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IL TESTO DI RIFORMA DELLA RCA MANCA DEL BARÈME MEDICO LEGALE E DIFFICILMENTE PERMETTERÀ DI SUPERARE LE DISPARITÀ DI TRATTAMENTO OGGI ESISTENTI.

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IL TESTO DI RIFORMA DELLA RCA MANCA DEL BARÈME MEDICO LEGALE E DIFFICILMENTE PERMETTERÀ DI SUPERARE

LE DISPARITÀ DI TRATTAMENTO OGGI ESISTENTI.

Dott. Marco Rossetti*

Il 10.1.2001, la Camera dei deputati ha approvato il testo del d.d.l. C-7115 (Norme in materia di regolazione dei mercati), i cui artt. 1-5 dettano importanti norme in tema modificazione alla disciplina della r.c.a., nonché in tema di liquidazione del danno alla salute.

E’ la seconda volta che la Camera affronta l’esame del d.d.l. in esame: il testo originariamente approvato, infatti, era stato modificato dal Senato, al quale tornerà ora per la definitiva approvazione.

Il p.d.l. C-7115 (il quale al Senato ha assunto il n. S-4339-B) è un testo che contiene molte norme, e molto eterogenee, incidenti in materie diversissime: dai trasporti alla concorrenza, dalla responsabilità civile al contratto di assicurazione.

Il d.d.l., in particolare, novella la l. 24.12.1969 n. 990 (assicurazione obbligatoria r.c.a.), ed introduce nuovi e molteplici obblighi a carico delle società di assicurazione attive nel ramo r.c.a..

Riservando ad un successivo intervento l’analisi delle nuove norme in tema di contratto di assicurazione della r.c.a., si intende in questa sede formulare alcune osservazioni generali sulle norme dedicate al risarcimento del danno alla salute.

Per chiarezza espositiva, sarà opportuno esaminare dapprima queste norme nella loro struttura, e quindi saggiarne la concreta funzionalità, rispetto allo scopo che il legislatore ha dichiarato (nella relazione al testo) di volere perseguire attraverso esse.

Con l’art. 5, comma 3, del d.d.l. C-7115 il legislatore ha inteso: (a) definire la nozione di danno alla salute; (b) disciplinare la misura del risarcimento; (c) demandare all’esecutivo la predisposizione di un baréme delle invalidità.

La definizione del danno alla salute contenuta nel d.d.l. in esame ricalca pedissequamente altre due definizioni normative: l’una, contenuta nell’art. 13 d. lgs. 28.2.2000 n. 38, in tema di sussunzione del danno alla salute nella copertura assicurativa obbligatoria garantita dall’Inail; l’altra, contenuta nell’art. 3 d.l. 70 del 2000, non convertito però in legge in parte qua.

Ambedue queste definizioni normative si incentrano su tre elementi essenziali: (a) la necessaria preesistenza d’una lesione in corpore; (b) la obiettività medico legale di tale

* Magistrato, Assistente di Studio presso la Corte Costituzionale, Roma

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lesione; (c) la a-redditualità del danno (ovvero la sua risarcibilità a prescindere da qualsiasi conseguenza negativa sul reddito dell’offeso).

Tutti e tre questi elementi erano stati posti in luce da tempo dalla migliore dottrina, sia giuridica che medico legale, e costituivano ormai ius receptum nella giurisprudenza di legittimità (ex multis, Cass. 357/93; Cass. 2008/93): e tuttavia nella formulazione letterale della norma in esame, letta in una con le altre disposizioni del d.d.l., si annidano alcune contraddizioni inespresse.

La legge, facendo riferimento al danno come alla conseguenza di una “lesione dell’integrità psicofisica”, sembra abbracciare l’idea che “danno biologico”, per il legislatore, sia soltanto la disfunzione anatomopatologica in se e per sé considerata, a prescindere dalle concrete ripercussioni che essa ha avuto sulla vita concreta della persona danneggiata. In apparente contrasto, quindi, con l’ormai consolidato orientamento della Corte di legittimità, secondo la quale non la lesione in sé costituisce il danno risarcibile ma le conseguenze ulteriori di essa, personali o patrimoniali, vale a dire il quantum di esistenzialità perduta in conseguenza della lesione.

Ora, se il legislatore avesse, contestualmente alla legge, varato una tabella delle invalidità (o baréme), in base al quale determinare l’entità concreta del danno, queste ultime (ed in particolare i criteri con cui sarebbero state redatte) avrebbero costituito un indice prezioso per stabilire l’esatta natura del danno biologico.

Ed infatti, ove la tabella sia redatta facendo riferimento unicamente alla “struttura” della lesione, dovrà prendersi atto che per il legislatore il danno biologico ha natura statica e non dinamica. Ove, per contro, la suddetta tabelle sia redatta facendo riferimento alle limitazioni ed implicazioni funzionali della lesione (od, almeno, di quelle presumibilmente derivabili all’uomo medio), dovrà concludersi che il legislatore ha abbracciato una nozione funzionale di danno alla salute.

Ma, nell’approvare il d.d.l. C-7115, la Camera non ha dettato alcuna norma sul quomodo di redazione del baréme medico legale, demandato integralmente ad un decreto ministeriale.

Strada ben diversa era stata seguita dal d. lgs. 38/2000. Anche l’art. 13 di tale decreto, infatti, definisce il danno biologico come la lesione dell’integrità psicofisica, e tuttavia esso precisa che la tabella delle invalidità, anche in questo caso demandata ad un decreto ministeriale, doveva essere redatta tenendo conto degli aspetti dinamico-relazionali della lesione (e quindi, secondo l’unica interpretazione logica, delle ripercussioni funzionali dei postumi). Ben s’intende, quindi, che la definizione contenuta nel comma 2 dell’art. 5 d.d.l. C-7115 appare

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chi?) i criteri per la costruzione del baréme richiamato dal successivo comma 5 dello stesso art. 5.

Ma se così è, allora ci troviamo dinanzi al monstrum di una norma di rango primario (legge) che non può essere valutata ed interpretata se non alla luce di una norma di rango secondario (regolamento), i cui contenuti sono interamente affidati alla discrezionalità dell’esecutivo. Così, ad esempio, il ministro della sanità potrebbe anche ritenere di “tabellare”

nella misura del 9% gli esiti di una distrazione del rachide cervicale in soggetto non artrosico;

od, all’opposto, di tabellare nella misura del 2% gli esiti di una frattura diafisaria del femore con accorciamento dell’arto. Ciò sarebbe in astratto possibile e formalmente lecito, posto che il legislatore non ha detto assolutamente nulla sui criteri di redazione del baréme, dal quale dipende larga parte della futura applicabilità ed operatività della norma.

Qualche lume per sciogliere il nodo gordiano della natura del danno biologico potrebbe trarsi dal comma 4 dell’art. 5, ove si stabilisce che il danno biologico è “ulteriormente risarcito”

tenendo conto delle condizioni soggettive dell’offeso. Si potrebbe infatti, articolare il seguente sillogismo:

(a) le conseguenze funzionali di un danno alla salute variano da soggetto a soggetto, e dipendono dalle attività concretamente svolte dal leso;

(b) la norma in questione ha lo scopo di adattare il risarcimento alla situazione effettiva del leso;

(c) ergo, la norma suddetta dimostra che il legislatore ha voluto adottare una nozione funzionale, e non strutturale, dinamica, e non statica, di danno biologico.

Questa conclusione interpretativa non sarebbe peregrina, ed avrebbe dalla sua anche i lavori parlamentari, dai quali si evince che essa è stata voluta al fine di non “ingessare” il risarcimento, e consentirne una adeguata personalizzazione.

E tuttavia, anche in questo caso, viene da chiedersi se vi sia davvero consequenzialità teleologica tra la ratio legis e la struttura semantico-sintattica della norma, giacché - quali che siano state le intenzioni del legislatore - il testo approvato appare oggettivamente ambiguo.

Cosa vuol dire, infatti, “ulteriormente risarcito”? Di un danno non può che predicarsi la sua risarcibilità o la sua irrisarcibilità, non certo la sua “risarcibilità ulteriore”. Una volta stabilita la risarcibilità della lesione di un diritto od interesse, tutto il resto è questione di quantum, non d’altro. Per contro, l’adozione dell’avverbio “ulteriormente”, potrebbe porgere il destro a scaltri ermeneuti per sostenere che, in realtà, la lettera della legge consente - impone - il risarcimento di due tipi di danno: uno, biologico, uguale per tutti a parità di lesioni; l’altro, “ulteriore”, di

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imprecisata natura (esistenziale?), condizionato dalle circostanze oggettive della fattispecie concreta.

A ben vedere, questo ginepraio di questioni avrebbe potuto essere agevolmente aggirato formulando la norma in modo diverso, e cioè statuendo (come logica e diritto avrebbero preteso) che, ferma la risarcibilità del danno biologico nella misura minima stabilita dalla legge, era consentito al giudice variare in più od in meno, magari entro un range predeterminato, il valore risultante dall’applicazione della tabella normativa, al fine di tenere adeguato conto di tutte le circostanze del caso concreto. Ma, forse, ciò era un po’ troppo per un legislatore che, anche sul tema del risarcimento del danno alla salute, non ha remore nel dichiarare di “non nutrire grande amore per la magistratura” (così, testualmente, si legge nell’intervento del deputato Parrelli: cfr. il resoconto stenografico dell'Assemblea, Seduta n. 833 del 9/1/2001, pag. 65).

Ciò detto sulla struttura della norma, si proverà ora a formulare qualche primissimo rilievo sulla sua funzionalità concreta. Nella relazione al d.d.l. preparata dal relatore in commissione, si legge che finalità della norma qui in discorso sarebbe, principalmente, quella di porre fine alle disparità di trattamento, conseguenti ai diversi criteri adottati dagli uffici giudiziari per liquidare il danno alla salute.

Ebbene, se questo è l’obiettivo perseguito dal legislatore, è inutile nascondersi che esso sarà conseguito soltanto in minima parte.

Innanzitutto, il comma due dell’art. 5 d.d.l. C-7115 è chiaro nello stabilire che la disciplina ivi prevista è applicabile soltanto alla materia dei danni causati dalla circolazione stradale.

Sicché, se davvero disparità di trattamento sussiste tra i vari uffici giudiziari, questa non verrà affatto eliminata, in quanto essa permarrà in tutti i casi in cui il danno alla salute è derivato da un fattore traumatico diverso dalla circolazione dei veicoli (e non si pensi che si tratti di casi marginali: basterà ricordare i danni derivanti dall’omissione di cautela sul luogo di lavoro, quelli derivanti da insidie o trabocchetti, da attività pericolose, da liti o percosse, da prodotti difettosi, da contaminazione con sostanze infette, da animali, dall’esercizio della pratica sportiva).

In secondo luogo, il d.d.l. C-7115 disciplina soltanto i danni che hanno causato lesioni guarite o senza postumi, o con postumi minimi (fino al 9% di invalidità permanente). Sicché, se disparità vi sono, queste resteranno per tutte le lesioni che esitano in postumi di entità superiore. E resta comunque il mistero di come si possa stabilire ex ante tale misura limite del 9%, quando non si sa ancora in che modo e con quali criteri sarà costruito il baréme medico legale di riferimento. E’ come, per fare un esempio, se si stabilisse che gli Stati aderenti al

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previamente stabilito quale sarà la consistenza del fondo, e quale la misura di ogni singolo diritto di prelievo.

In terzo luogo, il comma 4 dell’art. 5 lascia al giudice la facoltà di “risarcire ulteriormente”

il danno biologico, tenendo conto delle qualità soggettive del leso. Ebbene, questa norma, se approvata senza modifiche, può far fallire del tutto l’intento calmieristico perseguito dal legislatore. Essa infatti, non ha fissato alcun criterio, né alcun limite, per l’ “ulteriore risarcimento” ivi previsto. Sicché, in teoria, dandone adeguata motivazione, il giudice potrebbe disattendere del tutto i parametri fissati dalla legge, in considerazione delle condizioni personali del danneggiato. Condizioni personali che, si badi, non sono in alcun modo precisate: e che potrebbero perciò andare dalla statura al colore degli occhi! Come l’apprendista stregone della favole, ha distillato un frutto avvelenato l’alambicco del legislatore:

e così, tutto intento a perseguire lo scopo di limitare il potere discrezionale dei giudici, dei quali dichiara di “non fidarsi”, ha finito per conseguire un risultato assolutamente opposto, dando proprio al giudice lo strumento per scardinare la riforma.

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