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La struttura del Sé

3 Vergogna e Solitudine

3.2 La struttura del Sé

Se la vergogna nasce per aver fallito nell’esemplificazione di un valore al quale si è attaccati e il dolore riguarda fondamentalmente l’incapacità riscontrata dall’agente nel tentare di personificare l’ideale in questione, non solo rischiamo di confondere questa emozione con la delusione di sé, ma non curandoci delle

255 Cfr. Philippe Rochat, Others in Mind: social origins of self-consciousness, Cambridge

Universitary Press, New York, 2009, p. 37.

256 Si è detto che non sempre è un valore a guidare il nostro agire: se è un desiderio contrario alla

volontà ad esempio bisognerebbe chiedersi quanto di autonomo vi è in quell’azione. Lo stesso discorso può essere fatto nel caso in cui a guidare il mio comportamento sia effettivamente un valore ma che è stato acquisito acriticamente.

motivazioni e dei perché un individuo sia spinto a vivere la propria vita secondo determinati principi piuttosto che altri, si finisce per pensare che l’unica preoccupazione dell’essere umano sia quella di essere all’altezza dei propri scopi, al di là del loro contenuto e dei motivi per cui vorremmo realizzarli.

Quando gli autori ci dicono che la vergogna di Huck nasce per aver fallito nell’esemplificare il valore della riservatezza ci si aspetta di sentire che il dolore del ragazzo sorge per l’esser visto in una situazione compromettente. Ma DRT non ci dicono proprio questo: la fonte della sua sofferenza riguarda il giudizio che lo spettatore possa essersi fatto vedendolo in quell’istante solo ed esclusivamente perché questa preoccupazione coincide con un valore in suo possesso. L’interesse primario dell’agente ha a che fare con la capacità di concretizzare un ideale, indipendentemente dal fatto che questo preveda la presenza e una valutazione da parte di altri. In tutti gli episodi di vergogna sociale citati dagli autori, l’altro è ridotto ad avere semplicemente un’importanza contingente: nei casi di Milena e Luc ciò che è messo in risalto da DRT è la sensazione di inadeguatezza che i protagonisti provano per non esser stati in grado di realizzare un loro ideale (aspetto e apparenza nel primo caso, costumatezza davanti alla sorella nel secondo) e il timore di cosa lo spettatore avesse potuto pensare di loro in quella circostanza risulta essere piuttosto una conseguenza di questo fallimento. L’autovalutazione negativa del soggetto infatti, non riguarda direttamente l’idea che l’altro si sia fatto una determinata idea di noi stessi, che risulta piuttosto essere l’effetto inevitabile della mancata esemplificazione, ma l’incapacità di non esser riusciti ad apparire in un determinato modo. Il focus dell’agente rimane sempre e comunque sull’errore, e solo indirettamente su ciò che questo potrebbe comportare e gli effetti che provoca su come l’altro ci vede. Ma tralasciando che il valore che non si riesce a personificare talvolta non è scelto dal soggetto (come visto precedentemente) e che non sempre il motivo per cui non si riesce a concretizzarlo è responsabilità dell’agente (e quindi non si capisce per il quale uno si dovrebbe auto-valutarsi negativamente per la propria inabilità), l’argomento pare avere comunque qualcosa di strano. Il motivo per cui noi decidiamo di (o ci ritroviamo a) vivere la nostra vita secondo il valore della riservatezza, della costumatezza, dell’estetica e così via è perché siamo interessati all’opinione che

gli altri hanno di noi. Ci compriamo dei bei vestiti, ci comportiamo con garbo e ricerchiamo la privacy in alcune situazioni perché temiamo di poter esser mal giudicati da persone di cui ci importa il parere. Se veniamo sorpresi senza indumenti, facendo un gesto volgare o criticati per un brutto abbigliamento, la nostra vergogna nasce perché l’altro ci vede in un modo in cui non vorremmo esser visti. Il dolore concerne il fatto che lo spettatore possa essersi fatto un’idea di noi che a noi non piace ed è questo su cui l’agente concentra la sua attenzione. Nonostante DRT ammettano la preoccupazione dell’essere umano per il giudizio altrui, quando affrontano gli episodi di vergogna sociale non danno esattamente questa spiegazione. Il perché tendiamo ad abbracciare determinati principi scompare e le motivazioni diventano completamente irrilevanti: l’inadeguatezza provata durante la vergogna non è propriamente rispetto allo spettatore, ma riguarda il suo giudizio solo in quanto questo è presupposto nel valore che il soggetto non è stato capace di esemplificare. La preoccupazione per il giudizio altrui viene trasformata in un valore a cui il soggetto è attaccato e il focus dell’agente si sposta: non è più su cosa gli altri possano pensare di noi, ma sull’abilità di personificare un valore basato su questo interesse257. Così, sia che il

contenuto del mio ideale riguardi come l’altro mi valuta o meno, l’unica cosa che conta è il grado in cui mi scopro capace di onorarlo. Delusione di sé e vergogna nasceranno in base a quanto fallirò in questo tentativo.

Il risultato di ciò è che il ruolo dell’altro finisce per essere completamente svuotato e la sua presenza non pare servire a nient’altro che a segnare una distinzione, in fin dei conti non significativa, tra valori privati e sociali.

257 Più precisamente, parrebbe che l’unica motivazione a guidare le nostre azioni sia quella

dell’efficacia. Tuttavia, la competenza non è l’unico principio a guidare la costruzione dell’identità: Breakwell lo include in un gruppo composto anche dai processi motivazionali di autostima, continuità e distintività (vedi G. M. Breakwell, Social rapresentation and social

identity, Papers on Social Rapresentations, Vol. 2, Issue 3, pp. 198-217), e in seguito Vignoles, ha

aggiunto all’Identity Process Theory (IPT) anche il bisogno di appartenenza (teorizzato da Baumeister e Leary) e il bisogno di trovare un senso alla realtà (di cui parlano Hogg e Abram nella loro Teoria della riduzione dell’incertezza). Questo nuovo modello a sei motivazioni è presentato in Vivian L. Vignoles, Jen Golledge, Eugenia Scabini, Camillo Regalia, Claudia Manzi, Beyond Self-

Esteem: Influence of Multiple Motives on Identity Construction, Journal of Personality and Social

Psychology, Vol. 90, No. 2, 2006, pp. 308–333. Per una conferma empirica su queste sei motivazioni come processi di costruzione della nostra identità si veda Claudia Manzi, Camillo Regalia, Vivian Laurence Vignoles, Perché alcuni aspetti della definizione del Sé sono piu

importanti di altri? Uno studio sulle motivazioni che sottendono i processi di formazione dell’identità, Giornale italiano di psicologia, Fascicolo 1, marzo 2006, pp. 119-142.

Nel primo capitolo abbiamo visto come il modello del fallimento nell’esemplificazione dei valori si è rivelato inadeguato perché incapace di distinguere i casi privati di vergogna da quelli di delusione di sé. Ora vediamo che applicare questo modello ai casi sociali non solo crea problemi per quanto riguarda l’autonomia del soggetto, come visto nelle sezioni precedenti, ma comporta la riduzione dell’individuo ad un’entità privata, centralizzata e isolata. L’altro è infatti:

• Ridotto a mero condizionamento esterno nel processo di acquisizione dei valori

• Inesistente quando siamo in solitudine (a meno che non lo si richiami alla mente con l’immaginazione)

• Colui che anche se presente ricopre un ruolo ancillare facendoci prendere coscienza di aver disatteso l’ideale

• Contingente e non causa primaria nei casi di vergogna in cui è coinvolto un valore sociale

Insomma, in ogni caso l’altro è destinato sempre a rimanere all’esterno258

di un sistema chiuso quale è l’individuo.

Questo è il motivo per cui ho definito la concezione del Sé offerta in In

Defense of Shame per certi versi cartesiana. Il filosofo francese considerando

l’autocoscienza un prodotto del processo interiore del soggetto finì per trattare l’altro come un’entità contrapposta e dispensabile. Sebbene DRT non sposino questa concezione internalista né si esprimano in proposito alla nascita della coscienza, nel loro tentativo di scacciare la minaccia dell’eteronomia e ricondurre gli aspetti sociali a quelli privati, finiscono per offrire una visione dell’individuo in cui questo si presenta disconnesso da ciò che lo circonda, separato dagli altri e indipendente dal contesto in cui vive, come un piccolo mondo a sé. Nel momento in cui il bisogno di essere accettati viene trasformato in un valore personale che il soggetto deve esemplificare per non perdere la propria autostima, DRT ignorano che è proprio la dipendenza nei confronti degli altri individui a renderci quello che

258 Charles Taylor nella seconda parte del suo Sources of the Self: The Making of the Modern Identity spiega come e perché la civiltà occidentale abbia la tendenza ad aver una concezione del

Sé internalista. V. Charles Taylor, Sources of the Self: The Making of the Modern Identity, Harvard University Press, Cambridge, 1992, pp. 111-207.

siamo. Non solo la paura del rifiuto sociale, e quindi il bisogno di accettazione e appartenenza, sta all’origine dell’autocoscienza e del concetto di Sé, ma è ciò che sta alla base e guida quel costante processo di costruzione che è la nostra identità.

Il mio modo di procedere sarà il seguente: dapprima farò vedere come la preoccupazione per come gli altri ci vedono ci aiuti a rivalutare drasticamente i confini tra Io e Altro e a pensare il soggetto diversamente, dopodiché mostrerò come questa ridefinizione possa aiutarci a comprendere i casi di vergogna solitaria.

L’idea del Self come entità chiusa, individualistica e separata dall’esistenza delle altre persone fu posta per la prima volta in discussione da William James, che ne rielaborò l’estensione e ne comprese al suo interno gli aspetti sociali259. H.

J. M. Hermans nel mettere in luce come la teoria esposta in The Principles of

Psychology superi il dualismo Sé-Altri del Cogito attraverso una decentralizzazione del soggetto, scrive:

«The self is not a Cartesian entity, closed off from the world, and having an existence on itself, but, rather, extended toward specific aspects of the environment. These aspects are not simply outside the self but rather part of it. In other words, the self is broader than the person’s skin and not purely ‘inside.’ […] This objection is inherent in all those forms of thinking, that, in the line of Descartes, assume the existence of an individual consciousness, defined as essentially separated from the existence of other people. In James’ solution of this problem, the self is - as I- distinct from other people, but - as social Me - the perspective of the other is included as part of the self.»260

James rivaluta così i confini del Sé e supera la dicotomia Cartesiana introducendo il punto di vista dell’altro all’interno della sfera privata. Le caratteristiche sociali del Me si formano a seconda del tipo di feedback ricevuto da chi ci circonda e di conseguenza, la rappresentazione che abbiamo di noi stessi

259 Più precisamente egli suddivise il Sé in due component: l’Io (soggetto), che organizza

l’esperienza e conferisce unità, individualità e continuità, e il Me (oggetto), la parte del Sé conosciuta dall’Io e corrispondente a come l’individuo si vede. Il Me, che rappresenta la somma di tutto ciò che una persona può definire propria, si divide in tre componenti principali: Sé materiale, Sé sociale e Sé spirituale. Il primo include il Sé corporeo e tutto ciò che di materiale influenza l’individuo nel suo modo di rappresentarsi e definire sé stesso. Il secondo consiste nel modo in cui veniamo visti e considerati dagli altri. Il terzo è l’istanza capace di riflessione e riguarda il nostro essere interiore, i nostri valori, disposizioni, giudizi morali etc. James infine chiama Sé Puro la consapevolezza esclusivamente concettuale di noi stessi.

260 Hubert J. M. Hermans Conceptions of Self and Identity Toward A Dialogical View, International

è modellata dal modo in cui veniamo considerati dagli altri individui: «Properly speaking, a man has as many social selves as there are individuals who recognize him and carry an image of him in their mind»261. Le relazioni sociali stanno dunque alla base del nostro Sé e contribuiscono attivamente a costruire la nostra identità. Non molto tempo dopo il pensiero di James è stato articolato da Charles Horton Cooley nel suo lavoro Human Nature and the Social Order262, nel quale venne introdotto il concetto di Looking-Glass Self per esprimere l’idea che la conoscenza di Sé si realizza osservando il modo in cui ci giudicano e considerano gli altri. L’idea che abbiamo di noi stessi, per Cooley, non è semplicemente il frutto delle nostre riflessioni personali, ma viene fortemente influenzata dal pensiero di come gli altri ci percepiscono o ci possano percepire: immaginare l’opinione che questi abbiano di noi modifica profondamente il modo di vederci e rappresentarci. L’autore spiega come il Sé riflesso si costituisca in tre fasi: immaginiamo come appariamo agli altri in una situazione sociale - immaginiamo come gli altri ci possano valutare – sviluppiamo il nostro senso di Sé sulla base dei giudizi altrui e le nostre interpretazioni. La conseguenza di ciò è che le nostre idee e i nostri atteggiamenti sono costantemente condizionati dall’opinione che le altre persone263 hanno sul nostro conto e che è quindi impossibile concepire

un'idea di sé senza fare implicitamente riferimento ad altri.

Il lavoro di questi due studiosi fu ripreso da Georg Herbert Mead che diede particolarmente attenzione allo sviluppo del Sé e ai processi che ne permettono la sua formazione. Nella parte terza di Mind, Self, and Society, scritto pubblicato postumo grazie agli appunti di alcuni suoi studenti, leggiamo che il Sé sorge grazie all’interiorizzazione del dialogo con gli altri individui264 è che quindi esso

261 E continua: «But as the individuals who carry the images fall naturally into classes, we may

practically say that he has as many different social selves as there are distinct groups of persons about whose opinion he cares. He generally shows a different side of himself to each of these different groups.», cfr. William James, The Principles of Psychology, Volumes I and II, Harvard University Press, Cambridge, 2007, p.184.

262 V. Charles Horton Cooley, Human Nature and The Social Order, cit.

263 Mentre per Mead solo alcuni individui significativi (famiglia, insegnanti, amici etc.) possono

influenzare il modo in cui ci rappresentiamo, per Cooley qualunque individuo con cui interagiamo è in grado di farlo.

264 «L’internalizzazione, nell’ambito della nostra esperienza, delle conversazioni esterne di gesti

che teniamo con gli altri individui nel processo sociale, costituisce l’essenza del pensiero. I gesti, così internalizzati, sono simboli significativi, poiché posseggono i medesimi significati per tutti i membri individuali di una determinata società o gruppo sociale, cioè essi suscitano negli individui

non dev’essere considerato una dimensione puramente soggettiva, ma il risultato dell’oggettivazione delle dinamiche sociali. L’interazionismo simbolico ribalta così la prospettiva individualistica per cui l’altro è ridotto a mero condizionamento esterno: per Mead, diversamente da Cartesio, l’autocoscienza non è un’entità a priori la cui esistenza è possibile accertare mediante l’introspezione; essa non è qualcosa rintracciabile nell’interiorità del soggetto indipendentemente da tutto il resto, ma è piuttosto il prodotto dell’interazione tra l’individuo e l’ambiente. È impossibile pensare l’esistenza di noi stessi senza quella degli altri, poiché la nostra coscienza emerge solo attraverso le relazioni che abbiamo con loro265, in un processo non dunque privato, ma prettamente sociale, che si verifica all’interno di uno spazio semantico condiviso. A svolgere un ruolo cruciale nella differenza tra la condotta dell’animale e quella di un essere riflessivo è il linguaggio e in particolare i gesti (significativi) vocali: questi suscitano nell’individuo la stessa risposta che producono nell’altro e in questo modo «l’individuo partecipa allo stesso processo che viene realizzato dall’altra

che li compiono gli stessi atteggiamenti prodotti negli individui che rispondono.» cfr., George H. Mead, Mind, Self and Society, The University of Chicago Press, Chicago, 1934, trad. it. di Roberto Tettucci, Mente, Sé e Società, Giunti Editore, Firenze, 2010, p. 90.

265 Mead sostiene che l’interazione con gli altri significativi sia fondamentale nella costruzione

della propria identità in quanto crescendo l’individuo diventa sempre più attento ai comportamenti, alle attribuzioni ed alle opinioni degli altri. Nello specifico, secondo l’autore, ciò avviene attraverso 3 differenti fasi: nella prima, il gioco (play), il bambino «ha un insieme di stimoli che sollecitano in lui stesso il tipo di risposte che sollecitano negli altri. Assume questo gruppo di risposte e le organizza in un certo complesso. Questa è la forma più semplice dell’essere un altro nei confronti del proprio sé. Essa implica una situazione temporale. Il bambino dice qualcosa in veste di un soggetto e risponde in veste di un altro, e la sua risposta è uno stimolo per lui stesso nella sua prime veste, e così la conversazione continua. Una certa struttura organizzata sorge in lui e nel suo altro che gli risponde, ed essi continuano “la conversazione di gesti” tra loro stessi.», cfr., Ivi, cit. p. 210. Nella seconda, il gioco organizzato (game), il bambino «deve essere pronto ad assumere la parte di tutti gli altri partecipanti a quel “gioco” e che questi ruoli differenti debbano trovarsi in rapporto ben determinato tra loro. […] Nel gioco organizzato, quindi, esiste un insieme di risposte degli altri partecipanti così organizzato, che il modo di agire dell’uno provoca gli appropriati modi di agire dell’altro.», cfr., Ivi, p.211. Infine, la terza fase: «è sotto la forma dell’“altro generalizzato” che il processo sociale influenza il comportamento degli individui in esso implicati e che a loro volta lo sviluppano; in altre parole, è sotto questa forma che la comunità esercita il suo controllo sulla condotta dei singoli membri; perciò è in questo modo che il processo sociale o la comunità si inseriscono come fattore determinante nel modo di pensare dell’individuo.[…] è soltanto attraverso l’assunzione da parte degli individui dell’atteggiamento o degli atteggiamenti dell’altro generalizzato verso se stessi, è resa possibile l’esistenza di un “universo di discordo”, come quel sistema di significati comuni o sociali che il pensare presuppone nel suo contesto.», cfr., Ivi, p. 216.

persona e controlla la propria azione in rapporto a questa sua partecipazione»266.

Di conseguenza, l’individuo può avere esperienza di sé stesso solo in maniera indiretta, attraverso un processo di auto-oggettivazione che gli permette di assumere nei propri confronti l’atteggiamento che gli altri individui hanno nei suoi.

L’origine e il fondamento della nostra identità sono per cui sociali267 e pertanto

l’altro non può essere in alcun modo escluso dalla sfera individuale. La Mente e il Sé prendono forma attraverso l’interiorizzazione della conversazione di gesti significativi, la quale, per Mead, è resa possibile solo attraverso l’assunzione dell’atteggiamento dell’altro nei nostri confronti.

Qualcuno potrebbe obiettare che DRT sarebbero tranquillamente pronti ad accettare tutte queste considerazioni, continuando però a sostenere che ciò non inficia in alcun modo la loro tesi. D’altronde in In Defense Of Shame, mentre spiegano perché la vergogna richiederebbe semplicemente una presa di consapevolezza e non un’adozione del punto di vista altrui, gli autori in nota scrivono: «This is, of course, compatible with the thesis that reflexivity depends on the possession of the concept of another. What we claim is that this concept, however acquired, need not be deployed in shame»268.

Che l’autocoscienza e la possibilità di riflessione presuppongano il concetto dell’altro non sarebbe assolutamente un problema poiché, nella vergogna, questo non è comunque sfruttato.

Una risposta del genere può risultare accettabile solo se si continua a pensare il Self in chiave cartesiana269 perdendo così di vista che l’altro non è solo

266 Cfr., Ivi, cit., p. 120.

267 Il Sé è il risultato di un bilanciamento tra l’Io, «la risposta dell’organismo agli atteggiamenti

degli altri» e il Me, «l’insieme organizzato di atteggiamenti degli altri che un individuo assume». Io e Me sono i due momenti in cui il processo sociale che dà vita al Sé si sviluppa. Cfr., ivi, p. 238.

268 Cfr. J. A. Deonna, R. Rodogno, F. Teroni, In Defense of Shame, cit., p. 149. La stessa nota si

trova J. A. Deonna, F. Teroni, Is Shame a Social Emotion?, cit., p. 9.