3 MATERIALI E METODI
3.1
S
CELTA DEI MATERIALI
L’esigenza dettata da questo studio è stata principalmente quella di cercare materiali polimerici che, sia per la loro struttura molecolare che per le loro proprietà chimico- fisiche, risultassero adatte a miscelarsi e ad interagire chimicamente con l’idrolizzato proteico, che rappresenta il punto di partenza di questa esperienza.
Le prime importanti informazioni sull’idrolizzato sono le seguenti:
• E’ ottenuto per idrolisi alcalina del collagene presente nello strato sottocutaneo delle pelli; ciò implica che esso possiede una struttura molecolare non più ben organizzata costituita per lo più da amminoacidi liberi e piccole catene polipeptidiche;
• Ha un peso molecolare medio molto più basso rispetto ad un polimero standard, per cui per poter creare miscele polimeriche a partire dall’idrolizzato, devono essere impiegati polimeri ad alto peso molecolare che abbiano particolare affinità per i gruppi amminici e carbossilici degli amminoacidi;
• Da una prima analisi spettroscopica ai raggi infrarossi dell’idrolizzato è stata osservata una particolare somiglianza con una gelatina porcina (Fig. 3.1.1).
In base a queste informazioni preliminari la scelta è stata indirizzata verso due materiali: 1. Alcool polivinilico (PVA) ;
2. Poli(vinilalcool-co-vinilacetato-co-acido itaconico).
Il primo è un polimero molto diffuso e largamente utilizzato nel campo della produzione di materiali destinati al settore degli imballaggi; inoltre in base ai dati di letteratura provenienti da riferimenti bibliografici è già stato impiegato in passato per la preparazione di film con gelatina [5]. Data quindi la somiglianza “chimica” tra l’idrolizzato e la gelatina, è stato ritenuto opportuno approfondire questo studio.
Il secondo è un materiale molto meno conosciuto, che tuttavia è stato scelto per la presenza, seppure in piccola concentrazione (1-2%), dell’acido itaconico, in previsione
degli amminoacidi presenti nell’idrolizzato. Ciò con il proposito di confermare la veridicità delle ipotesi fatte nonché l’affinità di questo materiale con l’idrolizzato proteico.
Figura 3.1.1: Spettroscopia IR dell’idrolizzato proteico (in alto) e della gelatina porcina (in basso) a confronto
3.1.1
A
LCOOL
P
OLIVINILICO
(PVA)
L’alcool polivinilico (PVA) è un polimero termoplastico solubile in acqua e insolubile nei principali solventi organici che trova molte applicazioni nelle industrie farmaceutiche, cosmetiche, alimentari, sia puro sia in miscela con altri polimeri.
E’ un polimero parzialmente cristallino con un grado di cristallinità che si aggira attorno al 50%.
Il PVA viene sintetizzato generalmente per idrolisi del polivinilacetato, poiché l’alcool vinilico è un composto instabile che traspone spontaneamente ad aldeide acetica secondo la reazione [7]:
A causa dell’instabilità dell’alcool vinilico il suo polimero, l’alcool polivinilico, non può essere sintetizzato per polimerizzazione del monomero, ma mediante un metodo indiretto che prevede come primo step le produzione di polivinilacetato a partire da vinilacetato e successivamente l’idrolisi del PVAc a PVA. La sua solubilità in acqua dipende dal peso molecolare e, in modo più complesso, dal grado d’idrolisi, e comunque a parità di grado d’idrolisi, la solubilità aumenta con la temperatura raggiungendo un valore del 100% a 80°C; a parità di temperatura, invece, la solubilità diminuisce bruscamente all’aumentare del grado d’idrolisi, tanto che fino a 40°C il PVA idrolizzato al 100% è completamente insolubile (Fig. 3.1.1.1).
La funzione dei gruppi esterei è quella di tenere lontane tra loro le catene del polimero in modo da permettere la solvatazione dei gruppi ossidrilici. Infatti la proprietà che distingue il PVA dagli altri polimeri di sintesi è la sua solubilità in acqua, a causa dell’alta concentrazione di gruppi ossidrilici presenti nella sua catena. Il PVA è quindi un polimero altamente igroscopico e l’acqua ha un ruolo molto importante nella determinazione delle proprietà del materiale, che variano al variare della quantità d’acqua assorbita.
O CH OH CH CH2 CH3 Alcool vinilico Acetaldeide
Figura 3.1.1.1: andamento della solubilità del PVA con il grado d’idrolisi
Questo comportamento è stato spiegato con la formazione tanto più pronunciata quanto più alto è il grado d’idrolisi di legami idrogeno intra ed intermolecolari a scapito di quelli con l’acqua responsabili della solubilità.
In particolare, il PVA impiegato nel presente lavoro possiede un grado d’idrolisi del 87-89% ed è prodotto dalla Aldrich-Chemie.
Le principali proprietà del PVA impiegato sono riportate in Tab. 3.1.1.1:
Tabella 3.1.1.1: Proprietà chimico-fisiche del PVA
NOME Poli(vinilalcool)
FORMULA (CH2CHOH)n
PESO MOLECOLARE 85000-124000 Dalton STATO FISICO, ASPETTO Solido trasparente
PUNTO DI FUSIONE 180 °C
DENSITA’ RELATIVA (acqua=1) 1,2 g/cm3
3.1.2
P
OLI
(
VINILALCOOL
-
CO
-
VINILACETATO
-
CO
-
ACIDO ITACONICO
)
Si riporta di seguito la formula chimica completa della sostanza e le proprietà disponibili:
Tabella 3.1.2.1: Proprietà chimico-fisiche del copolimero PVA-PVAc-AI
STATO FISICO, ASPETTO Solido trasparente PUNTO DI FUSIONE 186-200 °C
Tg 79,9 °C
DENSITA’ 1,2 g/cm3
PESO MOLECOLARE
3.1.3
G
LUTARALDEIDE
(GTA)
La GTA è stata impiegata per i procedimenti di reticolazione sia direttamente in miscela che sottoforma di vapori. E’ un prodotto già noto nell’industria conciaria, poiché viene talvolta impiegata come agente conciante al posto del cromo. Essa ha infatti la capacità di formare legami covalenti con i gruppi amminici delle catene del collagene creando dei cross-link che stabilizzano le fibre della pelle (Fig. 3.13.1).
Poiché l’idrolizzato proteico ha una composizione chimica molto simile a quella del collagene della pelle, la glutaraldeide, sulla base dell’esperienza del settore conciario, è stata selezionata come agente reticolante delle catene polipeptidiche dell’idrolizzato proteico.
Si riporta di seguito una tabella con le principali caratteristiche chimico-fisiche: polivinilalcool polivinilacetato Acido itaconico
Tabella 3.1.3.1: Proprietà chimico-fisiche della GTA
NOME IUPAC 1,5 PENTANDIALE
FORMULA OHC(CH2)3CHO
PESO MOLECOLARE 100,1 Dalton
STATO FISICO, ASPETTO Liquido incolore chiaro viscoso con odore pungente
PUNTO D’EBOLLIZIONE 187-189 °C
PUNTO DI FUSIONE -14 °C
DENSITA’ RELATIVA (acqua=1) 0,7 g/cm3
SOLUBILITA’ IN ACQUA miscibile
TENSIONE DI VAPORE A 20°C 2,3 kPa
DENSITA’ DI VAPORE RELATIVA (aria=1) 3,5 g/cm3
Figura 3.1.3.1: Reticolazione del collagene ad opera della GTA
3.2
P
REPARAZIONE DEI FILM
I film sono stati preparati mediante casting da soluzione, partendo da una soluzione acquosa contenente i due componenti ed inducendo la completa evaporazione del solvente. Le soluzioni di partenza, del volume totale di 10 ml ciascuna, sono state poste in capsule Petri in plastica e la completa evaporazione del solvente è stata raggiunta in stufa ventilata alla temperatura di 37°C. La scelta della temperatura, relativamente bassa, deriva dall’impossibilità di portare l’idrolizzato a temperature elevate onde evitarne la degradazione termica; inoltre è stato ritenuto opportuno evitare riscaldamenti troppo
energici per eliminare il rischio di formazione di bolle che avrebbero compromesso la struttura morfologica dei film. In quest’ottica anche la scelta del volume totale ha un fondamento: infatti un volume di partenza delle miscele pari a 10ml, ha permesso di raggiungere un compromesso tra omogeneità e spessore dei film ottenuti.
3.3
R
ETICOLAZIONE
La reticolazione è uno dei metodi più comuni per migliorare alcune caratteristiche delle miscele polimeriche come ad esempio le propietà meccaniche, resistenze ad agenti chimici o la solubilità in acqua. Il termine reticolazione significa formazione di legami trasversali tra catene lineari di un polimero. L’esempio più classico di reticolazione è quello della vulcanizzazione della gomma. In realtà la reticolazione è un procedimento sempre più sfruttato allo scopo di rendere materiali polimerici, apparentemente instabili, più organizzati in una struttura che sia quindi resistente a diversi agenti esterni (Fig. 3.3.1).
Figura 3.3.1: Reticolazione: (a) polimero non reticolato, (b) polimero reticolato.
Una volta ottenuta la formazione di legami trasversali , il materiale risulta quindi più stabile e resistente alle sollecitazioni meccaniche.
La reticolazione viene spesso utilizzata anche per le miscele polimeriche per favorire la formazione di legami trasversali tra le catene dei componenti.
I metodi di reticolazione possono essere:
• Procedimento termico: la miscela viene mantenuta per un tempo prestabilito ad temperatura elevata e bassa pressione; i valori ovviamente sono quelli sufficienti per ottenere cambiamenti in seno alla struttura molecolare, quindi, variano a seconda dei componenti della miscela;
• Procedimento chimico: in questo caso la struttura molecolare viene modificata ad opera di un terzo componente che può essere aggiunto direttamente in miscela (anch’esso in soluzione) o sottoforma di vapori che vengono messi a contatto con i film precedentemente ottenuti. Il terzo componente (o agente reticolante) viene ovviamente scelto in base alla sua reattività nei confronti dei componenti della miscela, quindi alla sua capacità di formare legami forti con le singole catene polimeriche. L’agente reticolante utilizzato in questa sperimentazione è la glutaraldeide (GTA), già utilizzata in precedenti lavori per reticolare miscele contenenti collagene idrolizzato.
In questo studio sono state sviluppate tre diverse tecniche di reticolazione: • Reticolazione termica;
• Reticolazione chimica mediante vapori di GTA; • Reticolazione chimica mediante GTA in miscela.
L’obiettivo principale è stato quello di confrontare i film reticolati nei tre modi ed individuare la tecnica più adatta ad entrambe le sostanze di partenza.
3.3.1
R
ETICOLAZIONE TERMICA
I film ottenuti sono stati posti in capsule di vetro ed inseriti in stufa al di sotto della pressione atmosferica. Il trattamento termico cui sono stati sottoposti i film consiste in una prima fase di disidratazione a 50 °C della durata di 2 ore seguita da una seconda fase a 90 °C della durata di un’ora. Nella terza fase i campioni sono stati riscaldati a 130 °C e mantenuti a tale temperatura per 72 ore. In quest’ultimo intervallo di tempo il PVA contenuto nei film diviene insolubile. Alla fine del trattamento i campioni sono stati riportati a temperatura ambiente mantenendo il vuoto per evitare fenomeni di natura ossidativi.
3.3.2
R
ETICOLAZIONE CHIMICA MEDIANTE VAPORI DI
GTA
I campioni di idrolizzato e PVA sono stati esposti ai vapori di GTA in un apposito contenitore chiuso contenente, sul fondo, 60 ml di una soluzione acquosa di GTA al 8%. Il contenitore è stato mantenuto in stufa per 24 ore a 37 °C. Alla fine del processo i film presentavano colore più scuro, segno di reazioni chimiche tra la GTA e la miscela.
3.3.3
R
ETICOLAZIONE CHIMICA MEDIANTE
GTA
IN MISCELA
In questo caso è stata preparata un soluzione di GTA al 5% ; infatti la GTA è stata fornita in soluzione al 25% ed è quindi stata diluita 5 volte con acqua distillata. Dopo aver preparato tutte le soluzioni, sono state preparate le miscele, mantenendo costante il volume totale (10 ml), con una quantità fissa di GTA.
Poiché lo scopo di questo lavoro è rappresentato dal recupero dell’idrolizzato proteico, è stato ritenuto opportuno che la quantità di GTA fosse aggiunta andasse mantenendo inalterata la quantità di idrolizzato e aumentando quindi il volume totale delle miscele. Anche in questo caso, come per la reticolazione con vapori di GTA, i film sono risultati più scuri rispetto a quelli non reticolati ma con una maggiore idrofilicità (capacità d’assorbimento dell’umidità) rispetto a quelli reticolati con i vapori.
3.4
F
ILM
PVA:CH
Prima di procedere a formare le miscele sono state preparate soluzioni in acqua delle due sostanze di partenza. Per quanto riguarda l’idrolizzato (designato con la sigla CH che sta per Collagen Hydrolisate), esso è stato fornito dal consorzio S.G.S. come soluzione molto concentrata e viscosa: per questo motivo la soluzione è stata ottenuta portando il volume iniziale di 100 ml di CH a 1000 ml di volume totale. In questo modo, tenuto conto del
contenuto di amminoacidi totali (circa il 50 % in peso), la soluzione è risultata essere di circa il 5% in peso di fase organica.
La soluzione di PVA è stata invece preparata sciogliendo 10 g di polimero in 200 ml d’acqua in modo da ottenere anche in questo caso una soluzione al 5 % circa.
Dopo aver misurato la densità delle due soluzioni (circa pari a quella dell’acqua) sono state preparate miscele PVA-CH in rapporti ponderali che vanno da 1:1 a 5:1 e un bianco di riferimento di PVA puro.
Tabella 3.4.1: Composizione delle miscele PVA:CH
MSCELA PVA:CH VOLUME TOTALE PESO SOL. PVA PESO SOL. IDROLIZZATO 1:1 10 ml 5.087 g 5.087 g 2:1 10 ml 6.678 g 3.440 g 3:1 10 ml 7.565 g 2.520 g 4:1 10 ml 8.056 g 2.014 g 5:1 10 ml 8.374 g 1.679 g PVA PURO 10 ml 10.05 g 0 g
Tabella 3.4.2: Composizione delle miscele PVA:CH reticolate con GTA in miscela
MSCELA PVA:CH VOLUME TOTALE PESO SOL. PVA PESO SOL. GTA PESO SOL. IDROLIZZATO 1:1 12 ml 5.087 g 2 g 5.087 g 2:1 12 ml 6.678 g 2 g 3.440 g 3:1 12 ml 7.565 g 2 g 2.520 g 4:1 12 ml 8.056 g 2 g 2.014 g 5:1 12 ml 8.374 g 2 g 1.679 g PVA PURO 12 ml 10.05 g 2 g 0 g
Miscele con maggiori quantità di idrolizzato non hanno dato origine a film sufficientemente stabili per cui sono state scartate nella fase di caratterizzazione.
3.5
FILM
PVA-PVA
C
-AI:CH
Anche in questo caso sono state ottenute soluzioni delle due sostanze alla concentrazione del 5% in peso come nel caso precedente. E’ stata incontrata una maggiore difficoltà nella preparazione delle miscele a causa della maggiore viscosità del copolimero: a ciò è stato posto rimedio mantenendo la soluzione in agitazione a circa 40 °C durante la preparazione delle miscele. Anche in questo caso i film sono stati preparati con rapporti ponderali PVA-PVAc-AI:CH che vanno da 1:1 a 5:1 oltre ad un bianco di riferimento di copolimero puro e sono stati ottenuti per casting con le stesse modalità utilizzate per i film con PVA.
Tabella 3.5.1: Composizione delle miscele PVA-PVAc-AI:CH
MSCELA PVA-PVAc-AI:CH VOLUME TOTALE PESO SOL. PVA-PVAc-AI PESO SOL. IDROLIZZATO 1:1 10 ml 5.087 g 5.087 g 2:1 10 ml 6.678 g 3.440 g 3:1 10 ml 7.565 g 2.520 g 4:1 10 ml 8.056 g 2.014 g 5:1 10 ml 8.374 g 1.679 g PVA PURO 10 ml 10.05 g 0 g
Tabella 3.5.2: composizione delle miscele PVA-PVAc-AI:CH reticolate con GTA in miscela MSCELA PVA-PVAc-AI:CH VOLUME TOTALE PESO SOL. (PVA-PVAc-AI) PESO SOL. GTA PESO SOL. IDROLIZZATO 1:1 12 ml 5.087 g 2 g 5.087 g 2:1 12 ml 6.678 g 2 g 3.440 g 3:1 12 ml 7.565 g 2 g 2.520 g 4:1 12 ml 8.056 g 2 g 2.014 g 5:1 12 ml 8.374 g 2 g 1.679 g PVA PURO 12 ml 10.05 g 2 g 0 g
3.6 M
ETODI D
’
ANALISI
Per determinare le proprietà chimico-fisiche o meccaniche di una miscela polimerica nonché la morfologia si può ricorrere a diversi metodi di analisi.
Tra le tecniche più comuni e utilizzate si ricordano: l’analisi termica differenziale, l’analisi termogravimetrica, la spettroscopia infrarossa e la microscopia ottica e a scansione elettronica.
Particolare importanza assume l’analisi termica che permette di ricavare informazioni sulla miscibilità tra i componenti della miscela. Essa viene impiegata per evidenziare fenomeni d’assorbimento o di rilascio di calore associabili ai moti molecolari dei componenti costituenti la miscela. Ad esempio, nel caso in cui la miscela contenga un componente cristallino, tramite l’analisi della depressione del punto di fusione, in funzione della composizione della miscela, è possibile risalire ai parametri correlati all’energia d’interazione.
L’analisi spettroscopica permette di riconoscere un composto attraverso l’identificazione delle bande caratteristiche del suo spettro d’assorbimento.
Per quanto riguarda il presente studio sono state adottate anche altre tecniche (prove meccaniche, di rigonfiamento, biodegradazione) allo scopo di verificare che le proprietà dei film prodotti fossero in accordo con l’utilizzo come materiali da imballaggio solubili in acqua per applicazioni in agricoltura cui dovrebbero essere destinati.
Per la caratterizzazione dei film ottenuti, sia reticolati che non, sono stati adottati i seguenti metodi d’analisi:
• Valutazione del grado di rigonfiamento; • Microscopia a scansione elettronica (SEM);
• Analisi calorimetrica differenziale a scansione (DSC); • Spettroscopia infrarossa (IR);
• Valutazione del rilascio di PVA e di idrolizzato; • Analisi termogravimetrica (TGA);
• Valutazione della biodegradabilità;
• Prove meccaniche: curve sforzo-deformazione.
Ciascuno dei metodi d’analisi adottati fornisce importanti informazioni riguardo alle proprietà fisiche, chimiche, morfologiche e meccaniche dei film; le informazioni ricavate, inoltre, permettono di verificare la concreta realizzabilità del progetto iniziale nonché di individuare eventuali modifiche da adottare in futuro.
3.6.1
V
ALUTAZIONE DEL GRADO DI RIGONFIAMENTO
Il grado di rigonfiamento (swelling) fornisce la misura del rigonfiamento raggiunto da un campione di film secco condizionato in un ambiente saturo d’acqua. Esso è definito come:
100 % sec sec ∗ − = co co umido W W W Swelling .
Rappresenta una misura di umidità relativa e fornisce un’informazione riguardo al grado di reticolazione del film: tanto maggiore è infatti il grado di swelling tanto minori sono le interazioni intermolecolari e quindi la capacità delle molecole di interagire con molecole d’acqua provocando il rigonfiamento del film. Viceversa in un materiale ad alto grado di reticolazione le possibilità di interagire con le molecole d’acqua sono minori e quindi anche il rigonfiamento risulta meno accentuato.
L’umidificazione dei film viene realizzata in ambiente saturo d’acqua a temperatura costante (37 °C), tenendo i campioni in un essiccatore il cui fondo è stato precedentemente riempito d’acqua distillata. Nell’essiccatore sono stati condizionati al massimo sei campioni (pari ad una serie completa da 1:1 a 5:1 oltre a PVA/PVA-PVAc-AI puro) per evitare che l’apertura continua dell’essiccatore per la pesata di ciascun campione comportasse variazioni eccessive del grado di saturazione nell’ambiente condizionato. I campioni di film secchi sono stati scelti sufficientemente grandi da ridurre al minimo gli errori durante la pesata e la durata della prova è stata di 24 ore.
3.6.2 M
ICROSCOPIA A SCANSIONE ELETTRONICA
(SEM)
Il microscopio elettronico a scansione (SEM) può essere definito, molto sinteticamente, come un laboratorio operante ad un elevato valore di vuoto e nel quale un opportuno campione viene fatto interagire con un fascio elettronico ad elevata energia. Dalle modificazioni provocate nella struttura atomica del preparato dall’elettrone primario vengono originati e raccolti numerosi segnali, utilizzabili per la formazione d’immagini relative alla struttura morfologica del campione e alla sua composizione chimico-fisica. Il principio di funzionamento si basa sull’interazione tra un fascio di elettroni che bombarda il campione in un microscopio ed il campione stesso: per effetto di questa interazione il campione emette una serie di segnali che sono caratteristici della sua composizione chimica.
Infatti, quando elettroni veloci bombardano un campione, entrano in esso e lo ionizzano causando l’emissione di un elettrone dagli orbitali interni.
L’atomo è quindi energeticamente instabile e si diseccita tramite decadimento di un elettrone appartenente ad un orbitale più esterno, il quale va ad occupare la lacuna formatasi: il salto energetico effettuato si traduce nell’emissione di un fotone X di energia pari al salto stesso.
Questo processo determina una lacuna in un orbitale ancora superiore, per cui su ha un’ulteriore transizione a questo livello con emissione di un nuovo fotone X di energia pari
a questo nuovo salto e così via. Queste transizioni tra livelli atomici danno dunque luogo ad un insieme di raggi X distribuiti secondo uno spettro discreto di energie dette “righe caratteristiche” di quell’elemento. Sebbene la complessità dello spettro a raggi X aumenti all’aumentare del numero atomico, ogni elemento possiede uno spettro discreto ben preciso, attraverso il quale è possibile rilevare la presenza dell’elemento stesso in un campione.
Il modello di SEM da noi utilizzato è JEOL 5600LV che utilizza come sorgente elettronica quella ottenuta dal riscaldamento di un filamento di tungsteno. La temperatura a cui viene portato il filamento alò fine di ottenere un’emissione costante è dell’ordine di 2500-2600 K. Il filamento riscaldato emette elettroni in ogni direzione: la scelta di una di queste ed il controllo delle emissioni viene effettuato mediante un dispositivo metallico che lo circonda detto “cilindro di Wehnelt”.
Il segnale più frequentemente utilizzato per lo studio della morfologia di superficie di un campione è quello degli elettroni secondari (SE).L’interazione del fascio elettronico primario con gli elettroni degli orbitali esterni del preparato provoca, a seguito di trasferimento di energia cinetica, l’allontanamento degli stessi elettroni di valenza. L’elettrone espulso, denominato elettrone secondario, possiede un’energia non superiore a 50 eV. Il segnale, originato a seguito dell’interazione prodotta, viene raccolto da un opportuno rilevatore e trasferito alla griglia di controllo di un oscilloscopio a raggi catodici (CRT). La modulazione prodotta permette di regolare l’intensità del fascio elettronico dell’oscilloscopio stesso in funzione della quantità di segnale ricevuto, ottenendo un’immagine corrispondente sullo schermo del CRT. Poiché il trasferimento sequenziale del pennello elettronico sul preparato viene prodotto da un generatore di scansione che contemporaneamente agisce in modo sincrono sull'avvolgimento di deflessione del fascio elettronico dell’oscilloscopio, esiste una perfetta corrispondenza tra il segnale proveniente dal campione e l’immagine ottenuta sullo schermo. Il sistema che genera e trasferisce il fascio elettronico primario ed il campione stesso devono essere posti ad un elevato grado di vuoto, a causa delle proprietà intrinseche mostrate dagli elettroni veloci.
Possiamo in definitiva considerare il SEM composto da diversi sistemi, ciascuno deputato ad una funzione particolare ma direttamente connesso agli altri. Esso dunque è costituito
• Un sistema di illuminazione del campione;
• Un sistema di rilevazione e trasferimento del segnale; • Un sistema di produzione e registrazione dell’immagine; • Un sistema del vuoto.
Si riporta di seguito lo schema a blocchi di un microscopio a scansione elettronica:
Figura 3.6.2.1: Schema del microscopio a scansione elettronica
Ogni immagine ottenuta ha una didascalia dove, procedendo da sinistra a destra, vengono riportati: la lunghezza in micron del segmento di riferimento, la differenza di potenziale tra il campione e l’elettrodo, il numero d’ingrandimenti effettuati ed il numero progressivo dell’immagine.
3.6.3 A
NALISI CALORIMETRICA DIFFERENZIALE A SCANSIONE
(DSC)
Per lo studio delle proprietà termiche è stato utilizzato un calorimetro differenziale a scansione (DSC 7 Perkin Elmer). Il campione da studiare (3-10 mg) viene introdotto in un piccolo contenitore in alluminio, mentre un secondo contenitore vuoto funge da riferimento. Entrambi i contenitori vengono inseriti in una cella calorimetrica mantenuta in flusso d’azoto. Un programmatore di temperatura regola una fornace che fornisce o sottrae calore alla cella calorimetrica in modo uniforme, ad una velocità preselezionata dall’operatore. La temperatura del campione e del riferimento vengono misurate mediante termocoppie e lo strumento provvede a calcolarne la differenza H∆ (salto entalpico) come mostrato in Fig. 3.4.4.1.
Figura 3.6.3.1: Calorimetro differenziale a scansione
In assenza di transizione (cambiamenti termici) da parte del campione il valore del H∆ rimane costante durante il riscaldamento; quando invece nel campione si hanno transizioni si registra una variazione del H∆ che avrà segno positivo o negativo a seconda che si
verifichi un evento esotermico (cristallizzazione) o endotermico (fusione) come mostrato nella seguente figura.
Figura 3.6.3.2: Segno dei picchi endo/esotermici.
La differenza di temperatura misurata viene automaticamente convertita in differenza di flusso di calore Q∆ .
Il calcolo viene effettuato in base ai parametri intrinseci dello strumento quali capacità termica, resistenza termica etc. I grafici ricavati riportano l’andamento del flusso di calore in funzione della temperatura; la successiva elaborazione dei dati ottenuti viene effettuata da un particolare elaboratore di dati interfacciato con il calorimetro. Il risultato finale è costituito da una curva sperimentale che mostra la dipendenza del flusso di calore dalla temperatura.
Quando si verificano transizioni del primo ordine le curve calorimetriche presentano un picco endo\esotermico dalla cui area si può risalire al calore Q∆ [J/g] associato alla transizione, nota la costante di calibrazione dello strumento ed il peso del campione. Essendo poi il calore di fusione direttamente correlato alla percentuale di sostanza coinvolta nella transizione, il valore del Q∆ crescerà al crescere della percentuale di cristallinità del campione.
La capsula d’alluminio contenente il campione da inserire nella cella calorimetrica può essere di due tipi:
• Capsula con chiusura a pressione: ermetica, adatta per sostanze volatili, impedisce l’evaporazione dell’acqua contenuta nel campione. Tale capsula non sopporta alte tensioni di vapore e quindi il campo di temperatura in cui può essere utilizzata dipende dalla quantità d’acqua presente nel campione. Infatti quando la tensione di vapore raggiunge valori eccessivi la capsula tende ad aprirsi ed il termogramma mostra effetti eso\endotermici anormali.
• Capsula con chiusura normale: non ermetica, permette l’evaporazione dell’acqua presente nel campione e quindi può essere impiegata in intervalli di temperatura più ampi.
I nostri campioni sono preparati in capsule d’alluminio a chiusura normale e vengono sottoposti alle seguenti analisi termiche:
• Prima scansione: viene effettuata a temperatura compresa tra 20 e 160°C con una velocità di riscaldamento di 10°C/min;
• Raffreddamento: il campione viene raffreddato fino a 20°C con una velocità di 20°C/min.
• Seconda scansione: il campione viene nuovamente riscaldato da 20 a 260°C con una velocità di riscaldamento di 10°C/min.
Nelle scansioni che prevedono un graduale decremento della temperatura la cella calorimetrica viene raffreddata con azoto liquido. Lo stesso procedimento viene seguito nei raffreddamenti tra scansioni consecutive.
3.6.4 S
PETTROSCOPIA INFRAROSSA
(IR)
Lo strumento utilizzato è uno spettrofotometro FT-IR 1600 Perkin-Elmer, nel quale sono stati posti i campioni sotto forma di film sottili in modo da evitare un’eccessiva dispersione della radiazione. La tecnica usata è la spettrometria infrarossa a trasformata di Fourier (FT-IR), che consente di identificare le interazioni molecolari che avvengono nella miscela
polimerica, attraverso il confronto tra lo spettro della miscela stessa e quello delle due sostanze di partenza, il PVA ( o il copolimero PVA-PVAc-AI) e l’idrolizzato proteico. I composti organici possono infatti assorbire energia elettromagnetica nella regione dell’infrarosso.
Lo spettrofotometro è dotato di una sorgente di luce infrarossa che emette radiazioni lungo tutto l’intero intervallo di frequenza dello strumento.
Nello spettrofotometro la luce della sorgente viene divisa in due raggi (Fig. 3.3.2): il raggio di riferimento e quello che passa attraverso il campione; se viene colpita una molecola vibrante con luce IR, la molecola stessa assorbirà le frequenze della luce che si combinano esattamente con le frequenze dei diversi oscillatori armonici che la formano. La luce residua, non assorbita da alcun oscillatore all’interno della molecola, viene trasmessa ad un rilevatore che misura la differenza di intensità dei due raggi per ciascuna lunghezza d’onda ed analizzata da un computer.
L’intensità delle bande di assorbimento possono essere espresse in termini o di trasmittanza o di assorbanza. Indicando con I0 l’energia che eccita la molecola e con I
l’energia che invece arriva al rilevatore (non assorbita), si definiscono la trasmittanza e l’assorbanza come: 0 I I T = Trasmittanza T A=log1 Assorbanza
Fig 3.6.4.1: Principio di funzionamento dell’analisi FT-IR
Se la frequenza di una vibrazione della molecola della sostanza cade nell’intervallo percepito dallo strumento, la molecola stessa assorbirà energia di tale frequenza dal raggio di luce.
Le radiazioni infrarosse non hanno energia sufficiente per eccitare gli elettroni sui livelli più alti, ma possono indurre transizioni tra livelli di energia vibrazionale e rotazionale. Quindi in una qualsiasi molecola i legami interatomici si allungano e si accorciano continuamente (vibrazioni di stiramento o stretching) e si piegano gli uni verso gli altri ( vibrazioni di piegamento o bending).
Le bande di assorbimento sono dei segnali larghi in quanto i livelli di energia vibrazionale hanno numerosi livelli rotazionali associati, le cui transizioni provocano l’allargamento delle bande.
La frequenza associata ad una vibrazione e quindi la sua posizione nello spettro infrarosso dipende essenzialmente da due fattori: le masse degli atomi legati e la rigidità dei legami. In generale si può affermare che atomi leggeri vibrano a frequenze più alte rispetto ad atomi pesanti; per quanto riguarda la rigidità del legame, tanto essa è maggiore tra due atomi simili, tanto più alta è la frequenza della vibrazione. La posizione delle bande d’assorbimento nello spettro infrarosso è misurata in micrometri, mµ , oppure in numeri d’onda,ν; nell’ipotesi di considerare il legame tra due atomi come un sistema oscillatorio armonico semplice composto da due masse tenute insieme da una molla, la frequenza di
risonanza di un legame risulta direttamente proporzionale alla costante di forza del legame stesso, secondo la formula:
∗ + ∗ ∗ = ) ( ) ( 2 1 y x y x M M M M f c
π
υ
[ Eq.3.5.4.1 ] dove: = frequenza di risonanza, in Hz; c = velocità della luce (3*106 Km/s); f = costante di forza del legame; Mx e My masse degli atomi x ed y.Dunque una molecola complessa possiede molti modi di vibrazione che coinvolgono la struttura nel suo insieme. Con buona approssimazione si può dire che alcune di queste vibrazioni sono associate ai singoli legami o gruppi funzionali, mentre le altre sono legate all’intera struttura molecolare.
Le vibrazioni associate alla molecola danno origine ad una serie di bande a bassa energia, inferiore a 1500 cm-1, la cui posizione nello spettro è caratteristica della molecola in
esame; per valori di ν> 1500 cm-1 i moti vibrazionali sono relativi ai gruppi funzionali e non riguardano la molecola nel suo insieme.
A causa della presenza di un gran numero di picchi, la possibilità che due sostanze abbiano spettro uguale è remota. Questo giustifica la definizione secondo la quale lo spettro infrarosso è “l’impronta digitale” della molecola.
3.6.5
V
ALUTAZIONE DEL RILASCIO DI
PVA
E DI IDROLIZZATO
I film ottenuti sono stati pesati ed immersi in acqua distillata per valutare il rilascio di PVA. Ad intervalli di tempo determinati è stato prelevato un campione del liquido di rilascio prima di sostituirlo con acqua distillata fresca. In seguito tutti i campioni di liquido di rilascio sono stati utilizzati per la determinazione della concentrazione di PVA secondo
un metodo di rilevazione spettrofotometrica ultravioletta in accordo col metodo di Bujanda e Rudin.
Tale metodo prevede l’utilizzo dello iodio che, in presenza dell’acido borico, agisce da stabilizzante legandosi al PVA con cui forma un complesso colorato che può essere letto dallo spettrofotometro a 690 nm. L’intervallo di sensibilità di questo metodo è 0-20 mg/l. La procedura consiste nell’aggiungere a 10 ml di ciascun campione nell’ordine: 2,5 ml di acqua distillata, 7,5 ml di acido borico al 4% e 1,5 ml di una soluzione di iodio ( 1,27 g di I2, 25 g di KI portati ad 1 l con acqua distillata ). In presenza di PVA si sviluppa
immediatamente una colorazione verde che viene subito letta allo spettrofotometro, essendo già stata preparata in precedenza una curva di lavoro utilizzando soluzioni acquose di PVA a concentrazione notaLa curva di lavoro o di taratura viene preparata allo scopo di tarare lo strumento (in questo caso uno spettrofotometro) utilizzato per analizzare il rilascio di PVA dei campioni presi in esame. La curva si ottiene per punti ovvero utilizzando soluzioni campione aventi una concentrazione nota di PVA. Diluendo la soluzione di partenza (5% circa di PVA in peso) sono stati preparati sei diversi campioni alle seguenti concentrazioni: 1 0.33 mg/ml 2 0.16 mg/ml 3 0.08 mg/ml 4 0.04 mg/ml 5 0.02mg/ml 6 0.01mg/ml
I campioni ottenuti sono stati trattati come già descritto per i campioni di soluzione di rilascio da esaminare ed in seguito ne sono state valutate le assorbanze mediante lo spettrofotometro.
Poiché i campioni da analizzare contengono PVA e idrolizzato proteico è stato ritenuto opportuno preparare le soluzioni campione con una concentrazione di NaCl pari a quella massima contenuta nei campioni presi in esame. Per valutare il rilascio di idrolizzato le
soluzioni di rilascio tal quali sono state analizzate mediante lettura spettrofotometrica a 280 nm, per evidenziare la presenza di materiale proteico.
Lo spettrofotometro utilizzato è un analizzatore Shimadzu UV-VIS 2100 Scanning Spectrophotometer.
3.6.6
A
NALISI
T
ERMOGRAVIMETRICA
:
TGA
Secondo al nomenclatura attuale per analisi termogravimetrica s’intende la tecnica mediante la quale si misura il peso di una sostanza in condizioni di aumento regolare e controllato della temperatura.
Nel caso di polimeri, il riscaldamento provoca variazioni dal punto di vista chimico con scissione di legami che portano alla formazione di composti volatili. Pertanto, le curve termogravimetriche delle sostanze polimeriche, descrivono la perdita di peso in funzione della temperatura.
La termogravimetria è una tecnica di grande utilità perché permette di valutare la stabilità termica dei materiali polimerici, soprattutto in relazione alla possibilità di utilizzo a temperature superiori a quella ambiente. La resistenza termica è data dalla massima temperatura alla quale un materiale può essere scaldato senza subire variazioni chimiche irreversibili, con corrispondente alterazione delle sue proprietà fisico-chimiche.
Durante la termogravimetria, la formazione di composti volatili è la riprova del manifestarsi di un processo chimico irreversibile: la degradazione termica.
L’analisi generalmente può essere condotta in atmosfera di gas inerte (flusso d’azoto) o in aria. Nel secondo caso all’aumentare della temperatura si manifestano fenomeni di interazione con l’ossigeno dell’aria (termoossidazione).
Nel corso di questo studio sono state condotte analisi termogravimetriche delle miscele e dei materiali di partenza in flusso d’azoto fatta eccezione per l’analisi termogravimetrica dell’idrolizzato proteico che è stata effettuata in entrambi i modi. Infatti mediante la termogravimetria in flusso d’aria è stato possibile risalire alle “ceneri” (componente inorganica) presenti; in questo modo è stato confermato il dato fornito dall’esterno.
I campioni analizzati sono del peso di qualche milligrammo, vengono inseriti in capsule di ceramica aperte e vengono sottoposti ad un riscaldamento effettuato ad una velocità ed in
un intervallo di temperatura prestabiliti. Il risultato fornito dallo strumento (Thermogravimetric Analyzer TGA 6) è un grafico che riporta la perdita in peso in funzione della temperatura.
3.6.7
M
ETODI PER LA VALUTAZIONE DELLA BIODEGRADABILITÀ
Attualmente si sta compiendo un notevole sforzo per standardizzare metodi atti a valutare quantitativamente e riproducibilmente la biodegrabilità dei polimeri.
E’ facilmente intuibile tuttavia che, data la grande varietà di parametri da prendere in considerazione (non solo attinenti all’ambiente in cui avviene il processo ma anche al campione da biodegradare), il problema si presenti molto complesso.
Metodi standard sono stati pubblicati dalla ASTM e riguardano in paricolare:
• biodegradazione aerobica ed anaerobica di materiali plastici mediante inoculo prelevato da fanghi attivati provenienti da impianti municipali per la depurazione di acque reflue;
• biodegradazione aerobica di plastiche ad opera di microrganismi specifici;
• biodegradazione aerobica di materiali plastici in condizioni controllate di compostaggio.
I test comunemente usati per stabilire la biodegradabilità dei polimeri riguardano la misurazione della crescita microbica, della diminuzione di peso e del peggioramento delle proprietà fisiche in generale [8].
Questi test consistono quindi in misure indirette di biodegradazione e spesso conducono a risultati che difficilmente sono riproducibili da laboratorio a laboratorio, causando quindi confusione nella valutazione della suscettibilità di un dato polimero alla biodegradazione. Il vantaggio di tali test è che sono veloci, facili da eseguire e danno un’ indicazione sul potenziale di biodegradazione della sostanza presa in esame; tuttavia non rappresentano metodi decisivi per stabilire se un polimero è biodegradabile o meno, a causa della probabile presenza di impurezze, come plastificanti o solventi che possono interferire col test promuovendo la crescita microbica. In tal caso si otterrebbe un risultato falsato.
Bisogna inoltre considerare che l’eventuale fallimento di un test di biodegradazione non esclude la possibilità di biodegradazione di una sostanza polimerica; indica soltanto che la biodegradazione non si è sviluppata in quelle condizioni ambientali. Sono quindi necessari ulteriori test, condotti in altre condizioni, prima di confermare la non-biodegradabilità. Qualunque sia il metodo utilizzato per valutare la biodegradabilità di un materiale polimerico, è assolutamente indispensabile fornire i risultati corredati da tutte le indicazioni necessarie ad inquadrare nel modo più accurato possibile la procedura eseguita. Infatti, data la complessità degli ambienti in cui è possibile condurre prove di biodegradazione, saranno importanti non solo parametri quali temperatura, umidità, pH, sostanze organiche ed inorganiche presenti, ma anche le varie specie di microrganismi coinvolti e il modo in cui essi vengono a contatto con il substrato polimerico da biodegradare, che può essere diverso a seconda che il mezzo sia acquoso (acque reflue, marine, fluviali ecc.) o solido (terreno, compostaggio ecc.).
Il problema si semplifica notevolmente quando le prove di biodegradazione vengono condotte in soluzione enzimatica opportunamente tamponata, in assenza di microrganismi. In questo caso si utilizzano enzimi extracellulari (secreti da microrganismi) che vengono opportunamente purificati e caratterizzati dal punto di vista del peso molecolare, dell’attività enzimatica e delle condizioni di pH e temperatura ottimali per il loro funzionamento. Con questo metodo, quindi, le condizioni in cui vengono condotte le misure di biodegradazione possono essere controllate accuratamente ed in genere si ottiene buona riproducibilità dei risultati, che possono essere utilizzati per studiare in dettaglio il meccanismo di biodegradazione.Occorre però tenere presente che tali condizioni operative sono ben lontane da quelle di un qualunque ambiente esterno naturale nel quale la sostanza polimerica può trovarsi in condizioni di “vita reale”.
Si riporta di seguito una tabella con i principali test di biodegradabilità effettuabili su materiali polimerici:
TEST DI BIODEGRADABILITA’
SEPPELLIMENTO IN TERRENO NATURALE Misura della perdita in peso.
COLTURE DI FUNGHI O BATTERI
Metodo ASTM-D-1924-63: indice di crescita da 0 a 4 dopo 3 settimane ATTACCO ENZIMATICO DIRETTO
Test accelerati con enzimi isolati e purificati.
Il metodo per valutare la biodegradabilità dei film ottenuti in questo studio consiste nel test di biodegradazione aerobica di materiali plastici mediante inoculo prelevato da fanghi attivati provenienti da impianti municipali per la depurazione di acque reflue.
Il test di biodegradabilità è stato eseguito misurando la diminuzione in peso dei film posti in contatto con i batteri presenti nei fanghi attivati provenienti da impianti urbani per la depurazione delle acque reflue.
Figura 3.6.7.1: Sistema adottato per al valutazione della biodegradabilità
I film sono stati completamente interrati nel fango attivo (Fig. 3.6.7.1), e sono stati quotidianamente umidificati per creare le condizioni di umidità necessarie per il mantenimento e la crescita dei batteri presenti.
Per ogni film è stata effettuata una valutazione del peso dopo 30 giorni. Il peso dei film dopo la prova è stato confrontato con quello iniziale permettendo di ricavare la perdita in peso subita dal film per effetto della biodegradazione.
3.6.8
P
ROVE MECCANICHE
:
CURVE SFORZO
-
DEFORMAZIONE
Le prove meccaniche sono state eseguite utilizzando la macchina di prova INSTRON 5500R provvista di una cella di carico massimo di 5 N. La macchina è costituita da un basamento su cui è posta la pinza fissa, da due colonne sulle quali scorre la traversa mobile
nella quale è posta l’altra pinza. Per ciascun film da analizzare sono stati preparati campioni rettangolari larghi 10 mm e lunghi 4 mm.
E’ stata impostata una velocità di prova di 5mm/min.
La particolare geometria e il processo tecnologico, adottato per la riproduzione delle superfici, conferisce alle pinze potere autobloccante: man mano che il provino si deforma, le pinze, azionate da un comando pneumatico, aumentano la presa.
Le prove meccaniche servono a determinare lo stato di tensione e deformazione in ciascun punto del corpo, ovvero ciascun punto materiale di cui si può pensare costituito il corpo stesso, data la configurazione indeformata del corpo e l’insieme delle sollecitazioni meccaniche imposte (forze esterne e/o spostamenti impressi al suo contorno).
Lo sforzo in un punto è definito come l’insieme di tutte le forze esercitate in quel punto attraverso una qualunque superficie passante per il punto stesso, riferite all’unità di superficie. Tale insieme costituisce un tensore σ simmetrico.
Quando un materiale è soggetto a forze esterne, i suoi atomi, in risposta alle forze stesse, cambiano posizione; tale cambiamento strutturale è noto come deformazione. Come per lo sforzo anche lo stato di deformazione in un punto è descritto da un tensore simmetrico ε. A seconda delle condizioni operative (sollecitazione, temperatura ecc.), il comportamento di un materiale può essere associato ad una delle seguenti categorie:
• Rigidità: ε=0 per qualunque σ;
• Incomprimibilità: εm=0 anche seε ≠0 dove εmè la componente volumetrica del
tensore delle deformazioni;
• Elasticità: σ=σ
( )
ε , ovvero lo sforzo è funzione univoca della deformazione. In particolare la dipendenza può essere: lineare (σ m= ⋅ε, legge di Hooke generalizzata), non lineare (σ=σ( )
ε qualunque, anche se si può dimostrare che quest’ultima relazione assume andamento lineare per piccole deformazioni (ε→0);• Viscoelasticità: σ
( )
t =σ[
ε( ) (
t,ε t'<t)
]
, ovvero lo sforzo dipende sia dalla deformazione che dalla variazione della stessa nel tempo;• Plasticità: si ha quando, al contrario dell’elasticità, la deformazione del materiale è permanente non avendosi fenomeni di reversibilità della stessa.