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c) Vergogna e Autonomia

1 In Defense of Shame

1.2 I problemi di questa teoria

1.2.3 c) Vergogna e Autonomia

Lo scopo degli autori è quello di difendere la vergogna dall’accusa di eteronomia e dimostrare invece che, poiché questa dipende dal fallimento di un valore al quale il soggetto è attaccato, essa può, e anzi deve, essere ritenuta autonoma. Facendo notare come sia possibile ricondurre sempre l’emozione al sistema di valori che modellano l’identità dell’individuo, DRT cercano di dimostrare che l’idea per la quale la vergogna sarebbe essenzialmente sociale e superficiale non è altro che un preconcetto di cui dovremmo sbarazzarci. Nei due punti precedenti ho mostrato perché, secondo me, questo tentativo non può essere considerato efficace. In questa parte vorrei invece dedicare spazio ai motivi che mi spingono a credere che l’intera disputa poggi su dei presupposti poco chiari. Dapprima cercherò di fare un resoconto del perché la discussione sulla vergogna è sempre stata inscritta all’interno della dicotomia autonomia/eteronomia, successivamente mi soffermerò a spiegare perché ritengo più appropriato iniziare a pensarla al di fuori di essa.

Innanzitutto, ci dovremmo chiedere a cosa gli autori si riferiscono quando parlano di autonomia: nel testo non ci viene data una definizione e, come abbiamo visto nel punto b), non è facile capire cosa DRT abbiano in mente quando cercano di difenderla.

Il termine viene dal greco ed è costituito da αὐτός «stesso» e νόμος «legge» ed indica la capacità del soggetto di auto governarsi. Nell’antica Grecia si applicava principalmente alle entità politiche in grado di darsi da sé le leggi che ne regolavano l’agire e il funzionamento, non sottostando agli ordini e ai comandi impartiti da altre polis. Sebbene il termine compaia solo più tardi, già nella filosofia di Platone il concetto di auto-sufficienza e auto-determinazione guida la riflessione sulla tripartizione dell’anima e sulla felicità dell’individuo. Nella

Repubblica Platone fa spiegare a Socrate come la parte razionale dell’anima

(λογιστικόν) con l’aiuto della parte emozionale (θυμοειδές) deve tenere sotto controllo la parte concupiscente (ἐπιθυμητικόν)94. Nonostante la teoria di Aristotele si presenti per certi versi profondamente diversa, nell’ Etica

Nicomachea95 il ruolo conferito alla ragione appare il medesimo: essa deve

governare i bisogni e desideri e non permettere che l’individuo conduca una vita da schiavo, dipendendo da altre persone o dalle cattive inclinazioni.

Una visione simile, seppure con delle riserve, è possibile riscontrarla nell’etica cinica e stoica e dietro ai termini di αὐτάρκεια e ἀδιαϕορία, ideali dell’uomo saggio che, bastando a sé stesso, rimane imperturbabile davanti agli eventi del mondo96. L’idea per cui la felicità dell’uomo debba dipendere, per

quanto possibile, dal governo delle proprie passioni e dall’uso della ragione, si mantiene viva per tutto il Rinascimento e, passando per le filosofie di Cartesio e Spinoza, arriva a permeare il XVIII secolo diventando una colonna portante del pensiero illuminista. È in questo periodo storico che la coppia concettuale autonomia/ eteronomia si inserisce all’interno del dibattito filosofico ed acquisisce pian piano quell’importanza riscontrabile ancora oggi. L’introduzione dei termini la si deve a Kant97, che nella Fondazione della Metafisica dei Costumi contrappone l’autonomia della volontà, ovvero «il principio della dignità della natura umana e di ogni natura ragionevole»98 all’eteronomia della volontà, «cioè propria di una volontà che non si dà da se stessa la legge, ma la riceve da un impulso estraneo per una costituzione particolare del soggetto determinato a riceverlo»99. La prima è considerata dal filosofo tedesco il principio supremo della moralità, la seconda la fonte di tutti i principi spuri:

«L’autonomia della volontà è quel carattere della volontà per cui essa è legge a se stessa (indipendentemente da ogni carattere degli oggetti del volere). Il principio dell’autonomia è dunque: scegliere sempre in modo che le massime della propria scelta rientrino come leggi universali in questo stesso atto di volere. Che questa regola pratica sia un imperativo, cioè che la volontà di ogni essere ragionevole sia necessariamente legata ad essa quale

95 Si veda Aristotele, Etica Nicomachea, cit., p. 371, passo 1166a17-19.

96 Discorso analogo può esser fatto per i termini απάθεια (apátheia) e ἀταραξία (atarassia),

presenti anche nella filosofia Epicurea e Scettica. Esse sono gli stati a cui deve ambire il filosofo, governando le passioni e divenendo padrone della propria interiorità.

97 Va detto però che Kant è stato fortemente influenzato dal concetto di libertà presente negli

scritti filosofici-politici di Jean-Jacques Rousseau. Sul contesto nel quale sorse il problema dell’eteronomia in Kant e come egli cercò di risolverlo si veda Eric Entrican Wilson, Kantian

Autonomy and the Moral Self, The Review of Metaphysics, Vol. 62, No. 2, Dec. 2008, pp. 355-381. 98 Immanuel Kant, Critica Della Ragion Pratica, a cura di Pietro Chiodi, Utet, Torino, 2013, p. 93. 99 Ibidem.

sua condizione, non può essere dimostrato mediante la semplice analisi del concetto di volontà, perché si tratta di una proposizione sintetica. […] Quando la volontà cerca la legge della sua determinazione fuori dell’idoneità delle sue massime a una legislazione universale e, così facendo, esce da sé per cercare questa legge nell’àmbito di qualcuno dei suoi oggetti, ne deriva sempre l’eteronomia. In tal caso non è la volontà che dà legge a se stessa, ma è l’oggetto che dà la legge alla volontà mediante il suo rapporto con essa.»100

L’autonomia in Kant è quindi il fondamento della morale e indica il potere della ragione umana di conferire a se stessa le proprie leggi morali, lottando contro le proprie inclinazioni (impulsi, passioni e tutti i processi esterni alla legislazione della volontà) e prescindendo da qualsiasi condizionamento esterno (religioso, politico, sociale). Di contro «l’eteronomia non solo non fonda alcun obbligo, ma è invece contraria al principio dell’obbligo e alla moralità della volontà.»101

Negli ultimi quarant’anni il termine autonomia ha iniziato ad essere utilizzato anche con un’accezione diversa e spogliando il concetto dai presupposti metafisici Kantiani, l’attenzione si è spostata dall’ambito morale102 a quello

individuale; specie nei campi della Filosofia della mente, Filosofia dell’azione e Pedagogia103, ci si è chiesti sia quali proprietà psicologiche un soggetto dovrebbe possedere per poter asserire che egli agisca autonomamente, sia che tipo di peso bisogna conferire alle influenze culturali e sociali. La discussione contemporanea entra nel vivo grazie ai lavori di Gerald Dworking e soprattutto di Harry Frankfurt che, come abbiamo visto precedentemente, cerca di dare una risposta al problema sviluppando un modello gerarchico.104 L’idea che una persona sia autonoma

100 Immanuel Kant, Critica Della Ragion Pratica, cit., pp. 89-90.

101 Cfr. Ivi, p. 150. Ogni qualvolta ci facciamo guidare dagli imperativi ipotetici, finiamo per cadere

nell’eteronomia. L’uomo autonomo per Kant è libero perché vive secondo ragione, in accordo con gli imperativi categorici.

102 Con ciò non voglio dire che il dibattito in questo ambito sia stato abbandonato, anzi; la

posizione di Kant, insieme al concetto di autonomia espresso in On Liberty di John Stuart Mill, rappresenta tutt’ora un punto di partenza per le discussioni nel campo della Bioetica, del Diritto e della Filosofia Politica.

103 Si pensi, ad esempio, ai lavori di Piaget. Per una comparazione con Kant si veda Raquel Rosan

Christino, Piaget E Kant: Uma Comparação Do Conceito De Autonomia.Nuances, Marília, Vol. 3, Setembro de 1997, pp. 73-77.

104 A voler essere più precisi ciò che interessa primariamente a Frankfurt non è l’autonomia, ma il

problema del libero arbitrio. La teoria che egli sviluppa è risultato del tentativo di spiegare quando e perché possiamo considerarci effettivamente liberi. Nonostante ciò i suoi scritti, come

rispetto a una propria azione se e soltanto se vi è corrispondenza tra volizioni di primo ordine e volizioni di secondo ordine è stata soggetta a molte critiche e sin da subito la questione sulla possibilità di agire in maniera autentica ha dovuto fare i conti anche con il dilemma del libero arbitrio e la minaccia del determinismo. Non è ovviamente mia intenzione soffermarmi qui su tutte queste problematiche. Il mio compito è piuttosto indagare perché la coppia dicotomica autonomia/eteronomia ha iniziato ad essere utilizzata in riferimento alle emozioni e chiedermi se e quanto abbia realmente senso farlo.

Nella tradizione Kantiana nessuna inclinazione, emozione, sentimento e più in generale tutto ciò che non richiedesse una riflessione cosciente e razionale poteva essere considerata fonte di autonomia. Questa idea trovò una prima opposizione nella concezione romantica, per la quale la vera natura dell’individuo poteva manifestarsi solo nel momento in cui egli, liberandosi dalla ragione, dava ascolto alle passioni; fu invece completamente superata quando ci si accorse, a partire dagli anni ’70, che la dicotomia emozioni/razionalità doveva essere ripensata poiché le prime non solo non contrastavano la seconda, ma addirittura implicavano processi dello stesso tipo. Ci si rese conto che le emozioni contenevano un elemento cognitivo e giocavano un ruolo cruciale nell’elaborazione delle informazioni e nell’attività valutativa. Desideri, volizioni e sentimenti iniziarono per cui ad essere considerati non più ostacoli105 della ragione, ma sue parti integranti, e quindi anch’essi reputati stati mentali in grado di rivelare aspetti della personalità e dell’identità dell’individuo.106Prima ancora di arrivare a tale risultato però non tutte le emozioni godevano della stessa

anche quelli di altri studiosi che si sono occupati di libertà, sono stati presi in considerazione per la risoluzione del tema qui trattato. Va precisato che trattare i concetti di autonomia e libertà come sinonimi significherebbe commettere un errore. Per una distinzione delle due nozioni si veda Gerald Dworkin, The Theory of Practice of Autonomy, Cambridge University Press, New York, , 1988, pp. 12-15.

105 L’idea che le emozioni ostacolassero le funzioni cognitive è per esempio espressa in H. A.

Simon, Motivational and Emotional Controls of Cognition, Psychological Review, Vol. 74, No 1, 1967, pp. 29-39. Nel 1962 Schachter e Singer elaborarono la teoria cognitivo-attivazionale delle emozioni e posero per la prima volta in discussione il rapporto tra cognizione ed emozione. Pian piano si cominciò a capire che tra le due ci fosse un’interazione funzionale reciproca e che l’una non poteva funzionare senza l’ausilio dell’altra. Si arrivò a scoprire che l’attivazione delle emozioni presupponesse un processo cognitivo e che a sua volta questo fosse fortemente influenzato dall’esperienza emotiva del soggetto.

106 Per un inquadramento storico e teorica delle emozioni si veda Luigi Anolli, Le Emozioni,

reputazione. Sebbene fossero escluse dalla sfera della ragione e dell’autonomia, ad alcune di esse veniva riconosciuto un ruolo positivo, altre invece venivano considerate futili o nocive per l’individuo che le provava.

Per capire come e perché la vergogna sia stata associata all’eteronomia per la prima volta bisogna tornare ai tempi della seconda guerra mondiale, quando The Office of War Information degli Stati Uniti commissionò, per fini prettamente politici e militari, uno studio sulla società giapponese all’antropologa Ruth Benedict. I risultati della ricerca furono pubblicati nel 1946 in un libro intitolato

The Chrysanthemum and the Sword: Patterns of Japanese Culture in cui l’autrice

americana, attraverso la descrizione e la comparazione delle due nazioni nemiche, utilizzò per la prima volta la distinzione tra Shame Culture e Guilt Culture. Sebbene nel libro non compaiano precise definizioni di colpa e vergogna, dalla lettura di questo passo è possibile cogliere ciò che per la studiosa è la grande differenza tra queste due emozioni:

«True shame cultures rely on external sanctions for good behavior, not, as true guilt cultures do, on an internalized conviction of sin. Shame is a reaction to other people's criticism. A man is shamed either by being openly ridiculed and rejected or by fantasying to himself that he has been made ridiculous. In either case it is a potent sanction. But it requires an audience or at least a man's fantasy of an audience. Guilt does not. In a nation where honor means living up to one's own picture of oneself, a man may suffer from guilt though no man knows of his misdeed and a man's feeling of guilt may actually be relieved by confessing his sin».107

La vergogna, contrariamente alla colpa, viene presentata come un’emozione dell’esteriorità, che non scaturisce per esser venuti meno ad un proprio principio o a degli standard interiorizzati, ma si configura semplicemente come reazione alla critica, immaginata o reale, degli altri nei nostri confronti. Mentre è possibile rintracciare le radici della colpa nella nostra interiorità, nella nostra coscienza, in ciò che noi crediamo essere giusto e sbagliato, la vergogna appare essere superficiale e legata esclusivamente all’opinione altrui e alla nostra reputazione. Se si tratta allora esclusivamente di non “perdere la faccia”, la

vergogna manca della profondità morale della colpa e risulta essere un’emozione schiava dell’apparenza e del conformismo.108

Considerazioni di questo tipo e la contrapposizione tra una Shame Culture e una Guilt Culture influenzarono il saggio The Greeks and the Irrational pubblicato nel 1951 dal filologo, antropologo e grecista irlandese Eric Dodds. Nel libro in questione venne avanzata l’idea secondo cui la civiltà omerica e i modelli sociali e comportamentali illustrati nei poemi epici dell’Iliade e dell’Odissea, mettano in luce una cultura completamente diversa da quella che emerse nell’Atene democratica del V secolo. In particolare per Dodds, se nel mondo Greco arcaico «Homeric man's highest good is not the enjoyment of a quiet conscience, but the enjoyment of timè, public esteem […] In such a society,

anything which exposes a man to the contempt or ridicule of his fellows, which causes him to "lose face," is felt as unbearable»109, e quindi la più potente forza morale coincideva con la paura della sanzione esterna e del biasimo della comunità, nella civiltà classica il comportamento dell’uomo non appare più retto dalla disapprovazione del gruppo e non è più la vergogna l’emozione regolatrice dell’apparato sociale: non importa quello che pensano gli altri, il soggetto si scopre essere agente morale, libero, responsabile e trova dentro di sé i valori e le norme che disciplinano la sua condotta. Dodds sostenne quindi una transizione, sebbene graduale e incompleta (che culminerà con l’avvento del Cristianesimo), da una civiltà della vergogna a una civiltà della colpa e il suo allievo Adkins110 diede a questa trasformazione una spiegazione progressista, sostenendo come il

108 L’analisi della società Giapponese fatta da R. Benedict è stata criticata da Takie Sugiyama

Lebra in Shame and Guilt: A Psychocultural View of the Japanese Self, Ethos: Journal of the Society for Psychological Anthropology, Vol. 11, No. 3, Autumn 1983, pp. 192-209. Un altro studio che mette in luce i limiti della studiosa Americana è quello di Keiichi Sakuta, Kimiko Yagi e Meredith McKinney, A Reconsideration of the Culture of Shame, Review of Japanese Culture and Society, Vol. 1, No. 1, Inaugural Issue: Japan & The Japanese, October 1986, pp. 32-39. Millie R. Creighton invece, per quanto d’accordo nel ritenere le definizioni di colpa e vergogna fornite dalla studiosa problematiche e non esaustive, ha difeso Benedict da chi l’accusava di avere pregiudizi culturali e di aver postulato una superiorità morale della cultura americana rispetto a quella giapponese (mancando quindi di relativismo culturale). V. Millie R. Creighton, Revisiting Shame and Guilt Cultures: A Forty‐Year Pilgrimage, Ethos: Journal of the Society for Psychological

Anthropology, Vol. 18, No. 3, 1990, pp. 279-307.

109 E. R. Dodds, The Greeks and the Irrational, University of California Press, Berkeley, 1951, pp.

17-18.

110A. W. H. Adkins, Merit and Responsibility. A Study in Greek Values, Clarendon Press, Oxford,

passaggio da un sistema di valori incentrati sulla competitività e apparenza ad un modello culturale che fece della cooperazione e la responsabilità morale il suo centro, coincidesse con lo sviluppo evolutivo di concezioni etiche primitive, irriflessive e incoerenti che pian piano portarono alla nascita della coscienza morale moderna.

Tutto ciò venne messo in discussione nel 1993 in Shame and Necessity da parte di Bernard Williams, anch’esso allievo di Eric Dodds, che criticò il resoconto progressista considerandolo fuorviante sia da un punto di vista storico sia da quello etico111. Williams dimostrò attraverso l’analisi dei personaggi omerici e tragici come questi avessero capacità di agire, decidere, deliberare, sopportare e fossero già in possesso di un concetto di responsabilità112 che implicava rimorso e tentativo di riparazione. Criticando anche la tesi di Bruno Snell per cui l’uomo omerico non avesse ancora un Io come centro delle sue decisioni e non possedesse l’idea di identità personale, Williams mostrò come in Omero i personaggi si comportavano in tutto e per tutto come agenti morali e come il loro concetto di vergogna (aidos) fosse esteso e comprendesse alcuni aspetti di ciò che noi moderni chiamiamo colpa.

La cosa che a noi interessa è che Williams accoglie la rilevanza della nozione di vergogna per descrivere la civiltà greca, ma nel respingere la dicotomia semplicistica con la colpa e il resoconto progressista della moralità, egli rivaluta completamente l’importanza e i meccanismi dell’emozione113. Egli confuta

111 Williams non intende affermare che non ci sia stato alcun progresso dal mondo greco a quello

moderno, bensì sottolineare che tali differenze «non possono essere comprese al meglio se si pensa loro nei termini di una trasformazione intervenuta nelle concezioni etiche basilari di azione, responsabilità, vergogna o libertà.». Cfr. Bernard Williams, Shame and Necessity, cit., p. 14.

112 Così come quella di intenzione. Nonostante Omero non possedesse dei termini per designare

questi concetti, Williams mostra come ne avesse comunque l’idea. Servendosi di due episodi omerici (il primo su Telemaco e il secondo su Agamennone) l’autore da prova del fatto che nella parola Aitios è presupposto il nostro significato di intenzionalità e come in generale Omero fosse in possesso degli elementi essenziali della nostra concezione di responsabilità, vedi Ivi, pp. 63-91. Williams va contro il principio “lessicale” di Snell anche per quanto riguarda il concetto di decisione: nel capitolo Centri di Azione argomenta minuziosamente a favore della tesi per cui, sebbene nell’Iliade e nell’Odissea non compaia questo termine, la sua nozione è comunque presente. V. Ivi, pp. 31-62.

113 Per un bel resoconto su come Williams confuti l’idea che la colpa sia superiore moralmente

alla vergogna si veda Alessandra Fussi, Williams’s Defense of Shame as a Moral Emotion, Etica & Politica / Ethics & Politics, XVII, 2, 2015, pp. 163-179. Si veda anche veda Alessandra Fussi in Per

elegantemente le ragioni che hanno portato molti a ritenere la vergogna sintomo di egoismo, superficialità ed eteronomia e mostra come queste accuse siano perlopiù frutto di pregiudizi in favore della colpa. Contro Adkins fa notare come non sia vero che la vergogna compaia solo laddove vengono violate le virtù competitive, poiché i personaggi omerici non si vergognano solamente quando falliscono o vengono soverchiati dagli altri, ma i loro atteggiamenti sono detti anaidesis, svergognati, anche quando ad essere coinvolte sono virtù collaborative. L’idea di Adkins per cui gli uomini omerici erano interessati principalmente al proprio successo a spese degli altri nasce per Williams da una cattiva lettura dei testi: ad uno sguardo più attento si nota che «le strutture di aidos e nemesis sono essenzialmente intersoggettive e non servono solo a dividere ma anche a unire le persone.»114. L’accusa di egoismo è perciò assolutamente illegittima.

Per quanto riguarda l’accusa di eteronomia e superficialità Williams parla di due errori: uno stupido e uno più interessante. L’errore stupido consiste nel trascurare l’importanza dell’altro interiorizzato. Credere che le persone provino vergogna solo nel momento in cui vengano sorprese da uno spettatore che le giudica negativamente significherebbe fraintendere grossolanamente il ruolo che l’emozione gioca nelle nostre vite. Lo sguardo estraneo a cui la vergogna fa riferimento talvolta non è riconducibile a una presenza concreta, tant’è che essa può avere una funzione inibitoria anche quando si è soli e non c’è alcuna possibilità di essere visti:

«Se ogni cosa dipendesse dalla paura di essere scoperti, le motivazioni della vergogna non sarebbero assolutamente interiorizzate. Nessuno avrebbe un carattere e inoltre la stessa idea che ci possa essere una

cultura della vergogna, un sistema coerente per la regolazione della

condotta, sarebbe incomprensibile.»115.

114 Cfr. Bernard Williams, Shame and Necessity, cit., p. 98.

115 Cfr. Ivi, p. 99. John Sabini e Maury Silver nel sottolineare l’imprescindibilità