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L’ingrediente mancante

2 Ripensare la Vergogna

2.5 L’ingrediente mancante

Si potrebbe pensare che nel momento in cui Milena prova vergogna è perché crede, anche solo per un istante, che il suo accento sia effettivamente ridicolo, così come potremo dire che la donna nell’esempio di Fitzgerald dica una bugia perché, almeno in quella data circostanza, concorda coi colleghi sul fatto che comprare in supermercati di seconda fascia sia qualcosa di biasimevole. Un’interpretazione di questo tipo tuttavia, sebbene appropriata per molti episodi di vergogna, mostra tutti i suoi limiti se posta davanti a quei casi in cui proviamo l’emozione nonostante non crediamo che la valutazione dello spettatore nei nostri confronti sia veritiera. Si prenda ad esempio il seguente aneddoto di W. Ray Crozier:

«A personal example is when a fellow academic whom I did not know very well left me in charge of her bag. After a while I felt the need to go to the bathroom and I began to look through her bag to check if it contained anything valuable in order to decide whether or not it could safely be left, when she suddenly returned. Although she expressed neither surprise nor annoyance at my action I was immediately discomfited that she might think that I was looking for money or, perhaps even more shaming, taking a prurient interest in her private belongings.»181.

In un caso di questo tipo è davvero difficile poter pensare che per sentire vergogna l’uomo abbia dovuto credere, anche solo per una frazione di secondo, di essere un ladro o un disonesto; le sue intenzioni erano sin dal principio pure e disinteressate, per quale motivo le avrebbe dovute mettere in questione? Egli non dubita della sua buona fede, né concorda con l’ipotetico giudizio del collega sull’aver fatto qualcosa di sbagliato e disonorevole, eppure percependo lo sguardo del compagno di lavoro si vergogna e desidera a tutti i costi evadere da quella situazione. Ma se è vero che l’idea di aver agito correttamente e con buone motivazioni non abbandona mai il protagonista della vicenda, è chiaro che non è

181 Cfr. W. Ray Crozier, Self-consciousness in Shame: The Role of the ‘Other’, Journal for the

la condivisione della valutazione a giocare un ruolo indispensabile. Piuttosto, come scrive Crozier, sembrerebbe che «What is crucial is the actor’s attribution to the audience, the recognition and endorsement of the fact that his or her behavior is being, or can be, judged in a manner that reflects badly upon him or herself.».182

Come detto però, questo non sembra bastare. Talvolta possiamo riconoscere il fatto che il nostro comportamento potrebbe essere giudicato in malo modo dagli altri, ma l’idea che questi si facciano un’idea sbagliata nei nostri confronti non genera comunque vergogna.

Posto che l’elemento indispensabile per provare vergogna non sia una condivisione della valutazione, potremmo però ipotizzare che ad essere essenziale sia perlomeno la condivisione del valore sottostante alla critica ricevuta. Si prenda in considerazione l’esempio proposto da Castelfranchi e Poggi183. Essi ci chiedono di immaginare una situazione in cui un giovane, dopo aver salvato una ragazza dall’annegamento, nel tentativo di soccorrerla attraverso massaggio cardiaco e respirazione bocca a bocca, realizza che il suo atteggiamento può essere frainteso, e all’idea di poter essere accusato di star approfittando della situazione, prova una forte vergogna. Anche in questo caso, affermare che per provare vergogna il ragazzo abbia dovuto condividere, anche solo per un attimo, la valutazione dello spettatore giudicandosi come un molestatore, pare davvero poco convincente. È molto più probabile che il giovane fosse consapevole di essere completamente innocente e nonostante non abbia dubitato, nemmeno per una manciata di secondi, sulla buona fede della sua azione, ha provato vergogna nel rendersi conto che agli occhi dei passanti poteva esser visto come un poco di buono.

DRT concorderebbero su questo punto, spiegandoci come per provare vergogna non sia importante tanto l’accordo o il disaccordo rispetto alla valutazione, quanto al valore a cui essa fa riferimento. Essi potrebbero infatti giustamente far notare che negli esempi riportati, seppur sia vero che non c’è una condivisione con la valutazione dello spettatore, c’è comunque una condivisione

182 ibidem

183 Cfr. C. Castelfranchi & I. Poggi, Blushing as a discourse: Was Darwin wrong? In W. R. Crozier

(Ed.), Shyness and embarrassment: Perspectives from social psychology, Cambridge University Press, New York, 1990, pp. 230-251, p. 238.

col valore che guida il suo giudizio: nel primo esempio l’uomo che si vergogna concorda col collega che rubare o violare la privacy altrui sono azioni biasimevoli, così come nel secondo il ragazzo sa che approfittarsi di una ragazza indifesa è qualcosa di assolutamente deplorevole. È vero dunque che Milena può anche non essere stata d’accordo con l’opinione dei compagni, ma deve perlomeno aver concordato con loro sul fatto che l’apparenza (accento e aspetto) fosse un criterio valido per essere discriminata. Quindi, anche se lei non ha necessariamente pensato che il suo accento o aspetto fosse ridicolo, almeno in quel momento, proprio perché condivide il valore che veicola la critica, solo l’idea di esser vista dagli altri in un certo modo è abbastanza per farla vergognare. Allo stesso modo, direbbero DRT, la donna di cui ci parla Fitzgerald non ha dovuto per forza essere d’accordo con l’ipotetico giudizio dei colleghi nel ritenersi una poveraccia, ma aver convenuto con loro sul fatto che comprare in determinati supermarket è abbastanza per porla in una situazione di disvalore184.

Come accennato nella sezione precedente però, e come ci ricorda proprio Fitzgerald, talvolta capita di provare vergogna anche in circostanze in cui non solo non concordiamo con il valore che veicola il giudizio dello spettatore, ma addirittura lo troviamo scabroso e ripugnante. Si prenda in esame questo esempio:

Paolo è omosessuale. Lui non crede ci sia nulla di sbagliato in ciò ed anzi, vive la cosa con orgoglio senza nascondere a nessuno dei suoi amici il proprio orientamento sessuale. Nonostante ciò, non trova il coraggio di dirlo ai propri genitori e al solo pensiero di rivelare la verità, immagina la loro reazione disgustata e delusa e prova un’immensa vergogna. Paolo disprezza chi discrimina gli omosessuali e chi pensa siano diversi dagli altri, ma anche non concordando coi giudizi e i valori dei propri familiari, non tollererebbe il loro sguardo affranto, non sopporterebbe il peso di essere per loro un enorme fallimento.

Ѐ chiaro che Paolo non rispetta il valore in sé, ma rispetta comunque il punto di vista dei genitori. Oserei dire che il loro valore acquista importanza

184 Se vengo preso in giro perché non parlo bene la lingua Inglese, non devo necessariamente

concordare con il giudizio di chi mi critica. Posso provare vergogna senza mai mettere in dubbio le mie abilità linguistiche. Ciò che pare rilevante, per DRT, è l’accordo con lo spettatore del valore a cui si rifà la valutazione espressa, ovvero: è vergognoso non conoscere l’inglese ai giorni nostri. Se mi importa della sua opinione, solo l’idea che lui possa pensare che io sia ignorante è sufficiente per innescare l’emozione.

proprio perché ciò che lui vorrebbe è semplicemente accettazione da parte loro. Paolo sa che i genitori non hanno fatto le scuole e non hanno studiato, sa che hanno molti pregiudizi e sa che non può fargliene una colpa. Capisce quanto può essere importante per loro l’opinione dei vicini e degli amici, così come comprende quanto possano desiderare vedere il proprio figlio un giorno con una moglie e dei figli. Accetta il loro punto di vista, lo rispetta ma in nessun momento lo condivide. Il sistema di valori e di credenze di Paolo rimane saldo ma nonostante ciò qualcosa entra in crisi: si genera un conflitto irrisolvibile tra ciò che lui vorrebbe e una situazione che per quanto ingiusta gli è impossibile cambiare. Immaginare il momento della confessione, l’esser visto come qualcosa di sbagliato e perdere il legame con ciò che ama di più al mondo è una situazione insostenibile; Paolo ha il loro sguardo addosso che è forte come una sentenza, si sente impotente e vorrebbe solo sparire. Paolo si vergogna.

L’idea che per provare questa emozione debba esserci come minimo un accordo riguardo al valore che sottostà al giudizio, in questo caso non pare supportata dai fatti. Perché allora il ragazzo si vergogna?

Potremmo pensare che in un caso di questo genere l’emozione nasca in seguito a un conflitto interno tra le credenze dell’individuo: è vero che lui non ha alcun problema con il proprio orientamento sessuale, ma poiché è nato in un contesto omofobo in cui l’omosessualità è mal vista, il mondo in cui vive esercita in lui un’influenza tale da destabilizzare il suo valore. Seguendo Maibom potremmo dire che, poiché egli risulta ambivalente rispetto allo standard in questione, l’emozione che sorge è Recalcitrant185.

La stessa Maibom però ci avverte che non sempre possiamo spiegare questi episodi facendo riferimento all’ambivalenza rispetto a ciò che si crede realmente:

«That people are susceptible to being ashamed, without already accepting the relevant norms, ideals, or standards, is particularly clear when people move between cultures. In India, a common expression of friend ship for men is to walk hand in hand. Being transported to the USA and continuing the practice would likely

185 «A woman raised in a very religious household may come to think pre-marital sex is perfectly

acceptable, yet feel the sting of shame when she engages in it, because she has not quite relinquished the relevant norm.». Cfr., Heidi. L. Maibom, The Descent of Shame, cit. pp. 571- 572.

result in them being ashamed, given the widespread disapproval that they would encounter. The fact that they do not already accept the relevant standards does not insulate them against shame. Even people who change positions within a more-or-less uniform culture are easily ashamed about things they never before thought unacceptable or strange. People from traditional working-class areas (e.g. the East End, Brooklyn or New Jersey) who go to prestigious universities are frequently shamed by their peers into losing their accents. Not all of them think there is something wrong with their accents. Yet, they are uneasy with the widespread derision that they produce.»186.

Dunque, è possibile provare vergogna anche se rigettiamo completamente la valutazione e il valore sottostante. L’altro pare esercitare su di noi un’autorità che non può essere ricondotta semplicemente al contenuto del giudizio187.

Sembrerebbe piuttosto che per potermi vedere sbagliato e inadeguato agli occhi degli altri non abbia bisogno di concordare con il punto di vista dello spettatore, ma debba semplicemente rispettarlo. Ma vediamo le cose più nel dettaglio.

Sono convinto che per provare vergogna siano indispensabili due condizioni:

• deve importarmi dell’opinione di chi mi sta giudicando • devo considerare valido il motivo che genera inadeguatezza Già Aristotele nella Retorica sottolinea l’importanza della nostra opinione in merito a chi ci giudica:

186 Cfr., Ivi, p. 573. A pag 586, in nota, Maibom precisa che questo non significa tuttavia che la

vergogna non possa nascere per aver fallito norme e standard che sentiamo nostri: «This is not to say that a subject cannot come to accept norms and standards, and subsequently come to feel ashamed by falling short of them. However, if the standards and norms are not somehow connected, in the subject's mind, to the disapproval of others, failing to live up to them will not cause shame.».

187 Anthony O’Hear ha sostenuto che «being publicly shamed produces feelings of shame, as

opposed to feelings of embarrassment, resentment, rebellion or anger, only when one feels that the public disapproval is in some way in harmony with one's own feelings of how one would like to see oneself»(V. Anthony O'Hear, Guilt and Shame as Moral Concepts, cit. 77.). Così il motivo per cui in Omero Tersite non prova vergogna nonostante il biasimo della popolazione è perché non ne condivide i valori. L’esempio di Paolo, così come tutti i casi di vergogna in seguito a una discriminazione, ci fanno però notare che è possibile sentire l’emozione anche trovando scabrosi i valori che sottostanno alla critica. La posizione di O’Hear è stata criticata da Deonna e Teroni J. A. Deonna e F. Teroni nell’articolo Is Shame a Social Emotion?, cit., p. 10.

Poiché la vergogna [αἰσχύνη] è un’immaginazione [φαντασία] riguardante la perdita della reputazione [ἀδοξίαν], e motivata da questa stessa perdita, e non dalle sue conseguenze, e nessuno si preoccupa dell’opinione [δόξα] se non a motivo di coloro di cui si ha stima, necessariamente ci si vergogna delle persone che si tengono in considerazione. (Rhet. II 6, 1384a 24-26).

Non ci vergogniamo davanti a coloro di cui non ci importa l’opinione o non abbiamo stima. Ma più in generale, aggiungerei, non ci vergogniamo davanti a coloro da cui non vogliamo riconoscimento e accettazione. Parlare di stima restringerebbe enormemente il campo di coloro davanti ai quali possiamo provare l’emozione: potrei non avere una buona considerazione di mio padre (che reputo un ubriacone, un pessimo genitore, un’opportunista etc.) eppure avere molto a cuore il giudizio che nutre nei miei confronti; così come potrei provare vergogna davanti a persone che addirittura non conosco.

A seconda dello spettatore desideriamo forme e intensità di riconoscimento differenti. L’accettazione cioè si declina in maniera diversa a seconda di cosa la sancisce e cosa la compromette: davanti ad alcuni potrei provare vergogna nel rendermi conto di non essere ammirato, davanti ad altri per non aver ricevuto approvazione, davanti ad altri ancora per non esser stato preso in considerazione.

Il riconoscimento che desideriamo dagli sconosciuti non è certo quello che ci aspettiamo da nostra madre; eppure, la vergogna che proviamo davanti a lei per averla delusa, e quella che proviamo in ristorante davanti a sconosciuti a causa del vestito sporco, nascono esattamente dallo stesso bisogno: proteggere la nostra identità sociale.

Veniamo ora al secondo punto. Per quanto io desideri essere accettato da qualcuno, se non ritengo valido il motivo che sorregge la svalutazione, è più probabile che a sorgere non sia la vergogna, ma altre emozioni come ira, indignazione, risentimento, indifferenza etc. Ma cosa significa ritenere valido?

La validità del giudizio non deriva dal suo contenuto, ma dall’importanza che diamo all’opinione di chi lo pronuncia. Come ci insegna Calhoun, «the “weight” central to shame is not an epistemic notion. It is instead the “weight” that other people have for us when we acknowledge them as fellow social

participants. That an other’s view of us has weight in this latter sense is compatible with denying its truth.»188.

Non si tratta cioè di paragonare la verità dello spettatore alla nostra: se così fosse potremmo semplicemente ignorare chi ci attribuisce tratti che non pensiamo di possedere. L’autorità che conferiamo all’altro pare piuttosto dipendere dal fatto che questi condivide le nostre pratiche sociali e morali, e anche se il suo giudizio è irrazionale e non condivisibile, sentiamo comunque di riconoscergli una dignità.

Siamo propensi cioè a trattare gli altri come giudici attendibili, e per questo, al di là del contenuto della valutazione espressa, tendiamo a prendere in considerazione il loro punto di vista. Questo comporta che la validità che diamo a un giudizio non può essere data, ma semplicemente tolta. Credo quindi abbia ragione Sanchez quando, contro Williams e Calhoun, scrive:

«They seem to imply that nobody has the power to shame us

unless we give it to them. In my view, the reverse is true: everybody

has, to a higher or lesser degree, the power to shame us unless we

withdraw it from them through contempt or disengagement, for

example. The power to shame is not a privilege we accord to certain esteemed others, it is a default power we all have over each other to varying degrees in social relations, and completely withdrawing it from particular individuals or groups is typically an effortful endeavor (with the exception perhaps of some pathological cases, like those of psychopathy or other social impairments).»189

188 C. Calhoun, An Apology for Moral Shame, Journal of Political Philosophy, Vol. 12, Issue 2, 2004,

pp. 127-146, p. 139.