altrui non costituiscano la causa dell’emozione. Tuttavia, fanno notare DRT, se questa viene suscitata, è solo perché il soggetto avverte la sua incapacità di esemplificare un valore per lui imprescindibile.

Ѐ vero che la vergogna di Sam dipende dall’esser stato visto dalla segretaria in una spiacevole situazione, ma quest’emozione può nascere solo se la reputazione e l’immagine di sé sono valori che egli ritiene fondamentali per la sua vita e per la sua carriera. Se al posto di Sam si fosse trovato un personaggio come Diogene di Sinope, disinteressato al pudore e non curante dell’opinione altrui, l’emozione non sarebbe mai sorta.

Un esempio di questo tipo rientra allora nella categoria di vergogna sociale. Ma sociale non significa, come vuole l’opinione comune, che l’emozione è generata da una subordinazione al giudizio altrui o a una preoccupazione per cosa gli altri pensano di noi. Tutt’altro, una spiegazione di questo tipo si focalizzerebbe infatti sulle conseguenze perdendo di vista la vera causa dell’emozione.

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La vergogna è detta sociale quando falliamo nell’esemplificare valori che sono intimamente legati al come appariamo allo spettatore.

Se desidero godere di una certa stima tra i miei colleghi di lavoro, è ovvio che sarò interessato a cosa essi pensano del mio conto e a provare vergogna nel caso la mia immagine, ai loro occhi, venisse irrimediabilmente macchiata. Ma, ci mostrano intelligentemente DRT, questo è possibile solo perché sono attaccato al valore della reputazione, che fa sì che io mi preoccupi del loro giudizio.

Gli autori riescono così a restituire piena autonomia al soggetto che sente vergogna: non è vero che essa è legata imprescindibilmente alla presenza altrui, tant’è che possiamo vergognarci per non essere riusciti a soddisfare ideali che non hanno niente a che fare con gli altri, ma anche nel caso in cui è presente uno spettatore, l’emozione è profondamente connessa all’identità del soggetto e al suo sistema di valori.

La tesi (3) è stata completamente debellata. Non solo non è in grado di dar conto di tutti quei casi in cui la vergogna non riguarda l’esser esposti alla presenza di uno spettatore (reale o immaginario), ma si mostra persino incapace di comprendere l’origine dell’emozione nelle situazioni in cui ci vergogniamo davanti a qualcuno. Come se non bastasse, coloro che sostengono questa teoria, spesso commettono il grave errore di etichettare come episodi di vergogna sociale casi di vergogna personale provata davanti a un’audience.

DRT ci tengono infatti a precisare che è possibile che un episodio di vergogna personale possa occorrere in pubblico. Non bisogna assolutamente pensare che ogni qualvolta ci sia un’audience la vergogna abbia a che fare col modo in cui appariamo all’altro:

«Suppose that, returning to his office, Sam meets his dear friend and colleague John in the corridor and invites him in. He gives John his writing of the day to read. While John is reading, Sam’s attention is focused on his face and, remembering his main argument, it suddenly dawns on him how foolish it is. Here, John, it is fair to say, is merely a trigger for Sam’s emotion. His presence plays no other role than that of making Sam apprehend his work in a bad light – after all, Sam might just as well have merely imagined his colleague reading his work, or imagined nothing at all. And note that for this very reason, the mere contextual presence of an audience is insufficient to explain the onset of shame. For it has no

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explanatory power; it is only when the subject himself comes to be aware of a conflict, aided or not aided by an audience, that he feels shame. When playing such an ancillary role, audiences are dispensable.»25.

Deonna e Teroni ci chiedono di immaginare una situazione in cui John, amico e collega di Sam, viene invitato da quest’ultimo a dargli un parere sul testo appena completato. Mentre John è immerso nella lettura, Sam realizza improvvisamente che ciò che ha scritto è terribilmente stupido e prova un’intesa vergogna pensando all’errore grossolano commesso. Nonostante questo caso possa sembrare un episodio di vergogna sociale in cui la presenza dell’altro gioca un ruolo fondamentale, gli autori spiegano come in realtà la causa dell’emozione non è riconducibile alla presenza di uno spettatore e alla paura della sua possibile opinione negativa. John innesca la vergogna di Sam dal momento in cui lo aiuta a realizzare che quello che ha fatto è in conflitto con quello che avrebbe voluto fare. Ma poiché Sam avrebbe potuto prendere coscienza di aver infranto un proprio valore anche senza l’aiuto di un’audience, il ruolo dell’amico è da ritenere puramente ancillare.

Un altro sbaglio da non fare sarebbe quello di credere che Sam si vergogna perché teme e immagina una critica da parte dell’amico. Proprio per scongiurare questa ipotesi, sempre in Is Shame is a Social Emotion?, viene presentato un caso in cui Sam sente vergogna nel momento in cui Mark, un collega per cui egli non prova stima, elogia con entusiasmo il suo scritto e si complimenta con lui per il lavoro compiuto. La vergogna è sentita in seguito a una valutazione positiva che genera in Sam la consapevolezza di aver tradito un proprio standard ed aver esemplificato un valore che lui disprezza.

Se l’account sociale dà un’importanza centrale alla valutazione interpersonale, ovvero al giudizio che l’altro ci rivolge, In In Defence of Shame questa credenza viene messa completamente in discussione: ciò che veramente genera vergogna, sia essa personale o sociale, non è più l’opinione, il giudizio, la critica, lo sguardo dell’altro, ma un’autovalutazione intrapersonale del soggetto che, grazie a un cambio di prospettiva, acquisisce nuova consapevolezza su di sé e sulle sue azioni.

25 Ibidem.

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DRT hanno esposto abbastanza ragioni da poter mettere in crisi la credibilità della tesi (3). Essa, ignorando molti casi di vergogna e fraintendendone altri, non può e non deve essere considerata una teoria adeguata e soddisfacente. Rimane a questo punto in gioco solo la tesi (1).

Anche accettando la posizione degli autori, i difensori di questa teoria potrebbero obiettare che, affinché il soggetto possa giudicarsi negativamente, deve in qualche modo “vedersi dall’esterno” e guardarsi con gli occhi di un altro. L’idea centrale di questa tesi è che la vergogna presuppone un passaggio da uno stato irriflessivo, in cui siamo totalmente coinvolti in una nostra azione, ad uno in cui acquisiamo, attraverso l’adozione di una prospettiva in terza persona, consapevolezza su chi siamo e cosa stiamo facendo. Si prenda in esame questo esempio:

«Sam has been writing for three hours now and it has gone quite smoothly. Transitions come naturally, examples come easily to mind, and paragraphs pile up on one another. The clock rings four o’clock, time for Sam’s afternoon walk; “well deserved” he thinks. An hour later, he is back at his desk and starts to read what he has been writing that day. The beginning is fine, if a bit quick. As he reads along, he spots a few weak links, one premise not really argued for. Nothing he cannot remedy though. And suddenly it dawns on him: the conclusion now seems very much to say the same thing as the premise that was not argued for. He thinks a bit more, re-reads some paragraphs, and now the entire argument appears circular. He reads some more, all the examples look contrived and badly written, the assertive tone unwarranted, the boldness pure defensiveness. Sam feels so ashamed.»26.

La presa di coscienza di Sam viene letta dai sostenitori della tesi (1) come il risultato di un cambio di prospettiva che il soggetto attua guardandosi dall’esterno. Per essi, affinché lo scrittore possa percepire la propria inadeguatezza e vergognarsene, deve per forza di cosa rappresentarsi27 un’audience e adottarne il punto di vista. Questo non significa, come vuole la tesi

26 Cfr. Ivi, p. 8.

27 Non si intende qui necessariamente la raffigurazione per mezzo dell’immaginazione. Ciò che è

indispensabile è il concetto d’altro, in qualunque modo esso si dia: «Wheter or not there is, or is imagined to be, such an observer is a contingent matter» Cfr. Gabriele Taylor, Pride, Shame and

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(3), che il soggetto si preoccupa di come possa apparire agli occhi altrui. Questa teoria non sostiene infatti che per vergognarsi è necessaria la valutazione di un reale o ipotetico spettatore. Quello che afferma è che la vergogna non potrebbe darsi senza la possibilità di guardarci attraverso lo sguardo di un altro.

Una lettura di questo tipo è stata proposta da Gabriele Taylor in Pride,

Shame and Guilt: emotions of self-assessment nel quale viene sostenuto che

sebbene la vergogna non richieda uno spettatore, sia esso reale o immaginario, implica necessariamente l’idea di poter essere visti da qualcuno in un modo in cui non vorremmo, o per dirla con Bernard Williams, «esser visti, in modo improprio, dalla persona sbagliata nella condizione sbagliata»28. Per Taylor dunque, nonostante nella vergogna sia il nostro giudizio e non quello degli altri ad essere determinante29, la consapevolezza che la nostra posizione è o possa esser vista da un osservatore in una certa maniera, costituisce l’elemento essenziale per produrre l’emozione. Ѐ importante sottolineare che il ruolo dell’altro non è ritenuto imprescindibile perché il soggetto teme di essere stato visto e giudicato da esso in un particolar modo; adottare una prospettiva esterna, e quindi di un’eventuale persona, è indispensabile perché permette di guardarsi con occhi diversi e poter percepire la propria inadeguatezza. L’acquisizione di un nuovo punto di vista costituisce quindi la vera e propria condizione di possibilità della vergogna.

Se Taylor, e più in generale chiunque aderisce alla tesi (1), avesse ragione nel considerare il concetto d’altro il vero catalizzatore della reazione emotiva, il tentativo degli autori di difendere l’autonomia della vergogna risulterebbe ovviamente fallimentare. Come allora DRT contrastano questa posizione?

Gli autori di In Defense Of Shame concordano nel ritenere che per potersi vergognare è importante guardarsi da una prospettiva esterna, ma non ritengono indispensabile abbracciare l’interpretazione sociale del fenomeno che, lungi da essere considerata l’unica possibile, non è ritenuta neppure corretta.

28 Bernard Williams, Shame and Necessity, cit. p. 96.

29 «.. this [identificatory] judgement is brought about by the realization of how her position is or

may be seen from an observer’s point of view. But there is no reference to such a point of view in her final self-directed judgement. It is because the agent thinks of herself in a certain relation to the audience that she now thinks herself degraded, but she does not think of this degradation as depending on an audience.». Cfr. Gabriele Taylor, Pride, Shame and Guilt: emotions of

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DRT sono convinti sia possibile spiegare lo shift of focus del soggetto che prova vergogna senza necessariamente ricorrere all’altro o a un suo concetto. Nell’esempio di sopra, Sam passa semplicemente da uno stato irriflessivo di coscienza in cui è immerso totalmente in ciò che sta facendo, a uno riflessivo in cui si auto-valuta negativamente dopo essersi reso conto di ciò che ha scritto. Non c’è alcun motivo di credere che questo cambio di prospettiva poggi sul concetto d’altro o che questo sia indispensabile per assumere un nuovo punto di vista su chi siamo e cosa stiamo facendo.

La lettura sociale pare fondata su un’assunzione di cui non si sente il bisogno: perché dovremmo ipotizzare che la vergogna di Sam dipenda dall’essere visto con gli occhi di uno spettatore esterno se abbiamo a disposizione una spiegazione più intuitiva?

Il punto degli autori è che possibile guardarsi sotto una nuova luce senza necessariamente assumere una prospettiva non nostra.

Certamente, spiegano DRT, molto spesso capita di provare vergogna proprio grazie all’immedesimarsi nella posizione di persone che ci vedono dall’esterno. Tuttavia, esistono delle situazioni, come quelli di vergogna personale, in cui questo non avviene. Ricordiamoci dell’aspirante scrittore: egli si vergogna per aver fallito nell’esemplificare un ideale non condiviso dalla società in cui vive. Ѐ improbabile, date le circostanze, che si sia giudicato attraverso lo sguardo di qualcun altro. Ѐ sufficiente pensare che egli, esattamente come Sam nell’ultimo esempio riportato, passi da un atteggiamento inconsapevole ad uno valutativo, grazie al quale si rende conto di aver disatteso un proprio valore:

«The main claim is that shame episodes are essentially characterized by the onset of a specific negative evaluative focus upon oneself in the light of what one is (was/will be) or is (was/will be) doing. The cognitive antecedents of shame exemplify a personal stance since they consist in an awareness of a conflict with one’s personal values. One is aware of a conflict between the (dis)value exemplified by what one is ashamed of and a value one is committed to. This conflict motivates an apprehension of oneself as unworthy or degraded, a central aspect of shame that qualifies as a shift in evaluative focus.».30

(27)

La scoperta di esser venuti meno a una propria aspettativa e la realizzazione improvvisa di aver tradito una parte di sé stessi non passano dunque necessariamente, come vuole Taylor e chi difende la tesi (1), attraverso l’adozione di una prospettiva non nostra. Non è questo l’elemento che caratterizza la vergogna, ma quel fenomeno che in In Defense Of Shame è chiamato Self-focus: divenire oggetti a se stessi ed assumere un atteggiamento riflessivo31 sul nostro operato e su ciò chi siamo. Pertanto, per DRT, non si dovrebbe parlare di change

of perspective quanto, come ha sottolineato Max Scheler, di turning to ourselves32.

La tesi (1), esattamente come le altre analizzate, è considerata dagli DRT inadeguata. Non è vero che per generare l’emozione è richiesto il concetto d’altro o che è imprescindibile guardarsi con gli occhi di una terza persona33. Ciò che rende possibile la vergogna è semplicemente uno spostamento dell’attenzione da parte del soggetto che, passando da un atteggiamento disinformato su chi è e cosa fa, a uno valutativo in cui prende coscienza del suo operato, scopre di star agendo contro uno o più valori per lui fondamentali.

L’analisi delle tesi che considerano la vergogna essenzialmente sociale è a questo punto completata. Il crollo di quest’ultima tesi sancisce definitivamente la distruzione del primo dogma. Passo dopo passo DRT hanno sgretolato i pregiudizi che attanagliano questa emozione, mettendo in luce gli errori di chi definisce la vergogna eteronoma e superficiale.

Sbarazzandosi di questa visione distorta, essi creano lo spazio per erigere una nuova teoria in grado di rivalutarne l’importanza e conferirle dignità. In In

31 Tuttavia, DRT precisano: «Although typical, the temporal sequence that starts with an attitude

uninformed by one’s values and terminates with a discovery that what one is doing is incompatible with them is not a necessary ingredient of shame. At least two kinds of situations that may elicit shame do not fit this model neatly. First, we can engage in an activity while aware that it conflicts with our values, such as when we are about to knowingly do something shameful. Second, the same is true of recurrent shame triggered by an enduring trait of ours.». Cfr.J. A. Deonna, r. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., pp. 149-150.

32 M. Scheler, Person and Self-Value: three essays, tr. Manfred Frings, Martinus Nijhoff Publishers,

Dordrecht, 1987. Si vedano in particolare pp. 15-16, dove leggiamo: «For in all shame there is an act of "turning to ourselves." This is especially clear when shame sets in all of a sudden after an intensive interest of ours in external affairs had prevented our being conscious and having a feeling of our own self.».

33 «If what is essential to shame is that we occupy a perspective informed by our values, then

thinking about how others would look at us is only one of the possible occasions for occupying it.». Cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., p. 152.

(28)

Defense Of Shame e Is Shame a Social Emotion? gli autori ci spiegano come la

vergogna emerga solo in relazione all’attaccamento a certi valori e alla mancata esemplificazione di essi. Anche se questi valori hanno spesso a che fare col modo in cui appariamo agli altri e alla nostra immagine sociale, il motivo per cui ci vergogniamo è pur sempre rintracciabile nella nostra autonomia e all’importanza che conferiamo ai nostri standard e ideali.

1.2 I problemi di questa teoria

La strategia adoperata in In Defense of Shame e in Is Shame a Social

Emotion? per promuovere un account non sociale della vergogna può essere

schematizzata nel modo seguente:

a. Dimostrare che esistono casi di vergogna autonoma in cui questa emozione emerge anche senza che l’altro abbia alcuna importanza.

b. Dimostrare che anche nei casi di vergogna sociale è il nostro attaccamento a un determinato valore e la nostra volontà di esemplificarlo che sta alla base della vergogna.

c. Dedurne quindi che la vergogna è un’emozione autonoma.

Quello che farò in questa sezione sarà mostrare perché, a mio parere, ognuno di questi punti risulta difficile da accettare. Esaminandoli uno per volta metterò in luce gli elementi più problematici della tesi esposta dagli autori e spigherò perché, secondo il mio punto di vista, essa non può essere considerata una valida teoria della vergogna.

1.2.1 a) Vergogna privata

Nell’analisi delle credenze che hanno contribuito alla formazione del dogma secondo cui la vergogna sarebbe un’emozione sociale, superficiale ed

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eteronoma, DRT pongono l’accento su quegli episodi in cui l’altro, reale o immaginato, non sembra giocare alcun ruolo. Per gli autori la grande debolezza dell’account sociale starebbe proprio nell’incapacità di comprendere tutte quelle situazioni di vergogna in cui nessuno spettatore è presente.

Nel corso del libro vengono proposti una serie di casi in cui l’emozione non sembra affatto essere causata dal sottostare a uno standard imposto dagli altri, né pare essere connessa a una minaccia della nostra immagine pubblica o alla paura di cosa gli altri possano pensare sul nostro conto. Tra questi, DRT, riportano il celebre esempio utilizzato per la prima volta da Anthony O’ Hear34: un artigiano potrebbe vergognarsi di aver fatto un pessimo lavoro senza per forza dover immaginare altri esperti del settore che lo criticano o deridono per l’opera prodotta. Perché, essi ci chiedono, dovremmo supporre che la sua vergogna dipenda da un ipotetico giudizio altrui o dalla sottomissione a standard che non gli appartengono?

DRT ci invitano a pensare che il motivo per cui l’artigiano prova vergogna ha a che fare esclusivamente con la sua incapacità di soddisfare un proprio ideale. Non c’è alcun bisogno di far riferimento ad un’audience né tantomeno pensare che la vergogna nasca necessariamente da una subordinazione a giudizi esterni o una preoccupazione per essi. È assolutamente lecito pensare che egli si vergogni per non esser stato in grado di veder realizzata un’aspettativa. Allo stesso modo, ci dicono gli autori, possiamo pensare che Jane, che in completa solitudine decide di accendere una sigaretta, violando così la promessa fatta a sé stessa di smettere di fumare, provi vergogna per aver disatteso un proprio valore. Così come non sembra implicare né timore per il proprio apparire o l’essere esposto, il fatto che Sam35, l’aspirante scrittore, si vergogni per aver riletto una novella da lui scritta poco tempo prima e aver realizzato di non essere bravo abbastanza.

L’esistenza di questi e altri casi di vergogna privata, non solo corrobora l’idea che possano darsi situazioni in cui il ruolo dell’altro non è indispensabile per innescare l’emozione, ma consente, come vedremo nel dettaglio più avanti, di iscrivere all’interno di una teoria non sociale anche tutti quei casi in cui la

34 Anthony O'Hear, Guilt and Shame as Moral Concepts, cit., p. 77.

35 Nome usato in Is Shame is a social emotion?, in In Defense of Shame il protagonista

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presenza di uno spettatore, reale o immaginario, è effettivamente determinante per far scaturire la reazione emotiva. Ammettere la possibilità dei primi consente infatti, col supporto di un’adeguata teoria dell’identità, di restituire autonomia al soggetto anche laddove esso pare non averne. Vedremo nel punto b) che tipo di interpretazione gli autori forniscano per questi episodi e in che modo tentino di salvarli dai pregiudizi della tradizione. Qui è invece importante chiedersi se davvero si può parlare di casi privati di vergogna e se le argomentazioni apportate da DRT possono effettivamente supportare questa tesi.

L’idea portata avanti nel libro, come abbiamo visto, è che l’auto-valutazione negativa che sta alla base della vergogna scaturisca dalla consapevolezza del soggetto di aver tradito un proprio valore e di aver esemplificato quello opposto:

«In shame, we apprehend a trait or an action of ours that we take to exemplify the polar opposite of a self-relevant value as indicating our incapacity to exemplify this self-relevant value even to a minimal degree.».36

Sam, per il quale lo scrivere bene è una cosa importantissima, prova vergogna nel momento in cui si accorge che quello che ha scritto è un argomento fallace e senza alcun senso. Improvvisamente egli si rende conto di non esser riuscito ad esemplificare un valore per lui fondamentale e, anzi, di aver incarnato l’opposto. Ciò genera una valutazione negativa per la quale si percepisce degradato, non all’altezza, privo di abilità.

Il primo quesito che dovremmo porci, stando a questa definizione e agli esempi fatti, è come sia possibile distinguere la vergogna da altre emozioni negative come l’ira, la colpa, il disprezzo (verso sé stessi) o la delusione. L’artigiano potrebbe essere semplicemente profondamente deluso da sé stesso, Jane potrebbe arrabbiarsi nei propri confronti per essere venuta meno a una sua promessa, così come Sam potrebbe disprezzarsi nel constatare di non essere assolutamente all’altezza. Non sarebbe nemmeno assurdo pensare che tutti e tre i protagonisti degli esempi possano aver provato un senso di colpa per aver tradito

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