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LE BIOMASSE: utilizzo del territorio e produzione energetica tra esigenze di mercato e principi di sostenibilita e tutela ambientale

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Academic year: 2021

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RIASSUNTO ANALITICO

Nel novero delle fonti rinnovabili di energia, le biomasse stanno occupando una posizione sempre più preminente. Di qui la necessità di una idonea regolamentazione del fenomeno, dal processo produttivo, alla lavorazione, fino alla trasformazione della risorsa in energia rinnovabile. Partendo dal presupposto che la disciplina attinente al procedimento autorizzatorio degli impianti di produzione di energia, nonché le politiche nazionali di incentivazione allo sviluppo nell’impiego della biomassa, costituiscono chiave primaria di lettura per la comprensione del fenomeno nei suoi aspetti più rilevanti, un’attenta analisi meritano anche le questioni pregiudiziali e quelle immediatamente connesse.

In particolare, all’esame del quadro normativo definitorio, funzionale alla comprensione dei limiti e dei criteri che ispirano l’identificazione delle biomasse all’interno dell’ordinamento positivo, si debbono aggiungere quelle condizioni relative alla produzione diretta di biomassa ed alla localizzazione sul territorio degli impianti deputati alla trasformazione energetica.

Il lavoro si propone, quindi, di analizzare i profili giuridici attinenti ai punti appena richiamati, nel tentativo di evidenziare tanto gli aspetti favorevoli quanto quelli che incidono negativamente sui propositi, delineati dalle politiche energetiche nazionali ed europee, di promozione dell’utilizzo della biomassa quale fonte rinnovabile. Il tutto, nell’ottica dello sviluppo sostenibile e della tutela dell’ecosistema.

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In range of renewable energy sources, biomasses are occupying an increasingly dominant position. On account of this lies the necessity of a suitable regulation that involves all steps from the production, through the processing, to the resources transformation into “green” Energy. Starting from the assumption that compulsory administrative proceedings for alternative energy plants authorization, as well as the regulation of compensatory tools represent the master key for the comprehension of all relevant aspects related to the biomass phenomenon, it is worth it to carry a careful research out of those aspects which preexist as for those which are instantly connected to the bioenergy matter.

In particular, up to the defining legal frame which is useful to understand all limits and parameters inspiring the biomass identification inside the national legal order, it is helpful to add some observations related to the direct plantation of the resource and also to the location of renewable energy plants into surrounding national areas.

The present work is intended to analyze all legal features connected to the forementioned data, in order to point out both positive aspects and those ones which affect adversely the national and European purpose to give impulse and rise the use of biomasses as a precious alternative resource. All of that, oriented in the perspective of a sustainable development and protection of environment.

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PREFAZIONE

Il tema delle biomasse, per quanto attuale e coinvolgente, mantiene nei confronti del giurista una parte celata, di difficile comprensione. Le energie rinnovabili, e la materia ambientale più in generale, costituiscono ambiti della cultura che vengono spesso denominati trasversali. Nonostante ciò, quello che contraddistingue la trasversalità di questa materia dalle altre è l’elemento interdisciplinare che invade tanto settori differenti della scienza giuridica, quanto universi molto lontani dalla preparazione legale. Una sfida che sembra rivolta persino ai legislatori europei e nazionali sempre più famelici di nozioni ingegneristiche, chimiche, matematiche al fine di rendere la disciplina normativa conforme alle conoscenze ed alle leggi proprie di queste materie. Ebbene, è in questa natura e nella finalità della materia energetico-ambientale che si coglie un certo spirito universale o globalizzato che coinvolge tutti noi. In verità, il fenomeno relativo all’impiego delle biomasse, o altre fonti rinnovabili, per produrre energia pulita non riguarda solo giuristi, chimici o matematici di questo o di un altro Paese, ma riguarda tutti quelli che ci sono e soprattutto quelli che ci saranno. Garantire alle generazioni future un pianeta in condizioni uguali o migliori rispetto a quelle di cui beneficiano i presenti, rappresenta un impegno fondamentale a cui nessuno dovrebbe sottrarsi nonostante qualche sacrificio. Sono questi gli aspetti che portano a voler sapere, conoscere ed imparare e sono queste le ragioni che mi hanno spinto a realizzare il presente lavoro.

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INTRODUZIONE ... 7

CAPITOLO I – BIOMASSA: DEFINIZIONI E CLASSIFICAZIONI NEL QUADRO NORMATIVO COMUNITARIO E NAZIONALE ... 13

1.1. La nozione di biomasse nell’ambito giuridico europeo ed italiano ... 13

1.2. La nozione di rifiuto – Cenni- ... 21

1.3. La nozione di materia prima secondaria – Cenni- ... 25

1.4. La nozione di sottoprodotto – Cenni - ... 31

1.5.1. Sui rapporti fra biomasse, rifiuti, materie prime secondarie e sottoprodotti ... 37

1.5.2. Biomasse e rifiuti: una relazione dai confini incerti ... 37

1.5.3. Biomasse e materie prime secondarie: la valorizzazione della destinazione d’uso ... 46

1.5.4. Biomasse e sottoprodotti: alleati per garantire uno sviluppo sostenibile ... 48

CAPITOLO II – LE BIOMASSE SUL TERRITORIO: PIANIFICAZIONE, COLTURE DEDICATE E FILIERE ... 51

2.1. Introduzione alla questione delle colture dedicate ... 51

2.2.1. I tipi e le caratteristiche delle colture dedicate maggiormente praticati in Italia ... 52

2.2.2. Gli aspetti ambientali positivi connessi all’agricoltura no- food ... 54

2.2.3. Gli aspetti ambientali negativi connessi all’agricoltura no- food ... 58

2.3.1. Le filiere agro-energetiche: profili introduttivi ... 61

2.3.2. Intese di filiera, contratti quadro e contratti di filiera ... 63

2.3.3. Il ruolo dell’agricoltore nella filiera agro-energetica ... 65

2.3.4. La filiera all’interno del distretto agro-energetico ... 68

2.4.1. La pianificazione energetica ... 72

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CAPITOLO III – DISAMINA DELLE ATTIVITA’ LEGISLATIVE ED AMMINISTRATIVE IN MATERIA DI ENERGIE RINNOVABILI (DA

BIOMASSA) ... 80

3.1 Il riparto delle competenze, tra istanze letterali ed interpretazioni creative del dettato costituzionale ... 80

3.2. L’attività legislativa ai fini dell’individuazione delle aree o dei siti non idonei all’istallazione di impianti (da biomasse) ... 96

3.2.1 (segue) Le scelte della regione Toscana in materia di aree e siti non idonei ...101

3.3.1 Il regime autorizzatorio degli impianti a fonti rinnovabili. Introduzione. ...107

3.3.2 La comunicazione di inizio lavori nelle ipotesi costituenti attività libera ...117

3.3.3 Dalla D.I.A. alla P.A.S., passando per la segnalazione certificata di inizio attività (S.C.I.A.) ...120

3.4.1 Il procedimento unico per il rilascio dell’autorizzazione necessaria alla costruzione ed all’esercizio dell’impianto ...132

3.4.2. Fase preparatoria e verifica preliminare dell’istanza ...134

3.4.3. Fase istruttoria e decisoria ...141

3.4.4. (segue) I rapporti tra screening, Via ed autorizzazione unica...152

CAPITOLO IV – I REGIMI PUBBLICI DI SOSTEGNO ALLA PRODUZIONE DI ENERGIA DA BIOMASSE ... 156

4.1. Gli strumenti di mercato per la tutela ambientale ...156

4.2. I sistemi di incentivazione. Aspetti generali ...160

4.3.1. L’evoluzione nazionale in materia di regimi di incentivazione ...164

4.3.2. I meccanismi del c.d. CIP/6 ...165

4.3.3. La svolta dei Certificati Verdi… ...169

4.3.4 L’introduzione della Tariffa Onnicomprensiva ...173

4.3.5. Ulteriori strumenti di sostegno: il c.d. scambio sul posto ...177

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4.4.2. Uno sguardo al d.m. 6 luglio 2012 sul sostegno alla produzione di

energia rinnovabile da biomassa ...180

4.5. Strumenti di orientamento ed informazione: le certificazioni ...183

4.6. Gli aiuti di Stato per la tutela dell’ambiente ...185

CONCLUSIONI ... 188

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI ... 198

Link bibliografici multimediali: ...211

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Nel 1789 Antoine Laurent Lavoisier, nel suo

Traité Élémentaire

de Chimie

, introduceva la legge di conservazione della massa per la quale

“nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”.

Il principio che si ricava da questo famoso aforisma, risulta quanto mai attuale ed allo stesso tempo congeniale ad un ambito, quello delle politiche energetiche, molto lontano rispetto alla dimensione chimica alla quale la legge era destinata.

In questi anni la questione energetica ha invaso il diritto ambientale, estendendosi come tema centrale anche nel dibattito politico, economico e sociale.

Con il protocollo di Kyoto del 1997, sottoscritto da 153 Paesi, la comunità internazionale manifesta un accentuato interesse per il fenomeno del mutamento climatico. Un’esigenza mondiale basata soprattutto sulla necessità di un intervento comune per la riduzione quantitativa delle emissioni di gas ad effetto serra, attraverso la determinazione di obiettivi e

standards

giuridicamente vincolanti per gli Stati contraenti. La consapevolezza che le fonti tradizionali per la produzione di energia non solo non sono più sufficienti, ma rappresentano un rischio ambientale per l’intero pianeta, ha condotto ad un ripensamento nell’attività di sfruttamento delle risorse nell’ottica di allungare il ciclo di vita dei prodotti ed al contempo diversificare le fonti di energia per promuovere quelle capaci di contenere il bilancio energetico-ambientale alla luce degli obiettivi fissati.

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In questo senso, anche l’Unione Europea, con il c.d. pacchetto clima-energia ha assunto l’impegno a sostenere, mediante politiche comuni, la riduzione dei consumi energetici e la diversificazione degli approvvigionamenti, entrambi fattori guidati dall’obiettivo principale di salvaguardia dell’ambiente.

La direttiva 28/2009/CE approvata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dell’Unione Europea, compie un ulteriore passo in avanti nel quadro normativo europeo rispetto all’impegno nella promozione dell’impiego di fonti rinnovabili di energia. La direttiva fissa gli obiettivi che ciascuno Stato membro deve raggiungere con riferimento alla produzione di energia pulita all’anno 2020. Sulla base del principio di responsabilità comune ma differenziata, che ha ispirato anche la politica internazionale che emerge dal protocollo di Kyoto, il legislatore europeo ha predisposto i criteri di calcolo della quota d’obbligo di energia da fonti rinnovabili che ogni Stato, in misura proporzionale alla proprie capacità ed inclinazioni territoriali, deve conseguire attraverso l’attuazione di piani di azione nazionali.

A seguito verrà presentato un grafico che rileva in forma statistica l’aumento progressivo, nello scenario europeo, previsto per il consumo delle varie fonti di produzione di energia rinnovabile al 2020:

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Grafico A

(fonte: Agenzia Europea per l’ambiente –

www.eea.europe.eu

)

Quanto all’Italia, il decreto del MISE 15 marzo 2012 (c.d. Decreto

Burden Sharing

) definisce gli obiettivi regionali che andranno a concorrere al raggiungimento della quota d’obbligo secondo il seguente meccanismo di ripartizione e partendo dal 2009 come anno iniziale di riferimento:

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GRAFICO B

( fonte: Allegato 1 al Decreto ministeriale 15

marzo 2012 )

Quando si parla di fonti rinnovabili si fa riferimento a quei materiali o sostanze che, per loro intrinseca natura, si rigenerano in un arco di tempo tale da non pregiudicare le risorse per le generazioni future.

Affermare che la biomassa sia la nuova frontiera della produzione energetica sarebbe quanto mai errato. Non serve possedere nozioni complesse per accorgersi che l’uomo ha sempre sfruttato la biomassa da quando ha imparato ad usare il fuoco. Ciò che rappresenta un’innovazione dei tempi moderni risiede in verità nelle tecnologie introdotte per la riconversione energetica della

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fonte biologica, nonché nell’impegno dei governi a sostenere le iniziative economiche virtuose nel campo delle energie pulite.

Tra le diverse opzioni nell’ambito delle rinnovabili (fotovoltaico, eolico, moto ondoso, geotermia), quella delle biomasse ha il vantaggio di produrre energia sia per il mercato termico ed elettrico che per i trasporti. Il principio che sta alla base della sostenibilità nell’impiego della biomassa a scopi energetici si fonda sul ciclo dell’anidride carbonica. In particolare, la CO2 che viene liberata in atmosfera a seguito della combustione della fonte biologica, sarà nuovamente assorbita attraverso l’attività fotosintetica delle piante che a loro volta costituiscono biomasse.

Può essere utile ricordare quali sono i livelli di produzione di energia da biomasse rispetto a quelli totali di energia derivata da altre fonti rinnovabili. Prendendo in considerazione la dimensione europea, la situazione può essere rappresentata come segue.

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Osservando il grafico, che rileva i dati relativi all’anno 2011, l’Italia produce il 9,3% dell’energia rinnovabile totale dall’impiego delle biomasse. Questo dato appare rilevante se confrontato con quelli relativi agli altri Paesi dell’UE, nella maggior parte dei quali la produzione bioenergetica risulta inferiore. Ne deriva che nel novero delle fonti rinnovabili di energia, le biomasse stanno occupando una posizione sempre più preminente soprattutto in rifermento alla Germania, al Regno-Unito, alla Svezia ed all’Italia (in quest’ordine).

Pertanto, l’analisi sull’impiego della biomassa non può arrestarsi a simili considerazioni semplicistiche. Occorre, infatti, tener presente che la produzione di energia da biomasse necessita di attente considerazioni sulle ricadute che il loro utilizzo comporta. Competizione con altri usi per il suolo, logistica degli approvvigionamenti, economicità e dimensioni delle filiere sono alcuni dei profili problematici che bisogna tenere in stretta considerazione per garantire un uso sostenibile della risorsa. L’analisi di questi nodi problematici costituisce la struttura portante sulla quale poggerà l’intero lavoro. Uno studio finalizzato a far emergere i punti deboli derivanti tanto sistema astratto disciplinato dalla normativa in materia di biomasse quanto dalla sua applicazione concreta.

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1.1. La nozione di biomasse nell’ambito giuridico

europeo ed italiano

Ogni trattazione che possa definirsi completa non può che iniziare dalle basi. Per comprendere al meglio i meccanismi giuridici della disciplina delle biomasse è quindi utile partire dalla definizione del termine stesso ed incrociarlo con quelle di altri termini, che sul primo hanno un’influenza diretta. Ci si riferisce ai concetti giuridici di rifiuto, sottoprodotto e materia prima secondaria, che non devono essere considerati come meri accessori della biomassa in quanto fenomeni oggetto di autonoma disciplina legale, piuttosto come complementari ed integranti la fattispecie “biomassa”.

Da giuristi, siamo avvezzi ad interpretare ed intendere i termini in modo differente rispetto all’uso che ne viene fatto comunemente o in altre discipline. Per questa ragione, la prima distinzione che si rende necessaria è quella che intercorre fra il concetto giuridico e quello meta-giuridico di biomassa.

Solo negli ultimi anni, e più precisamente dal momento in cui il diritto ambientale ed energetico hanno subito un’evoluzione sia per dimensioni che per contenuti, si è sentito parlare di biomasse. Tuttavia tale locuzione è stata coniata nel 1922-23 da alcuni scienziati come Vladimir Vernadskij, mineralologo e geochimico, e Reinhart Demoll. Quest’ultimo definì come biomassa il valore utile a definire la capacità produttiva di un particolare ambiente

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biologico1. Sempre in ambito scientifico, la biomassa viene definita anche come una quantità in peso costituita da organismi viventi per unità di superficie e di volume2.

Questa accezione continua ad essere utilizzata tutte le volte in cui il concetto di biomassa viene impiegato in senso ecologico.

Il carattere di univocità e certezza che contraddistingue la nozione scientifica appena descritta si perde completamente nel momento in cui si passa ad analizzare la definizione giuridica di biomassa. Possiamo dire, in generale ed ancora in senso pressoché atecnico, che le biomasse sono tutte quelle sostanze o prodotti derivanti da materie biologiche di origine organica, sia animale che vegetale3.

In questo ampio spettro di materiali, denotato della eterogeneità dei vari elementi, si inserisce il problema delle definizioni, problema che riguarda sia l’ambito giuridico comunitario che quello nazionale, il quale ne costituisce la trasposizione. Con questo si intende dire che, a seconda del singolo materiale, della sua provenienza o della sua finalità utilizzativa, muta il quadro normativo di riferimento, con esiti non solo differenti ma spesso contraddittori.

Possiamo anticipare fin da adesso che quello che più interessa in questa sede è la biomassa a scopi energetici, cioè intesa come

1

Enciclopedia Garzanti,ad vocem “biomassa”, Mondolibri, Vol. Scienze, 2001, pag. 212.

2

Lev Aleksandrovich Zenkevich, Fish-food in the Barents Sea. (Introduction). Reports of the first Session of the State Oceanographical Institute (Mosca, 14-22 aprile 1931), estratto consultabile in oxfordjournals.org.

3

Una definizione generica di biomassa è rintracciabile nell’articolo di L. Rubini L’energia prodotta da biomassa – Definizione Biomassa, pubblicato a Roma, il 5 marzo 2007 sul portale rinnovabili.it.

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fonte rinnovabile per la produzione di energia elettrica e/o termica (c.d. biomassa combustibile). Delineando in tal modo i contorni della questione, diventa più facile stabilire se esista o meno una definizione pertinente e se questa risulti abbastanza specifica da essere in grado di contenere ogni aspetto del fenomeno -coltivazione, raccolta, stoccaggio, trasporto, impiego, etc- e di ricondurlo ad una disciplina uniforme.

Partendo dal primo punto, quello relativo alla ricerca di una definizione normativa generale di biomassa in senso energetico, la risposta può essere affermativa ma non senza qualche precisazione. L’art 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. 29 dicembre 2003, n. 387 richiama testualmente la definizione di cui alla Direttiva Europea 2001/77/CE prevedendo che “

... per biomassa si

intende: la parte biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui

provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze vegetali e

animali) e dalla silvicoltura e dalle industrie connesse, nonché la

parte biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani”

.

Tale definizione è stata successivamente ampliata dal d.lgs. 3 marzo 2011, n. 28 in attuazione della Direttiva 2009/28/CE, recante modifica e successiva abrogazione delle direttive 2001/77/CE e 2003/30/CE che all’art. 2, rubricato

Definizioni

, stabilisce, alla lettera e), che la biomassa consiste nella: “…

frazione biodegradabile dei prodotti, rifiuti e residui di origine

biologica provenienti dall'agricoltura (comprendente sostanze

vegetali e animali), dalla silvicoltura e dalle industrie connesse,

comprese la pesca e l'acquacoltura, gli sfalci e le potature

provenienti dal verde pubblico e privato, nonché la parte

biodegradabile dei rifiuti industriali e urbani.”

Si tratta invero, di un ampliamento che tenta, pur non riuscendoci pienamente, di tracciare dei confini più stretti,

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specificando meglio quali sostanze considerare biomasse ai fini dell’applicazione del decreto stesso. Rispetto alla definizione presente nella direttiva europea, il legislatore italiano sceglie di annoverare all’interno della definizione di biomassa, gli sfalci e potature del verde pubblico e privato, non menzionate a livello comunitario. L’art. 2 del d.lgs. 28/2011 continua, introducendo una novità. Alla definizione generale vengono infatti aggiunte altre definizioni:

lettera H:

bioliquidi i

combustibili liquidi per scopi energetici

diversi dal trasporto, compresi l'elettricità, il riscaldamento ed il

raffreddamento, prodotti dalla biomassa”

;

lettera I:

biocarburanti i

carburanti liquidi o gassosi per i

trasporti ricavati dalla biomassa”;

lettera O:

biometano il

gas ottenuto a partire da fonti

rinnovabili avente caratteristiche e condizioni di utilizzo

corrispondenti a quelle del gas metano e idoneo alla immissione

nella rete del gas naturale”.

Bisogna, per completezza, precisare che alle definizioni di cui al d.lgs. 387/2003 e 28/2011 si affiancano peraltro altre definizioni, contenute in discipline aventi ambiti materiali diversi. Dobbiamo infatti considerare che la disciplina contenuta nel d.lgs. 387/2003 e successivamente nel d.lgs. 28/2011 regola solo alcuni aspetti del fenomeno biomasse, essendo applicabile in sede di autorizzazione alla realizzazione ed all’esercizio di impianti alimentati da fonti rinnovabili. Ci sono, poi, altre fonti che, regolamentando altri profili, contengono una loro propria definizione.

Un primo esempio è quello dell’art. 293 del d.lgs. 152/2006, relativo alle procedure di autorizzazione alle emissioni in atmosfera, che prevede : “

Negli impianti disciplinati dal titolo I e

dal titolo II della parte quinta del presente decreto, inclusi gli

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impianti termici civili di potenza termica inferiore al valore di

soglia, possono essere utilizzati esclusivamente i combustibili

previsti per tali categorie di impianti dall'Allegato X alla parte

quinta del presente decreto, alle condizioni ivi previste …”

. A sua volta, l’allegato X, parte II, sezione 4, include fra le biomasse ammesse alla combustione solo alcuni materiali vegetali e quindi sono esclusi tutti i materiali di origine animale, che pur sono considerati nella definizione generale del già citato art. 2, nonché altre sostanze organiche che potrebbero potenzialmente essere annoverate fra le biomasse.

Il problema è stato in parte risolto facendo leva sul richiamo operato dall’art. 267 del Codice dell’Ambiente alla direttiva 2001/77/CE, senza apportare modifiche a quanto da essa previsto. Ne deriva che, in sede di procedure autorizzatorie, l’organo competente non può che fare riferimento alla definizione speciale contenuta nell’art. 2 della suddetta direttiva e sue successive modificazioni, anche perché essa costituisce attuazione di una normativa comunitaria, come tale destinata a prevalere su qualsiasi definizione nazionale non conforme4.

Una conclusione analoga si raggiunge considerando anche le altre definizioni presenti nel nostro ordinamento. Si fa riferimento in particolare alla L. 296/2006, così come modificata dalla L. 222/2007, ed alla L. 244/20075, le quali definiscono la biomassa in

4

Cfr. in tal senso, la sentenza n. 1539/2009 del T.A.R. Piemonte, Torino. Sull’argomento vedi anche A. Pierobon, Sviluppo sostenibile. Definizione Biomasse, pubblicato il 12/04/2004 in lexambiente.it, rivista giuridica on-line a cura di L. Ramacci, sez. dottrina.

5

Più precisamente ci si deve riferire al D.M. 18 dicembre 2008, che costituisce attuazione della L. 244/2007 e richiama le definizioni presenti all’art 1, comma 382 e 382-sexies della legge 296/2006, così come introdotti della legge di

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relazione all’accesso ai meccanismi di incentivazione previsti per la produzione di energia da fonti rinnovabili. Si tratta anche in questo caso di definizioni che non coincidono pienamente con quella di derivazione comunitaria, per la ragione che, soprattutto con riferimento alla legge finanziaria del 2007, viene operata una interpretazione restrittiva dei materiali suscettibili di incentivazione che porta ad escludere dai meccanismi ivi previsti tutti i materiali che, pur rientranti nella definizione di biomassa di cui all’art 2 della direttiva 2009/28/CE, non sono ottenuti nell’ambito di intese di filiera o contratti quadro ai sensi degli articoli 9 e 10 del d.lgs. 27 maggio 2007, n. 102.

Nonostante la valenza di definizione generale da attribuire a quella contenuta nell’art. 2 direttiva 2009/28/CE, i problemi derivanti dalla coesistenza di altre definizioni sparse tra le varie fonti che interessano la materia non cessano di esistere. In merito il T.A.R. Piemonte6 ha affermato che è fisiologico che: “

nel sistema

coesistano più definizioni di biomassa, dettate nel contesto di

diverse discipline, magari tutte di derivazione comunitaria, tant'è

che la direttiva 77/2001 si preoccupa espressamente di fare salve

le eventuali preesistenti e diverse definizioni di biomassa”

. Pertanto, il T.A.R. ravvisa “

l'inutilità di tentare la ricostruzione di

un'unica e universalmente valida definizione di biomassa”

e conclude nel senso che “

è necessario comprendere a quale fine e

in quale contesto la definizione di biomassa deve essere

ricostruita, per poter procedere all'individuazione della giusta

definizione”.

modifica del 29 novembre 2007 n. 222 ai fini dell’applicazione dei meccanismi di incentivazione costituiti dai certificati verdi e dalla tariffa onnicomprensiva.

6

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E’ arrivato il momento di considerare il secondo punto anticipato precedentemente, e cioè se la definizione di cui all’art 2 della direttiva 2009/28/CE sia precisa ed inequivocabile ai fini dell’applicazione di una normativa uniforme, che tenga conto di tutti gli aspetti del fenomeno giuridico delle biomasse. In quest’ultimo caso, anche alla luce di quanto affermato in precedenza, la risposta è certamente negativa.

In primo luogo, essendo una definizione generale, essa dovrebbe trovare maggiore specificazione nella normativa attuativa o negli allegati tecnici. Se ciò è vero per alcuni materiali, che vengono esplicitamente qualificati come biomasse7, sono in maggior numero i casi in cui la legge tace, demandando alla giurisprudenza ed alle amministrazioni competenti, l’individuazione dei confini tra quello che può essere annoverato fra le biomasse e quello che invece deve essere estromesso. Si tratta per la verità di un compito assai arduo, soprattutto ponendo mente al fatto che tale attività richiede delle specifiche competenze tecniche.

Senza risultare ripetitivi, occorre poi ricordare anche la questione posta dalla pluralità di definizioni. Inoltre, la definizione contiene al suo interno altre definizioni, da rinvenire in settori differenti rispetto quello delle energie rinnovabili.

Questa circostanza, che in sé, non causerebbe particolari problemi, dato il frequente e legittimo ricorso alla tecnica del rinvio nell’universo giuridico, risulta assai precaria in questo contesto. Questo perché i dubbi di natura interpretativa sorgono non appena si vedono riuniti sotto la stessa coperta definitoria sia

7 Il riferimento si ha con riguardo all’inciso aggiunto dall’art 2 del d.lgs 28/2011

alla definizione comunitaria della direttiva 2009/28/CE, che riconduce espressamente gli sfalci e le potature del verde pubblico e privato nel novero delle biomasse.

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i sottoprodotti che i rifiuti, i quali fanno parte di due mondi giuridicamente contrapposti.

Rimandando ai prossimi paragrafi l’esposizione riguardante i modi di interagire fra biomasse, rifiuti e sottoprodotti, si ritiene utile, ai fini di un quadro generale, richiamare immediatamente ed in modo schematico le fonti normative nazionali applicabili alle biomasse ai fini della produzione di energie rinnovabili:

Legge 9 gennaio 1991 n.10 - Norme per l’attuazione del Piano energetico nazionale in materia di uso razionale dell’energia, di risparmio energetico e di sviluppo delle fonti rinnovabili di energia

D.lgs. 387/2003 – Normativa sulle Energie Rinnovabili D.lgs. 152/2006 – Codice dell’Ambiente

D.lgs. 28/2011 – Decreto Romani

D.M. 18/12/2008 – Decreto di attuazione della Legge Finanziaria 2008

D.M. 02/03/2010 – Decreto sulla tracciabilità delle Biomasse D.M. Sviluppo economico 10 settembre 2010 – Linee guida per l’autorizzazione agli impianti alimentati da fonti rinnovabili

D.M. Sviluppo economico 15 marzo 2012 – Definizione e qualificazione degli obiettivi regionali in materia di fonti rinnovabili e definizione della modalità di gestione dei casi di mancato raggiungimento degli obiettivi da parte delle regioni e delle provincie autonome (c.d.

Burden Sharing

)

D.M. Sviluppo economico 6 luglio 2012 – Sostegno alla produzione di energia da fonti rinnovabili.

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21

1.2. La nozione di rifiuto – Cenni-

Per essere il più chiari possibile sul modo di intrecciarsi della tematica dei rifiuti con quella delle biomasse, occorre preliminarmente soffermarsi sulla nozione giuridica di rifiuto. E’ indubbio che anche la macro-questione dei rifiuti presenti delle complessità ancora attuali, tanto che l’argomento meriterebbe una trattazione autonoma. Si premette dunque, senza alcuna pretesa di completezza, che quello che più conta in questa sede è la definizione di rifiuto e, in un secondo momento, le conseguenze della riconduzione ad essa di un determinato materiale8.

In proposito, non si può non ricordare che la nozione di rifiuto ha avuto una storia molto travagliata. La prima definizione a livello comunitario risale al 19759. Il legislatore italiano ha provveduto al suo recepimento soltanto nel 198210, con una trasposizione poco precisa che ha portato ad una serie di dibattiti dottrinali11 e giurisprudenziali causati, tra l’altro, dall’impiego del verbo “

abbandonare”

rispetto a quello di “

disfarsi”

(“

to dispose of

”, nella versione in lingua inglese) utilizzato dalle fonti comunitarie12.

8

Per una ricostruzione della normativa in materia di rifiuti vedi, Andrea Quaranta, Vocabolario ambientale: l’evoluzione storica della nozione di rifiuto, 2008, pubblicato in tre parti su naturagiuridica.it

9

Direttiva Europea 75/442/CE.

10

D.P.R. 915/1982.

11

Il riferimento è relativo alla disputa fra i sostenitori della tesi oggettivistica e quelli della tesi soggettivistica.

12

Si ritiene utile riportare le due definizioni per evidenziare la differenza, terminologica e di conseguenza anche sostanziale, fra la direttiva europea e la normativa italiana di recepimento. La direttiva 442/75/CE definisce come rifiuto “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’obbligo di disfarsi secondo le disposizioni nazionali”, mentre per l’art. 2 del

(22)

22

Senza soffermarsi sull’evoluzione della nozione di rifiuto, pare utile riportare la prima definizione contenuta nel d.lgs. 152/06 (c.d. Codice dell’Ambiente) che ha ripreso alla lettera quella di cui al d.lgs. 22/97, conosciuto come Decreto Ronchi. L’art. 183, comma 1, lettera a), del d.lgs. 152/2006, nella sua versione originale, stabiliva che per rifiuto si dovesse intendere: “

qualsiasi

sostanza od oggetto che rientra nelle categorie riportate

nell'Allegato A alla parte quarta del presente decreto e di cui il

detentore si disfi o abbia deciso o abbia l'obbligo di disfarsi”

.

Come si può notare, all’interno della definizione erano riunite due componenti. La prima, quella di matrice oggettiva, poggiava sull’individuazione di una sostanza o di un oggetto come rientrante nel catalogo dell’allegato A e quindi faceva perno su di un criterio tabellare oggettivo. A parte l’obbligo di disfarsi che presupponeva – e presuppone- un comando esplicito sicuramente rinvenibile nella normativa, la norma faceva anche riferimento ad una componente soggettiva, per la quale il materiale di cui all’allegato A fosse da ritenersi rifiuto qualora sottoposto al potere decisionale del detentore di disfarsene e, viceversa , di non essere classificato come tale alla luce dell’intenzione del soggetto di riutilizzarlo o sotto forma di sottoprodotto o sotto forma di materia prima secondaria13, e pertanto di non disfarsene. Da considerare, inoltre, che il catalogo presente nell’allegato A, apparentemente tassativo,

d.P.R. 915/1982 il rifiuto è “qualsiasi sostanza od oggetto derivante da un attività umana o da cicli naturali, abbandonato o destinato all’abbandono”. Per la precisione, occorre segnalare il fatto che il d.P.R. 915/1982 recepisce, insieme alla direttiva 442/75/CE anche le direttive 403/76/CE e 319/78/CE, relative rispettivamente allo smaltimento di policlorodifenili e policlorotrifenili, l’una, e ai rifiuti tossici e pericolosi, l’altra.

13

(23)

23

aveva natura aperta. A dimostrazione di ciò, è sufficiente notare il punto Q16, che conteneva una clausola aperta, secondo la quale poteva essere considerato rifiuto “

qualunque sostanza, materia o

prodotto che non rientri nelle categorie sopra elencate”

. E’ anche vero il contrario, ossia che l’inclusione di una sostanza o di un oggetto nel suddetto catalogo non significava che esso fosse rifiuto in tutti i casi, salva la vincolatività dell’elenco per tutti i rifiuti da considerare come pericolosi.

Tale definizione muta sensibilmente a seguito della entrata in vigore della direttiva 98/2008/CE. L’art 3, n.1, definisce rifiuto

:

qualsiasi sostanza o oggetto di cui il detentore si disfi o abbia

intenzione o obbligo di disfarsi”

. Il d.lgs. 205/2010 di recepimento del’appena citata direttiva europea traspone letteralmente tale definizione, modificando l’art. 183, comma 1, lettera a), del T.U. ambientale. In realtà, la modifica lessicale che fa riferimento all’intenzione di disfarsi, piuttosto che alla decisione di disfarsi era già avvenuta ad opera della direttiva 12/2006/CE. E’ stato in merito sostenuto che proprio di questo si trattasse, cioè di una novità meramente lessicale, inidonea a creare un mutamento sostanziale data l’analogia semantica e di significato delle due espressioni14. Se su questo non ci sono dubbi, l’unica obiezione sostenibile sarebbe quella fondata sulla constatazione che il legislatore europeo ha comunque ritenuto necessaria tale modifica ed è difficile credere che questa rispondesse solo ad esigenze lessicali. Invero, il cambiamento non fa che accentuare la

14

Per tutti V.Paone. La tutela dell’ambiente e l’inquinamento da rifiuti. Dal d.P.R. 915/1982 al d.lgs. 4/2008. Milano, 2008.

(24)

24

componente soggettiva della condotta del soggetto agente, enfatizzando l’elemento psicologico15.

Tornando al d.lgs. 205/2010, esso si limita ad eliminare l’inciso che faceva riferimento all’allegato A, con contestuale abrogazione dello stesso; scelta più che condivisibile, data la onnicomprensività, sia in termini positivi che in termini negativi, del catalogo ivi contenuto, come già sottolineato.

Questa definizione, con le caratteristiche sopra accennate, rappresenta la scelta intrapresa dalla politica comunitaria, e conseguentemente nazionale, di passare da una concezione per la quale bisogna il più possibile ampliare la nozione di rifiuto – c.d. partito del “

tutto rifiuto”

- ad una concezione opposta, per cui niente è rifiuto a meno che non rientri puntualmente nella definizione di cui all’art 183 T.U. ambientale. Si tratta del principio “

end of waste

”16 che pone a suo fondamento la considerazione secondo la quale alcuni materiali, oggetti o sostanze suscettibili di recupero e riutilizzo sotto varie forme ed a certe condizioni, determinano per l’appunto la cessazione della qualifica di rifiuto, al fine di produrre - quando è possibile e ricorrono le prescritte caratteristiche - minori conseguenze negative sull’ambiente e sulla salute dell’uomo, altrimenti derivate dal sistema di gestione rifiuti17.

15

I profili di novità vengono enfatizzati da L.A. Scialla, La nozione di sottoprodotto tra disciplina europea e normativa italiana in Dir. pubbl. comp. ed europeo, 2008,977.

16 Sull’argomento v. infra par. 3.1. 17

In proposito, è quanto lascia intendere la direttiva 98/2008/CE all’art. 6, attuato dall’art 184 ter del T.U. Ambientale, a sua volta, introdotto dall’art 12 del d.lgs. n. 205 del 2005. Per una visione completa si consiglia di porre l’art.

(25)

25

In particolare, l’obiettivo principale posto dalla disciplina comunitaria rivela l’intento fondamentale di riduzione degli effetti negativi insiti nella gestione dei rifiuti attraverso due politiche; la prima, tesa a promuovere l’applicazione pratica della gerarchia dei rifiuti mentre la seconda presuppone una diminuzione nell’uso delle risorse. Per chi scrive, ridurre l’uso delle risorse non significa soltanto produrre meno, ma anche operare una selezione dei materiali da riqualificare prima di destinarli definitivamente ad un’attività di mero smaltimento.

1.3. La nozione di materia prima secondaria – Cenni-

Sempre di origine comunitaria è anche la nozione di materia prima secondaria. L’analisi di tale categoria ci permetterà di elaborare, nei prossimi paragrafi, una teoria finalizzata alla semplificazione dell’individuazione delle materie biologiche quali fonti di energie rinnovabili, relative all’esercizio di impianti.

Con la locuzione “materia prima secondaria” si intendono tutte quelle sostanze e materie che si originano da un processo di recupero del rifiuto e che possiedono alcune caratteristiche specifiche.

Si nota fin da subito che, a differenza di una materia prima individuabile in natura senza la necessità di una tipizzazione normativa, le materie prime secondarie richiedono una definizione convenzionale del legislatore che le ponga in relazione alla corrispondente materia prima che esse andranno a sostituire in un determinato processo produttivo avendo riguardo alle

6 in relazione con il considerando n. 6 della stessa direttiva che riguarda il sistema di gestione dei rifiuti.

(26)

26

caratteristiche merceologiche ed eco tossicologiche della sostanza in questione18.

Le materie prime secondarie (MPS) vennero introdotte nel nostro ordinamento giuridico dall’art. 2 della legge n. 475/1988 che le qualificava quali “

residui derivanti da processi produttivi e

che sono suscettibili, eventualmente previ idonei trattamenti, di

essere utilizzati come materie prime in altri processi produttivi

della stessa o di altra natura

”. La loro più puntuale individuazione fu operata dal D.M. 26 gennaio 1990 del Ministero dell’Ambiente, decreto che però venne annullato nelle sue parti più salienti della Corte Costituzionale19 chiamata a giudicare su un conflitto di attribuzione fra Stato e Regioni.

Un passo ulteriore, in conseguenza della normativa europea20, verrà fatto dal c.d. decreto Ronchi (d.lgs. n. 22/1997) che oltre a dare una veste giuridica formale alla categoria, ne promuove l’utilizzazione, incoraggiando le autorità competenti a favorire forme di recupero per l’ottenimento di MPS21 anche attraverso la previsione di procedure semplificate22.

18 Per un approfondimento della questione cfr., P. Giampietro, Dal rifiuto alla

“materia prima secondaria” nell’art. 6, della direttiva 2008/98/CE, pubblicato il 22/03/2010 su ambientediritto.it , sezione dottrina.

19

La sentenza n. 512 del 15 ottobre 1990 della Corte Costituzionale annulla gli artt. 4, primo comma, 6, primo comma, limitatamente alla previsione delle procedure autorizzative ivi considerate, 7, 8, 9, 10, 11, 12 e 13 del citato decreto del Ministro dell'ambiente.

20

Art. 3, par. 1, lett. b) ed i) direttiva 91/156/CEE.

21

Art. 4, comma 1, lettera b d.lgs. n. 22/1997.

22

(27)

27

Successivamente alcuni decreti ministeriali23 specificheranno le attività, i tipi, le qualità di rifiuti e le condizioni in base alle quali i processi di recupero, anche per la realizzazione di MPS, possono essere sottoposti a procedura semplificata.

L’impianto del decreto Ronchi viene poi ripreso dal Codice dell’Ambiente nel 2006. L’art. 183, lettere q) del d.lgs. 152/06 definisce la materia prima secondaria come “ (…)

la sostanza o

materia avente le caratteristiche stabilite ai sensi dell'articolo 181

”. Il richiamato art. 181 stabilisce infatti che:

“1. Ai fini di una corretta gestione dei rifiuti le pubbliche

amministrazioni favoriscono la riduzione dello smaltimento finale

dei rifiuti attraverso:

a) il riutilizzo, il reimpiego ed il riciclaggio;

b) le altre forme di recupero per ottenere materia prima

secondaria dai rifiuti;

(…)

d) l'utilizzazione dei rifiuti come mezzo per produrre energia.

(…)

12. La disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino

al completamento delle operazioni di recupero, che si realizza

quando non sono necessari ulteriori trattamenti perche' le

sostanze, i materiali e gli oggetti ottenuti possono essere usati in

un processo industriale o commercializzati come materia prima

secondaria, combustibile o come prodotto da collocare, a

condizione che il detentore non se ne disfi o non abbia deciso, o

non abbia l'obbligo, di disfarsene.

23

Il D.M. 5 febbraio 1998 n. 58, relativo al recupero dei rifiuti non pericolosi ed il D.M. 12 giugno 2002 n. 161, relativo al recupero dei rifiuti pericolosi.

(28)

28

13. La disciplina in materia di gestione dei rifiuti non si applica

ai materiali, alle sostanze o agli oggetti che, senza necessità di

operazioni di trasformazione, già presentino le caratteristiche delle

materie prime secondarie, dei combustibili o dei prodotti

individuati ai sensi del presente articolo, a meno che il detentore

se ne disfi o abbia deciso, o abbia l'obbligo, di disfarsene.

14. I soggetti che trasportano o utilizzano materie prime

secondarie, combustibili o prodotti, nel rispetto di quanto previsto

dal presente articolo, non sono sottoposti alla normativa sui rifiuti,

a meno che se ne disfino o abbiano deciso, o abbiano l'obbligo, di

disfarsene.”

Il d.lgs 4/200824, c.d. secondo correttivo, introduce l’art 181-bis che stabilisce in modo più specifico, i criteri e le condizioni da rispettare al fine di poter considerare una certa sostanza quale materia prima secondaria25.

24

D.lgs. n. 4 del 2008.

25 Questo il tenore dell’art 181-bis d.lgs 152/2006: “1. Non rientrano nella

definizione di cui all'articolo 183, comma 1, lettera a), le materie, le sostanze e i prodotti secondari definiti dal decreto ministeriale di cui al comma 2, nel rispetto dei seguenti criteri, requisiti e condizioni:

a) siano prodotti da un'operazione di riutilizzo, di riciclo o di recupero di rifiuti;

b) siano individuate la provenienza, la tipologia e le caratteristiche dei rifiuti dai quali si possono produrre;

c)siano individuate le operazioni di riutilizzo, di riciclo o di recupero che le producono, con particolare riferimento alle modalità ed alle condizioni di esercizio delle stesse;

d) siano precisati i criteri di qualità ambientale, i requisiti merceologici e le altre condizioni necessarie per l'immissione in commercio, quali norme e standard tecnici richiesti per l'utilizzo, tenendo conto del possibile rischio di danni all'ambiente e alla salute derivanti dall'utilizzo o dal trasporto del materiale, della sostanza o del prodotto secondario;

(29)

29

L’articolo venne peraltro abrogato ad opera del d.lgs. 205/201026, c.d. tutto correttivo, di recepimento della Direttiva 98/2008/CE. L’abrogazione è da attribuire ad un mutamento della politica europea in tema di rifiuti ed all’adozione di una politica che va sotto il nome di

end of waste

27. Il principio della cessazione della qualifica di rifiuto risulta più puntuale rispetto alla tecnica normativa utilizzata per definire la materia prima secondaria, soprattutto in relazione al momento nel quale il rifiuto cessa di essere tale e quindi non è più soggetto alla disciplina del Titolo IV del Codice dell’Ambiente. Invero, era stato questo il maggior problema della categoria MPS ex art. 181-bis affrontato più volte dalla giurisprudenza nazionale28.

e) abbiano un effettivo valore economico di scambio sul mercato(…)”

26

Art 39, comma 3.

27

Sub. retro. par 1.2.

28

La Cass. pen., sez. III, 14 aprile 2005, n. 20499 aveva affermato quanto segue:” La disciplina sul controllo dei rifiuti trova piena applicazione in tutti i casi in cui i residui di produzione possono essere si utilizzabili, ma solo eventualmente previa trasformazione e non nei casi in cui questi possano essere immediatamente riutilizzati come materia prima secondaria in un diverso processo produttivo, in una situazione di verificata compatibilità ambientale. La Cass. pen., sez. III, 15 maggio 2007, n. 24471 precisava che” In base alla direttiva 75/442 (oggi 2006/12/CE), il fatto che una sostanza utilizzata sia un residuo di produzione costituisce, in via di principio, un indizio dell'esistenza di un'azione, di un'intenzione o di un obbligo di disfarsene. Ciò non esclude, peraltro, che si tratti di un sottoprodotto o di una materia prima secondaria, che il detentore intende sfruttare o commercializzare, purché “il riutilizzo di un bene, di un materiale o di una materia prima non sia solo eventuale, ma certo, senza previa trasformazione .... Questa esigenza di certezza del riutilizzo o della commercializzazione immediati del residuo viene recepita anche dalla normativa italiana e costituisce l'elemento di valutazione sul quale il giudice deve fondare la propria qualificazione del materiale.”).

(30)

30

Attualmente le MPS derivate dalla cessazione della qualificazione di rifiuto sono disciplinate dall’art. 184-ter29, che recita: “1.

Un rifiuto cessa di essere tale, quando è stato

sottoposto a un’operazione di recupero, incluso il riciclaggio e la

preparazione per il riutilizzo, e soddisfi i criteri specifici, da

adottare nel rispetto delle seguenti condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è comunemente utilizzato per scopi

specifici;

b) esiste un mercato o una domanda per tale sostanza od

oggetto;

c) la sostanza o l’oggetto soddisfa i requisiti tecnici per gli scopi

specifici e rispetta la normativa e gli standard esistenti applicabili

ai prodotti;

d) l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti

complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

2. L’operazione di recupero può consistere semplicemente nel

controllare i rifiuti per verificare se soddisfano i criteri elaborati

conformemente alle predette condizioni. I criteri di cui al comma 1

sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina

comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per

caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti

del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ai

sensi dell’articolo 17, comma 3, della legge 23 agosto 1988, n.

400. I criteri includono, se necessario, valori limite per le sostanze

inquinanti e tengono conto di tutti i possibili effetti negativi

sull’ambiente della sostanza o dell’oggetto.

3. (…).

4 (…)

29

(31)

31

5. La disciplina in materia di gestione dei rifiuti si applica fino

alla cessazione della qualifica di rifiuto.”

Dalla lettura dell’art. 184- ter si può notare come il legislatore abbia voluto sancire in modo netto che, a certe condizioni, il recupero conduce alla nascita, contestuale alla cessazione della qualifica di rifiuto, di un prodotto, che entra nel mercato ed è sottoposto esclusivamente alle regole di questo senza necessità di riconoscimenti normativi ulteriori. E tutto ciò anche prima della – e per il tempo necessario alla - utilizzazione della “merce” come materia prima secondaria.

Da segnalare è poi la competenza quasi esclusiva dell’Unione Europea in materia di adozione di “criteri specifici”, nonché la definizione dei termini per soddisfare le quattro condizioni poste dal comma 1 dell’articolo 184-ter. Inoltre viene esteso il concetto di recupero, non solo nel senso che esso contiene tutte le attività di riciclaggio e di preparazione al riutilizzo, ma anche nel senso che il recupero possa consistere in una semplice verifica delle condizioni ex art 184-ter, comma 130.

1.4. La nozione di sottoprodotto – Cenni -

Si era fatto riferimento, all’inizio del capitolo, a come la scelta del legislatore comunitario di annoverare fra le biomasse sia rifiuti che sottoprodotti creasse talune perplessità dovute alla contrapposta disciplina a cui sono sottoposte le due suddette categorie di residui.

30

Sul tema si segnala, Avv. R. Bertuzzi, Materie Prime Secondarie. Quando un rifiuto torna ad essere una bene, e quindi riutilizzabile, in Rivista La Voce, Redazione EDIPOL- Mensile di informazione per la polizia locale.

(32)

32

I sottoprodotti rappresentano, infatti, una deroga legale alla normativa dettata per i rifiuti. Per essere più chiari, se un certo materiale viene ricondotto alla categoria di sottoprodotto, ad esso non si applicheranno tutte quelle norme che fanno riferimento alla gestione del rifiuto. Lo stesso accade quando siamo in presenza di materie prime secondarie, ma a differenza di queste il sottoprodotto è tale fin dalla sua nascita, quindi non sussiste, come invece nelle MPS, una cessazione della qualifica di rifiuto derivata da un’operazione di recupero31.

Passando all’analisi della nozione giuridica di sottoprodotto ed alla sua evoluzione occorre previamente segnalare un dato di fatto. Quasi sempre, nella produzione industriale si generano, indipendentemente dalla volontà dell’imprenditore, prodotti secondari che possono essere reimpiegati nello stesso o in un altro ciclo produttivo.

In origine, la scelta del legislatore comunitario32, rafforzata anche da una giurisprudenza concorde33, è andata nel senso di

31

Sull’argomento si veda M. Sanna, Sottoprodotti e terre e rocce da scavo, 2012, in industrieambiente.it,.

32 Tale tendenza è desumibile principalmente dalle Direttive 442/75/CEE e

319/78/CEE.

33 Corte di Giustizia 28 marzo 1990, C- 359/88. Da detta sentenza viene tratta

la seguente massima: “La nozione di rifiuto, ai sensi dell' art . 1 delle direttive del Consiglio 75/442 e 78/319, non deve intendersi nel senso che esclude le sostanze e gli oggetti suscettibili di riutilizzazione economica. Essa non presuppone che il detentore che si disfa di una sostanza o di un oggetto abbia l' intenzione di escluderne ogni riutilizzazione economica da parte di altre persone.”(da eur-lex.europa.eu). Questo orientamento è stato confermato da altre sentenze, quali Corte Giustizia 10 maggio 1995, C-442/92; Corte Giustizia 25 giugno 1997, C- 304,330,342/94.

(33)

33

ritenere questi prodotti secondari quali rifiuti, facendo leva sul fatto che il loro possessore tendeva comunque a disfarsene.

La tendenza a diversificare tali prodotti dal mero rifiuto nasce grazie all’emblematica sentenza

Palin Granit

della Corte di Giustizia del 200234. Più specificamente, i giudici distinguono tra i “

residui di

produzione

”, che in quanto scarti privi di valore economico non sono suscettibili di ulteriore riutilizzo quindi sono da considerarsi come veri e propri rifiuti, dai “

sottoprodotti

”, ossia sostanze che, pur non costituendo lo scopo primario della produzione, l’impresa “

intende sfruttare o commercializzare a condizioni a lei favorevoli,

in un processo successivo, senza operare trasformazioni

preliminari”

35

.

E’ questa l’interpretazione accolta dall’originario testo del Codice dell’Ambiente, il quale all’art 183, comma 1, lettera n), richiama tutti i requisiti che la giurisprudenza aveva delineato in ordine all’individuazione di un certo materiale come sottoprodotto36. E’ da

34 Corte Giustizia 18 aprile 2002, C-9/00. 35

Punto 34 della sentenza citata sub nota 33 (da www.ius-publicum.com).

36

L’art. 183, comma1, lettera n). definisce i sottoprodotti come: “(…) i prodotti dell'attività dell'impresa che, pur non costituendo l'oggetto dell'attività principale, scaturiscono in via continuativa dal processo industriale dell'impresa stessa e sono destinati ad un ulteriore impiego o al consumo. Non sono soggetti alle disposizioni di cui alla parte quarta del presente decreto i sottoprodotti di cui l'impresa non si disfi, non sia obbligata a disfarsi e non abbia deciso di disfarsi ed in particolare i sottoprodotti impiegati direttamente dall'impresa che li produce o commercializzati a condizioni economicamente favorevoli per l'impresa stessa direttamente per il consumo o per l'impiego, senza la necessità di operare trasformazioni preliminari in un successivo processo produttivo; a quest'ultimo fine, per trasformazione preliminare s'intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in u

(34)

34

notare il fatto che, in questa fase, la nozione di sottoprodotto viene limitata ai casi in cui il materiale venga reimpiegato nello stesso processo produttivo da parte dell’azienda senza subire né trasformazioni, né trattamenti preliminari37. Devono, inoltre, essere rispettati alcuni requisiti merceologici attestanti la compatibilità ambientale dei prodotti generati e, soprattutto, si richiede che le sostanze ed i materiali riutilizzabili abbiano un valore economico di mercato.

L’ulteriore sviluppo della definizione di sottoprodotto ha, progressivamente, portato alla eliminazione di alcuni dei requisiti sopra ricordati. In particolare, ad opera dell’art. 5 della Direttiva 98/2008/CE, non è più richiesto che tale prodotto venga impiegato nel medesimo ciclo produttivo, bensì si ammette una riutilizzazione non solo in un processo diverso, ma addirittura ad opera di soggetti terzi. In riferimento a tale mutamento giuridico si rende necessario ricordare alcune sentenze che più di altre hanno messo in evidenza l’evoluzione giurisprudenziale della Corte di Giustizia ed hanno svolto un’operazione interpretativa sull’inciso di cui alla direttiva comunitaria. Per primo, il T.A.R. Piemonte, Torino, Sez I, 05/06/2009, n. 156338 fornisce una ricostruzione della nozione di sottoprodotto, richiamando, tra l’altro, alcune pronunce della Corte

n processo produttivo o per il consumo. L'utilizzazione del sottoprodotto deve essere certa e non eventuale(…)”.

37

La norma specifica che “per trasformazione preliminare si intende qualsiasi operazione che faccia perdere al sottoprodotto la sua identità, ossia le caratteristiche merceologiche di qualità e le proprietà che esso già possiede, e che si rende necessaria per il successivo impiego in un processo produttivo o per il consumo”.

38

In merito a tale sentenza si consiglia, Laura Corti, Nota a TAR, Sez. I, 05 giugno 2009 n.1563, in Riv. Giur. ambiente, 2009, 6, 1019.

(35)

35

di Giustizia precedenti alla direttiva del 2008, le quali avevano ammesso“

che il reimpiego del sottoprodotto può attenere ad un

ciclo produttivo diverso”

39; sempre il T.A.R. afferma che “

i

sottoprodotti possono essere utilizzati per il fabbisogno di

operatori economici diversi da quelli che li hanno prodotti”

40.

Ancora più di recente, la Corte di Cassazione – Sentenza n. 17353 del 10 maggio 2012 – si è pronunciata in merito alla nozione di sottoprodotto di cui all’art. 184-bis d.lgs. 152/200641. Quest’ultima norma stabilisce che costituisce

“un sottoprodotto e

non un rifiuto ai sensi dell’articolo 183, comma 1, lettera a),

qualsiasi sostanza od oggetto che soddisfa tutte le seguenti

condizioni:

a) la sostanza o l’oggetto è originato da un processo di

produzione, di cui costituisce parte integrante, e il cui scopo

primario non è la produzione di tale sostanza od oggetto;

b) è certo che la sostanza o l’oggetto sarà utilizzato, nel corso

dello stesso o di un successivo processo di produzione o di

utilizzazione, da parte del produttore o di terzi;

c) la sostanza o l’oggetto può essere utilizzato direttamente

senza alcun ulteriore trattamento diverso dalla normale pratica

industriale;

(…)”

39

Il T.A.R. Torino richiama l’ordinanza della Corte di Giustizia, 15/01/2004, C- 235/02, causa Saetti e Freudiani.

40

In questo secondo caso, il T.A.R. richiama la sentenza della Corte di Giustizia, 08/09/2005, C- 416/02 nella causa promossa dalla Commissione delle Comunità Europee contro Regno Unito di Gran- Bretagna e Irlanda del Nord.

41

L’articolo in questione è stato introdotto dal d.lgs n. 205 del 2010, il quale a sua volta recepisce la più volte richiamata direttiva 98/2008/CE.

(36)

36

La Cassazione precisa alcuni dei punti più controversi della suddetta nozione che investono soprattutto la questione del trattamento che il materiale può subire per rientrare nell’alveo dei sottoprodotti. La maggiore criticità ricade nell’inciso che stabilisce che “

il trattamento non deve essere diverso dalla normale pratica

industriale”

senza chiarire cosa si intende specificamente per “

normale pratica industriale”

. La Cassazione interviene, quindi, fissando alcuni principi, tutti riassumibili nell’affermazione secondo la quale il trattamento a cui fa riferimento la norma deve rientrare fra quelli comunemente eseguiti nel contesto produttivo e non deve riguardare esclusivamente il materiale destinato a divenire sottoprodotto, ma deve ricadere nella lavorazione tipica praticata dall’azienda sulle proprie materie prime42.

Per ultimo, giova sottolineare anche che l’art. 12 del d.lgs. n. 205/2010, nell’introdurre l’art 184-bis, ha eliminato uno dei requisiti necessari per poter qualificare un materiale quale sottoprodotto e cioè che esso abbia un valore economico di mercato.

42

Sul tema, R. Tumbiolo nell’articolo “Residui: la Cassazione interviene sulla nozione di sottoprodotto” pubblicato in data 13 giugno 2012 sulla versione digitale di “QuotidianoLegale” (da quotidiano legale.it).

(37)

37

1.5.1. Sui rapporti fra biomasse, rifiuti, materie prime

secondarie e sottoprodotti

Una volta chiarite le definizioni di rifiuto, materia prima secondaria e sottoprodotto è fondamentale soffermarsi sui rapporti che intercorrono fra queste e le biomasse. Si tratta di un’analisi quasi forzata, dato che è lo stesso art. 2 del d.lgs. 28/2011 a richiamare espressamente le nozioni di sottoprodotto e rifiuto, rendendo necessario lo studio sui modi in cui le diverse normative sui rifiuti, MPS e sottoprodotti vadano ad incidere su quella relativa alle biomasse, e viceversa. Di sicuro non si tratta del solito rapporto fra

genus

e

species

, né nel senso che la categoria delle biomasse possa rappresentare il

genus

della specie rifiuto o sottoprodotto ma neanche nel senso che la disciplina afferente le biomasse sia capace di essere considerata generale rispetto a quella speciale relativa a rifiuti e sottoprodotti. Si tratta quindi di impostare il rapporto in termini diversi.

1.5.2. Biomasse e rifiuti: una relazione dai confini

incerti

Come si diceva, quello tra rifiuti e biomasse è un rapporto difficile da definire in termini certi. Ciò è dovuto soprattutto all’impossibilità di trovare nell’ordinamento delle indicazioni univoche. Il problema è che il rifiuto, almeno nella sua parte biodegradabile, viene annoverato fra i materiali e le sostanze che compongono le biomasse alla luce dell’art. 2 della direttiva 28/2009/CE.

Un problema in realtà di natura più pratica che teorica. Da quest’ultimo punto di vista, infatti, non ci sono particolari ostacoli

(38)

38

nel ritenere che un rifiuto biodegradabile, che pure rimane un rifiuto, come tale sottoposto alla disciplina della parte IV del Codice dell’Ambiente, possa avere come vocazione quella del suo impiego come fonte di produzione di energia rinnovabile. Questo è quanto affermato nella sentenza n. 1563 del 2009 dal T.A.R. Piemonte, Torino43 in occasione del ricorso promosso contro la Provincia di Asti da una società alla quale era stata rigettata – in fase preistruttoria - l’autorizzazione per la realizzazione di un impianto per la produzione di energia alimentato a cippato di legno detannizzato. La Provincia, tra le altre cose, sosteneva che il processo di detannizzazione veniva attuato mediante procedimento chimico e non meramente meccanico, così come richiesto dal d.lgs. 152/2006 al fine di poter annoverare il materiale fra le biomasse combustibili. Al di là di questa specifica vertenza, per quel che più interessa, il giudice amministrativo afferma che “

è fisiologico che il problema delle biomasse e dei

rifiuti si intersechino…”

per cui “

ne deriva …. che ciò che in un

determinato contesto è soltanto un rifiuto, in un altro possa

assumere il valore di fonte rinnovabile d’energia”

.

A guardare meglio, è proprio la parte IV del Codice Ambientale, all’art. 179, comma 1, a predisporre una gerarchia nella gestione dei rifiuti e nonostante il fatto che il recupero del rifiuto a fini energetici venga collocato al penultimo posto della scala gerarchica, possiamo affermare che nel suo rispetto, qualora non sia possibile un’attività di prevenzione, né sia plausibile riutilizzare o riciclare il rifiuto, diventi legittima ed, anzi, auspicabile la sua utilizzazione come FER.

43

La sentenza a cui viene fatto riferimento è la n. 1563 del 5 giugno 2009 emessa dal T.A.R. Piemonte, Torino.

Figura

Fig. 1. Una proposta di sistema metodologico 91
Tab. 3.2 – Impianti produzione energia elettrica alimentati  a biomassa
Tab. 3.3 – Impianti produzione energia termica alimentati  a biomassa
Tab.  3.4  –  Impianti  in  assetto  cogenerativo  alimentati  a  biomassa

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