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Oltre la dicotomia

3 Vergogna e Solitudine

3.4 Oltre la dicotomia

Come abbiamo visto all’inizio di questo capitolo la connessione tra identità sociale e vergogna è stata messa in luce da Aristotele, Darwin, Cooley294

punto di partenza, che vede la vergogna come una risposta ad un fallimento personale del soggetto. DRT in In Defense of Shame oltre a metterne in discussione gli esiti, mettono in risalto un altro grave problema metodologico, ovvero il fatto che l’emozione (shame) viene confusa con la predisposizione a provarla (shame- proneness), v. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In

Defense of Shame, cit., pp. 160 e seg. Per una panoramica e un’analisi più dettagliata del perché

questi studi non possono essere considerati validi si veda Alba Montes Sánchez, Intersubjectivity

and interaction as crucial for understanding the moral role of shame: a critique of TOSCA-based shame research, Frontiers in Psychology, Vol. 5, 814, July 2014.

293 V. Daniel Sznycer e coll., Cross-cultural invariances in the architecture of shame, Proceedings

of the National Academy of Sciences, Vol. 115, Issue 39, 2018, pp. 9702-9707. I ricercatori hanno sottoposto a un test quindici diversi gruppi sociali, provenienti da tutto il mondo e diversi per lingua, abitudini, ambiente e organizzazione economica. I risultati mostrano che a prescindere dalla diversità culturale, la vergogna sorge sempre in risposta ad una potenziale valutazione negativa. Ciò costituisce una prova al fatto che quest’emozione sia un prodotto evolutivo e conferma l’idea di Daniel Fessler a proposito della sua universalità. V. Daniel M. T. Fessler,

Toward an understanding of the universality of second order emotions. In A. L. Hinton (Ed.), Biocultural approaches to the emotions, Cambridge University Press, New York, 1999, pp. 75–

116. A sostegno del fatto che la vergogna dovrebbe essere considerata un’emozione non esclusivamente autocosciente si veda Margaret E. Kemeny, Tara L. Gruenewald, Sally S. Dickerson, Shame as the Emotional Response to Threat to the Social Self, cit., pp. 155-156; Margaret E. Kenemy, Tara L. Grunewald, Sally S. Dickerson, Social Function for Self-Conscious

Emotions: The Social Self Preservation Theory, cit., pp. 72-74.

294 «A self-idea of this sort seems to have three principal elements: the imagination of our

appearance to the other person; the imagination of his judgment of that appearance, and some sort of self-feeling, such as pride or mortification. The comparision with a looking-glass hardly suggests the second element, the imagined judgment, which is quite essential. The thing that

e molti altri autori. Ci si potrebbe chiedere allora perché la teoria tradizionale continui a trattarla come una mera faccenda privata, dipendente unicamente dal fallimento personale di un proprio valore. Io credo che le motivazioni risiedano, come accennato nel primo capitolo, nell’ostinato tentativo di soddisfare una nozione di autonomia che, fondandosi sul mito dell’autosufficienza e dell’autodeterminazione, fa affidamento su una nozione individualistica di soggetto. Questa ipotesi trova una conferma in The Ubiquity of Hidden Shame in

Modernity, dove Thomas Scheff scrive:

«Individualism is the dominant theme of all relationships in Western societies. This focus ignores the web of personal and social relationships that sustain all human beings. The myth of the self-sustaining individual, in turn, reflects and generates the suppression and hiding of shame and pride. Since pride and shame, or at least their anticipation, are the predominant emotions in social interaction, suppression supports the status quo, the myth of the self-contained individual […] Because modern societies produce alienation at many different levels, emotions and relationships are deeply hidden. Shame, in particular, becomes invisible, even for most social and behavioral researchers»295

In quest’ottica, riconoscere il carattere intersoggettivo dell’emozione significherebbe mettere in pericolo l’indipendenza e lo status di agente morale di colui che la prova. Abbiamo visto però che non c’è alcun motivo di rimanere devoti alla concezione che dipinge il soggetto come un’entità isolata e privata, e

moves us to pride or shame is not the mere mechanical reflection of ourselves, but an imputed sentiment, the imagined effect of this reflection upon another's mind. This is evident from the fact that the character and weight of that other, in whose mind we see ourselves, makes all the difference with our feeling. We are ashamed to seem evasive in the presence of a straightforward man, cowardly in the presence of a brave one, gross in the eyes of a refined one, and so on. We always imagine, and in imagining share, the judgments of the other mind». Cfr. Charles Horton Cooley, Human Nature and The Social Order, cit., pp. 96-97.

295 Cfr. Thomas J. Scheff, The Ubiquity of Hidden Shame in Modernity, Cultural Sociology, Vol. 8,

No. 2, 2014, pp. 129–141, pp. 132-133. Thomas J. Scheff ha sostenuto in vari articoli la tesi per cui, nonostante la vergogna sia l’emozione che proviamo di più nelle nostre vite, è solitamente invisibile in quanto tabù della società moderna occidentale. L’idea per la quale la vergogna costituirebbe uno spazio proibito, presa in prestito dallo psicologo Gershen Kaufaman, viene a detta di Scheff confermata dai lavori teoretici di Cooley, Goffman e quelli empirici di Lewis e Elias. Il camuffamento e l’occultamento della vergogna, così come l’alienazione, derivano per Scheff dal fatto che la modernità poggia su un individualismo che esorta all’indipendenza ed alimenta il mito dell’autosufficienza. V. Thomas J. Scheff, Shame in Self and Society, Symbolic Interaction, Vol. 26, No. 2, 2003, pp. 239-262. Su questo tema e sul ruolo che la vergogna giocherebbe nel conformismo e il controllo sociale si veda anche Thomas J. Scheff, Shame and Conformity: The

che anzi, dovremmo cominciare a pensare l’individuo come un essere interdipendente.

La dipendenza dagli altri, e più in generale il bisogno di essere accettati e riconosciuti, non dev’essere considerato un sintomo di debolezza interna296 ma, come ciò che Frankfurt chiama love, un bisogno fondamentale dell’essere umano:

«In the end, these are determined for us by biological and other natural conditions, concerning which we have nothing much to say. The origins of normativity do not lie, then, either in the transient incitements of personal feeling and desire, or in the severely anonymous requirements of eternal reason. They lie in the contingent necessities of love. These move us, as feelings and desires do; but the motivations that love engenders are not merely adventitious or (to use Kant’s term) heteronomous. Rather, like the universal laws of pure reason, they express something that belongs to our most intimate and most fundamental nature.»297.

Capire che il bisogno di accettazione è un care, ci spinge a chiederci quanto effettivamente abbia senso parlare di autonomia riguardo un’emozione che protegge una tendenza su cui non abbiamo potere. Non si tratta della capacità di esemplificare i propri valori e di raggiungere uno stato di indipendenza e autodeterminazione, ma di comprendere come l’importanza che gli altri giocano nelle nostre vite sia fortemente radicata nella nostra biologia.

296 La vergogna non gode di cattiva fama in quelle culture in cui l’imperativo culturale è quello di

creare armonia interpersonale, connessione con gli altri e integrazione sociale. Rappresenta un problema per l’autonomia laddove invece la motivazione predominante dell’agire dell’individuo coincide con l’indipendenza e la separatezza. Questo ci induce a pensare quanto la concezione del Sè possa influenzare i nostri processi cognitivi, emotivi e motivazionali. Ciò che qui mi preme sottolineare è che riconoscere il ruolo centrale dell’altro nella costruzione della nostra identità non significa minare alla soggettività dell’individuo: «Being dependent does not invariably mean being helpless, powerless, or without control. It often means being interdependent. It thus signifies a conviction that one is able to have an effect on others and is willing to be responsive to others and to become engaged with them. In other words, there is an alternative to selfishness (which implies the exclusion of others) besides selflessness (which is to imply the exclusion of the self or self-sacrifice): There is a self-defined in relationship to others (see Chodorow, 1978; Gilligan, 1982; Markus & Oyserman, 1988).», cfr., H. R. Markus, S. Kitayama, Culture and the Self:

Implications for Cognition, Emotion, and Motivation, Psychological Review, Vol. 8, No. 2, 1991,

pp. 224-253, p. 247.

Conclusioni

In questo lavoro mi sono proposto di analizzare l’emozione della vergogna, descriverne l’esperienza, chiedermi in quali circostanze solitamente sorga e cercare di comprendere il perché venga vissuta in maniera così dolorosa e drammatica. Per far ciò ho dapprima analizzato le idee di alcuni degli autori che recentemente hanno affrontato questo tema e, dopo averne messo in luce pregi e difetti, ho presentato e difeso quella che a mio avviso è la tesi che più delle altre si avvicina a catturare l’essenza di questa reazione emotiva.

Nel primo capitolo ho ripercorso la teoria della vergogna che Deonna, Rodogno e Teroni presentano in In Defense of Shame, e ho mostrato passo dopo passo le ragioni che mi portano a dubitare della sua validità.

A guidare le riflessioni di DRT è il tentativo di proteggere la vergogna dall’accusa di eteronomia e di far vedere come non sia vero che essa dipenda dal modo in cui gli altri ci vedano e valutino, ma che sia connessa, in ultima analisi, alla mancata esemplificazione da parte del soggetto di un valore che sente proprio. Il metodo attraverso il quale gli autori si propongono di perseguire questo scopo e restituire così autonomia alla vergogna, può essere schematizzato nel modo seguente: dapprima essi cercano di dimostrare che l’emozione può essere provata anche senza la presenza reale o immaginata di uno spettatore, dopodiché spiegano come anche gli episodi di vergogna in cui l’altro pare fondamentale, possano essere in realtà ricondotti all’interiorità del soggetto che prova tale emozione.

Ho delineato in tre parti i motivi per cui reputo questo procedimento problematico. Nel punto a) ho mostrato perché il fallimento nell’esemplificazione di un valore a noi caro non può essere considerato un criterio accettabile per identificare l’emozione della vergogna. Poiché quando siamo in solitudine e ci rendiamo conto di essere stati incapaci di personificare un nostro principio possono sorgere diverse reazioni emotive (come delusione di sé, colpa, auto disprezzo e così via), in che modo la definizione proposta da DRT ci aiuta a capire perché nasca proprio la vergogna e non altro? Analizzando le argomentazioni presentate dagli autori ho concluso che questo modello esplicativo non permette di tracciare adeguatamente i confini dell’emozione e differenziarla così dalle altre.

In particolare, ho mostrato come non consenta di distinguere vergogna e delusione di sé.

Nel punto b) mi sono invece concentrato su quegli episodi di vergogna che per DRT nascerebbero per l’incapacità dell’agente di personificare dei valori sociali. Ho spiegato perché a mio parere tutte le situazioni descritte dagli autori fanno sempre riferimento ad unico valore, quello della reputazione. Identificare l’interesse che nutriamo per il giudizio altrui come un valore espone però a delle difficoltà. Posto infatti che la reputazione non sia altro che il desiderio di proiettare una buona immagine di sé, viene difficile capire come possa essere ritenuta autonoma una persona che, considerando questo principio più importante degli altri, decida di condurre la propria esistenza in funzione del giudizio altrui. Questa non agirebbe in base a cosa ritiene giusto o sbagliato, ma solo a seconda del tipo di feedback che vorrebbe ricevere dalle altre persone. Ogni qualvolta questo individuo decidesse di vivere secondo questo valore infatti, non farebbe altro che mettere da parte sé stesso per conformarsi ai valori altrui e soddisfare così le loro aspettative. Ma poiché ricevere da fuori di sé la norma della propria azione significa essere eteronomi, considerare la reputazione un valore del soggetto che egli sceglie volontariamente di personificare, non pare altro che un

escamotage per aggirare il problema. In poche parole, ho spiegato come DRT,

riducendo la dipendenza dagli altri ad un valore in possesso del soggetto, non stiano facendo altro che autonomizzare il concetto stesso di eteronomia.

I problemi con questa strategia però non finiscono qui: anche volendo accettare che la reputazione sia un valore e che il soggetto che riesca ad esemplificarlo manifesta autonomia, la tesi esposta in In Defense of Shame non pare riuscire comunque a fornire una spiegazione soddisfacente per tutti quegli episodi di vergogna in cui l’emozione evidenzia una debolezza interna dell’agente. Perché dovremmo considerare autonoma una persona che si vergogna nell’esser giudicata per un motivo che non ritiene appropriato? Dove sta l’autonomia dell’individuo che prova vergogna per aver fallito un valore che in quel momento non intendeva esemplificare? E per quale motivo dovremmo dire che la reputazione è un valore del soggetto se l’individuo sottostà all’opinione altrui contro la propria volontà?

Ho mostrato perché l’operazione di far coincidere il desiderio di ricevere approvazione con un valore dell’agente si mostra in ogni caso inefficace. La vergogna è indice di eteronomia sia che il soggetto provi l’emozione per non essere riuscito ad esemplificarlo, ricevendo così disapprovazione, sia che si vergogni nonostante non volesse personificarlo (che si tratti di un valore o di un desiderio momentaneo) e, paradossalmente, anche nel caso in cui l’agente decidesse e riuscisse a vivere sotto la sua guida (specie se è stato acquisito acriticamente).

Date le enormi difficoltà della questione mi sono chiesto cosa effettivamente DRT abbiano in mente nel parlare di autonomia della vergogna e se in qualche modo ne stessi per caso travisando il significato. A che cosa ci si riferisce quando si parla di autonomia ed eteronomia? E per quale motivo la discussione della vergogna è inscritta all’interno di questo dibattito?

Ho risposto a queste domande nel punto c). Dopo aver ripercorso brevemente la storia del concetto ho indagato le ragioni per le quali il termine autonomia, da sempre associato all’autogoverno e alla regolazione di impulsi e desideri per mezzo della ragione, abbia iniziato ad essere applicato alle emozioni. Partendo dagli studi di Ruth Benedict ho mostrato come alle origini della cattiva fama della vergogna vi sia un confronto erroneo e fuorviante con la colpa. Si è sempre pensato infatti che la prima, diversamente dalla seconda, non faccia riferimento a standard e valori interiorizzati dal soggetto, ma nasca semplicemente dalla paura di essere giudicati negativamente da uno spettatore. Se quindi la colpa affonderebbe le proprie radici nell’interiorità dell’individuo e su cosa egli pensi sia giusto o sbagliato, la vergogna dipenderebbe piuttosto da ciò che pensano gli altri. Lo scopo perseguito da DRT In Defense of Shame è proprio quello di opporsi a questa linea di pensiero e mostrare come la vergogna, lungi dall’essere l’emblema del conformismo, non comporti il ricevere dall’esterno le regole del proprio agire, ma metta in luce ciò che per il soggetto ha davvero importanza. Ma poiché ricondurre la ricerca d’approvazione ad un valore in possesso del soggetto genera una moltitudine di problemi, mi sono chiesto se effettivamente DRT vogliano difendere una nozione di autonomia di matrice kantiana o se, più presumibilmente, stiano facendo riferimento a un concetto spoglio di connotati

razionalistici e fondato, non tanto su valori e atti deliberativi, ma su qualcosa molto vicino a ciò che Frankfurt designa con il termine Care. Se interpretiamo in questo modo la tesi espressa in In Defense of Shame, e riconosciamo così al termine valore un’accezione più ampia, è vero che la teoria di DRT acquista solidità, ma non è più chiaro cosa vogliano difendere quando parlano di autonomia della vergogna. È vero infatti che la vergogna rivela qualcosa di importante per il soggetto, ma questo è fuori discussione anche per tutte le altre emozioni. In che modo allora può esserci utile parlare di autonomia? Ho concluso questa sezione spiegando come a mio parere non sia necessario parlare della vergogna in riferimento alla dicotomia tra eteronomia ed autonomia, poiché all’origine di questa opposizione vi è una concezione eccessivamente razionalistica e individualistica di soggetto che, trascurandone la dimensione sociale, ci induce a travisare il significato dell’esperienza emotiva. Questo a mio avviso ci è suggerito da Bernard Williams, che spiegandoci come l’altro non sia qualcosa che ostacola la soggettività dell’agente, ma piuttosto ciò che contribuisce attivamente al processo di costruzione della nostra identità, ci invita a pensare ad una nozione di autonomia che abbia una valenza intersoggettiva e a lasciar fuori la vergogna da una disputa che non aiuta a far chiarezza sul fenomeno. La vita etica, e più in generale quella sociale, non si basa su una contrapposizione di entità isolate e indipendenti, ma da una fitta e costante rete di relazioni di dipendenza che stravolgono e modellano continuamente l’identità dell’individuo.

Nel secondo capitolo ho presentato quella che tra le varie teorie della vergogna presenti in letteratura, risulta a mio parere la più convincente. In opposizione al punto di vista tradizionale, per il quale l’essenza di questa emozione consisterebbe nell’incapacità dell’agente di esemplificare un proprio valore (o norma, ideale, etc.), ho sostenuto che ciò che sta alla base della vergogna non sia un fallimento personale del soggetto, ma la preoccupazione per cosa gli altri pensino sul suo conto. Il punto centrale della mia tesi è che la vergogna sia intrinsecamente legata all’innato bisogno dell’essere umano di ricercare accettazione e riconoscimento sociale e che si manifesti ogni qualvolta l’individuo percepisce di essere svalutato e giudicato negativamente. L’idea che quest’emozione si configuri come reazione alla paura di essere ostracizzato ed

escluso, oltre ad avere una spiegazione da un punto di vista evolutivo, permette di dar conto di una serie di episodi che il modello del fallimento dell’esemplificazione dei valori non riesce invece a spiegare. Innanzitutto, ho mostrato come un account simile trovi una conferma nella fenomenologia, troppo spesso ignorata da coloro che riconducono l’emozione ad una faccenda privata. Porre attenzione alle reazioni psicofisiche e alle risposte comportamentali non solo ci permette di cogliere il ruolo cruciale giocato dall’Altro, ma ci permette di comprendere la differenza tra i casi di vergogna solitaria e le situazioni in cui proviamo delusione per noi stessi. A caratterizzare la vergogna non è l’incapacità o il possesso di un’identità non voluta, ma più specificatamente una perdita di potere rispetto ad uno spettatore reale, immaginato o interiorizzato. Questo spiega perché nonostante le due emozioni possano sorgere allo stesso tempo, possono comunque manifestarsi singolarmente: se crediamo che l’aver tradito una nostra aspettativa non metta in pericolo la nostra identità sociale, potremmo provare delusione di sé ma non vergogna; di contro, poiché la perdita di status di membro non dipende per forza di cose da un fallimento da parte del soggetto, vergognarsi non sempre comporta una delusione nei propri riguardi. A tal proposito, ho spiegato come il riconoscere l’importanza dell’Altro consenta di spiegare tutte quelle situazioni di vergogna che chi abbraccia il punto di vista tradizionale è costretto ad etichettare come irrazionali. Infatti, chi sostiene la tesi per cui l’emozione dipende dalla mancata esemplificazione di un valore caro al soggetto, non può far altro che classificare come insensati o non appropriati sia quegli episodi in cui l’agente si vergogna nonostante il fallimento è dipeso da fattori fuori dal suo controllo, sia quelli in cui l’emozione sorge anche se nessun principio è stato disatteso. Questo perché, nel tentativo di riconoscerle un ruolo moralmente positivo, chi ha studiato la vergogna ha spesso assunto indebitamente il modello della colpa. Ma se noi abbandoniamo questo proposito e prestiamo attenzione al fatto, come ci ha insegnato Aristotele, che è possibile vergognarsi al di là dei nostri sbagli e delle nostre responsabilità, allora i casi che la teoria