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2 Ripensare la Vergogna

2.7 Umiliazione

Alcuni degli autori207 che ho avuto l’occasione di studiare sostengono che

nell’umiliazione, a differenza della vergogna, noi non concordiamo col giudizio rivoltoci. Fussi ad esempio scrive: «È giusto da un lato distinguere il sentimento di essere umiliati dal sentimento di vergogna, perché nell’umiliazione non condividiamo mai il giudizio dell’altro su di noi.»208. A mio avviso, tuttavia, non è

Embarrassment, and Guilt, Midwest Studies in Philosophy, [Special Issue: Phenomenology of

Affective Life] Vol. 42, Issue 1, 2017, p. 208.

207 Si veda ad esempio Paul Gilbert, The evolution of social attractiveness and its role in shame, humiliation, guilt and therapy, British Journal of Medical Psychology banner, Vol. 70, Issue 2,

1997, pp. 113-147. Gilbert mantiene l’idea che la vergogna implichi un’autovalutazione negativa, sostenendo che se in questa emozione l’individuo si percepisce necessariamente svalutato, nell’umiliazione questo non è una condizione necessaria: «One may be humiliated in public and fear it, but in one’s own mind one remains good and it is the other who is turned bad. In shame one is privately and publicly bad.[…] humiliation is what can be done to a person, but he/she does not necessarily devalue the self (internal SAHP) in relation to the humiliator[…] Shame, on the other hand, is feeling that, in truth, there is something flawed, bad or worthless about oneself.», cfr., ivi., pp. 132-133. Si veda anche Alba Monthes Sanchez, Shame and the Internalized

Other, cit., p. 191. E Dan Zahavi, Self and Other: Exploring Subjectivity, Empathy, and Shame, cit.,

228.

208 Cfr., Alessandra Fussi, Per una teoria della vergogna, cit., p. 16. Fussi scrive: «Deonna,

Rodogno e Teroni insistono giustamente sul fatto che chi si sente umiliato non condivide il giudizio negativo di chi lo sta umiliando, mentre chi prova vergogna non si trova necessariamente in una tale situazione di conflitto», cfr. Ivi, p. 141. Io non mi trovo d’accordo con questa lettura. DRT specificano che nell’umiliazione, indipendentemente dall’accordo o meno con la valutazione ricevuta, il dolore sorge perché il soggetto considera il trattamento ricevuto, almeno in quella data circostanza, immeritato: «It appears indeed correct to say that there exists a distinctive emotion, feeling humiliated, that exhibits the two following features. First, this emotion arises from a perceived demeaning treatment by others, whether or not it is perceived to be intentional. Second, this treatment is construed as undeserved in the circumstances, and this is

the case irrespective of whether the subject agrees with the reasons—if any—that motivate the demeaning treatment.», cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., p. 118

(corsivo mio). Gli autori di In Defense of Shame sottolineano che è questo il vero discriminante tra le due emozioni anche in un ulteriore passo: «Feeling humiliated, rather than shame, appears to always involve the subject’s perception that he is the victim of demeaning and unjustified treatment by others», cfr., Ivi., p. 158. Come si vedrà, per quanto riguarda l’analisi dell’umiliazione io mi trovo perfettamente d’accordo con DRT: non solo concordo con loro nel

questo il vero discrimine tra le due emozioni, e non solamente perché, come appena visto, esistono degli episodi in cui ci vergogniamo pur non concordando con la valutazione dello spettatore e il valore che la sottende, ma anche perché non sono convinto che l’umiliazione presupponga necessariamente un disaccordo con la valutazione ricevuta. Se così fosse infatti, ogni giudizio negativo volto a ridicolizzarmi o a svalutarmi dovrebbe essere in grado di produrre umiliazione, ma ciò non è supportato dai fatti: se qualcuno cerca di ridicolizzarmi o svalutarmi in pubblico per qualcosa che non ho fatto potrei reagire con ira, così come potrei provare semplicemente indignazione davanti a chi mi etichetta e denigra per il colore della mia pelle. Come ci spiegano DRT, «we should also be careful in distinguishing the process that consists in humiliating a given individual from the emotion consisting in feeling humiliated.»209. Inoltre, a conferma che non sia il rapporto con la valutazione dell’altro a tracciare la distinzione, si pensi a quegli episodi in cui possiamo sentirci umiliati nonostante concordiamo col giudizio che ci è stato rivolto: posso convenire col mio insegnante di matematica nel pensare di non essere portato per la materia e nonostante ciò sentirmi umiliato dal modo in cui egli lo rimarca davanti all’intera classe.210

Io credo, e risultati empirici paiono confermare questa ipotesi211, che sia nella vergogna che nell’umiliazione il soggetto accetti (nei termini spiegati in precedenza) la svalutazione dello spettatore, ma se nella prima tale deprezzamento è percepito come in qualche modo giustificato, nella seconda è vissuto come ingiusto e immeritato:

pensare che il focus dell’emozione sull’ingiustizia del trattamento ricevuto, ma penso abbiano ragione anche quando scrivono che per sentirsi umiliati non è necessario percepire l’azione di chi ci umilia come intenzionale, né è importante l’accordo rispetto alle ragioni che hanno portato l’altro a degradarci.

209 Cfr., Ivi., p. 156.

210 Un esempio simile è proposto da Jeff Elison e Susan Harter «For instance, a student doing

poorly on a test because of her failure to study may see criticism from a teacher as valid, while also seeing its delivery as unfair, possibly because it is excessive, delivered in front of an audience, or personally derogatory in nature», cfr., Elison, J., & Harter, S., Humiliation: Causes,

Correlates, and Consequences, In J. L. Tracy, R. W. Robins, & J. P. Tangney (Eds.), The self- conscious emotions: Theory and research, Guilford Press, New York, 2007, pp. 310-329, p. 325. 211 V. Saulo Fernández, Tamar Saguy, Eran Halperin, The Paradox of Humiliation: The Acceptance of an Unjust Devaluation of the Self, Personality and Social Psychology Bulletin, Vol. 41, Issue 7,

«Together, these results confirm our main hypothesis that humiliation shares with shame and embarrassment the core appraisal of accepting (i.e., internalizing or assuming) a devaluation of the self. However, humiliation implies a second core appraisal that differentiates it from shame and embarrassment and relates it to anger: the acknowledgment that the devaluation that one has internalized is unjust. This second appraisal is typical of anger, an emotion that differs from shame and embarrassment in many crucial aspects.»212

Il disaccordo presente nell’umiliazione non riguarda il contenuto del giudizio o del valore che lo veicola, ma l’inappropriatezza riguardo il modo e/o la circostanza in cui è stato espresso213. In entrambe le emozioni avvertiamo un

rifiuto da parte degli altri, ma se nella vergogna la svalutazione può perlomeno essere compresa considerando la posizione di chi emette la critica, nell’umiliazione è la modalità attraverso cui viene espresso il giudizio ad essere percepita come oltraggiosa, spregevole e non giustificata214. L’ingiustizia non è

212 Cfr., Ivi, p. 985. L’articolo fornisce anche dei risultati che paiono mostrare che la differenza

principale tra umiliazione e ira è che quest’ultima non è caratterizzata dall’accettazione di una svalutazione del Sé.

213 In uno studio del 2010 sono stati condotti degli esperimenti che dimostrano proprio

come sia la modalità del rimprovero ad innescare l’emozione, non il disaccordo col giudizio dello spettatore. Anche nei casi in cui si è consapevoli di aver fatto qualcosa di sbagliato, non è per questo che proviamo umiliazione: «Our results strongly suggest that when people transgress they may well feel as though they deserve some form of punishment, but the pairing of publicity (especially orchestrated intentional publicity) with severe reprimand crosses a line in the minds of the wrongdoer and seems to push individuals from feeling like a wrongdoer to feeling like the wronged.», cfr., David J. Y. Combs , Gordon Campbell , Mark Jackson & Richard H. Smith,

Exploring the Consequences of Humiliating a Moral Transgressor, Basic and Applied Social

Psychology, Vol. 32, No. 2, 2010, pp. 128-143, p. 137. Su questo si veda anche Carlos E. Sluzki ,

Humiliation, shame, and associated social emotions: a systemic approach and a guide for its transformation, in Carlos Guillermo Bigliani, Shame and Humiliation A Dialogue between Psychoanalytic and Systemic Approaches, Routledge, London, 2013, pp. 57-103. Nonostante

Carlos E. Sluzki sostenga, contrariamente a ciò che penso, che la vergogna implichi un accordo con la critica dello spettatore, credo tuttavia vada nella mia stessa direzione per quanto riguarda l’umiliazione: «..humiliation emerges when, regardless of whether we did something wrong by commission or omission or even by being bad, we are being unfairly debased by the other.» Cfr., Ivi, p. 70.

214 Questo ci spinge ad interrogarci sul perché l’umiliazione condivide tratti con la vergogna ma

anche con l’ira: «Many features that overlapped with shame (e.g. looking like a fool, loss of self- esteem and/or honour, feeling weak and/or small) suggested that, like shame, humiliation is a personal experience, often stemming at least in part from a sense of inferiority. However, other features that overlapped with anger (e.g. being brought down, badmouthed, or belittled, betrayal, being put in second place, unfairness) suggested that, as is the case with anger, the responsibility for the negative situation may be placed with other people. It seems that the role of others is crucial in determining the amount of overlap with shame and/or anger.», cfr., Maartje Elshout, Rob M. A. Nelissen & Ilja van Beest, Conceptualising humiliation, Cognition and

avvertita quindi in relazione ad un giudizio che consideriamo non veritiero, ma all’inappropriatezza del come e quando questo ci viene indirizzato. Questo spiega anche il motivo per cui gli oggetti intenzionali e le risposte comportamentali siano diverse: nella vergogna non concordiamo necessariamente col punto di vista di chi ci giudica, ma trovando la sua opinione per certi versi legittima, sentiamo che una parte della nostra identità sociale è minacciata o compromessa. Il focus dell’emozione è sull’agente stesso e le reazioni difensive implicano un tentativo di sottrarsi all’esposizione attraverso la fuga o il nascondimento. L’umiliazione non è invece una forma di paura, ma la reazione emotiva di chi ha subito un attacco ingiustificato alla propria dignità: l’attenzione non è sulla nostra persona ma nei confronti di chi ci ha denigrati, ridicolizzati e svalutati nonostante non avesse alcune valide ragioni per farlo. Ma, appunto, la validità delle motivazioni non deriva dalla veridicità del giudizio: potremmo riconoscere di essere delle persone senza alcun gusto nel vestire, eppure sentirci profondamente umiliati se qualcuno ci deride per il nostro abbigliamento. Il fatto che qualcuno pensi, anche con la mia ammissione, che i miei indumenti siano di pessima fattura, non lo autorizza a schernirmi e a declassarmi. A prescindere dall’accordo o meno con il giudizio e valore dello spettatore, è l’attacco alla nostra persona che è percepito come gratuito, ed è per questo che l’emozione è solitamente accompagnata da ira e desiderio di vendetta215.

Il motivo per cui è possibile provare vergogna e umiliazione contemporaneamente allora è presto detto: la ragione per cui ci sentiamo umiliati infatti non corrisponde a quella per cui proviamo vergogna. Se durante una festa in famiglia un mio genitore dovesse raccontare dei fatti imbarazzanti riguardanti la mia vita privata, io non solo proverei vergogna davanti ai presenti, ma mi

Emotion, Vol. 31, No. 8, 2017, pp. 1581-1594, p. 1592. Stando a quanto sostengo in questo lavoro, potremmo dire che se nella vergogna troviamo la valutazione/valore dello spettatore in qualche modo giustificato, nell’ira troviamo questi o il modo in cui vengono espressi illegittimi. L’umiliazione pare condividere con la prima l’accettazione della valutazione/valore, con la seconda il disaccordo riguardo al modo (o le circostanze) in cui questa ci viene indirizzata. A sostegno di ciò si veda V. Saulo Fernández, Tamar Saguy, Eran Halperin, The Paradox of

Humiliation: The Acceptance of an Unjust Devaluation of the Self, cit., p. 985: «Humiliation and

shame experiences shared the appraisal of accepting a devaluation of the self, whereas humiliation and anger experiences shared the appraisal of injustice.».

215 V. M. A. Jackson, Distinguishing shame and humiliation. Dissertation Abstracts International,

sentirei profondamente umiliato dal suo atteggiamento: da una parte infatti le cose raccontate, effettivamente accadute, mi porrebbero in cattiva luce esponendomi al giudizio non lusinghiero dei parenti, dall’altra troverei assolutamente irrispettosa la scelta di intrattenere gli invitati ridicolizzandomi e mettendomi alla berlina davanti a tutti.

Nella vergogna il focus è sull’autorevolezza del giudizio. Nell’umiliazione sull’ingiustizia del trattamento ricevuto. Per questo non è una contraddizione pensare che le due emozioni possano sorgere insieme nonostante, come scrive Klein, «People believe they deserve their shame; they do not believe they deserve

their humiliation.»216.

Spesso gli studiosi217 nel trattare l’umiliazione pongono l’accento sull’intenzionalità di chi vuole indurci ad abbassare la nostra autostima e autovalutarci negativamente. Sebbene concordi nel ritenere questo un elemento importante, non credo si tratti di una condizione indispensabile218: un bambino può sentirsi umiliato nel constatare che ogni qualvolta gioca a calcio con gli amici viene scelto per ultimo al momento di fare le squadre. Nonostante l’azione sia volontaria non può dirsi intenzionale: lo scopo dei compagni non è certo quella di sottolineare la sua mancanza di talento e degradarlo pubblicamente, ma semplicemente di costruire il team con più probabilità di vittoria. Allo stesso modo il bambino può sentirsi umiliato se, durante la festa di compleanno dell’amico, nota che la mamma del festeggiato consegna il pezzo di torta a tutti i presenti tranne che a lui. Nonostante egli possa riconoscere che l’atto del genitore non fosse assolutamente premeditato, chi si sente umiliato può nondimeno continuare a trovarlo ingiustificato: la dimenticanza per quanto non intenzionale è avvertita come una mancanza di tatto che non si pensa di meritare.

216 Cfr. D. C. Klein, The Humiliation Dynamic: An Overview, The Journal of Primary Prevention, Vol.

12, Issue 2, 1991, pp. 93-121. p. 117.

217 Si veda ad esempio Zahavi : «…In that sense, it usually requires another agent, one with power

over you. To humiliate someone is to assert and exert a particular insidious form of control over the person in question, since one seeks to manipulate the person’s self-esteem and self- assessment», cfr., Dan Zahavi, Self and Other, cit., p. 227.

218 Gli studi empirici effettivamente rilevano una maggiore intensità dell’emozione nel caso di

intenzionalità, ma non negano che non possa prodursi anche in caso in cui essa non ci sia. V. David J. Y. Combs, Gordon Campbell, Mark Jackson & Richard H. Smith, Exploring the

Ciò che sembrerebbe essere imprescindibile allora non è che chi ci umilia deve farlo di proposito; è sufficiente che egli sia il responsabile della nostra caduta219, al di là dell’intenzionalità dell’azione.

Ma se il ruolo dell’altro nell’umiliazione è imprescindibile, come possiamo spiegare i casi di auto-umiliazione?

Si prenda ad esempio l’episodio storico conosciuto come L’umiliazione di

Canossa: Enrico IV decise di aspettare inginocchiato per tre giorni e tre notti

davanti all’ingresso del castello di Matilde nel disperato tentativo di ottenere la revoca della scomunica inflittagli da papa Gregorio VII. In merito a questo gesto spesso si sente dire che il re “fu costretto ad umiliarsi”, come se egli potesse allo stesso tempo essere colui che umilia e colui che subisce l’umiliazione. Chiaramente, descrivere l’accaduto in questi termini significherebbe darne un’interpretazione distorta. Poiché l’umiliazione prevede, e su questo tutti gli studi paiono concordare, la percezione di aver ricevuto un trattamento immeritato e ingiusto, il re non ha provato l’emozione in relazione a sé stesso auto- umiliandosi; ciò che ha fatto, semmai, è porsi in una situazione tale da poter essere umiliato.

Enrico IV era consapevole che il papa fosse disposto a revocare la scomunica solo se egli si fosse scusato e avesse dimostrato sudditanza. Lui sapeva che affinché potesse essere perdonato non aveva altra scelta che dimostrare ubbidienza e subordinazione. Ma mostrarsi in una posizione di manifesta inferiorità non corrisponde ad umiliarsi220: l’atteggiamento umiliante fu piuttosto

219 Taylor ha sostenuto che ciò che è centrale nell’umiliazione è la caduta da una posizione più

alta ad una più bassa. L’agente si autovaluta negativamente perché realizza di aver ambito troppo, di essere stato presuntuoso nel credere di poter essere chi non è. Per i motivi appena esposti io concordo nel ritenere che l’umiliazione presupponga effettivamente una caduta, ma non penso sia necessario che l’agente si giudichi negativamente: a mio avviso il focus riguarda il fatto che tale caduta è percepita come ingiusta e immeritata. V. G. Taylor, Pride, Shame and

Guilt. Emotions of Self-Assessment, cit., pp. 67-68.

220 A questo proposito sono convinto che ciò che Gilbert scrive riguardo alla vergogna valga anche

per l’umiliazione: «..inferiority positions that are desired, or at least not resisted (e.g. because one likes being looked after by superior others) are not associated with shame, social anxiety or depression. It is the involuntary and unwanted nature of the social position that is crucial.» Paul Gilbert, The Relationship of Shame, Social Anxiety and Depression: The Role of the Evaluation of

Social Rank, Clinical Psychology & Psychotherapy, Vol. 7, Issue 3, 2000, pp. 174-189, p. 175. Si

veda anche Paul Gilbert, What is Shame? Some Core Issues and Controversies, in Paul Gilbert, Bernice Andrews, Shame: Interpersonal Behavior, Psychopathology, and Culture, cit., p. 18: «the

quello del papa che, nonostante in quei giorni imperversasse una bufera di neve, decise di non aprire le porte del castello e lasciare che il re attendesse inginocchiato.

Ovviamente, il fatto che Enrico IV accetti di essere trattato in quel modo non significa che lo trovasse giusto o legittimo, altrimenti non parleremmo di umiliazione. Il re sapeva di star vendendo la propria dignità, ma sapeva anche di non avere altra scelta.

Alla luce di quanto detto perciò ritengo che parlare di autoumiliazione sia un’espressione impropria.

Giunti a questo punto, prima di andare avanti e spiegare come anche i casi di vergogna solitaria possano essere compresi all’interno di un account che vede la vergogna come l’emozione che ci segnala una paura sociale, è opportuno soffermarsi un attimo e chiedersi se sia possibile fornire delle risposte diverse da quelle che abbiamo dato. Possiamo pensare ad una teoria della vergogna che riesca a dar conto dell’importanza cruciale giocato dall’altro senza tuttavia privare il soggetto di ogni potere rispetto ad essa?

Una tesi che procede in questa direzione è quella di Velleman. Sebbene reputi molto interessante questa strategia non credo tuttavia ci aiuti a risolvere il problema della vergogna. La mia impressione è infatti (almeno da come io ho interpretato il testo) che il tentativo di Velleman di restituire un peso all’individuo che prova l’emozione, non gli permetta di oltrepassare i confini della prospettiva tradizionale e, di conseguenza, di risolvere le difficoltà che essa si porta dietro. Dedicherò la prossima sezione all’analisi di questa tesi, dopodiché completerò la teoria della vergogna che ho sostenuto fino a questo momento.

central aspect of inferiority of shame is that it is involuntary. If we voluntarily accept an inferior position and/or believe our superiors will be helpful to us, there need be no shame.».