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Delusione di Sé e Vergogna: uno sguardo alla fenomenologia

2 Ripensare la Vergogna

2.3 Delusione di Sé e Vergogna: uno sguardo alla fenomenologia

In In Defense of Shame DRT scrivono che ciò che è centrale nell’esperienza della vergogna è l’incapacità di non esser riusciti a personificare un proprio valore:

«Indeed, if shame consists in taking a trait or behaviour of ours as reflecting an incapacity, we understand why subjects are prompt to describe their shame experiences in terms linked to impotence, such as “I felt paralyzed,” “I felt helpless,” “I felt a failure,” or “I felt as if I lacked control over the situation”. The description of this phenomenology under the umbrella expression “feeling small” or “shrunken” perfectly illustrates what it means to experience ourselves as falling far short of our own expectations. It is no surprise, in the light of our proposal, that descriptions of shame are so often suffused with references to anxiety or even panic. What we here describe is the painful price we pay when we fail to give the values to which we are attached their due weight.»155.

Nel capitolo precedente ho spiegato come un’osservazione di questo tipo risulterebbe perfettamente valida non solo nel caso della vergogna, ma anche per la delusione di sé. Abbiamo visto che per DRT queste si differenziano per severità e profondità e laddove la seconda risulta nascere dal semplice fallimento di un’aspettativa, la prima sorge solo quando cadiamo al di sotto una certa soglia. La vergogna riguarderebbe così più da vicino la nostra identità e ciò spiegherebbe

perché è solitamente vissuta in maniera così dolorosa. Se nel punto a) ho chiarito perché a mio parere questa risulta essere semplicemente una distinzione ad hoc, qui voglio mettere in luce quelli che a mio avviso sono i tratti distintivi della vergogna e ciò che realmente la distingue dalle altre emozioni.

Per prima cosa potremmo chiederci: cosa caratterizza l’emozione della delusione di sé? Qual è la fonte del nostro dolore?

Quando siamo delusi da noi stessi la nostra attenzione è diretta all’incapacità stessa: il focus è sul fatto che per mancanza di abilità o volontà, poca determinazione o altro, non siamo riusciti a soddisfare una nostra aspettativa. Chi è deluso da sé stesso tende ad abbattersi o a rimproverarsi, poiché sente di essere il responsabile156 di tale fallimento. Siamo coscienti di non essere riusciti a fare abbastanza per causa nostra, e questo è ciò che ci provoca dolore. Percepiamo di essere inadeguati, di possedere meno valore di quanto pensavamo di avere e ci sentiamo per questo inutili, piccoli e affranti, ma il tutto rimane una questione privata su ciò che il soggetto vorrebbe e avrebbe voluto ottenere da sé stesso.

Se per esempio non supero un esame per il quale ho studiato per mesi, la causa del mio malessere sarà principalmente157 dovuta al fatto che, nonostante i miei sforzi e il mio impegno, non sono stato in grado di rispondere alle domande e passare il test. Il dolore nasce perché ho tradito una mia aspettativa: credevo di essere pronto e invece mi sbagliavo, pensavo di farcela e invece non ce l’ho fatta. Con il crollo delle speranze si sgretola la prefigurazione del successo e mi vedo costretto a scontrarmi con una realtà che vorrei diversa. Soffro perché scopro di non essere all’altezza dei miei ideali e di non essere capace di concretizzarli. Il fallimento mi mette dunque davanti ad una verità che mi fa male: non sono chi pensavo (e speravo) di essere e mi riconosco come il responsabile di questa

156 Non proviamo delusione nei nostri confronti se, date le circostanze avverse o situazioni al di là

del nostro controllo, non abbiamo la possibilità di realizzare un nostro progetto. La delusione di sé non riguarda semplicemente uno stato di insoddisfazione dovuto a dei desideri che non si avverano (come succede invece nella tristezza: posso rattristirmi nel constatare di non essere alto quanto avrei voluto, ma non posso essere deluso da me stesso per questo), ma ha a che fare piuttosto con uno stato di disinganno per aver tradito una nostra aspettativa.

157 Altri fattori non inerenti direttamente all’incapacità potrebbero chiaramente influenzare il mio

stato d’animo. Ad esempio, il pensiero che a causa dell’esame non passato la data della mia laurea slitterà, oppure il rimpianto di non aver impiegato tempo ed energie per un altro progetto etc.

caduta. La delusione di sé è a mio parere apprensione di questo ridimensionamento.

Se guardiamo alla fenomenologia della vergogna invece, l’elemento centrale di questa emozione non sembra tanto essere l’esperienza dell’incapacità, quanto piuttosto il fatto che questa è vista e percepita dagli altri. Ciò risulta chiaro se si fa attenzione al modo in cui l’agente si rapporta al dolore: chi è deluso da sé stesso tende a riflettere sulle cause dell’insuccesso, rimuginare sulla situazione e eventualmente pensare a delle soluzioni per riscattarsi. Nel momento in cui ci vergogniamo invece la priorità non è questo confronto a tu per tu col nostro smacco, quanto piuttosto il cercare di sottrarsi all’esposizione provocata dal fatto che l’altro ne sia venuto (possa venire o possa esser venuto) a conoscenza.

Chi si vergogna si sente spogliato, scoperto, esposto: la preoccupazione principale non pare essere più l’inadeguatezza in sé, ma il fatto che tale manchevolezza sia visibile all’esterno. La tendenza è infatti quella di coprirsi, di voler fuggire, sprofondare158, diventare trasparenti; non stiamo più semplicemente percependo un nostro fallimento, vergognandoci stiamo cercando di nasconderlo. L’esposizione dell’incapacità risulta più dolorosa dell’incapacità stessa e la fuga non rappresenta altro che il tentativo di sottrarsi allo sguardo altrui e liberarsi dalla sofferenza.

Il dolore è inoltre accresciuto dal fatto che a questa esposizione non c’è via di scampo: vengo visto mentre spio dal buco di una serratura, vorrei sparire e non poter essere lì, ma non posso. Non posso diventare improvvisamente invisibile né posso riavvolgere il tempo. Questa impossibilità mi immobilizza, lasciandomi impotente sotto lo sguardo oggettivante dell’altro.

A causare le emozioni sono quindi due mali diversi e se nell’una il malessere deriva da uno stato di disillusione dovuto a un fallimento, nella seconda

158 Bernard Williams nel differenziare la fenomenologia della vergogna da quella della colpa

scrive: «Non è nemmeno il desiderio di scomparire, come alcuni dicono, di sprofondare nel terreno, quanto piuttosto il desiderio che lo spazio occupato da me diventi immediatamente vuoto. Con la colpa non accade ciò; quando mi sento in colpa sono dominato dal pensiero che, anche se scomparissi, essa mi seguirebbe.», cfr. Bernard Williams, Shame and Necessity, cit., p. 106. Anche i modelli psicologici sono differenti, poiché prevedono l’interiorizzazione di figure diverse: «Nel caso della vergogna, questa figura è come ho suggerito nelle pagine precedenti, un osservatore o un testimone. Nel caso della colpa, la figura interiorizzata è una vittima o qualcuno

l’afflizione ha a che fare intrinsecamente con l’esposizione e il timore di essere visti in una situazione che vorremmo rimanesse privata.

Le reazioni fisiologiche infatti tratteggiano un’emozione che può essere considerata a tutti gli effetti una forma di paura: il sistema nervoso autonomo produce (anche se non sempre) l’arrossamento del volto, il battito cardiaco è accelerato, la sudorazione aumenta e il soggetto può talvolta sentire brividi, tremori e sensazioni di caldo/freddo inteso159. Le risposte comportamentali sono

invece quelle di chi vuole proteggersi davanti ad un pericolo: chi prova questa emozione tende a chinare il capo, ad incurvare la postura ed abbassare lo sguardo per non incrociare quello dell’osservatore.160 Non si tratta quindi semplicemente di avvertire e percepire l’incapacità di non riuscire ad esemplificare un proprio ideale, poiché nella vergogna, a differenza della delusione di sé, il ruolo dell’altro appare imprescindibile.

Nel cercare di cogliere la differenza tra le due emozioni mi è stato di grande aiuto un fatto raccontatomi qualche tempo fa dal mio amico Matteo, studente di fisica e abituato ad essere uno dei migliori della classe:

159 A sostegno del fatto che la vergogna sia intrinsecamente legata alla paura di essere svalutati

socialmente, è stato dimostrato che l’aumento del cortisolo e dell'attività proinfiammatoria delle citochine (molecole che ricoprono un ruolo cruciale per il funzionamento del sistema immunitario) che si presenta nei casi in cui sentiamo minacciata la nostra identità sociale, si verifica anche negli episodi di vergogna. Ciò corrobora l’idea che la vergogna sia la componente affettiva di queste coordinate risposte psicobiologiche e che essa rappresenti la risposta emotiva alle minacce del nostro Sé sociale: «We argue that these changes are not simply epiphenomena, but instead, that shame and accompanying physiology are integral components of a coordinated psychobiological response to threats to social self-preservation, just as fear and its physiological correlates are components of the response to threats to physical self-preservation.», Sally S. Dickerson, Margaret E. Kemeny, Acute Stressors and Cortisol Responses, cit. pp. 1193-94. Su questo si veda anche veda anche S. S. Dickerson, T. L. Gruenewald, M. E. Kemeny, When the

Social Self Is Threatened: Shame, Physiology, and Health, Journal of personality, Vol. 72, Issue 6,

2004, pp. 1191-1216.

160 Gli atteggiamenti di subordinazione che assumiamo quando ci vergogniamo trovano una

spiegazione dal punto di vista evolutivo: «A submissive display sends a signal of ‘no-challenge’ which (usually) affects the emotions and behaviours of the potential attacker, so that he/she breaks off or limits his/her attacks», cfr. P. Gilbert, The Relationship of Shame, Social Anxiety and

Depression: The Role of the Evaluation of Social Rank, Clinical Psychology & Psychotherapy, Vol.

7, Issue 3, 2000, pp. 174-189, p. 175. Lo scopo di tali atteggiamenti allora è quello di comunicare arrendevolezza ed evitare uno scontro che potrebbe arrecare più danni che benefici. Gilbert infatti spiega che la vergogna ha origini evolutive diverse da quelle della colpa: la prima mette in atto delle strategie difensive per poter fronteggiare una minaccia sociale, la seconda invece è caratterizzata da una preoccupazione più eterocentrista in cui è il benessere dell’altro e il cercare di non arrecargli sofferenza ad essere fondamentale.

“Giovedì ho provato una profonda delusione nel rendermi conto di non essere capace di eseguire un calcolo che altri miei compagni mostravano invece di risolvere con facilità. Mentre riprovavo l’esercizio mi sentivo affranto per non riuscire, per quanto mi sforzassi, a soddisfare una mia aspettativa. Il focus della valutazione negativa riguardava le mie abilità matematiche: improvvisamente non erano più all’altezza delle mie previsioni, e nella mia testa si alternavano frasi di incoraggiamento e auto-motivazione a pensieri di disprezzo e biasimo per non essere bravo abbastanza. Tutto ciò subì un profondo sconvolgimento quando, pochi minuti dopo, il Professore chiamò alla lavagna un altro ragazzo e disse davanti all’intera classe: «Ora Manuele ci farà vedere come risolvere questo esercizio, dato che passando per i banchi ho notato che alcuni di voi, compresi anche alunni bravi come Matteo, non riescono a comprenderlo». Improvvisamente provai un’intensa vergogna. A livello emotivo ci fu un cambiamento tanto improvviso quanto radicale: quello che provai in quell’istante era profondamente diverso da quello che avevo provato sino ad un attimo prima, quando deluso dalle mie doti, provavo e riprovavo a risolvere il compito. Mi sentì tutto ad un tratto esposto e vulnerabile; la mia immagine risultava compromessa, poiché ormai tutti sapevano che non ero in grado di risolvere l’esercizio e che non ero poi così bravo come avevano sempre creduto».

Quando ascoltai per la prima volta questa storia rimasi colpito da due cose: la prima è che in questo caso il fallimento nell’esemplificazione del valore non era abbastanza per generare l’emozione della vergogna (come invece sostengono DRT).161 L’emozione pareva emergere piuttosto dal fatto che il fallimento fosse in vetrina, esposto allo sguardo di tutti. La seconda è la grande differenza nella

161 La posizione di DRT è molto vicina a quella di Differentiating guilt and shame and their effects on motivation (1995), In J. P. Tangney & K. W. Fischer (Eds.), Self-conscious emotions: The psychology of shame, guilt, embarrassment, and pride, Guilford Press, New York, pp. 274-300.

Nonostante in questo testo si dica che la mancanza di valore è esposta sia ai nostri occhi e a quegli degli altri, gli autori lasciano trapelare che la testimonianza altrui non sia la causa scatenante dell’emozione, ma semplicemente un aggravante. Nell’articolo si dice infatti che la vergogna emerge nel momento in cui ci rendiamo conto di essere chi non vorremmo essere e di star incarnando un anti-ideale. Viene sì dato rilievo al desiderio di sparire e nascondersi dallo sguardo altrui, ma poiché ci viene detto che l’emozione sorge dalla realizzazione del soggetto di essere «a worthless, horrible self» (Cfr. Ivi, p. 296.), il tentativo di non farsi vedere dagli altri pare un aspetto costitutivo ma alquanto marginale. Il mio disaccordo, come spiegherò a breve, è anche su ciò che rappresenta il punto di partenza dello studio, e cioè che la vergogna necessariamente «focuses on the painful experience of being a negative self.».

fenomenologia delle due emozioni: nei minuti trascorsi a cercare una soluzione il calcolo, Matteo, deluso di sé, era fortemente concentrato sul fallimento e sulla mancanza di abilità. Ma ora, con lo sguardo di tutti i compagni addosso, egli vuole solo scomparire, fuggire, non essere lì. Se la delusione lo portava a rimuginare sulla sua incapacità, la vergogna lo spinge a rifuggire il pensiero. Pensiero che non è più “non riesco a completare il compito”, bensì “tutti sanno che non riesco a completare il compito”. Se nel primo caso l’emozione della delusione di sé richiede semplicemente un confronto con noi stessi, nel secondo la vergogna implica un processo triadico in cui non siamo più soli, ma guardati162 da un osservatore, un testimone, un altro. Questo aspetto è messo in risalto da Stephen Darwall che, influenzato da Sartre, nel mettere a confronto colpa e vergogna scrive:

«Like guilt, shame feels as if one is rightly regarded or seen in a certain way. But here the relevant regard is not second-personal; it is third- personal. One sees oneself as an object of the other’s regard or “gaze”—of her disdain, perhaps, or of her just seeing through one’s public persona to something one is ashamed to have seen [ …]shame inhibits second-personal engagement—one feels like escaping from view»163.

La fonte della sofferenza nella vergogna non pare quindi il male che abbiamo subito per non esseri stati capaci di esemplificare un nostro ideale, ma quello che ne deriva dalla possibilità di essere visto: vorremmo sparire e scappare

162 Guardati non dev’essere chiaramente inteso in senso letterale. Come scrive Sartre: «Senza

dubbio, ciò che manifesta più spesso uno sguardo è la convergenza verso di me di due globi oculari. Ma uno sguardo può anche essere dato da un fruscio di rami, da un rumore di passi seguiti da silenzio, dallo sbattere di un'imposta, dal leggero movimento di una tenda». Cfr., J. P. Sartre, Essere e Nulla, trad. G. Del Bo, Il Saggiatore, 1972, Milano, p. 342.

163 Cfr., Stephen Darwall, The Second Person Standpoint: Morality, Respect, and Accountability,

Harvard University Press, Cambridge (MA) 2006, p. 71 e p. 72. Per Darwall vergognarsi comporta subire l’autorità dello sguardo altrui e accettare la condizione di inferiorità a cui veniamo relegati; questo non avviene con la colpa in cui la condizione con l’interlocutore rimane di parità e non essendo oggettivati dalla sua presenza reale o immaginata, l’agente preserva la sua libertà di soggetto: «Shame and guilt both give an imagined other’s regard authority. But the authority shame accords is fundamentally epistemic and third-personal. One sees the other as having standing to see one in a certain way (and oneself as correctly thus seen). Guilt, however, recognizes an irreducibly second-personal practical authority of the sort we noted at the outset. It acknowledges the authority to make a demand, that is, to address a second-personal reason for acting». Cfr., ibidem.

perché è l’esposizione che ci provoca dolore.164 Questa particolare relazione con

la temporalità è infatti assente nella delusione di sé: in quest’ultima non c’è l’urgenza di scampare al più presto ad un dolore o di evitare un pericolo imminente; il tempo non corre, è morto e dilatato perché il dolore riguarda un male già subito dal soggetto e sul quale non ha più alcun potere165.

Non credo che gli autori colgano il punto nemmeno quando scrivono166 che nella vergogna si ha a che fare con un’identità non voluta167. Posso realizzare

164 Questo è stato confermato empiricamente. Ci sono prove che la vergogna, a differenza delle

altre emozioni che non paiono cambiare col variare del contesto, si intensifica se veniamo esposti ad una valutazione sociale. Si veda T. L. Gruenewald, M. E. Kemeny, N. Aziz, J. L. Fahey, Acute

threat to the social self: shame, social self-esteem, and cortisol activity, cit.

165Lindsay-Hartz in Contrasting Experiences of Shame and Guilt, American Behavioral scientist,

Vol. 27, Issue 6, 1984, pp. 689-704, basandosi su degli studi empirici scrive che il tempo nella vergogna è percepito come incontrollabile, vasto, senza fine (v., Ivi, p. 694). Questo sembrerebbe andare contro quello che ho appena scritto, ma non è così. Dipende infatti su quale momento in cui l’emozione è vissuta ci si concentra: nell’istante in cui ci accorgiamo di essere visti si ha ancora l’illusione di poter gestire la situazione; le reazioni della vergogna implicano infatti la speranza da parte del soggetto di evitare l’impatto col pericolo o provare perlomeno a limitare i danni. Fuggire, proteggersi, desiderare di scomparire sono tutti comportamenti che nascono dalla consapevolezza di avere poco tempo per trovare rifugio o una soluzione difensiva. Nella delusione di sé a mio parere questa urgenza non c’è, poiché il male è già arrivato e non si può far altro che constatare le ferite che ha apportato. L’analisi di Lindsay Hartz descrive invece ciò che il soggetto prova quando si rende conto che ormai “gli altri sanno” e non possiamo far nulla per tornare indietro ed evitare quell’esposizione.

166 A questo proposito DRT citano gli studi di T. Olthof , Tamara Ferguson , Eva Bloemers

& Marinda Deij in Morality and identity‐related antecedents of children's guilt and shame

attributions in events involving physical illness,Cognition and Emotion, Vol. 18, Issue 3, 2004, pp. 383-404, l’articolo di Tamara Ferguson, Heidi Lee Dempsey e Michael Ashbaker, Unwanted

Identities: A Key Variable in Shame, Anger Links and Gender Differences in Shame, Sex Roles,Vol. 42, Issue 3-4, 2000, pp. 133-157, e il lavoro di T. Olthof, A. Schouten, H. Kuipers, G.T.M. Stegge, A. Jennekens-Schinkel, Shame and guilt in children: Differential situational antecedents and

experiential correlates, British Journal of Development Psychology,Vol. 18, Issue 1, 2000, pp. 51- 64. La cosa strana è che tutti e tre gli studi danno importanza a dei dettagli che vengono omessi da DRT. Nel primo articolo si dice che la vergogna e il fenomeno dell’identità indesiderata sono intrinsecamente legati a come appariamo agli altri e alla paura di esser mal giudicati, indipendentemente da come il soggetto si autovaluta (v. p. 398 e pp. 401-402). Nel secondo articolo è vero che si argomenta a favore di una connessione tra identità non desiderata, vergogna ed ira, ma si lascia aperta la possibilità che il percepire di essere chi non vorremmo essere possa essere legato anche ad altre emozioni (v. pp. 149-150). Nel terzo articolo viene detto chiaramente che l’identità non voluta viene considerata in luce di cosa altri possono pensare di noi: «the present authors prefer to define an unwanted identity in terms of what one thinks about what other persons might think about the self. Accordingly, in our view shame results from one’s suspicion that important other persons might consider one to be what one does not want to be.» (cfr. Ivi, p. 53.). In generale, lo scopo di questi articoli citati da DRT a proposito del unwanted identity è quello di distinguere la dimensione della vergogna da quello della colpa. Poiché molti casi riguardano la distinzione tra le due emozioni da un punto di vista