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P A R T E I I G I U R I S P R U D E N Z A

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CASSAZIONE

, 17 agosto 2011, n. 17399, Sez. lav. – Pres. Lamorgese, Est.

Tria, P.M. Cesqui (conf.) – T.G. (avv. Zicavo) c. Cgsmapb (avv. Marini).

Cassa Corte d’Appello Roma 13 settembre 2007.

Lavoro subordinato – Subordinazione – Elementi costitutivi del rap- porto – Retribuzione – Minimi salariali – Principio della giusta re- tribuzione ex art. 36 Cost. – Criteri – Parametro della contrattazio- ne collettiva di settore – Comunità religiose – Struttura alberghiera – Ccnl turismo – Si applica.

Le comunità appartenenti a ordini religiosi svolgono attività commerciale qualora, verso corrispettivo, accolgano ospiti. Pertanto, i lavoratori che svolgano attività all’interno di questa impresa alberghiera devono essere inquadrati nei contratti collettivi di riferimento, e non vanno considerati come collaboratori domestici. (1)

(*) Il testo della sentenza è pubblicato in www.ediesseonline.it/riviste/rgl

(1) RAPPORTO DI LAVORO PRESSO COMUNITÀ RELIGIOSE ESERCENTI ATTIVITÀ COMMERCIALI

SOMMARIO: 1. — Lo svolgimento di attività accessorie da parte della comunità reli- giosa. — 2. La finalità religiosa e l’impresa. — 3. La qualifica, le mansioni del la- voratore e l’applicazione del Ccnl dipendenti alberghieri.

1. — Lo svolgimento di attività accessorie da parte della comunità religiosa — Un la- voratore presso una Casa generalizia aveva presentato ricorso per chiedere che gli fos- se applicato il contratto dei dipendenti alberghieri. Il dipendente aveva svolto attività di portinaio in quella struttura per 35 anni, dal 1963 al 1998, ed era stato inquadra- to e pagato come collaboratore domestico. Con il ricorso chiedeva invece di ricevere ora le differenze di retribuzione, Tfr, straordinario e tredicesima tra il contratto appli- cato e quello spettante. La ragione della richiesta si fondava essenzialmente sul fatto che la comunità religiosa ospitasse, dietro corrispettivo, anche laici, fornendo dei ser- vizi assimilabili a quelli alberghieri.

Dal canto loro, i religiosi avevano negato il carattere alberghiero della loro struttu- ra, rilevando l’assenza dello scopo di lucro nel consentire il soggiorno a ospiti esterni.

Inoltre, i missionari sottolineavano la connotazione familiare dell’organizzazione.

In ordine ai ricavi, i Padri Bianchi ritenevano che non vi fosse prova che le som- me, versate dagli ospiti in maniera occasionale, costituissero un vero e proprio uti- le. La Comunità, difatti, rientrando nel novero delle persone giuridiche riconosciu- te, poteva ben svolgere attività destinate a reperire fondi, finalizzati alla realizzazio- ne dei propri scopi istituzionali. In sostanza, i ricavi, secondo i religiosi, erano de-

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stinati ai fini propri della Casa generalizia, quindi non per scopo di lucro e senza al- cuna attività di impresa.

Il giudice di primo grado aveva aderito alla tesi della giurisprudenza secondo cui la comunità religiose, non avendo scopo di lucro e carattere imprenditoriale, possono esser ritenute degli organismi sostitutivi della famiglia, volti quindi al soddisfacimen- to di esigenze di carattere materiale. Tale qualificazione comportava che la Casa gene- ralizia fosse ritenuta quale una vera e propria comunità, e la convivenza al suo inter- no fosse di tipo familiare. Ne conseguiva, dunque, all’interno di questa ricostruzione, che l’addetto alla portineria fosse stato inquadrato come collaboratore domestico.

La Corte d’Appello, riformando la sentenza di primo grado, aveva invece rilevato come la struttura in esame era destinata all’accoglimento di ospiti laici e religiosi estra- nei alla comunità, oltre che ai soggetti appartenenti alla comunità, offrendo, in via ac- cessoria, temporaneo soggiorno a questi ultimi, dietro pagamento di un corrispettivo.

L’attività in questione, inoltre, non aveva carattere occasionale o sporadico, a detta del giudice di II grado, ma determinava la necessità di impiegare personale necessario per far fronte alle esigenze organizzative, similari a quelle di una struttura alberghiera.

Proprio in relazione alle attività accessorie, la Corte di Cassazione ha stabilito che una comunità religiosa, oltre alle attività principali di culto o religiose, possa svolger- ne anche altre, purché queste rientrino nel perimetro delle attività accessorie, ma co- munque non sporadiche od occasionali.

In ordine a tale aspetto, viene affermato un principio tipico della disciplina degli enti commerciali, secondo il quale gli enti, pubblici e privati, accanto alla loro attivi- tà istituzionale, di carattere non commerciale, possono anche svolgere attività com- merciali. Tali servizi possono essere erogati su base costante, anche se in via accessoria rispetto alle finalità istituzionali.

Difatti, la finalità non lucrativa degli enti non commerciali non è considerata di impedimento alla realizzazione di attività di natura commerciale e imprenditoriale.

Va infatti tenuto conto che, in presenza degli altri requisiti fissati dall’art. 2082 cod.

civ., ha carattere imprenditoriale l’attività economica, organizzata al fine della pro- duzione o dello scambio di beni o di servizi, ricollegabile a un elemento di caratte- re oggettivo, ossia la remunerazione dei fattori produttivi. È invece giuridicamente irrilevante lo scopo di lucro, che coincide con l’aspetto soggettivo per il quale l’im- prenditore esercita la propria attività. Precipitato di tale considerazione è il fatto che debba essere escluso il carattere imprenditoriale dell’attività, qualora essa sia svolta in modo del tutto gratuito; la giurisprudenza, infatti, afferma che non può essere considerata imprenditoriale l’attività consistente nell’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti (1). Proprio in relazione al fatto che debbono considerarsi le concre- (1) Principio fissato, fra le altre sentenze, da Cass. 14 giugno 1994, n. 5766, in Mass.

giust. civ., 1994, fasc. 6. Tale sentenza ha precisato che la natura imprenditoriale dell’attivi- tà esercitata dal datore di lavoro al fine dell’applicazione della disciplina dettata dall’art. 18, legge 20 maggio 1970, n. 300, vada accertata prendendo come riferimento l’attitudine di quest’ultima attività a ottenere la remunerazione dei fattori produttivi. L’intento di lucro, in tale ottica, pertanto, degrada a semplice motivo giuridicamente irrilevante. Sul punto, si v.

Cass. 23 aprile 2004, n. 7725, in Dir. eccl., 2004, 4, II, p. 475, che ha stabilito, proprio in relazione all’attività di carattere imprenditoriale svolta da parte di una congregazione religio- sa, che la nozione di imprenditore, ai sensi dell’art. 2082 cod. civ., vada intesa in senso og-

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te modalità di svolgimento dell’attività stessa per valutare se questa sia di tipo com- merciale, qualora sia svolta da un ente pubblico o privato che non abbia come og- getto esclusivo o principale l’esercizio di attività commerciali, la Corte conclude af- fermando che debba «essere qualificata come commerciale un’attività di gestione di una struttura alberghiera da parte di ente assistenziale, sia pure svolta in modo da non eccedere i costi relativi alla produzione del servizio». Ciò a maggior ragione in quanto si afferma, nella sentenza in oggetto «che per “albergo” deve intendersi l’edi- ficio attrezzato per dare alloggio in unità abitative costituite da camere» (2).

Tali parametri determinano la presunzione di commercialità, di imprenditorialità, comportando l’assimilazione del lavoratore addetto ai servizi di portineria a un dipen- dente di una struttura alberghiera, in quanto i servizi richiesti vanno ben al di là della mera accoglienza, richiedendo una organizzazione di supporto all’attività di ospitalità.

2. — La finalità religiosa e l’impresa — La Corte di Cassazione ha espresso un altro principio radicato nell’azione degli enti non commerciali, in base al quale la loro finalità (ideale, religiosa, altruistica ecc.) non impedisce che questi siano rico- nosciuti come vere e proprie imprese, in ordine ai servizi erogati. Invero, non solo l’organizzazione, ma anche la presenza di un corrispettivo, per ciò che attiene le pre- stazioni somministrate da parte del medesimo ente, rappresentano elementi presun- tivi dell’imprenditorialità della attività svolta.

Nel caso in esame, un convitto religioso, dedito normalmente all’accoglienza di re- ligiosi, quando accoglie altresì soggetti esterni rispetto alla comunità religiosa, ospita- ti dietro il pagamento di un corrispettivo, mantiene la qualifica di ente assistenziale.

Peraltro, l’attività svolta da parte della stessa congregazione assume le caratteristiche di un’attività di natura commerciale e, conseguentemente, imprenditoriale. Per la sussi-

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gettivo. Sul punto, anche Cass. 17 febbraio 2010, n. 3733, in Archivio delle locazioni e del condominio, 2010, 4, p. 426, relativa agli immobili esenti dall’imposta Ici, con la quale la Corte ricorda come i proventi siano destinati allo «svolgimento d’attività assistenziali». La de- stinazione degli immobili deve essere volta ad attività peculiari che non siano produttive di reddito. Conf. Cass. 23 maggio 2005, n. 10827, ivi, 2005, 6, p. 689, che ribadisce, sempre in tema di esenzione di imposte, che per gli edifici di proprietà di enti pubblici e privati, di- versi dalle società, residenti nel territorio dello Stato e non aventi per oggetto esclusivo o principale l’esercizio d’attività commerciali, purché destinati esclusivamente – fra l’altro – al- lo «svolgimento d’attività assistenziali», esige la duplice condizione dell’utilizzazione diretta degli immobili da parte dell’ente possessore e dell’esclusiva loro destinazione ad attività pe- culiari che non siano produttive di reddito. Pertanto, tale esenzione non spetta nel caso di semplice utilizzazione indiretta, come nel caso di alloggi di edilizia residenziale pubblica con- cessi in locazione a privati cittadini. Si v. anche Cass., Ss.Uu., 26 novembre 2008, n. 28160, in Riv. giur. edilizia, 2009, 2, p. 640, parte I.

(2) In quest’ottica, la caratterizzazione della struttura alberghiera sta proprio nella neces- sità di offrire un alloggio all’ospite in una struttura propria, in un edificio attrezzato per da- re alloggio, fornendo unità abitative costituite da camere, anche con eventuali servizi acces- sori. Proprio in tali connotazioni, con riferimento alla distinzione di tali strutture da quelle proprie di villaggi turistici e residence, si v. Cass. 27 maggio 2010, n. 12962, in Mass. giust.

civ., 5, p. 819. Con riferimento alla distinzione rispetto agli alberghi cd. diurni, Cass. 30 aprile 2005, n. 9022, in Foro it. 2005, I, p. 2716. Conf. Cass. 22 giugno 2004, n. 11600, in Giust. civ., 2005, 12, I, p. 3106, che distingue le strutture alberghiere rispetto agli immobi- li adibiti a campeggio.

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stenza dell’impresa è difatti necessario lo svolgimento di attività economica, astratta- mente idonea non tanto a produrre lucro, quanto a coprire i costi di produzione (3).

La Corte, infatti, ha affermato che «il fine spirituale o comunque altruistico per- seguito dall’ente religioso non pregiudica l’attribuzione del carattere dell’imprendi- torialità dei servizi resi, ove la prestazione sia oggettivamente organizzata in modo che essa sia resa previo compenso adeguato al costo del servizio, dato che il requisi- to dello scopo di lucro assume rilievo meramente oggettivo ed è quindi collegato al- le modalità dello svolgimento dell’attività».

Come già accennato, è possibile escludere il carattere imprenditoriale dell’attivi- tà accessoria nel caso di esercizio gratuito della stessa, atteso che non può essere con- siderata imprenditoriale l’erogazione gratuita dei beni o servizi prodotti (4).

3. — La qualifica, le mansioni del lavoratore e l’applicazione del Ccnl dipendenti alberghieri — La Corte, quindi, ha aderito alla ricostruzione operata dal giudice di II grado sui due punti appena citati.

Secondo la Cassazione, inoltre, non si può considerare che l’uomo lavorasse in un contesto di carattere familiare e quindi fosse un collaboratore domestico.

Peraltro, smentendo il giudice di prime cure, viene negata l’analogia con quan- to si verifica nei rapporti in famiglia, per cui la qualifica come collaboratore dome- stico operata da parte del Tribunale è erronea. Ciò in quanto presupporrebbe una convivenza di tipo familiare del collaboratore, inserito in quel caso in una comuni- tà religiosa senza scopo di lucro e priva di carattere imprenditoriale (5).

(3) Cass. 12 ottobre 1995, n. 10636, in Mass. giust. civ., 1995, fasc. 10, che ha stabilito che sia imprenditore anche l’ente ecclesiastico che eserciti professionalmente assistenza ospe- daliera, ove la sua attività sia organizzata in modo da essere resa attraverso corrispettivo, ade- guato al costo del servizio. Da ciò, la Suprema Corte ha desunto che l’assoggettamento del suddetto ente alla tutela reale dell’art. 18 Stat. lav., anche prima delle modifiche che sono sta- te introdotte dalla legge 11 maggio 1990, n. 108. Tale considerazione, appunto, sostiene la giurisprudenza appena citata, non determina alcun dubbio di legittimità costituzionale del- la norma relativamente al trattamento peggiorativo che essa, in correlazione con l’art. 35 del- la stessa legge, farebbe agli enti ecclesiastici rispetto ai datori di lavoro egualmente o ancora più complessi sul piano organizzativo in termini di personale e di mezzi. La norma appena citata, difatti, non occupandosi affatto di tale genere di enti, collega l’applicabilità della tu- tela alla sola condizione che la struttura organizzativa del datore coincida con quella propria dell’impresa. In relazione alla qualificazione dell’ente non commerciale, la circolare del mi- nistero delle Finanze n. 124/E del 12 maggio 1998, ha precisato che non rileva la natura, pubblica o privata, del soggetto, l’interesse sociale delle finalità perseguite, l’assenza del fine di lucro o la destinazione dei risultati.

(4) Sul punto, si v. Cass. 14 giugno 1994, n. 5766, cit.

(5) Sul punto, si v. Cass. 13 maggio 1982, n. 2987, in Riv. it. dir. lav., 1983, II, p. 571, con la quale la Suprema Corte ha precisato che la fattispecie tipica del rapporto di lavoro su- bordinato è caratterizzata non solo dagli estremi della collaborazione e della subordinazione, ma anche dall’onerosità. Pertanto, a detta della Corte di Cassazione, tale fattispecie non sus- sisterebbe nel caso in cui una determinata attività, oggettivamente configurabile quale pre- stazione di lavoro subordinato, non sia eseguita con spirito di subordinazione, né in funzio- ne di adeguata retribuzione, ma per affezione e benevolenza, o in ottemperanza di princìpi di ordine morale o religioso o in vista di vantaggi che si traggano o si speri di trarre dall’eser- cizio dell’attività stessa.

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Tranne nel caso di convivenze familiari, appunto, tale presunzione non può operare, e, anche in questo ambito, va ricavata da specifici elementi oggettivi e soggettivi, quali la tipologia del rapporto, le modalità in cui esso si svolge, la qua- lità e la condizione economico-sociale dei soggetti cui inerisce e le relazioni perso- nali fra essi (6).

Pur confermando la tesi avallata dalla Corte d’Appello di Roma in ordine alla qualifica del lavoratore come dipendente alberghiero, e non come collaboratore do- mestico, la Corte di Cassazione si discosta, peraltro, da quanto sostenuto da tale or- gano giudicante in relazione alle modalità di adeguamento della retribuzione in ba- se ai princìpi di cui all’art. 36 Cost.

Più in particolare, la Cassazione non concorda con quanto sostenuto dal giudi- ce di II grado in ordine al livello di inquadramento del lavoratore all’interno del Ccnl dei dipendenti alberghieri.

E smentisce anche la scelta della sentenza di secondo grado di detrarre dal tota- le dovuto al ricorrente i compensi per lavoro straordinario, lavoro non festivo, ferie non godute, come pure il rigetto alla domanda di versamento dei contributi pensio- nistici.

Si legge, infatti, nel dispositivo della sentenza in esame che «la Corte d’Appello si è limitata ad affermare che – ritenuta l’inapplicabilità del Ccnl per i lavoratori do- mestici e considerata l’attività svolta dalla datrice di lavoro – ai fini dell’art. 36 Cost., si deve fare riferimento al Ccnl per i dipendenti di aziende alberghiere e che l’inquadramento maggiormente coerente con le mansioni di portiere svolte dal T.

sia il secondo il livello iniziale raggruppamento 6°».

Ciò ha comportato, a detta dei giudici di legittimità, un possibile duplice vizio della sentenza oggetto di impugnazione: da un lato, un vizio di omessa motivazio- ne; da un altro lato, un vizio di violazione della normativa applicabile in materia di determinazione giudiziale della retribuzione ai sensi dell’art. 36 Cost.

Viene sottolineato, in ordine al primo profilo, il fatto che il giudice, omettendo di indicare gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, «senza una appro- fondita disamina logica e giuridica», rende in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e logicità del suo ragionamento (7).

D’altra parte, la Suprema Corte rileva come, in relazione all’art. 2099 cod. civ.

e dunque con riferimento ai contratti collettivi in via parametrica, ai fini della de- P A R T E I I – G I U R I S P R U D E N Z A

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Nella sentenza in questione, il giudice di legittimità ha altresì sostenuto che l’assunzione del voto di povertà del religioso, fa sì che la sua condizione, in rapporto alla associazione reli- giosa che beneficia di tale attività non diversifichi tale relazione da quella degli altri cittadini, che svolgano altrettante attività di carattere gratuito.

(6) Cass. 13 maggio 1982, n. 2987, cit.

(7) Cass. 18 novembre 2010, n. 23296, in Mass. giust. civ., 2010, 11, p. 1467, la quale ha stabilito che ricorre il vizio di omessa motivazione della sentenza, denunziabile in sede di legit- timità, nella duplice manifestazione di difetto assoluto o di motivazione apparente, quando il giudice di merito ometta di indicare, nella sentenza, gli elementi da cui ha tratto il proprio con- vincimento ovvero indichi tali elementi senza una approfondita disamina logica e giuridica, rendendo in tal modo impossibile ogni controllo sull’esattezza e sulla logicità del suo ragiona- mento. Conf. Cass. 18 gennaio 2006, n. 890, ivi, 2006, 1, p. 53; Cass. 21 agosto 2006, n.

18214, ivi, 2006, pp. 7-8.

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terminazione della giusta retribuzione a norma dell’art. 36 Cost., il giudice del me- rito debba rispettare i criteri dettati dalla norma costituzionale per il processo pere- quativo. Più specificamente, deve essere tenuto in debito conto tanto il criterio di sufficienza della retribuzione, idoneo a sopperire ai bisogni di una esistenza libera e dignitosa, quanto quello di proporzionalità della stessa retribuzione in rapporto al- la quantità e qualità del lavoro prestato. Tali criteri vanno parametrati alla contrat- tazione collettiva a semplici fini di raffronto, e nell’ambito della stessa comparazio- ne va tenuto conto dell’anzianità di servizio. Questa determinazione può essere im- pugnata dal lavoratore in Cassazione, in caso di disapplicazione del criterio giuridi- co della sufficienza della retribuzione o di quello della proporzionalità (8).

Tale aspetto coinvolge anche la detrazione, operata dalla Corte d’Appello, dei compensi relativi alle prestazioni per lavoro straordinario, lavoro festivo, ferie non godute, che richiede una specifica e adeguata motivazione, ritenuta non presente nel dispositivo della sentenza impugnata.

In relazione ai princìpi appena citati, la Corte di Cassazione ha rilevato come il giudice del merito, senza alcuna spiegazione, abbia fatto riferimento alla qualifica di secondo livello iniziale raggruppamento 6°, corrispondente alle mansioni di addet- to di portineria non adeguate all’inquadramento richiesto, quale quello di «portiere turnante».

A detta della Corte, ciò ha comportato «una evidente violazione dei criteri giu- ridici della “sufficienza” e della “proporzionalità” della retribuzione che il giudice, in simili casi, è chiamato ad applicare, per il tramite della contrattazione collettiva scel- ta come parametro».

In ottemperanza a tali considerazioni, e anche con riferimento al rigetto della domanda di versamento dei contributi previdenziali o risarcimento del danno pen- sionistico, che il giudice di II grado motivava facendo riferimento alla genericità del- le allegazioni che forniscono indicazioni sui periodi di contributi prescritti e sul sud- detto danno, il giudice di legittimità rileva il vizio di motivazione apparente.

Proprio in relazione alla determinazione di tutti questi aspetti, la Corte di Cassazione, accogliendo tali princìpi, cassa con rinvio alla Corte d’Appello di Roma, anche ai fini di determinazione delle spese di lite.

In virtù di quanto finora esaminato, appare chiaro che, al di là degli importan- ti interventi in ordine alla applicazione dei contratti collettivi in via parametrica e ai vizi della motivazione correlati alla sentenza oggetto di impugnazione e cassata dal-

(8) Sul punto, Cass. 7 luglio 2008, n. 18584, in Mass. giust. civ., 2008, 7-8, p. 1100, che ha sostenuto come il contratto collettivo di settore rappresenti il più adeguato strumento per determinare il contenuto del diritto alla retribuzioneex art. 36 Cost., anche se limitatamente ai titoli contrattuali che costituiscono espressione, per loro natura, della giusta retribuzione, con esclusione, quindi, dei compensi aggiuntivi e delle mensilità aggiuntive oltre la tredicesima. La Corte ha rilevato inoltre che la giusta retribuzione debba essere adeguata all’anzianità di servi- zio acquisita. Ciò in quanto la prestazione di lavoro migliora qualitativamente per effetto del- l’esperienza. Pertanto, il giudice può attribuire gli scatti di anzianità, ma subordinatamente al- l’indagine circa l’adeguatezza della retribuzione ex art. 36 Cost. in funzione del miglioramento qualitativo nel tempo della prestazione. Sulla natura parametrica della contrattazione colletti- va, si v. anche Cass. 9 agosto 1996, n. 7379, ivi, 1996, p. 1151. Conf. Cass. 20 settembre 2007, n. 19467, ivi, 2007, p. 9.

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la Suprema Corte, l’aspetto più importante del dispositivo della pronuncia in ogget- to è, appunto, il riconoscimento dell’attività alberghiera da parte di un ente, di na- tura religiosa, che non svolga tali attività a fini istituzionali, ma meramente accesso- ri, a nulla rilevando la semplice finalità religiosa dell’impresa.

Alessandro Veltri Dottorando di ricerca di Diritto del lavoro

nella «Sapienza» Università di Roma P A R T E I I – G I U R I S P R U D E N Z A

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