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Micro e nano fabbricazione della Gelatina Metacrilata applicata a modelli in vitro per applicazioni nel settore dell'Ingegneria Tessutale

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Academic year: 2021

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(1)

Scuola di Ingegneria

Corso di Laurea Magistrale in Ingegneria Biomedica

TESI

Micro e nano fabbricazione della Gelatina

Metacrilata applicata a modelli in vitro per

applicazioni nel settore dell’Ingegneria

Tessutale

Candidato:

Luana Di Raimondo

Relatori:

Prof. Giovanni Vozzi

Ing. Anna Lapomarda

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Indice

1. Ingegneria Tessutale applicata ai modelli in vitro ... 4

1.1 Scaffold e biomateriali per la micro e nano fabbricazione ... 6

1.2 Gelatina Metacrilata ... 16

1.2.1 Sintesi del gelMA ... 19

1.2.2 Processo di reticolazione del gelMA ... 23

1.2.3 Proprietà del gelMA ... 26

1.3 Tecniche di micro e nano fabbricazione ... 28

1.3.1 Elettrospinning ... 33

1.3.2 Soft Lithography ... 39

1.3.3 Pressure Activated Microsyringe, PAM2 ... 41

1.4 Scopo della tesi ... 43

Bibliografia... 45

2. Materiali e metodi ... 54

2.1 Preparazione del gelMA ... 54

2.2 Nano fabbricazione del gelMA ... 56

2.2.1 Elettrofilatura del gelMA ... 56

2.2.2 Reticolazione del GelMA elettrofilato attraverso esposizione agli UV 59 2.2.3 Caratterizzazione delle strutture elettrofilate con gelMA ottenuta con metodo Convenzionale ... 62

2.3 Micro fabbricazione del gelMA ... 65

2.3.1 Scaffold in gelMA realizzati con la tecnica PAM2 ... 65

2.3.2 Scaffold in gelMA con Soft Lithography ... 77

Bibliografia... 81

3. Risultati e discussioni ... 83

3.1 Risultati di nano fabbricazione del gelMA... 83

3.1.1 Analisi parametri ottimali del processo di elettrofilatura ... 83

3.1.2 Analisi parametri ottimali processo di reticolazione ... 85

3.1.3 Caratterizzazione delle strutture in gelMA elettrofilate ... 90

3.2 Risultati con tecnica di micro fabbricazione PAM2 ... 98

3.2.1 Ottimizzazione del processo di stampa... 98

3.2.2 Analisi topologica ... 103

3.2.3 Ottimizzazioni del setup di stampa della PAM2 ... 104

3.2.4 Confronto processo stereolitografico con-setup di stampa della PAM2 ... 106

(3)

3.2.5 Possibili sviluppi futuri del setup PAM2 ... 111

3.3 Risultati con tecnica di micro fabbricazione Soft Lithography ... 113

3.3.1 Analisi topologica ... 113

3.3.2 Caratterizzazione delle strutture in gelMA ... 114

Bibliografia... 118 4. Colture cellulari ... 119 4.1 Materiali e metodi ... 119 4.2 Vitalità cellulare ... 119 4.3 Valutazione dell’osteogenesi ... 120 4.4 Risultati e discussioni ... 121 4.4.1 Vitalità cellulare ... 121

4.4.2 Risultati valutazioni osteogenesi ... 123

Bibliografia... 124

5. Conclusioni e sviluppi futuri ... 125

APPENDICE ... 127

APPENDICE I ... 128

APPENDICE II ... 129

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1. Ingegneria Tessutale applicata ai modelli

in vitro

L’ingegneria tessutale (TE) è un settore in continuo sviluppo che con un approccio interdisciplinare combina principi e conoscenze dell’ingegneria, chimica, biologia cellulare/molecolare, scienze dei materiali, matematica al fine di sviluppare strutture ingegnerizzate, meglio definite come scaffold, in grado di ripristinare o migliorare le funzioni di un tessuto danneggiato [1]. Il suo sviluppo nasce dalla mancata capacità da parte dei tessuti umani di autorigenerarsi in seguito ad un trauma, a delle malattie o al semplice invecchiamento cellulare [2]. Le attuali metodologie tradizionali prevedono l’impianto di strutture artificiali (protesi) o il trapianto nel sito danneggiato di tessuti di origine animale o umana (di tipo allogenico o autologo/eterologo). La ridotta disponibilità di organi o tessuti umani, il mancato riconoscimento in situ dell’organo trapiantato con conseguente risposta infiammatoria e la durata limitata di un impianto artificiale rappresentano solo una parte dei limiti delle attuali metodologie di supporto alla riparazione o sostituzione tessutale. A tale scopo, la TE si propone, dunque, di creare dei tessuti ingegnerizzati in grado di sostituire parti del corpo danneggiate o del tutto perse, o in alternativa di assistere o accelerare il processo rigenerativo della parte danneggiata [3]. Le strategie proposte dalla TE per il trattamento di tessuti malati o danneggiati prevedono: (i) l’impianto di singole cellule o aggregati cellulari precedentemente prelevati dal paziente o da un donatore e successivamente impiantati nel tessuto danneggiato in maniera diretta o tramite uno scaffold biodegradabile; (ii) l’impianto di un intera struttura 3D di tessuto ingegnerizzato “maturo” ottenuta in vitro dall’interazione di cellule e scaffold; (iii) la rigenerazione in vivo risultante dalla stimolazione diretta delle cellule presenti nel sito danneggiato tramite uno scaffold impiantato [4].

Uno dei principali obiettivi della TE nella realizzazione di un tessuto ingegnerizzato prevede dunque la progettazione di uno scaffold realizzato con materiali biocompatibili e bioassorbibili capace di mimare le proprietà della

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matrice extracellulare nativa e guidare la formazione di tessuti tridimensionali (3D) in vitro e in vivo.

Lo scaffold deve essere dunque in grado di garantire proprietà topologiche, chimico-fisiche tipiche del tessuto biologico naturale. Tali caratteristiche infatti giocano un ruolo fondamentale nello sviluppo di modelli in vitro 3D atti a riprodurre l’ambiente cellulare biologico.

Nati inizialmente come sostituti ai tradizionali studi in vivo svolti direttamente sugli animali, i modelli in vitro 3D vengono ampiamente utilizzati nella TE come modelli semplificati di tessuti biologici per lo studio dei complessi fenomeni cellulari che si sviluppano in vivo [5], Fig.1.

Figura 1 Esempio di modello in vitro di tessuto epiteliale nanostrutturato contenente cellule

Tra i principali vantaggi i modelli in vitro consentono una caratterizzazione specifica del comportamento cellulare fornendo inoltre dati riproducibili e oggettivi, prevedono costi ridotti rispetto alla sperimentazione animale riducendone ulteriormente l’utilizzo (soprattutto nelle fasi iniziali di sperimentazione).

Questi modelli di tessuti biomimetici trovano ampio sviluppo in differenti ambiti dell’ingegneria tessutale. Ad esempio, diversi studi si sono concentrati sulla realizzazione di modelli in vitro 3D per la rigenerazione tessutale

(6)

(fornendo delle prime possibili soluzioni, come nel caso della pelle [6]) o simulando costrutti 3D del corpo umano, come: cartilagine, osso, tessuto muscolare scheletrico [7, 8, 9].

I modelli in vitro vengono inoltre ampiamente utilizzati per lo studio di malattie o tumori. Negli ultimi anni, colture cellulari, scaffold 3D e sistemi di perfusione sono stati utilizzati nel campo della ricerca del cancro per comprendere meglio gli effetti dell'ambiente e della struttura locale, della progressione tumorale e delle soluzioni terapeutiche [10]. Esempi di modelli tumorali in vitro attualmente sviluppati sono: tumori alla prostata, alla mammella, osteosarcomi, ai reni [11 - 14].

Infine, i modelli in vitro di tessuto sono stati impiegati anche come strumento di indagine sistematica, ripetitiva e quantitativa dei farmaci. Questi modelli possono servire come piattaforme per uno screening più controllato dei farmaci e per analisi farmacocinetiche e farmacodinamiche eliminando o riducendo la sperimentazione animale [15] e consentendo lo sviluppo di terapie personalizzate.

1.1 Scaffold e biomateriali per la micro e nano

fabbricazione

Un ruolo chiave nella TE è ricoperto dallo scaffold, il cui principale ruolo è fungere da matrice temporanea per la proliferazione cellulare e la conseguente deposizione di matrice extracellulare naturale (ECM) [16]. A tal proposito, lo scaffold deve fornire una serie di input chimici, biologici e meccanici che replichino la ECM biologica. Deve, inoltre, essere da supporto per le cellule e garantire un ambiente che promuova la loro adesione, proliferazione, differenziamento, colonizzazione cellulare oltre che una diffusione dei nutrienti necessari all’interno della matrice.

Le principali caratteristiche che uno scaffold ideale dovrebbe avere sono:

o Biocompatibilità e biodegradabilità; è necessario che lo scaffold sia ben integrato all’interno del tessuto ospite in modo da evitare l’insorgenza di una risposta infiammatoria [17]. È inoltre fondamentale che il processo

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di degradazione dello scaffold produca sottoprodotti non tossici [18]. Infine, la velocità di degradazione dello scaffold deve essere adeguata alla velocità di crescita del tessuto, in modo da garantire una totale degradazione dello scaffold a rigenerazione tessutale completata [19]. o Porosità e dimensione dei pori ottimale; uno scaffold altamente poroso

(circa il 90% [20]) stimola la crescita cellulare, consente una distribuzione cellulare in tutta la struttura e una neovascolarizzazione del costrutto [21]. Uno scaffold con una geometria a pori interconnessi consente, inoltre, un’accurata diffusione dei nutrienti, gas e l’eliminazione di prodotti di scarto derivanti dal metabolismo cellulare. La dimensione dei pori (per la generazione di un tessuto in vitro la dimensione minima dei pori è di 100 µm [20]) è un ulteriore caratteristica rilevante nello scaffold in quanto da essa dipende la distribuzione cellulare, la produzione di ECM e la neovascolarizzazione delle aree interne dello scaffold [22].

o Proprietà superficiali, chimiche e topografiche adeguate; queste possono influenzare l’adesione e la proliferazione cellulare. La presenza di sequenze peptidiche specifiche (come la sequenza Arginina-Glicina-Acido Aspartico (RGD) permetterebbe allo scaffold di fornire i segnali di riconoscimento necessari alle cellule garantendone l’adesione, lo sviluppo e la differenziazione cellulare. Le proprietà topologiche, come ad esempio la rugosità superficiale, risultano influenzare il comportamento cellulare sotto diversi aspetti, come variazione di forma, proliferazione, migrazione ed espressione genica [23].

o Proprietà meccaniche compatibili al tipo di tessuto o al sito d’impianto, sufficienti a proteggere le cellule dagli sforzi di trazione e compressione ed a garantire gli spazi necessari per la crescita cellulare e la produzione della ECM.

o Stabilità meccanica; questa proprietà deve essere sempre bilanciata con le esigenze meccaniche del particolare tessuto che si intende rigenerare. Può essere influenzata dal grado di porosità dello scaffold e dalla velocità

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rigenerazione tessutale al fine di mantenere una stabilità meccanica dello scaffold [16].

La scelta del metodo di lavorazione e la selezione dei biomateriali impiegati sono due fattori rilevanti nella progettazione di uno scaffold.

In generale, il metodo di lavorazione deve essere scelto in modo da non influenzare le proprietà e le caratteristiche dei biomateriali, in particolare la loro biocompatibilità e le proprietà chimiche. Inoltre, il metodo di lavorazione dovrebbe essere accurato e riproducibile garantendo un controllo diretto sulla dimensione dei pori, la loro distribuzione e la loro connessione all’interno dello scaffold.

La scelta del biomateriale inoltre, è di fondamentale importanza in quanto le sue proprietà fisico-chimiche sono in grado di influenzare il comportamento cellulare. In generale un biomateriale impiegato nell'ingegneria tessutale dovrebbe [24]: - fornire un supporto meccanico e favorire il trasporto di massa al fine di garantire l'adesione, la proliferazione e il differenziamento cellulare;

- garantire un controllo sulle dimensioni e sulla forma dello scaffold; - avere proprietà meccaniche conformi al modello da realizzare; - avere un processo di fabbricazione semplice e ripetibile;

- essere biocompatibile, non inducendo alcuna risposta infiammatoria; - essere metabolizzato dai tessuti biologici a fine processo;

- essere facilmente sterilizzabile.

I biomateriali biodegradabili più comunemente utilizzati nella fabbricazione di scaffold in TE possono essere distinti in due principali categorie: i polimeri sintetici e i polimeri naturali.

• Polimeri sintetici

I polimeri sintetici biodegradabili attualmente più utilizzati nell’ingegneria tessutale sono: i poliesteri alifatici saturi che comprendono l'acido polilattico(PLA), l'acido poliglicolico (PGA) e i loro copolimeri, l’acido poli(lattico-co-glicolico) (PLGA), il policaprolattone (PCL), polimeri vinilici quali ad esempio

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il cloruro di polivinile, PVC, l’ alcool polivinilico, PVA e il glicole polietilenico (PEG).

I polimeri prima citati, infatti, devono la loro ampia applicazione biomedica al loro ridotto tasso di tossicità e alla loro elevata processabilità tramite tecniche di biofabbricazione [25] che consentono la realizzazione di scaffold con proprietà meccaniche e fisiche (quali modulo elastico, velocità di degradazione, resistenza a trazione [26]) riproducibili. Nei poliesteri alifatici saturi ad esempio la velocità di degradazione, e le proprietà meccaniche possono essere regolate alterando le proporzioni di lattide/glicolide e i parametri di polimerizzazione. Inoltre, i loro prodotti di degradazione (acido lattico e acido glicolico) essendo prodotti ottenuti dalla semplice idrolisi chimica vengono eliminati dalle vie metaboliche senza risultare tossici per le cellule [26].

A sua volta il PCL, date le sue qualità, quali: biocompatibilità, bassa immunogenicità, idrolisi in condizioni fisiologiche ha ottenuto l’approvazione dell’FDA come materiale utilizzato in ambito clinico.

Sebbene l’ampio utilizzo nella TE, i polimeri sintetici presentano dei rilevanti svantaggi nella riuscita di uno scaffold.

Un primo svantaggio può essere rilevato dalla degradazione acida del PLLA e del PGA in fase di idrolisi; la quale risulta infatti responsabile dell’abbassamento del pH locale causando la necrosi cellulare e tessutale all’interno dello scaffold [27]. Ulteriore svantaggio dei polimeri sintetici è il rischio di rigetto causato dalla loro ridotta bioattività. La mancanza di domini biologicamente funzionali, infatti, per quanto limiti la risposta immunitaria da parte delle cellule, non permette la presenza di fattori di crescita o lo sviluppo di segnali biologici che facilitano l’adesione cellulare o l’espressione fenotipica della cellula. In aggiunta, l’incompatibilità di alcuni parametri, quali il modulo elastico, tra i materiali sintetici e i tessuti naturali in alcune specifiche applicazioni (come nei modelli in vitro ossei) risulta un ulteriore aspetto limitante nell’utilizzo dei materiali sintetici nella TE [28].

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I biomateriali di derivazione naturale possono essere tipicamente suddivisi in due gruppi: biomateriali a base proteica (ad esempio, collagene, fibroina della seta, gelatina, fibronectina, cheratina, fibrina) e biomateriali a base di polisaccaridi (ad esempio, acido ialuronico, cellulosa, glucosio, alginato, condroitina, chitina e suoi derivati come ad esempio il chitosano) [26].

I biomateriali a base di proteine sono tipicamente ottenuti da fonti animali (come ad esempio la gelatina) e comprendono molecole bioattive che imitano l'ambiente extracellulare, mentre i biomateriali a base di polisaccaridi sono ottenuti principalmente da piante, come nel caso dell'alginato, o da fonti microbiche, come nel caso del destrano e dei suoi derivati.

I principali vantaggi dei polimeri naturali sono d’attribuire alla loro elevata bioattività, biocompatibilità e alla loro intrinseca somiglianza strutturale alla ECM naturale. La presenza di ligandi di superficie conferisce ad alcuni biomateriali naturali (ad esempio il collagene, la gelatina) un’innata capacità nel promuovere il riconoscimento biologico garantendo in tal modo l’adesione, la proliferazione e il differenziamento cellulare [29].

Inoltre, il processo d’organizzazione di macromolecole con struttura elicoidale e altamente strutturata come il collagene, la chitina e la cellulosa riveste un ruolo fondamentale sulla morfogenesi e sulla funzionalità dei tessuti biologici. Ad esempio, è stato osservato che una differente disposizione delle fibre di collagene di tipo I consente la formazione di tessuti differenti, come quello corneale o cutaneo [30].

I polimeri naturali, inoltre, se impiegati nelle applicazioni in vivo non rilasciano prodotti citotossici durante la degradazione e la loro velocità di degradazione può essere regolata modificando la composizione iniziale e/o le condizioni in fase di produzione [31].

Tali vantaggi hanno portato all’utilizzo di polimeri naturali per lo sviluppo di modelli in vitro per lo studio di malattie [32], per applicazioni di rigenerazione tessutale [33] e per applicazioni terapeutiche [34].

È altresì necessario aggiungere che il processo di produzione di tali biomateriali di derivazione naturale risulta più complesso e meno controllabile rispetto ai polimeri sintetici. Da tali limiti ne conseguono limitate proprietà meccaniche e

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variabilità nelle proprietà e nella composizione del materiale che può provocare una risposta immunitaria da parte delle cellule.

Tra i biomateriali naturali una particolare attenzione in questo elaborato di tesi è stata attribuita alla gelatina. La gelatina è una proteina ottenuta tramite il

processo di denaturazione del collagene. Il collagene è la proteina più abbondante (circa il 30% del contenuto proteico totale) nella ECM. Questa proteina non solo costituisce una componente strutturale fibrosa chiave del corpo umano, ma aiuta anche a produrre le proteine strutturali necessarie per la composizione macromolecolare e l'architettura strutturale della pelle, dei sistemi scheletrici (ad esempio, ossa, cartilagine, articolazioni, legamenti, tendini e vasi sanguigni) e di vari organi interni. A livello cellulare, i legami intracellulari formati dalle fibre di collagene forniscono i meccanismi di cementazione necessari per i collegamenti, il rinforzo e la protezione, e anche l'apporto di ossigeno e nutrienti. Sulla base delle sue proprietà funzionali e bioattive, è stato dimostrato che il collagene è un biomateriale versatile che può essere utilizzato per ottenere matrici 3D altamente organizzate (ad es. spugne, film, innesti e medicazioni cutanee), dotato di elevata resistenza alla trazione e di proprietà intrinsecamente biocompatibili, biodegradabili e non tossiche in caso di applicazione esogena [26].

Tuttavia, un grosso limite nell’impiego di tale materiale è dettato dalla sua immunogenicità e dalla possibile trasmissione di malattie legate al tipo di estrazione del materiale. Attualmente la maggior parte di collagene viene estratto da tessuti di origine animale, come la pelle o i tendini, o da tessuti umani di scarto, come la placenta o il tessuto adiposo.

Tra le differenti tipologie di collagene esistenti il collagene di tipo I è quello principalmente impiegato nella produzione della gelatina.

La gelatina è la combinazione di proteine denaturate ottenute attraverso un processo di idrolisi acida (tipo A) o alcalina (tipo B) del collagene di tipo I [35, 36]. Le principali fonti da cui la gelatina viene estratta sono: pelle di maiale (46%), pelli bovine (29,4%), ossa di suini e bovini (23,1%) e pesce (1,5%) [37]. In funzione del tipo di processo di idrolisi a cui è sottoposta, la gelatina può avere

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di acido glutammico e acido aspartico, prodotti dal processo alcalino, conferisce alla gelatina di tipo B un IEP acido (pari a 5) rispetto alla gelatina di tipo A (IEP= 9) ottenuta con processo di idrolisi acida.

Le catene polimeriche della gelatina sono composte da unità tripeptidiche ripetitive glicina-idrossilisina-prolina (Fig.2) [38].

Figura 2 Schematizzazione del processo di idrolisi del collagene in gelatina [38]

La gelatina è considerata un ottimo biomateriale in quanto [39]: - economica e facilmente reperibile;

- biodegradabile, biocompatibile;

- antigenicità minima (in quanto prodotto degradato del collagene);

- presenta abbondanti sequenze RGD (arginina, glicina, acido aspartico) che favoriscono l'adesione cellulare;

- gruppi funzionali chimicamente modificabili (per lo sviluppo di sistemi a rilascio di farmaci).

Nonostante la gelatina sia un ottimo candidato per la fabbricazione di scaffold ha però un’elevata solubilità in acqua ed in particolare ha una temperatura di transizione sol-gel intorno ai 30°C che la rende solubile a temperatura corporea

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[40]. Risulta, inoltre, molto sensibile alla degradazione indotta da enzimi proteolitici, quali gelatinasi e collagenasi [41], e manca di proprietà meccaniche necessarie nella progettazione di uno scaffold.

Processi di reticolazione risultano dunque necessari per consentire la formazione di legami chimici tra le catene polimeriche che il tal modo rendono la gelatina un biomateriale stabile e resistente in ambiente fisiologico.

A tal proposito possono essere impiegati due tipologie di cross-linking (reticolazione): chimico e fisico [40].

Il metodo chimico prevede l’utilizzo di reticolanti classificati come non-zero-length e zero-length. Della prima fanno parte le aldeidi (formaldeide, glutaraldeide, gliceraldeide), la genepina, 𝛾-glicidossipropil-trimetilsilossano (GPTMS) e gli isocianati. Questi durante la fase degradazione in vivo del biomateriale possono rilasciare composti reattivi e tossici che interagendo con l’ambiente biologico causando dei danni [40]. In contrapposizione, i reticolanti zero-length nella reazione tra i residui di acido carbossilico ed i residui di ammina libera presenti nella gelatina, non danno luogo alla formazione di strutture estranee all’interno della rete polimerica. Di questo gruppo fanno parte l'acile azide e i reticolanti carbodiimmide solubili in acqua [42]. Il principale svantaggio del crosslinking chimico è la presenza di molecole di reticolante non reagite; queste, rimanendo all’interno della matrice, possono provocare una reazione tra il substrato e l'agente di reticolazione durante la biodegradazione in vivo creando dei sottoprodotti tossici.

Il metodo di crosslinking fisico può essere realizzato mediante due approcci differenti: l’irradiazione ad alta energia, come l’ebeam e i raggi gamma, o l’utilizzo di radiazioni UV. In quest’ultimo caso la gelatina deve essere funzionalizzata prima dell’esposizione agli UV per consentire la reticolazione della matrice. Ne è un esempio la Gelatina Metacrilata [43], in cui la gelatina, previa funzionalizzazione con anidride metacrilata ed in presenza di un fotoiniziatore, risulta reticolata dopo l’esposizione agli UV.

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I polimeri naturali e sintetici in forma di idrogel trovano un’importante applicazione nell’ambito della TE. Gli idrogel sono reti tridimensionali, idrofile e polimeriche, in grado di assorbire grandi quantità di acqua o fluidi biologici. Il loro ampio utilizzo nell’ambito dell’TE è d’attribuire alla loro capacità di simulare da vicino i tessuti naturali viventi più di qualsiasi altro biomateriale, grazie: all'elevato contenuto d'acqua che riescono ad accumulare (10-20% il loro valore in peso [44]), alla porosità e alla consistenza morbida della struttura polimerica. In aggiunta a tali vantaggi gli idrogel possono essere chimicamente stabili o possono degradarsi ed in fine dissolversi [45] in funzione del tipo di applicazione desiderata.

Gli idrogel possono essere distinti in funzione del tipo di processo di polimerizzazione in: fisici e chimici. Gli idrogel fisici sono ottenuti da una polimerizzazione che include formazione di interazioni idrofobiche, ioniche o di legami ad idrogeno tra le catene polimeriche. Questo genere di polimerizzazione sebbene prevenga la dissoluzione dell’idrogel in acqua non consente la formazione di legami permanenti. Gli idrogel ottenuti per polimerizzazione chimica prevedono la formazione di legami covalenti tra le catene polimeriche; tali interazioni garantiscono una stabilità meccanica maggiore rispetto agli idrogel fisici.

La scelta del tipo di polimerizzazione e di altri parametri, quali: il peso molecolare, il metodo di reticolazione e la densità di reticolazione, determinano le proprietà fisiche e chimiche degli idrogel. Di quest’ultime di particolare interesse nell’ambito della realizzazione di scaffold 3D per applicazioni di TE vale la pena ricordare [46]:

- il rapporto di swelling (rigonfiamento), che indica la capacità di assorbimento dell’acqua [47] ed è definito come (1):

SR =W(− W+

W+ × 100% (1)

Con SR rapporto di swelling, W( peso dell’idrogel bagnato e W+ peso dell’idrogel a secco [47];

(15)

- il modulo elastico;

- la porosità, che è indicativa dell'area totale dei pori, rispetto a quella del polimero [48];

- la velocità di degradazione, definita come [47], (2):

𝐷% = W1− W2

W2 × 100% (2)

Con D% velocità di degradazione e W0 peso iniziale a secco dell’idrogel e

Wt peso a secco dopo un tempo t.

Un ulteriore fattore in grado di influenzare le proprietà dell’idrogel è la natura stessa dell’idrogel, è possibile infatti distinguere idrogel sintetici da naturali. Gli idrogel sintetici, come ad esempio: il Poli(etilenglicole)-diacrilato (PEGDA), poli(alcole vinilico) (PVA), poli(acido lattico), acido poli(acido lattico-glicolico) (PLGA) [49], il poli(N-isopropilacrilamide), PNIPAM [50]. Sebbene questi abbiano diversi vantaggi, come: una lunga durata, un'elevata capacità di assorbimento d'acqua, strutture ben definite con velocità di degradazione e funzionalità personalizzata al tipo di applicazione [51], mancano di opportune molecole bioattive che consentono l’adesione e il riconoscimento biologico. Per tale motivo diversi studi si sono mossi verso l’utilizzo di idrogel naturali come ad esempio: collagene, gelatina, pectina, gelatina metacrilata (gelMA), acido ialuronico (HA) [44].

Nello specifico la gelatina metacrilata, idrogel naturale a base di gelatina, sembra soddisfare in misura ragionevole i requisiti di biofunzionalità e adattabilità fisico-chimica attualmente mancanti in altri materiali.

(16)

1.2 Gelatina Metacrilata

La Gelatina Metacrilata, (gelMA) è attualmente uno dei biomateriali più utilizzati nella realizzazione di scaffold per applicazioni di TE. Tale importanza è dovuta alla varietà di proprietà biologiche, chimiche e fisiche che il gelMA è in grado di fornire, le quali sono principalmente da attribuire:

(i) alle caratteristiche biochimiche della gelatina. La gelatina, infatti, possedendo gruppi funzionali laterali (acidi carbossilici, tioli, gruppi idrossili) consente di creare legami covalenti con fattori di crescita o citochine che favoriscono la vitalità e la funzionalità cellulare [41]. Inoltre, la gelatina conserva i gruppi bioattivi del collagene (ad esempio: la sequenza RGD), i quali favoriscono l’adesione cellulare [52] e la presenza di sequenze enzimatiche della metalloproteinasi della matrice (MMP) atte al rimodellamento cellulare [53], Fig.3.

Figura 3 Reazione della gelatina con anidride metacrilata. I domini RGD sono illustrati come segmenti rossi lungo il gelMA [54].

(ii) alla natura di idrogel del gelMA. Tale caratteristica le consente di creare delle matrici 2D o 3D che mimano la naturale ECM. La capacità di trattenere volumi elevati di acqua, tipica degli idrogel, conferisce alle matrici di gelMA caratteristiche di idratazione simili a quelle dei tessuti in vivo e l’ulteriore presenza di una rete interconnessa di pori favorisce, inoltre, il trasporto di ossigeno, nutrienti e allo stesso tempo la diffusione di segnali biochimici di comunicazione cellula-cellula e cellula-matrice [55].

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(iii) al processo di reticolazione con esposizione agli UV a cui è sottoposta al fine di renderla un idrogel stabile a temperatura fisiologica. Il processo di reticolazione, con esposizione dell’idrogel gelMA agli UV, consente un controllo diretto sulle proprietà meccaniche del materiale, sulla porosità, sul grado di swelling e di degradazione dell’idrogel. Tali caratteristiche consentono la microfabbricazione di strutture 3D con morfologie controllabili, fornendo in tal modo piattaforme ideali per lo studio dei comportamenti cellulari, delle interazioni cellule-biomateriali e per applicazioni d’ingegneria tessutale [46]. Un ulteriore vantaggio del processo di reticolazione tramite esposizione agli UV del gelMA è la possibilità di produrre scaffold 3D con geometrie complesse e ben definite tramite tecniche di biofabbricazione che richiedono l’utilizzo di una fonte luminosa per consentire la reticolazione della struttura polimerica [56].

Ad esempio, tecniche di photopatterning, che prevedono l’utilizzo di fotomaschere per la realizzazione di strutture micromodellate in gelMA, sono state impiegate per favorire un controllo dell’allineamento cellulare [57]. Ulteriormente la stereolitografia o la polimerizzazione a due fotoni, con un approccio di fabbricazione strato per strato, hanno permesso la realizzazione di scaffold con forme particolarmente complesse [58, 59].

Oltre alle tecniche di biofabbricazione che prevedono l’impiego di fonti luminose, scaffold in gelMA vengono realizzati utilizzando altri processi, come ad esempio: tecniche di micromolding (ottenute da colature di gelMA su stampi a geometrie e dimensioni definite) o di bioprinting che consentono la realizzazione di scaffold a differenti livelli di risoluzione e con caratteristiche diverse in funzione della tecnica di fabbricazione impiegata [60, 56].

Tali vantaggi hanno condotto all’utilizzo del gelMA per lo sviluppo di: modelli biomimetici 3D in vitro di tessuti sani o malati per studi terapeutici o patologici[61], (ad esempio modelli in vitro di struttura dentaria [62], cartilaginea [63], nervosa [64], cardiaca [65], modelli di trombosi [66], tessuto epatico [67] e modelli di glioblastoma [68]), di costrutti per il rilascio controllato di farmaci[69] e di scaffold per la rigenerazione tessutale (ad esempio applicazioni per tessuto polmonare e cutaneo[70,71]).

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Il processo di reticolazione del gelMA, che ne consente il suo utilizzo nella realizzazione di scaffold per la TE, può essere riassunto in due fasi:

- sintesi del materiale, che prevede la funzionalizzazione della gelatina con anidride metacrilata (MAA);

- processo di reticolazione con esposizione del gelMA agli UV.

La sintesi del gelMA prevede una reazione di metacrilazione tra la gelatina e la MAA. Nello specifico, la funzionalizzazione della gelatina con MAA avviene attraverso la reazione della MAA con i gruppi amminici (NH5) e idrossilici (OH) della gelatina [56].

I prodotti ottenuti da questa prima fase di sintesi del materiale sono il gelMA e l’acido metacrilato, un prodotto di scarto successivamente eliminato in fase di dialisi del materiale, Fig.4.

Figura 4 Reazione della gelatina con anidride metacrilata. La sostituzione avviene nei gruppi amminici e idrossilici primari [72].

L’efficienza del processo di funzionalizzazione della gelatina è valutata attraverso il grado di sostituzione (DoF). Questo parametro quantifica il numero di gruppi amminici che hanno reagito con l’MAA sul numero totale dei gruppi amminici della gelatina (4):

𝐷𝑜𝐹 = 81 − 9 9:;<=>?@AB>

:;<BCB?DA)F x 100 (4)

dove 𝑛 HI<=>?@AB>e 𝑛HI<BCB?DA sono rispettivamente il numero di moli di gruppi amminici che hanno reagito con la MAA e quelli totali della gelatina. Questi due

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parametri vengono normalmente valutati attraverso la tecnica della spettroscopia di risonanza magnetica nucleare [73].

Il processo di reticolazione del gelMA prevede l’esposizione del materiale e di un fotoiniziatore (PI) agli UV.

Nello specifico, il gelMA va incontro a polimerizzazione radicalica indotta dall’esposizione a luce UV in presenza di un PI sensibile alla luce di una specifica lunghezza d’onda. In particolare, l’assorbimento di fotoni derivanti dall’esposizione alla luce (nel nostro caso luce UV) da parte del PI, provoca la formazione di radicali liberi, specie altamente reattive. Queste ultime reagendo con i gruppi laterali funzionalizzati del gelMA portano alla formazione di legami chimici tra le catene polimeriche del gelMA, Fig. 5.

Figura 5 Rappresentazione della reazione di foto-reticolazione del gelMA. I radicali liberi, prodotti dall’esposizione agli UV del PI, avviano il processo di reticolazione con i gruppi laterali metacrilati del gelMA. La propagazione avviene tra gruppi metacrilati situati sulla stessa catena e su catene diverse. La terminazione può avvenire tra due catene di propagazione o tra una catena di propagazione e un secondo radicale [56].

1.2.1 Sintesi del gelMA

Il processo di sintesi del gelMA rappresenta il punto cardine della riuscita del materiale e del suo ampio utilizzo nell’TE.

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Il primo metodo di sintesi fu sperimentato da van Den Bulcke et al. nel 2000 [43] e nel corso degli ultimi 20 anni ha visto uno sviluppo in termini ad esempio di concentrazione di MAA e pH di reazione.

Tra gli attuali metodi di sintesi sviluppati, due sono principali oggetto di studio di questo lavoro di tesi: il Metodo Convenzionale (comunemente più utilizzato) realizzato da Nichol, Jason W., et al. [41], ed il Metodo One-Pot sviluppato da

Shirahama, Hitomi, et al. [72], (Fig. 6).

Figura 6 Metodi di sintesi del gelMA [72]

Il primo metodo di sintesi proposto prevede una reazione di metacrilazione dei gruppi amminici liberi della lisina della gelatina con l’anidride metacrilata (MAA) in una soluzione tampone fosfato (PBS) a pH 7.4. Tale sintesi prevede, l’utilizzo di un quantitativo di MAA di 1 mL/gr di gelatina in grado di garantire un DoF pari all’85% [41].

Il metodo One-Pot prevede, invece, l’utilizzo di una soluzione tampone in Carbonato di Sodio-Bicarbonato di Sodio, CB, a pH 9 e un quantitativo di MAA di 0.1 mL/gr di gelatina che consente un DoF pari al 97%.

Una descrizione accurata dei due metodi di sintesi verrà eseguita nel capitolo 2.

Parametri di controllo

I parametri principali che influenzano fortemente il DoF del gelMA e quindi le sue proprietà chimico-fisiche sono: il pH durante la reazione tra gelMA e MAA

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(controllato attraverso l’uso di particolari soluzioni tampone) e la concentrazione della MAA.

È stato dimostrato [74] infatti che un pH di reazione MAA-gelatina superiore o uguale al punto isoelettrico della gelatina (valore del pH per cui una molecola presenta carica elettrica nulla) durante l’intera fase di sintesi, rende i gruppi amminici dei residui di lisina della gelatina neutri favorendo la loro reazione con la MAA.

Viceversa, un pH di reazione inferiore al pH isoelettrico provoca la protonazione dei gruppi liberi di lisina riducendo in tal modo il DoF, Fig.7.

Figura 7 Illustrazione schematica di come il pH della soluzione influisce sulla protonazione dei gruppi liberi di lisina nella gelatina di tipo A [74].

La scelta della concentrazione di MAA opportuna per la reazione di metacrilazione varia in funzione del metodo di sintesi utilizzato. In generale, la concentrazione di MAA deve essere superiore alla quantità in mmol di lisina presenti nella gelatina, che, nel caso della gelatina di tipo A, è pari a circa 2.86 mmol/10 gr di gelatina [75].

Occorre sottolineare che la presenza di MAA ha un effetto rilevante sulla riduzione del pH della soluzione durante il processo di sintesi dovuto alla formazione di acido metacrilico come prodotto di scarto della reazione. In particolare, maggiore è la concentrazione di MAA, maggiori sono le moli di acido metracrilico prodotti e quindi maggiore è la riduzione di pH nella fase di sintesi. Tale condizione

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provoca una minore formazione di legami tra i gruppi di lisina neutri e la MAA riducendo in tal modo anche il DoF.

L’utilizzo di soluzioni tampone (con pH maggiori e uguali al punto isoelettrico della gelatina di tipo A pari a 9) nella fase di sintesi del gelMA risulta quindi essere fondamentale per il mantenimento del pH in fase di reazione e per l’ottenimento di un DoF elevato. Nel metodo Convenzionale, l’utilizzo del tampone fosfato (pH 7.4 minore del punto isoelettrico della gelatina) richiede una concentrazione di MAA elevata per poter garantire un DoF pari a circa l’80%. Tale concentrazione risulta infatti essere 10 volte maggiore rispetto a quella utilizzata nel metodo One-Pot. In quest’ultimo, infatti, l’utilizzo della soluzione tampone in CB (con pH pari a 9) ha permesso una riduzione della MAA.

Il tampone in CB consente infatti di mantenere un pH di reazione pari al valore del pH isoelettrico della gelatina di tipo A, riducendo in tal modo a 0.1 mL/gr di gelatina la concentrazione di MAA e garantendo inoltre un DoF pari al 97%. Di seguito è possibile osservare un breve riepilogo delle principali differenze tra il metodo Convenzionale e il metodo One-Pot, Tabella 1.

Tabella 1 Descrizione delle principali differenze tra il metodo Convenzionale e One-Pot Metodo Convenzionale Metodo One-Pot Soluzione tampone

utilizzata tampone fosfato salino, pH 7.4

Carbonato di Sodio-Bicarbonato di Sodio, pH 9 Tipo di gelatina usata

e relativa concentrazione

Gelatina tipo A al 10 % p/v Gelatina tipo A al 10% p/v Concentrazione di

MAA 1 mL per grammo di gelatina

0.1 mL per grammo di gelatina

Temperatura di

reazione 50 °C 50 °C

Durata di reazione 3 h 3 h

Interruzione reazione Diluizione della soluzione di 5 volte il valore iniziale

Ridurre il pH della soluzione a 7.4

Grado di

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1.2.2 Processo di reticolazione del gelMA

I parametri che influenzano il processo di reticolazione del gelMA sono: - il tipo di PHL impiegato;

- la concentrazione del PHL;

- la durata di esposizione alla luce.

Tali parametri risultano fondamentali nello sviluppo del materiale in quanto sono in grado di influenzare le proprietà fisiche e chimiche dell’idrogel e hanno un effetto diretto sull’attività cellulare.

La scelta del Phl adatto risulta indispensabile al fine di garantire la polimerizzazione desiderata e fornire le funzionalità necessarie per l’applicazione d’ingegneria tessutale richiesta. Nello specifico, lo spettro di assorbimento, il coefficiente di estinzione molare, la solubilità in acqua, la stabilità e il metodo di produzione dei radicali liberi sono tutti parametri che influiscono nella scelta del Phl [76].

In funzione del meccanismo di produzione dei radicali liberi è possibile ad esempio, distinguere due categorie principali di Phl impiegati nel processo di polimerizzazione radicalica: i Phl fotopolimerizzabili (tipo I), e i Phl biomolecolari (tipo II). I Phl di tipo I, se esposti alla luce, assorbono i fotoni incidenti e decadono in due radicali primari dando inizio alla reazione di fotopolimerizzazione, mentre i Phl di tipo II sfruttano l’idrogeno presente nel co-iniziatore e generano radicali secondari necessari per il processo di reticolazione. Nella Tabella 2 sono stati riportati i principali Phl impiegati per la polimerizzazione del gelMA descrivendone: il tipo, la struttura chimica, il range della sorgente d’irradiazione, i solventi in cui è miscibile ed i vantaggi e gli svantaggi del loro utilizzo.

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Tabella 2 Descrizione delle caratteristiche dei principali Phl impiegati nel processo di reticolazione del gelMA

Fotoiniziatore, Phl Sistema di polimerizzazione

Nome Phl

Tipo

di Phl Struttura chimica

Sorgente di

irradiazione Solvente Vantaggi Svantaggi

Irgacure 29591 I UV (320-390 nm) Acqua, etanolo, carbonato d’etilene Bassa citotossicità e minima immunogenicità Basso coefficiente di estinzione molare

LAP2 I Luce blu

(405nm)

Acqua, etanolo

Basso rischio per la salute e la

sicurezza durante la polimerizzazione

con luce blu

Basso coefficiente di estinzione molare nello spettro della luce visibile (400-800 nm) Eosina-Y II Luce visibile (450-550 nm) Etanolo

Basso rischio per la salute e la sicurezza Richiede reagenti aggiuntivi per la reazione di reticolazione 12-Hydroxy-4′-(2-hydroxyethoxy)-2-methylpropiophenone 2litio fenil-2,4,6-tri-metilbenzoil-fosfinato

Il 2-Hydroxy-4ʹ-(2-hydroxyethoxy)-2-methylpropiophenone, più comunemente definito Irgacure 2959, è il fotoiniziatore fotosensibile alla luce UV ampiamente utilizzato.

La bassa citotossicità e immunogenicità e la moderata solubilità in acqua (5 mgr/mL [56]), lo rendono uno dei Phl più richiesti nel settore della TE. Tuttavia, il suo basso livello di iniziazione e di estinzione molare nella gamma spettrale UV-A hanno portato alla ricerca di fotoiniziatori alternativi, quali: il 2,2ʹ-azobis [2-metil-N-(2-idrossietil) propionamide] (VA-086), e il litio fenil-2,4,6-tri-metilbenzoil-fosfinato (LAP) che mostrano una maggiore efficienza e biocompatibilità.

Ulteriori studi si sono mossi verso l’utilizzo di Phl sensibili alla luce visibile (quali ad esempio l’Eosin-Y e il canforochinone) con lo scopo di ridurre la citotossicità

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provocata dall’esposizione ai raggi UV ed aumentare la solubilità del Phl in acqua [76].

Tuttavia, l’utilizzo di tali Phl è attualmente ridotto a causa della limitata rapidità di polimerizzazione; il livello di energia prodotto dalla luce visibile, infatti, richiede un tempo di esposizione maggiore del materiale alla fonte luminosa. In questo lavoro di tesi sono stati impiegati per la fotopolimerizzazione l’Irgacure 2959 e LAP. Le rispettive concentrazioni e le specifiche sul loro utilizzo verranno maggiormente trattate nel capitolo 2.

La concentrazione di Phl impiegato e la durata di esposizione alla luce influenzano notevolmente il grado di reticolazione del gelMA conferendogli una migliore stabilità in ambiente acquoso. Un tempo di esposizione agli UV prolungato (circa 30 minuti) favorisce l’interazione tra i radicali liberi del Phl e i gruppi metacrilici [43]. Van Den Bulcke et al.[43], hanno rilevato una relazione tra il tempo d’esposizione e la concentrazione del Phl, osservando che tempi inferiori di esposizione potevano essere impiegati utilizzando una concentrazione maggiore di Phl e viceversa. La scelta e la concentrazione del Phl così come la durata d’esposizione agli UV sono parametri di sintesi del materiale che possono influenzare la sopravvivenza e lo sviluppo cellulare. In generale, quando si seleziona il Phl, un principale elemento di preoccupazione è il potenziale effetto di citotossicità che i radicali liberi possono avere sulle cellule [77]. I radicali liberi possono, infatti, reagire con i principali componenti cellulari, come gli acidi nucleici o le proteine, e ridurre la vitalità cellulare o persino causare danni al DNA. [78]. Williams et al. [78], ad esempio, hanno studiato la compatibilità e la potenziale variabilità di tre diversi Phl sensibili agli UV (l’Irgacure 2959, l’1-hydroxycyclohexyl phenyl ketone e il 2,2-dimethoxy-2-phenylacetophenone) su sei tipi differenti di colture cellulari. Hanno dimostrato che esistono differenze significative di reazione da parte delle linee cellulari in funzione della concentrazione e del tipo di Phl impiegato. Tra i tre Phl impiegati nell’esperimento, l’Irgacure 2959 ha mostrato un minore effetto tossico su tutte le cellule. Inoltre, hanno osservato che valori di concentrazione di Irgacure 2959

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maggiori a medesimi tempi d’esposizione agli UV riducevano in tutte e tre le colture cellulari il tasso di vitalità cellulare.

1.2.3 Proprietà del gelMA

La possibilità di creare scaffold a base di gelMA con caratteristiche personalizzate in funzione del tipo di tessuto da imitare è ampiamente influenzata dalla scelta dei parametri del processo di reticolazione. Un’attenta analisi della concentrazione del gelMA, del DoF, della concentrazione del Phl e della durata di esposizione agli UV consente un controllo diretto sulle proprietà meccaniche e fisiche dell’idrogel, quali: modulo elastico e di compressione, porosità, swelling e velocità di degradazione.

o Modulo elastico e di compressione

Un primo parametro che è in grado di influenzare le proprietà meccaniche del gelMA è il DoF.

Da dati presenti in letteratura [77, 79, 80], è emerso che strutture in gelMA con percentuali crescenti di DoF (tra il 20 e l’80 %) consentono di ottenere idrogel con moduli elastici e di compressione sempre maggiori. Nello specifico, Chen et al. [80] hanno osservato una proporzionalità diretta tra il DoF e il modulo di compressione (2.0 kPa, per DoF 49.8%, 3.2 kPa, per DoF 63.8%, e 4.5 kPa, per DoF 73.2%), mentre Zhao, Xin, et al. [46] hanno osservato che un aumento del DoF, dunque un aumento della densità di reticolazione, è in grado di produrre un aumento del modulo elastico, registrando valori dell’ordine dei 200 kPa per DoF pari al 20%.

Un ulteriore parametro capace d’influenzare le proprietà meccaniche è la concentrazione di gelMA. Da diversi studi è emerso, infatti, che un aumento crescente della concentrazione di gelMA renda il materiale più rigido e provochi un incremento del modulo di compressione [81, 46].

Infine, la concentrazione del fotoiniziatore e la durata d'esposizione del gelMA agli UV sono ulteriori parametri che possono essere utilizzati per modulare le proprietà meccaniche del gelMA. È stato infatti osservato che un incremento della

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concentrazione di Phl e della durata di esposizione del materiale agli UV implichi la formazione di un numero maggiore di legami tra le catene polimeriche, provocando un aumento di modulo elastico e di modulo di compressione [55, 82].

o Porosità

La porosità, indicativa dell'area totale dei pori rispetto a quella del polimero, appare essere influenzata dal DoF e dalla concentrazione del gelMA. Chen et al. hanno osservato una riduzione progressiva della dimensione media dei pori, rispettivamente di 50, 30 e 25 𝜇𝑚 all’aumentare del DoF (49.8%, 63.8% e 73.2%) [81]. Questo comportamento si pensa essere legato ad un aumento della reticolazione tra le catene del polimero e alla conseguente riduzione della porosità intercatena [56, 80]. Athirasala et al. hanno, invece, mostrato una significativa diminuzione dell'area totale dei pori all’aumentare della concentrazione di gelMA [82].

o Grado di swelling

Una variazione del grado di swelling, può essere osservata in funzione del DoF e dalla concentrazione di gelMA. Nichol Jason W.et al. hanno infatti osservato che un aumento del DoF provoca una riduzione del grado di swelling del gelMA e che a concentrazioni minori (15%, 10%, 5%) di gelMA è possibile apprezzare un aumento del rapporto di swelling nell’idrogel [41,81].

o Velocità di degradazione

Zhao, et al. hanno osservato una diretta correlazione tra il grado di swelling e la velocità di degradazione dell'idrogel. Una riduzione del grado di swelling non soltanto limita la velocità e la quantità di penetrazione dell'acqua, ma riduce anche la velocità di degradazione dell’idrogel. È stato dimostrato che un aumento della concentrazione di gelMA dal 5% al 20% riduca i rapporti di swelling dal 1500% al 500% restituendo tempi di degradazione dell’idrogel maggiori (per concentrazioni di gelMA del 20% hanno osservato una velocità di degradazione pari ad 8 settimane) [46].

Avere un controllo diretto sulla velocità di degradazione del gelMA è molto importante in applicazioni di TE per stimare la velocità di formazione dei tessuti e risulta anche utile nel caso in cui si debba analizzare la cinetica di rilascio del

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1.3 Tecniche di micro e nano fabbricazione

Nello sviluppo di scaffold funzionali, impiegati per applicazioni di TE, è fondamentale la scelta della corretta tecnica di fabbricazione. Questa infatti dovrebbe garantire di ottenere scaffold con:

- strutture altamente organizzate, riproducibili, e con una geometria specifica per il tipo di tessuto biologico da mimare. Ciò è garantito attraverso un controllo preciso del design e della struttura dello scaffold. Ad esempio, un controllo sul grado di porosità, dimensione dei pori e interconnettività risulta fondamentale per la sopravvivenza cellulare in termini di diffusione cellulare all’interno dello scaffold e passaggio di nutrienti e distribuzione cellulare [16];

- caratteristiche superficiali (ad esempio porosità e/o rugosità superficiali) necessarie per consentire una corretta interazione scaffold-cellula. È stato dimostrato infatti che il differenziamento cellulare risulta essere fortemente dipendente dalla rugosità superficiale dello scaffold [83]; - risoluzione spaziale adeguata in grado di simulare la struttura gerarchica

della ECM [84];

- l'inserimento di fattori bioattivi che forniscano alle cellule gli stimoli chimici necessari allo sviluppo, differenziazione e adesione cellulare [83]; - processo non costoso.

A tale scopo, nel corso degli ultimi 20 anni sono state sviluppate una serie di tecnologie di biofabbricazione classificabili in due categorie: convenzionali ed avanzate.

Le tecniche convenzionali (tra cui la Solvent Casting, Particulate-Leaching e Freeze Drying), consentono la realizzazione di scaffold altamente porosi, tuttavia mancano di un controllo accurato in merito alla dimensione, alla geometria, all'interconnettività e distribuzione spaziale dei pori [85].

Nella Tabella 3, sono riportate le principali tecniche convenzionali: Solvent-Casting, Particulate-Leaching, Gas Foaming, Phase Separation, Melt Molding, e Freeze Drying.

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Tabella 3 Descrizione delle tecniche di biofabbricazione convenzionali, [85]

Tecnica Descrizione Vantaggi Svantaggi

Solvent Casting / Particulate

Leaching

Una soluzione polimerica è mescolata in modo uniforme con particelle saline (che fungono da porogeno) di un diametro specifico. Il solvente evapora lasciando una matrice polimerica con particelle saline incorporate che immersa in acqua, produce una struttura porosa.

Con questa tecnica si possono realizzare scaffold altamente porosi con valori di porosità fino al 93% e diametri medi dei pori fino a 500 μm.

Questa tecnica può essere utilizzata solo per produrre membrane sottili fino a 3 mm di spessore.

Gas Foaming

Polimeri biodegradabili sono pressurizzati ad alta pressione con agenti schiumogeni fino a saturazione. Il risultato è la nucleazione e la crescita di bolle di gas nel polimero con dimensioni comprese tra 100 e 500 μm. Si tratta di un processo organico privo di solventi e permette l’inserimento di biomolecole.

Il processo può produrre una struttura con pori non interconnessi, una superficie esterna non porosa e limitate proprietà meccaniche.

Phase Separation

Con l’aggiunta di un non-solvente o con un'attivazione termica dalla soluzione polimerica si genera una fase ricca di polimero ed una ricca di solvente. La fase ricca di polimero si solidifica, mentre l’altra viene rimossa, lasciando una rete polimerica altamente porosa.

Il processo è condotto a basse temperature, il che è vantaggioso per l'incorporazione di molecole bioattive nella struttura. Si ottiene una struttura fibrosa su scala nanometrica, che riproduce l'architettura naturale della ECM e fornisce un ambiente migliore per l'adesione delle cellule.

Residui di solventi.

Melt Molding

Uno stampo viene riempito con polimero in polvere e con un componente porogeno e poi riscaldato al di sopra della temperatura di transizione vetrosa del polimero applicando una certa pressione alla miscela. Una volta rimosso lo stampo, il porogeno viene eliminato e lo scaffold poroso viene asciugato.

Assenza di solventi che consente un controllo indipendente della morfologia e della forma.

Possibili residui di componente porogeno e assenza di molecole bioattive a causa delle elevate temperature di lavorazione.

Freeze Drying

Polimero disciolto ed acqua vengono emulsionati e dopo liofilizzati, con rimozione del solvente.

Buona porosità e pori

interconnessi. Limitata dimensione dei pori.

Lo sviluppo di tecniche avanzate di fabbricazione ha portato all’elaborazione di un nuovo concetto di Biofabbricazione, definita come: la produzione di complessi prodotti biologici viventi e non viventi a partire da materie prime, come cellule,

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Questo nuovo approccio alla progettazione di tessuti ingegnerizzati ha permesso, rispetto alle tecniche convenzionali, la realizzazione di scaffold con una architettura personalizzata e riproducibile e una microstruttura interna variabile del tutto simile alle strutture complesse dei tessuti naturali [84].

Delle tecniche di fabbricazione avanzate fanno parte: § l’elettrospinning;

§ tecniche di Additive Manufacturing (AM). Additive Manufacturing

Nata inizialmente come tecnica per la produzione di prototipi o modelli industriali, la AM nel corso degli ultimi anni ha subito una grande evoluzione rivendicandone l’utilizzo in svariati settori. A differenza dei processi sottrattivi, in cui la forma dell’oggetto è ottenuta dalla rimozione di materiale, nella AM l’oggetto finale è il risultato dell’unione strato per strato di elementi volumetrici (fabbricazione additiva).

La AM è l’insieme delle tecnologie in grado di sviluppare automaticamente un prodotto ben strutturato a partire dai dati acquisiti da un modello digitale.

Il concetto di fabbricazione additiva nasce dall’unione di tre tecnologie: la progettazione assistita da computer (CAD), la produzione assistita da computer (CAM) e il controllo numerico computerizzato (CNC).

In generale, l’oggetto digitale tridimensionale è virtualmente suddiviso in sezioni o fette (CAD/CAM) e il dispositivo di stampa ad esso collegato utilizza questi dati geometrici consecutivamente per formare strati diversi fino al raggiungimento del prodotto finale desiderato.

Lo spessore di ogni strato, così come la risoluzione del prodotto finale, dipende dallo strumento di stampa utilizzato nel processo di AM.

Questo approccio applicato alla TE prende il nome di Bioprinting ed è definito come: l'uso di processi di trasferimento computerizzato per la modellazione e l'assemblaggio di materiali viventi e non-viventi con un’organizzazione 2D o 3D definita, al fine di produrre strutture bioingegnerizzate impiegate nella medicina rigenerativa, nella farmacocinetica e negli studi di biologia cellulare di base [84].

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Ciò include la produzione additiva di scaffold progettati per controllare l'attività cellulare necessaria ai fini della riparazione o della rigenerazione dei tessuti. Le tecnologie avanzate di AM più comunemente usate nella biofabbricazione comprendono: (i) tecnologie basate sull’utilizzo di una fonte di luce, come: la sinterizzazione laser selettiva (SLS), l'ablazione laser selettiva, la stereolitografia (SLA) e la polimerizzazione a due fotoni (2PP); (ii) 3D printing; (iii) Fused Deposition Modeling (FDM)/ 3D Fiber Deposition (3DF)/ Bioextrusion; (iv) inkjet printing; (v) 3D plotting / bioplotting / robotic dispensing/ extrusion bioprinting (Fig.8).

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Figura 8 Principali tecniche di AM [86]

In questo lavoro di tesi, per la realizzazione delle strutture in GelMA sono state impiegate tre tecnologie di biofabbricazione: l’elettrospinning, la Soft Lithography e la PAM5. Di seguito vedremo di comprenderne le principali caratteristiche di funzionamento.

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1.3.1 Elettrospinning

L’elettrofilatura, o anche definita elettrospinning, è il processo di produzione che consente, dato un polimero in forma fusa o in soluzione, la realizzazione di nanostrutture monodimensionali in forma fibrosa.

Nato inizialmente come un processo per la produzione di fibre tessili ha visto un grande sviluppo nell’ambito della TE e della Medicina Rigenerativa in quanto favorisce la realizzazione di nanostrutture a diametro controllato e con proprietà specifiche in grado di imitare la ECM dei tessuti biologici.

L’elevata gamma di biomateriali che è in grado di trattare (polimeri naturali, sintetici, compositi e semiconduttori) e le diverse tipologie di collettori (che consentono una distribuzione delle fibre personalizzata in funzione della struttura da imitare) sono tra i principali vantaggi che l’elettrospinning può vantare.

Tuttavia, il limitato tasso di deposizione delle fibre (è possibile ottenere scaffold con uno spessore non superiore ad 1 mm), la loro eccessiva densità all’interno della struttura e la distribuzione irregolare e non controllabile, che ne limita la migrazione cellulare all’interno dello scaffold, risultano svantaggi rilevanti e sono attualmente oggetto di studio in ambito di ricerca [87].

Un tipico apparecchio di elettrofilatura è solitamente costituito da (Fig. 9): • una pompa volumetrica collegata alla siringa contenente il materiale da

elettrofilare;

• un collettore metallico collegato a massa;

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Figura 9 Disegno schematico del setup di base per l'elettrofilatura [88]

Il processo di elettrofilatura (Fig.10) può essere suddiviso in quattro fasi consecutive che prevedono (i) il caricamento della siringa con polimero fuso o solvente e formazione del getto a cono di Taylor; (ii) l’estensione del getto dentro una prima regione definita di campo vicino; (iii) diradamento del getto in presenza di un campo elettrico e crescita dell'instabilità elettrica di flessione e (iv) solidificazione e raccolta del getto come fibra solida sul collettore collegato a massa [88].

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i) All’inizio del processo, la soluzione del materiale viene estrusa (ad una velocità costante e controllabile) dall’ago della siringa a formare una piccola goccia. L’alta differenza di potenziale tra ago e collettore provoca un trasferimento di cariche con una certa polarità sulla superficie della goccia. Il graduale aumento della tensione, con il conseguente accumulo di cariche, si opporrà alla tensione superficiale, fino ad un valore limite di tensione per cui il materiale estruso defluirà dall’ago con una conformazione meglio nota come “Cono di Taylor”. ii) Dall'apice del cono di Taylor, un getto elettricamente carico viene

espulso e poi accelerato dal campo elettrico. Il getto si estenderà in direzione del campo elettrico muovendosi e riducendo il proprio diametro in prossimità del collettore. Come illustrato in Fig.10, il getto segue inizialmente una linea quasi rettilinea per una certa distanza dalla punta dell’emettitore meglio definita come regione di campo vicino.

iii) L’allungamento e conseguente assottigliamento del diametro del getto, man mano che questo si allontana dalla punta, lo rendono vulnerabile a fattori d’instabilità. In particolare, nella regione di campo lontano l’instabilità nota come whipping o instabilità di flessione impone sulla fibra una perturbazione in direzione radiale rispetto al getto; questo non è altro che il risultato della repulsione elettrostatica che si verifica tra le cariche superficiali sottoposte ad un forte campo elettrico. La fibra risulta dunque costretta a piegarsi e la traiettoria si evolve in una serie di loop, generando una spirale rispetto alla direzione di partenza. iv) Durante il processo di allungamento, si ha la solidificazione della fibra

dovuta all’evaporazione del solvente o al raffreddamento del fuso. v) La fase finale del processo di elettrofilatura è la deposizione delle fibre

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parte delle cariche sulle fibre viene rapidamente dissipata attraverso la messa a terra del collettore. Tuttavia, a causa della bassa conducibilità della maggior parte dei materiali, sulla superficie delle fibre raccolte rimane ancora una quantità misurabile di cariche residue. Tale accumulo sulle fibre tende a respingere il getto analogamente caricato, causando in tal modo un ridotto spessore di deposizione (limite massimo 0.5-1 mm).

Il risultato ottimale di un processo di elettrofilatura dovrebbe prevedere una deposizione di fibre continue e priva di gocce. A tale scopo è richiesta particolare attenzione nella scelta dei parametri di processo (i quali possono dipendere da caratteristiche proprie della soluzione, quali: tensione superficiale, concentrazione, viscosità, peso molecolare e conducibilità), da parametri di macchina (come: portata, tensione, tipo di collettore e distanza collettore-emettitore) e da parametri ambientali.

Parametri della soluzione § Concentrazione

Il processo di formazione delle fibre è garantito all’interno di un range utile di concentrazione che dipende dal materiale. Tale range è influenzato a sua volta dalla viscosità e dalla tensione superficiale.

Per concentrazione inferiori alla concentrazione minima del range, la struttura elettrofilata presenta dei beads, mentre concentrazioni maggiori della concentrazione massima del range non consentono un flusso continuo in punta all’ago. Soluzioni con concentrazioni che rientrano all’interno del range garantiscono una struttura elettrofilata con una distribuzione uniforme di fibre [87].

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Il peso molecolare definisce il numero di legami tra le catene polimeriche e, insieme alla concentrazione, influenza la viscosità della soluzione e la morfologia delle fibre. È stato osservato che un peso molecolare elevato consente di aumentare il numero di legami tra le catene favorendo il flusso continuo di fibre, riducendo in tal modo la produzione di beads e aumentando la dimensione del diametro delle fibre elettrofilate.

§ Viscosità

La viscosità è un parametro che dipende fortemente dalla concentrazione e dal peso molecolare del materiale elettrofilato. È necessario definire il valore corretto di viscosità in quanto per valori bassi non si assiste alla formazione di fibre continue producendo in genere delle beads, mentre un valore elevato di viscosità rende difficile l’estrusione del materiale.

§ Tensione superficiale

La tensione superficiale dipende dal tipo di solvente impiegato. Secondo Bhardwaj et al. [87], la tensione superficiale determina il limite di elettrofilatura delle nanofibre se tutte le altre variabili sono mantenute costanti. Per valori bassi di tensione superficiale è possibile ottenere fibre prive di beads ed in tal modo operare con campi elettrici minori.

§ Conduttività e densità di carica superficiale

Con poche eccezioni, quasi tutti i polimeri sono polielettrolitici e questa capacità influenza fortemente la formazione delle fibre. Solitamente, valori più elevati di conducibilità della soluzione comportano una diminuzione del diametro della nanofibra, viceversa una bassa conducibilità comporta alla formazione di fibre non uniformi e con beads. L'aumento della conducibilità può essere ottenuto aggiungendo sali ionici all’interno della soluzione

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polimerica come NaCl o KH5POQ, ottenendo fibre di diametro decrescente e senza gocce.

Parametri di macchina § Tensione

La tensione è uno dei parametri più importanti nell’elettrofilatura in quanto l’estrusione del materiale avviene solo dopo una certa soglia di tensione. Anche se la morfologia della fibra dipende maggiormente dalla concentrazione e dalla distanza collettore-emettitore, è stato osservato che una tensione elevata influenza il diametro delle fibre.

§ Portata

La portata determina la velocità di estrusione del materiale e la quantità di materiale deposto. E’ generalmente richiesta una portata inferiore per consentire una migliore polarizzazione ed evaporazione della soluzione polimerica. Valori più elevati della portata possono indurre la formazione di gocce a causa di un breve periodo di essiccazione prima di raggiungere il collettore.

§ Tipo di collettore

I collettori sono substrati conduttivi che raccolgono le fibre cariche durante il processo di elettrofilatura. I collettori si differenziano per materiale e geometria. Il collettore più semplice è il foglio di alluminio. Altre tipologie di collettore sono: la carta conduttiva, la barra reticolata, l’asta rotante. Alcune di esse possono anche contribuire all’allineamento delle fibre necessario per la realizzazione di alcune strutture per la TE.

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La distanza tra emettitore e collettore influenza il diametro e la struttura delle fibre. La distanza richiesta è solitamente minima in modo che le fibre si asciughino prima di raggiungere il collettore. In generale, a distanze troppo ravvicinate o elevate si osserva la presenza di beads nella struttura elettrofilata. Parametri ambientali

Come spiegato in precedenza, le condizioni ambientali, come umidità e temperatura, sono in grado d’influenzare la morfologia delle nanofibre. L'umidità sembra, infatti, avere un grande impatto sulla volatilità e quindi sulla velocità di evaporazione del solvente.

Mentre è stato dimostrato che temperature più basse portino ad una più lenta evaporazione del solvente compromettendo la riuscita dell’elettrofilatura.

1.3.2 Soft Lithography

La Soft Lithography è la tecnica derivata dalla fotolitografia e sviluppata da Whitesides nel 1989 [89], in cui il processo litografico viene utilizzato come punto di partenza per la costruzione di strutture morbide, “soft”, e con risoluzione microscopica.

Nello specifico tale tecnica prevede l’utilizzo di una struttura elastomerica (solitamente Polidimetilsilossano, PDMS), con una particolare geometria a rilievo, impiegata come stampo per generare strutture con dimensioni che vanno dai 30 ai 100 μm [90].

Questo processo può essere suddiviso in due fasi principali:

(i) la fabbricazione di uno stampo polimerico con una geometria superficiale ben definita; lo stampo polimerico è ottenuto come negativo di un wafer di silicio, anche definito master, ottenuto tramite processo fotolitografico. Il prepolimero elastomerico viene colato e successivamente polimerizzato e staccato dal master [90].

(ii) l'impiego della struttura polimerica ottenuta come ulteriore stampo per la generazione di costrutti tridimensionali; il risultato ottenuto risulta una copia del

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master. La struttura da stampare viene colata sullo stampo elastomerico e sottoposta a processo di reticolazione, Fig.11.

Figura 11 Illustrazione schematica della Soft-Lithography [91].

Per la realizzazione dello stampo di soft-lithography il principale elastomero solitamente impiegato è il PDMS. Tra gli altri elastomeri è possibile ricordare: poliuretani, poliimmidi e resine reticolate [90].

L’ampio utilizzo del PDMS soprattutto per applicazioni di TE risiede: (a) nella sua biocompatibilità; la maggior parte delle molecole o polimeri che vengono stampati non aderiscono irreversibilmente o reagiscono con la superficie del PDMS; (b) Il PDMS non è idroscopico quindi non si gonfia con l'umidità; (c) il PDMS ha una buona stabilità termica (fino a ∼186 °C in aria); quindi prepolimeri in fase di stampaggio possono essere polimerizzati termicamente. (d) L'elastomero PDMS è otticamente trasparente fino a ∼300 nm; i prepolimeri in fase di stampaggio possono anche essere trattati con reticolazione UV; (e) L'elastomero PDMS è isotropo e omogeneo; gli stampi realizzati con questo materiale possono essere

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deformati meccanicamente per manipolare i modelli e le strutture in rilievo sulle loro superfici [90].

I principali vantaggi che hanno definito la soft-lithography una tecnica utile nell’ambito di applicazioni di ingegneria tessutale sono:

- la possibilità di realizzare strutture tridimensionali e curvilinee [92]; - consente l’impiego di un'ampia varietà di materiali [92];

- la litografia morbida può essere utilizzata per controllare la topografia e la distribuzione spaziale delle molecole su una superficie, così come la successiva deposizione delle cellule [93];

- consente la realizzazione di canali microfluidici e scaffold per l'ingegneria tissutale in modo conveniente, rapido ed economico [93].

1.3.3 Pressure Activated Microsyringe, PAM

2

La Pressure Activated Microsyringe, (PAM2), è una tecnica di microfabbricazione

sviluppata presso il Centro di Ricerca “E. Piaggio” dell’Università di Pisa.

Il sistema di microfabbricazione gestito da un sistema computerizzato comprende: § un microposizionatore robotizzato a tre assi che consente la deposizione

del materiale allo stato liquido;

§ un sistema controllato a pressione, che prevede l’estrusione in maniera continua del materiale.

Il sistema può inoltre, includere lungo l’asse z del manipolatore robotico, il posizionamento di diversi moduli di microfabbricazione i cui parametri di controllo e di funzionamento sono gestiti in maniera indipendente.

Lo sviluppo di geometrie tridimensionali per la realizzazione di strutture multistrato è diretto da un sistema CAD/CAM tipico delle tecniche di prototipazione rapida consentendo la deposizione strato per strato del materiale con un tipico approccio di tipo bottom-up.

La deposizione del singolo strato è garantita dal movimento del piatto di supporto lungo il piano xy; il collocamento dello strato successivo è ottenuto dallo spostamento dell’estrusore, posto lungo l’asse z, rispetto al piatto di un certo ∆𝑧

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