• Non ci sono risultati.

Vergogna e Autocoscienza

3 Vergogna e Solitudine

3.3 Vergogna e Autocoscienza

Non bisogna però fare l’errore di credere, come si è sempre fatto sino a qualche tempo fa, che la vergogna possa nascere soltanto una volta che l’individuo abbia acquisito norme, standard e valori.284

Partendo dalla concezione Sartriana di Being-for-Others e appoggiandosi a studi recenti di psicologia cognitiva e dello sviluppo, Sanchez ha contrapposto alla teoria di Bernard Williams una tesi per cui la prospettiva dell’altro non è semplicemente interiorizzata, ma è costitutiva del tipo di Self capace di vergognarsi. Secondo questa visione per provare l’emozione non è necessario che sia presente uno spettatore reale, immaginato, ricordato o, come detto, introiettato durante la crescita attraverso l’interiorizzazione di norme e principi; ciò che è richiesta è una particolare forma di autocoscienza che prevede un senso implicito di sé come oggetto della valutazione altrui.

I lavori recenti di Vasudevi Reddy, a cui Sanchez fa riferimento, mostrano che la consapevolezza che esistano altri soggetti non si ha, come si è sempre creduto, quando il bambino attorno ai 9-12 mesi condivide l’attenzione con un altro individuo rispetto ad un oggetto; piuttosto, le evidenze empiriche

«Strictly speaking, then, people do not have a need to maintain self-esteem per se. Self-esteem is simply an indicator of the quality of one's social relations vis-a-vis inclusion and exclusion.», cfr. M. R. Leary, E. S. Tambor, S. K. Terdal & D. L. Downs, Self-esteem as an interpersonal monitor: The

sociometer hypothesis, Journal of Personality and Social Psychology, Vol. 68, No. 3, 1995, pp. 518-

530, p. 520. Questo spiegherebbe il motivo per cui abbiamo un innato bisogno di cercare di mantenerla sopra una soglia accettabile; l’autostima rappresenta un sociometro che ci motiva a comportarci in modo tale da minimizzare la probabilità di essere rifiutati.

284 A dominare all’interno del dibattito sulle emozioni è sempre stata la tesi di Michael Lewis, per

la quale le emozioni autocoscienti che richiedono esposizione ma non valutazione (come imbarazzo e l’invidia) sorgerebbero all’incirca a metà del secondo anno (18 mesi), quando il bambino acquisisce il concetto di Sé e l’abilità di riconoscersi allo specchio; la vergogna, la colpa e l’orgoglio (ma anche l’imbarazzo che prevede auto-valutazione) comparirebbero invece qualche mese più tardi quando, attorno al terzo anno (36 mesi), il bambino interiorizza norme e standard: «The emergence of shame and the other self-conscious emotions requires something more than consciousness: the child must have certain additional cognitive capacities. Standards, rules, and goals must exist that, when accompanied by consciousness, give rise to this new set of self- conscious emotions, the self-conscious evaluative emotions, shame being one of them.», cfr,. Michael Lewis, The Role of the Self in Shame, cit., p. 1193. V. anche Michael Lewis, Self-Conscious

Emotional Development, in J. L. Tracy, R. W. Robins, & J. P. Tangney (Eds.), The self-conscious emotions: Theory and research, cit., pp. 134-148.

corroborano l’idea che sin dai primi mesi d’età, l’infante possieda un particolare tipo di autocoscienza, self-others-consciousness, che presuppone la coscienza implicita di sé in quanto oggetto dell’attenzione altrui. A tal proposito, è stato notato che già dai 2-3 mesi di vita il bambino presenta un incredibile interesse per l’attenzione delle persone: egli cerca di attirarla attraverso suoni, gesti ed espressioni facciali, risponde ad essa con piacere o dispiacere e pare ricercare un’interazione visiva attiva285. Questo tipo di autocoscienza, in cui «the infanti is emotionally aware of the attention of others from very early in life»286, precede le

rappresentazioni concettuali di sé e degli altri come entità psicologiche.

Tutto ciò non solo ci informa sull’esistenza di altri tipi di autocoscienza oltre quella certificata mediante il test dello specchio287, ma, cosa più importante ai fini di questo lavoro, ci dice qualcosa di estremamente utile a proposito delle emozioni, e in particolare della vergogna. Diversamente da quanto sostenuto da Michael Lewis infatti, Reddy non crede che questa dipenda dall’acquisizione delle

285 Colwyn Trevarthen ha scritto molto a proposito della comunicazione infantile e del ruolo che

le emozioni giocano in essa per lo sviluppo del bambino. In Colwyn Trevarthen, What is it like to

be a person who knows nothing? Defining the active intersubjective mind of a newborn human being, Infant and Child Development, Vol. 20, Issue 1, Special Issue: The Intersubjective Newborn,

January/February 2011, pp. 119-135. Trevarthen ad esempio spiega come il bambino sin dalle prime settimane di vita (2 mesi) presenta capacità mentali intersoggettive: egli non ricerca semplicemente l’attenzione degli altri, ma anche la condivisione e la cooperazione attraverso una proto-conversazione che affonda le proprie radici nella psicobiologia: «In protoconversation with an attentive and sympathetic adult, the brain of an infant a few weeks old, with very immature cerebral cortex, can engage in a precisely regulated rhythmic exchange of interests and feelings with the adult brain by means of sight of head and face movements, with eye-to-eye contact, and hand gestures, hearing of vocalizations, and touches between the hands.». Cfr. Ivi. P. 130. Questa fase è chiamata da Trevarthen intersoggettività primaria, poiché il neonato non esprime unicamente quelli che sono meccanismi biologici innati (rispecchiamento e imitazione), ma inizia ad esprimere valutazioni immediate e esplicite nei confronti delle emozioni e delle intenzioni dell’adulto. Dai 9 mesi egli sarà capace di comprendere le intenzioni degli altri a partire dal modo in cui manipolano gli oggetti e a condividere l’attenzione per l’ambiente circostante (intersoggettività secondaria). Dai 20 mesi sarà in grado di negoziare con gli altri valori condivisi e a gestire l’autopresentazione. Infine, dai 3-5 anni con l’emergere della teoria della mente, nascerà anche un livello etico di reciprocità. Sullo sviluppo dell’intersoggettività si veda Philippe Rochat, Cláudia Passos-Ferreira, Pedro Salem, Three Levels Of Intersubjectivity In Early

Development, In: Enacting Intersubjectivity. Paving the way for a dialogue between cognitive

science, social cognition and neuroscience, Larioprint, Como, 2009. p. 173-190.

286 Vasudevi Reddy, On being the object of attention: Implications for self-other consciousness, pp.

Trends in Cognitive Sciences, Vol. 7, Issue 9, 2003, pp. 397-402, p. 399. È importante rimarcare che il tipo di consapevolezza è semplicemente emotiva: il bambino esperisce di essere oggetto dell’attenzione altrui senza concettualizzarla o comprenderla riflessivamente. Per un approfondimento si veda anche Philippe Rochat, Others in Mind, cit.

287 Per una critica al test del riconoscimento visivo come criterio per discernere la presenza

abilità metacognitive raggiunte durante il secondo - terzo anno di vita, ma sostiene che il bambino possa provarla nel momento, prima ancora di aver acquisito un concetto di sé, si percepisce come oggetto della attenzione/valutazione altrui:

«The infant knows the ‘me’ experientially as a self who can be attended to by others (as well as the self who can act in physical space). The other person’s attending is perceived rather than represented and the self ’s objecthood is experienced rather than conceived.»288

Per questo Reddy sostiene che vergogna, ma anche l’orgoglio, non dovrebbero essere chiamate semplicemente emozioni autocoscienti, ma self-other

consciuos affects, poiché la condizione di possibilità non è data unicamente

dall’interiorizzazione di standard e norme, ma dalla particolare struttura di questo tipo di autocoscienza.

È chiaro che questo rappresenta un punto molto importante per chiunque voglia proporre una teoria della vergogna.

Zahavi, che sostiene l’esistenza di una self-other-consciousness, ha infatti criticato la tesi espressa in In Defense of Shame da DRT proprio perché, oltre a non offrire una spiegazione soddisfacente per i casi in cui l’altro è determinante per suscitare l’emozione della vergogna, e a non dar abbastanza conto della sua fenomenologia, è incapace di giustificare gli episodi di vergogna infantile289 e preriflessiva.290

288 Cfr. Ivi, p. 400. The other-self-consciousness, presupponendo l’adozione di una prospettiva alla

seconda persona, costituisce quindi il ponte tra l’esperienza primaria in prima persona e quella in cui il bambino attraverso la riflessione si oggettivizza (prospettiva alla terza persona).

289 Deigh muove la stessa critica a Rawls, v. John Deigh, Shame and Self-Esteem. A Critique, pp.

233-234. Per un approccio psciobioligico alla vergogna infantile si veda Allan N. Schore, Affect

Regulation and The Origin of The Self: The Neurobiology of Emotional Development, Routledge,

New York, 2016, pp. 197-212. Su come le interruzioni della comunicazione materna possano generare nell’infante la paura di non essere amato e stati cronici di vergogna si veda Judith Lewis Herman, Shattered Shame States and their Repair, in J. Yellin & K. White (Eds.), John Bowlby

Memorial Conference monograph. Shattered states: Disorganised attachment and its repair,

Karnac Books, London, 2012, pp. 157-170.

290 V. Dan Zahavi, Self and Other, cit., pp. 208-240. È importante sottolineare che nonostante

Zahavi affermi e difenda la struttura socialmente “situata” del Sé, non sposa comunque la teoria del costruttivismo sociale che vede nell’intersoggettività la sua struttura fondamentale. La self-

other-consciousness è il tipo di autocoscienza che costituisce la condizione di possibilità della

vergogna, ma non è quella si ha quando veniamo a nascere. In Dan Zahavi, In Is the Self a Social

Construct?, Inquiry, Vol. 52, Issue 6, 2009, pp. 551-573. Zahavi si schiera contro le tesi di coloro

che all’interno della tradizione filosofica hanno parlato del Sé come il prodotto dell’interazione sociale e mostra come le tesi ad esempio di Hegel, Mead, Foucault, Royce, ma anche quelle contemporanee di G. Gergely e W. Prinz, trascurano un elemento cruciale: l’esistenza di una basic

La teoria tradizionale infatti, presupponendo che per vergognarsi è necessario un concetto di sé, di autostima e di norme e principi interiorizzati, tagli inevitabilmente fuori quelle situazioni in cui l’emozione si presenta quando queste condizioni non sono presenti.

Si potrebbe pensare che in questi casi l’emozione in gioco non sia propriamente vergogna, ma qualcos’altro. Ad esempio, si potrebbe dire che non sia realmente l’emozione che proviamo in età adulta, ma semplicemente una sua forma primordiale. Sebbene questa strategia consenta di archiviare i casi di vergogna infantile, non permette tuttavia di spiegare l’esistenza dei casi di vergogna irriflessiva, non relegabili esclusivamente al periodo precedente all’emergere della consapevolezza di sé. Nonostante infatti la vergogna faccia

experiential notion of Self che costituisce la precondizione necessaria di quel tipo di coscienza che

emerge grazie agli scambi relazionali. Prendendo come punto di riferimento le teorie di Sartre, Husserl e Heidegger, Zahavi sostiene l’idea che alla base del nostro Self ci sia una forma di autocoscienza minimale che conferisce unità alle nostre esperienze sensoriali pur non esistendo, contrariamente a quanto afferma Searle, indipendentemente dall’esperienza stessa. Zahavi parla degli stessi temi e della nozione di autocoscienza preriflessiva anche in La Mente

Fenomenologica, caratterizzandola come non tematica, non volontaria, non osservativa e,

andando contro Brentano e appoggiando le tesi di Sartre, Husserl e Heidegger, non oggettivante e non intenzionale. Essa non è relazione né frutto d’attenzione ma coincide con la datità dei fenomeni in prima persona e costituisce una forma primitiva e implicita di autoreferenzialità. Essendo non posizionale, immediata e non riflessiva, precede ontologicamente qualunque altro tipo di autocoscienza. V. Dan Zahavi, Shaun Gallagher, La Mente Fenomenologica: Filosofia della mente e scienze cognitive, tr. it. di Patrizia Pedrini, Raffaello Cortina Editore, Milano, 2009. Si

vedano in particolare pp. 69-105. Qual è allora la posizione di Zahavi? Nei testi sopracitati, (ma anche in Dan Zahavi, Self and other: from pure ego to co-constituted we, Continental Philosophy Review, Volume 48, Issue 2, June 2015, pp. 143–160) spiega che poiché il Sé è multidimensionale, l’esistenza di un’autocoscienza preriflessiva non è incompatibile con quella che dipende costitutivamente dall’interazione sociale. Si tratta semplicemente di due forme di autocoscienza differenti che coesistono senza contrastarsi, ma l’una (the first-personal character of

consciousnss) rappresenta la condizione di possibilità di quella mediata intersoggettivamente.

Quest’ultima, che può essere chiamata interpersonale, alimenta lo sviluppo della dimensione normativa e socializzata del Sé che si origina con l’interiorizzazione di norme e valori. Ci tengo a precisare che la teoria di Zahavi a proposito di una forma di autocoscienza preriflessiva non è comunque originale e trova anticipazioni non solo in Sartre, ma anche in Fichte e nei filosofi romantici tedeschi. In un bellissimo libro Roger Frie affronta la questione sulla relazione tra Sé e Altro e, ripercorrendo le idee di Hegel, Binswanger, Mead, Habermas, Lacan e tanti altri, ci racconta di come la questione a proposito del soggetto (entità isolata o linguisticamente determinata?) all’interno della storia della filosofia è sempre stata attuale. V. Roger Frie,

Subjectivity and Intersubjectivity in Modern Philosophy and Psychoanalysis: A Study of Sartre, Binswanger, Lacan, and Habermas, Rowman & Littlefield Publishers, Inc., New York, 1997.

Tralasciando l’ambito filosofico, anche in ambito psicologico David Stern (ma anche A. Slade), pur ammettendo che l’apparato psichico ha una matrice essenzialmente intersoggettiva e che la funzione della mente stessa è resa possibile solo grazie all’interazione con l’altro, ipotizza l’esistenza di un parziale senso di Sé che precede autocoscienza e linguaggio.

sempre riferimento ad un contesto normativo, può essere suscitata senza alcuna valutazione cosciente.

È stato dimostrato che le emozioni non richiedono necessariamente il coinvolgimento delle aree del cervello implicate nel ragionamento e nella coscienza. Proprio la paura, e ricordiamo che la vergogna ne è una forma, sfrutta dei meccanismi precognitivi. Più precisamente Joseph Ledoux291 ha parlato di due modi in cui l’informazione sullo stimolo esterno può raggiungere l’amigdala (la regione del cervello che attribuisce significato emotivo allo stimolo): il circuito subcorticale, che permette la trasmissione dal talamo sensoriale direttamente all’amigdala, e il circuito corticale, che attraverso un percorso che va dal talamo alla corteccia sensoriale fornisce a questa regione del cervello dei dati più precisi ed elaborati. La prima strada evitando la corteccia offre rappresentazioni dello stimolo rozze e non accurate, ma permette una risposta più rapida e immediata rispetto alla seconda strada, che sfruttando l’elaborazione corticale, invia i dati dopo averli accuratamente valutati. La proiezione amigdala-talamica permette di rispondere tempestivamente alle minacce e risulta essere più vantaggiosa nelle situazioni di pericolo: conoscere l’esatta entità dello stimolo infatti richiederebbe troppo tempo e aumenterebbe le possibilità di subire il danno.

Questo spiegherebbe il motivo per cui talvolta proviamo vergogna anche non conoscendo la natura del giudizio altrui e, come il guardone di Sartre, proviamo l’emozione al solo pensiero di essere, socialmente, in pericolo. L’analisi evolutiva, che vede nella vergogna una funziona adattiva e una strategia difensiva per proteggere la nostra identità sociale, troverebbe in ciò una conferma.

Per concludere, stando a quanto detto, la vergogna non dovrebbe essere semplicemente considerata un’emozione autocosciente292, ma prima ancora una

291 V. Joseph Ledoux, The Emotional Brain. The Mysterious Underpinnings of Emotional Life,

Simon & Schuster, New York, 1996, trad. it. di Sylvie Coyaud, Il cervello emotivo. Alle origini delle

emozioni, Baldini&Castoldi, Milano, 2014.

292 A proposito della vergogna come emozione autocosciente, si si potrebbe domandare perché

non abbia fatto riferimento nel corso di questo lavoro ai risulti del Test of Self-Conscious Affect (TOSCA). Il motivo risiede nel fatto che questi studi empirici non si sono rivelati affidabili. È stato fatto notare ad esempio come molte delle caratteristiche di colpa e vergogna (su tutti l’aspetto distruttivo e la tendenza antisociale della vergogna e quello costruttivo e con benefici sociali della colpa) che i test si ponevano di confermare sono in realtà implicate nelle definizioni fornite di

default. Thomason (vedi Krista K. Thomason, Naked, cit. p. 10) sottolinea ad esempio come gli

delle emozioni fondamentali dell’essere umano. Paul Ekman aveva etichettato come emozioni primarie l’ira, il disgusto, la tristezza, la gioia, la paura e la sorpresa, spiegando come a differenza di tutte le altre, queste si caratterizzassero per essere universali, possedessero una base biologica e manifestassero precise espressioni facciali universali. Nel corso di questa trattazione abbiamo visto però che ci sono buoni motivi per pensare che anche la vergogna possa rientrare in questo gruppo: essa risponde ad un particolare bisogno e affonda le sue radici nella psicobiologia, presenta determinate reazioni fisiche e comportamentali e, come dimostra un articolo recente293, si manifesta in tutte le culture per la stessa ragioni.