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LA C.T.U NEL CONTENZIOSO CIVILE Prof. Alessandro Chini * Dr. Marco Rossetti **

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LA C.T.U NEL CONTENZIOSO CIVILE

Prof. Alessandro Chini * Dr. Marco Rossetti **

1. II Consulente Tecnico: profili strutturali

Il quadro normativo che disciplina l'attività del c.t.u. nel processo civile è composto:

- dagli artt. 61-64 c.p.c., che ne disciplinano la figura;

- dagli artt. 191-201 c.p.c. e 89-92-disp.att. c.p.c., che ne disciplinano le funzioni;

- dagli artt. 13-24 disp. att. c.p.c., che disciplinano la tenuta degli albi;

- dalla l. 8.7.1980 n° 319, che regola i compensi per l'attività svolta.

L'entità dei compensi è però prevista dal D.P.R. 27.7.1988 n° 352, richiamato dall'art. 2 della legge del 1980.1

La lettura comparata di questo complesso di norme rivela chiaramente che, sotto il profilo strutturale, il c.t.u. nel processo civile è un ausiliario del giudice (art. 61 c.p.c.; vedasi altresì la rubrica del Capo III del Titolo I del Libro I del codice di procedura civile, dove si parla del

“consulente tecnico (...) e degli altri ausiliari giudice").

Egli dunque, nel sistema voluto dal legislatore, non dovrebbe essere un collaboratore occasionale, ovvero qualcuno che "guarda e riferisce". Dovrebbe invece essere il soggetto che affianca il giudice e lo assiste per tutta la durata del processo, pur non potendo naturalmente interferire sulla direzione istruttoria di questo. Per usare una icastica espressione di Piero Calamandrei, egli è "l'occhiale del giudice".

E' significativo, per comprendere appieno la valenza strutturale della figura del c.t.u., considerare che quando il legislatore ha voluto introdurre nel processo l'apporto di un semplice esperto, questo non viene mai definito "consulente": si considerino, ad es., gli artt. 261, 518, 535, 568, 576 c.p.c., e li si confrontino con gli artt. 217, 259, 260, 696 stesso codice.

L’ermeneutica letterale porta dunque a concludere che il c.t.u. non è soltanto un esperto:

egli dovrà sì essere versato nell’arte o nella scienza sua, ma dovrà anche - e qui è tutta la peculiarità della figura - assistere con le proprie nozioni il giudice nella ricostruzione del fatto che occorre accertare nel giudizio. Dovrà, in altri termini, rendere il giudice partecipe delle

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proprie nozioni, per quella parte necessaria a ricostruire la fattispecie concreta posta a fondamento della domanda.

Questo concetto è molto importante e merita di essere approfondito.

In ogni processo di parti (altra cosa è il processo inquisitorio, cioè sottratto, nel suo svolgersi, alla disponibilità delle parti), vi è un soggetto il quale:

a) deduce che nel mondo reale si è prodotto un determinato atto o fatto (c.d. fattispecie concreta)

b) allega che tale atto o fatto è contrario alla previsione, fatta in via generale ed astratta, da una norma di legge (la c.d. fattispecie astratta);

c) invoca un provvedimento del giudice il quale, incidendo sul reale, adegui questo alla previsione di legge. Compito eminente del giudice (donde lo stesso etimo di juris-dictio, vale a dire affermazione del diritto nel caso concreto) è dunque quello di rapportare una fattispecie concreta ad una fattispecie astratta: cioè verificare la sovrapponibili di quella a questa, per applicare le previsioni di questa a quella.

Tuttavia alcuni dati, alcune epifanie del reale non sono immediatamente percepibili o valutatili, nel loro significato sub spaecie juris, senza l'ausilio di una scienza esatta o di un'arte.

Si pensi al caso in cui un soggetto agisca in giudizio lamentando di avere subito delle lesioni in seguito alle percosse di un altro soggetto (fattispecie concreta). L'art. 2043 c.c. (fattispecie astratta) obbliga l'autore del fatto illecito a risarcire il danno. Tuttavia, quand'anche venisse provato il fatto oggettivo delle lesioni, non potrebbe per ciò solo dirsi provata l'esistenza dì un danno risarcibile, sotto forma di postumi permanentemente invalidanti o di malattia in senso medico-legale. Un simile accertamento, per la tecnicità delle nozioni che presuppone, può richiedere l'intervento di un esperto il quale, come detto, connetta il dato reale con una regola di esperienza gnoseologica.

Dunque l'attività del c.t.u. non attiene al momento sintetico del giudizio (ovvero alla comparazione di tesi ed antitesi per ricavarne un divenire sintetico, attraverso un movimento dialettico perfettamente analogo all'Aufheben di Hegel2); essa pertiene invece al momento analitico del giudizio, ovvero alla ricostruzione della fattispecie concreta nella sua realtà fenomenica.

1Per l’art. 10 della L. 329/80 degli onorari doveva essere adeguata ogni tre anni, con decreto del Presidente della Repubblica, alla variazione dell’indice dei prezzi al consumo elaborato dall’ISTAT per le famiglie di impiegati ed operai. Tuttavia, dopo il 1988, non si è più avuto alcun provvedimento di adeguamento.

2Deve avvertirsi che vi è di coloro i quali preferiscono parlare di sillogizzazione, in luogo di dialettica: il giudice dunque non arriverebbe alla decisione con un processo induttivo, ovvero che muove dal particolare verso il generale; sibbene con un processo deduttivo, ovvero che muove dal generale verso il particolare. La decisione sarebbe nel primo caso una appercezione, nel secondo caso un sillogismo.

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Ovviamente, tale distinzione nella concreta attività pratica può sbiadirsi, giacché momento sintetico e momento analitico del giudizio tendono fatalmente a sovrapporsi e confondersi. Ma concettualmente è di importanza fondamentale tenere distinti i due aspetti, con riguardo all’attività del c.t.u. Tale distinzione rappresenta infatti la cifra attraverso la quale leggere tutte le attività processuali demandate all'ausiliario: dal tipo di quesiti da sottoporgli al tipo di risposte che devono essere fornite.

Così ad esempio l'ausiliario, nell'assolvimento dei propri compiti, deve astenersi dal formulare giudizi attinenti al merito della decisione, ovvero esprimere pareri sulla fondatezza della domanda, perché in tal caso egli deborderebbe dalla ricostruzione della fattispecie concreta (il momento analitico del giudizio), e sconfinerebbe in una attività a lui preclusa, ovvero la fase sintetica del giudizio.

Si pensi, al riguardo, al caso in cui venga chiesto al medico-legale un giudizio di congruità sulle spese erogate dal soggetto danneggiato per sottoporsi a delle cure particolari. In questa ipotesi, il medico-legale dovrà pronunciarsi sulla necessità, utilità ovvero superfluità delle spese rispetto alla malattia; dovrà esprimersi sull’esorbitanza o meno dei costi rispetto ai valori medi di mercato, ma non potrà spingersi sino ad affermare che quelle spese avrebbero potuto essere evitate con l’uso dell’ordinaria diligenza. Il concetto di ordinaria diligenza non designa infatti un dato oggettivo, oggetto di percezione sensitiva, ma postula un giudizio complesso che deve tener conto delle condizioni del soggetto che agisce e delle circostanze in cui si trova ad agire. Un giudizio, cioè, eminentemente sintetico, secondo la previsione di cui all’art. 1227 co. II c.c.

Del pari, così come erra il medico-legale il quale travalica il limite del giudizio analitico, erra anche il giudice il quale ponga al c.t.u. quesiti che, sotto le spoglie del parere scientifico, cerchino di coonestare una sostanziale traslazione dell'attività di giudizio dal giudice all'ausiliario. Cosi, per rimanere nell'esempio che precede, non può domandarsi al medico-legale di dire "quale sia stata l'entità delle spese sanitarie sostenute in conseguenza del sinistro”. La prova del danno va infatti fornita al giudice e non all'ausiliario, al quale può essere demandato unicamente un giudizio di congruità o di verosimiglianza al riguardo.

Queste poche osservazioni bastano a mostrare come, nella prassi, la figura del c.t.u. si allontani dal modello delineato dalla legge.

Si pensi che sovente, nel rito civile, giudice e consulente quasi non si conoscono, e si vedono soltanto all'udienza in cui il secondo presta il giuramento di rito. Il rapporto tra i due si riduce ad un mero carteggio: scritti sono i quesiti che il giudice pone al consulente; scritta è la risposta che il consulente fornisce.

Con la conseguenza che:

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- l'elaborazione di quesiti standard, predisposti una volta per tutte, unicamente al rapporto eminentemente scritto che lega il c.t.u. al giudice, finisce per generare un effetto perverso sulla dinamica del processo, ammantando un atto istruttorio fondamentale come la consulenza tecnica in una sorta di "routinarietà", la quale fatalmente porta a spostare il centro della decisione dal giudice al consulente, con buona pace del principio del libero convincimento del giudice e dell'art. 115 c.p.c..

Il giudice talora si disinteressa dell'esame dell'elaborato peritale fino al momento della decisione della causa, con la conseguenza che si accorge della non esaustività o non comprensibilità della relazione del consulente soltanto in camera di consiglio, ed allora dovrà rimettere la causa sul ruolo istruttorio. Tuttavia a questo punto sono talora trascorsi degli anni da quando il consulente ha effettuato il suo esame, e non può umanamente pretendersi che egli ricordi con limpidezza tutti gli aspetti del caso concreto;

- dal canto suo, il consulente è indotto a ritenere che, col deposito in cancelleria dell'elaborato scritto, il proprio compito si sia esaurito, e tale convinzione lo porta fatalmente a disinteressarsi dell'esito del giudizio. Al contrario, sarebbe oltremodo utile per il medico-legale conoscere se il proprio elaborato sia stato condiviso o disatteso dal giudice. Questa circostanza, inoltre, consentirebbe al medico-legale di affinare la propria formazione, contribuendo anche all'evoluzione della dottrina medico legale.

Sarebbe, al riguardo, buona norma che il c.t.u. fosse espressamente invitato a comparire ex art. 194 c.p.c. alla prima udienza utile dopo il deposito dell'elaborato, perché illustri oralmente il proprio lavoro; e, se necessario, che fosse invitato anche in camera di consiglio, secondo la previsione (spesso negletta) dell’art. 197 c.p.c.

Il primo accorgimento da un lato consentirebbe al giudice una comprensione più immediata dei criteri che hanno guidato il c.t.u. nel proprio lavoro; dall'altro potrebbe prevenire defatiganti contestazioni, talora mosse dalle parti all'elaborato peritale con intenti dilatori. Ma - cosa più importante - esso consentirebbe di recuperare almeno in parte al medico legale un effettivo ruolo di assistenza del giudice, e non di (absit iniuria verbis) mero emettitore di oracoli.

1.1. Il conferimento dell'incarico. L'astensione

Il c.t.u. iscritto all'albo ha l'obbligo di accettare l'incarico conferitogli, mentre quello non iscritto ha la facoltà di rinunciare.

La dichiarazione dì volersi astenere è vagliata dal giudice nella sua fondatezza (art. 63 co. I c.p.c.): ne consegue che, ove il giudice non dovesse ritenere sussistente un giusto motivo, dovrebbe applicare le sanzioni di cui all'art. 20 disp. att. c.p.c..

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Debbono considerarsi giusti motivi di astensione:

- l'aver prestato la propria opera professionale per conto di una delle parti;

- il collaborare stabilmente col procuratore di una delle parti;

- l'aver eseguito consulenza tecnica in altro giudizio al quale ha partecipato una delle parti;

- l’essere legato da rapporti di parentela, coniugio o anche solo amicizia ad una delle parti - l'aver partecipato a collegi arbitrali relativi a controversie che riguardano una delle parti;

- l'essere stato in precedenza nominato consulente tecnico di parte da una delle parti:

- lavorare alle dipendenze o per conto di una struttura o di un ente controllato da una delle parti.

In tutte le ipotesi in cui il c.t.u. deve astenersi, egli può altresì essere ricusato da una delle parti (artt. 63 e 51 c.p.c.).

Talvolta accade che il c.t.u. non percepisca la necessità di doversi astenere: senza dolo certamente, ma per lo più a causa di una imperfetta conoscenza delle norme di rito. La causa di astensione viene quindi sottaciuta al giudice, e il suo successivo emergere può comportare una rinnovazione della consulenza con relativa perdita di tempo e denaro.

1.2. La professionalità del c.t.u.

L'osservazione che precede porge il destro per introdurre, nell'ambito della analisi della figura del c.t.u. medico-legale, il tema della professionalità.

Si è già detto che il c.t.u. è un ausiliario del giudice. Del resto, la c.t.u. viene disposta d'ufficio dal giudice, e non può mai essere richiesta dalla parte per superare l'onere della prova che su essa incombe (cfr. Cass. 54541/88).

Le norme funzionali sulla consulenza, come si vedrà, garantiscono il rispetto del contraddittorio, ma questo certo non vale a rendere il c.t.u. un incaricato delle parti. Dunque il rapporto di ausiliarietà che si instaura tra il medico-legale ed il giudice trasforma il primo in una vera e propria appendice del secondo. Come si evince del resto dall'art. 195 co. II c.p.c., quando il medico-legale compie le operazioni senza la presenza del giudice, egli rappresenta l'Ufficio, egli è l'Ufficio.

In astratto, dunque, un c.t.u. che voglia definirsi veramente professionale deve avere come unico referente il giudice che lo ha nominato. Questo concetto è molto importante e deve essere approfondito.

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Il medico-legale che voglia definirsi professionale deve essere non solo preparato ed aggiornato3, ma deve altresì essere ed apparire imparziale. Essere ed apparire imparziale vuol dire non attuare mai, nell'esecuzione dell'incarico, comportamenti fraintendibili. ovvero capaci di alterare l'equilibrio processuale in favore di una soltanto delle parti.

La prassi conosce invece numerosi comportamenti da evitare, se non addirittura da sanzionare. Tra i più frequenti vanno segnalati:

a) incontri privati con una sola delle parti: quale che ne sia la finalità, anche per il medico- legale (proprio perché un'appendice dell'Ufficio) vale il principio audietur et altera pars (art. 90 co. I disp. att. c.p.c.). Ne consegue che il medico-legale non può inviare il periziando ad un esame specialistico, senza avvertire i consulenti di parte della data e del luogo dell’esame;

b) esame di documenti o atti prodotti dall'una parte e non comunicati all'altra; ovvero esame di documenti o atti reperiti aliunde e comunicati ad una sola delle parti: il medico-legale, per l'art. 90 co. II disp. att. c.p.c., non può ricevere dalle parti altri scritti defensionali oltre le note dei consulenti di parte. Più in generale, deve osservarsi che ogni documento, ogni atto, ogni scritto non può che rifluire nel processo attraverso canali fissati dalla legge: il deposito al momento della costituzione in giudizio (artt. 163 co. III n. 5 ed art. 166 c.p.c.); l'ispezione o l'esibizione (artt. 118 e 210 c.p.c., cui può accostarsi l’art. 213 c.p.c.); il deposito in cancelleria o la produzione in udienza (art. 87 disp. att. c.p.c.). Dunque il medico legale, nell'eseguire il proprio mandato, non dovrebbe mai prendere in esame documenti che gli vengono passati brevi manu da una delle parti, non prodotti in giudizio e quindi ignoti alle altre parti ed al giudice.

Sarebbe pertanto buona norma che il c.t.u., dopo aver esaminato il fascicolo, rifiuti dì ricevere dalle parti documenti che non siano già stati ritualmente acquisiti agli atti (cfr. Cass. 2770/73).

Può tuttavia ricevere quei documenti che non attengano ai fatti oggetto della controversia, ma a fatti accessori, cioè non direttamente posti a fondamento delle domande o delle eccezioni (cfr.

Cass. 25431'88).

c)"gestione privata" della consulenza tra il c.t.u. e le parti, ovvero tra il c.t.u. ed una di esse: è l’ipotesi più grave, anche se talora dovuta a colpa e non a dolo.

Accade cioè che il c.t.u., spesso nell'intento in sé non biasimevole di comporre la lite, "media" tra le posizioni delle parti, fornendo un responso possibilmente in grado di soddisfare al contempo attore e convenuto.

3 Il c.t.u. deve essere non solo preparato, ovvero versato nell'arte sua; ma altresì aggiomato, ovvero a conoscenza di tutte le conoscenze e di tutti gli strumenti di conoscenza più recenti, nel suo campo di indagine.

Il tema è molto importante e richiederebbe un esame apposito. Preparazione ed aggiornamento del c.t.u.

dovrebbero infatti prevedere incontri di studio con i magistrati e gli avvocati; interdisciplinarietà, messa a punto di criteri di giudizio uniformi tra gli stessi consulenti.

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Questa fenomenologia ricorre con preoccupante frequenza in materia medico legale, ove lo schema risarcitorio legato al grado di invalidità permanente lascia

all'ausiliario una certa elasticità nella determinazione dello stesso.

Questa sorta di "patteggiamento" sull'esito della consulenza va con fermezza biasimato, per almeno due motivi:

1) perché il c.t.u. dispone del potere di esperire il tentativo di conciliazione soltanto nel caso di cui all'art. 198 co. I c.p.c. (esame contabile);

2) perché, in ogni caso, l'indicazione di un grado di invalidità permanente o comunque di un responso tale da "mediare" le posizioni delle parti, non rappresenta una conciliazione, ma una microfrode processuale (in quanto si tratterebbe di una falsa perizia, e come tale costituirebbe un reato previsto e punito dall'art. 373 c.p.).

Tale prassi inoltre, pur se avviata dal c.t.u. con meritori intenti conciliativi produce due effetti negativi per lo stesso c.t.u.:

a) mina insanabilmente la fiducia del giudice che l'ha nominato;

b) espone il c.t.u. alle sanzioni previste dall’ordinamento

Si ricordi infatti che il consulente è ausiliario del giudice e pubblico ufficiale: come tale, egli è soggetto ad obblighi assai stringenti, ai quali le parti non sono soggette.

Mentre dunque un ritardo, un rinvio, un ritocco, una modifica, un silenzio, non comportano alcuna conseguenza extraprocessuale per le parti private del processo, gli stessi fatti per il c.t.u.

possono costituire altrettante violazioni dei suoi doveri.

Ecco dunque per quale motivo si diceva che il medico legale deve avere il giudice come unico referente, per ogni scelta da prendere: perché questa è, per il c.t.u. innanzitutto una forma di garanzia. Questa appare del resto l'unica ermeneutica possibile dell'art. 92 co. I disp. att. c.p.c.4

2. Il Consulente Tecnico Medico Legale: profili funzionali

Salvatore Satta definì il c.t.u. come la persona che "mette in relazione una situazione oggettiva con una regola di esperienza", e certamente l'espressione è tra le più felici.

4Non sarà inutile, a questo punto, una ricognizione dei diversi tipi di sanzioni e misure cui va incontro il c.t.u. non professionale, e cioè,

1) sanzioni penali, per le ipotesi estreme di falsa consulenza a rifiuto di assumere l'incarico (artt. 314 ss., 366, 373 c.p.);

2) sanzioni disciplinari, per non avere ottemperato agli obblighi derivanti dagli incarichi ricevuti, ovvero non avere tenuto una condotta morale specchiata (artt. 19 e 20 disp. att. c.p.c.); le sanzioni disciplinari possono consistere nell'avvertimento, nella sospensione e nella cancellazione dall'albo;

3)sanzioni amministrative (ammenda fino a £ 20.000.000), per essere incorsi in colpa grave nell'esecuzione dell'incarico (art. 64 c.p.c.);

4) responsabilità civile per i danni causati alle parti del processo (art. 64 co. II c.p.c.).

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Al c.t.u. infatti il giudice commette di leggere un dato, già acquisito al processo, sub speciae dotrinae.

Ciò detto, va però subito fatto un distinguo tra due tipologie di esami peritali in materia medico-legale.

1) Talora, al medico-legale si chiede di descrivere un fatto, una situazione, una patologia: in questo caso (si parla di c.t.u. percepente) l'ausiliario deve esaminare e riferire.

2) Più spesso, invece al medico legale si chiede di stabilire se un fatto si è verificato o possa essersi verificato in un dato modo o in un determinato momento; ovvero di stabilire la possibilità in rerum natura di un nesso causale tra due eventi. In questi casi (si parla di c.t.u. deducente) l’ausiliario dovrà non soltanto descrivere, ma altresì concludere, fornendo una soluzione ad un quesito irrisolto.

E' perciò evidente che, nel secondo caso, il lavoro del medico legale dovrà essere particolarmente accurato, e - nel redigere l'elaborato scritto - dovrà evitare sia il "silenzio" che il

"rumore".

Designo con questi lessemi due errori egualmente dannosi, talora riscontrabili negli elaborati depositati dai consulenti:

- si ha il silenzio quando il medico legale omette di riferire al giudice circostanze significative in relazione all’oggetto della controversia. Ad esempio quando, dopo aver descritto uno stato patologico, trae delle conclusioni in ordine alla sua eziogenesi dimenticando di ripercorrere tutto l’iter logico attraverso il quale a quelle conclusioni giunse (all'interno delle considerazioni medico-legali, le quali come noto costituiscono la parte centrale dell'elaborato peritale). In tal modo, il giudice è oggettivamente impossibilitato a verificare la bontà delle soluzioni prospettate.

Oppure si ha silenzio quando, ad esempio, dopo aver riscontrato l'ipotonotrofia muscolare di un arto attinto da un trauma, il medico-legale omette di indicare se essa sia presente nell'arto controlaterale: di guisa che permanga il dubbio circa la riconducibilità dell'ipotonotrofia al trauma. Un'ipotesi particolare di silenzio ricorre purtroppo con una certa frequenza, e si ha allorché il medico-legale pone a fondamento della sua risposta le dichiarazioni resegli dalla persona periziata, senza aver compiuto alcun riscontro oggettivo.

Nel processo civile infatti il periziato si trova nella particolarissima situazione di essere sì oggetto della perizia, ma di essere altresì soggetto del processo, e portatore di interessi economicamente apprezzabili nel processo stesso. L'ausiliario non può dunque arrestarsi a

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quanto riferito dal periziato ed accettarlo acriticamente, ma deve verificarlo scientificamente, controllarlo obiettivamente, giustificarlo medicolegalmente.

Analogamente, si ha silenzio quando il medico legale pone a base della sua diagnosi, in assenza di ulteriori riscontri oggettivi, un solo certificato redatto dal medico curante. Non che una simile certificazione sia priva di valore, ovviamente: ma riguardata in sé e da sola, processualmente essa non è che una dichiarazione proveniente da un terzo, non pubblico ufficiale, e quindi non è assistita da alcuna presunzione legale di veridicità (art. 2700 c.c.).

Tutte le ipotesi di silenzio sopra descritte, in altri termini, si convertono ipso facto in altrettante ipotesi di insufficienza probatoria in ordine al nesso causale tra evento traumatico e lesioni.

Anche questo passaggio è molto importante e va ponderato con cura.

Il medico-legale, per affermare l'esistenza di un nesso causale tra trauma e lesioni deve ricorrere ai criteri della medicina legale (cronologico, qualitativo, quantitativo e modale).

Tuttavia, perché le conclusioni dell'ausiliario siano utilizzabili dal giudice, è necessario che egli verifichi la sussistenza dei criteri suddetti soltanto attraverso quegli elementi - atti o fatti - che costituiscano prova in senso tecnico: sia che si tratti di prove storiche (ad esempio, documenti provenienti dalle parti o dai pubblici ufficiali, fotografie), sia che si tratti di prove critiche (ad esempio, presunzioni semplici).

Diversamente, il medico-legale formulerebbe un giudizio di causalità fondato unicamente su un atto o fatto processualmente inutilizzabile: come, appunto, le dichiarazioni della parte o un singolo certificato del medico curante.

Si ricordi, altresì, che il medico-legale può sì fondare il proprio convincimento su elementi presuntivi (cioè su fatti noti dai quali, con un giudizio logico-deduttivo, si risale a fatti ignoti), ma questi elementi presuntivi devono essere precisi e concordanti (art. 2729 c.c.). E' evidente che il singolo certificato del medico curante difetta di tali requisiti.

In conclusione dunque si può dire che ogni qualvolta il medico-legale incorre nel cosiddetto silenzio, egli introduce nel proprio elaborato un vizio fatalmente destinato a convertirsi in una insufficienza di prova in ordine al nesso causale.

- Si ha rumore, invece, quando il medico-legale deborda dai quesiti postigli, affrontando questioni non richieste o semplicemente non necessarie. (Ad esempio quando, richiesto di descrivere un mero esito cicatriziale ad un arto, si dilunga per due cartelle a parlare di pupille isocoriche, isocieliche e normoreagenti alla luce, oppure di ventre globoso, o di regolarità dell'alvo).

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Nell'ambito del rumore deve farsi rientrare altresì la formulazione di pareri o, peggio, affermazioni recise di contenuto giuridico in merito ai fatti di causa. Come già detto, in questi casi il medico legale oltre naturalmente ad invadere un campo istituzionalmente riservato al giudice, corre il rischio di indurre in errore alcuna delle parti sulle istanze istruttorie da formulare o sul tipo di conclusioni da rassegnare.

2.1. Il contraddittorio nella consulenza. Problemi pratici.

Come accennato in precedenza, l'intero svolgimento delle operazioni del consulente tecnico è presidiato dal rispetto del principio del contraddittorio.

Tale rispetto si concreta nella possibilità:

- per le parti, di nominare consulenti tecnici dì parte;

- per i consulenti tecnici di parte, di assistere alle operazioni del c.t.u. e di formulare osservazioni o riserve scritte in merito a tali operazioni, anche ove non vi abbia presenziato.

Tuttavia collezionando lo schema normativo con la realtà concreta, si rileva l'esistenza d'un apprezzabile iato tra questo e quella. Il divario tra norma e prassi si acuisce con riferimento alle norme procedurali che il c.t.u. deve osservare, e genera spesso un ritardo nell'istruzione, talora un vizio negli atti compiuti.

Ecco talune delle più frequenti anomalie che toccano il processo nel quale è stata disposta una consulenza tecnica d'ufficio.

A) Accade sovente che il c.t.u., dopo aver fissato una data per l'inizio delle operazioni, debba rinviarle a causa dell'indisponibilità propria o di alcuna delle parti.

In questi casi il c.t.u. deve assolutamente evitare ogni accordo informale e non documentabile con le parti ed i loro consulenti.

Il c.t.u. deve invece, ex art. 90 co. I disp. att.I, dare avviso alle parti della nuova data fissata per iniziare le operazioni in modo processualmente documentabile: la legge prescrive il biglietto di cancelleria; tuttavia anche la raccomandata con ricevuta di ritorno può essere validamente utilizzata, ai sensi dell'art. 156 co. III c.p.c. (cfr. Cass. 79341-87).

Naturalmente, il c.t.u. deve comunicare anche al giudice dal quale ha ricevuto l'incarico la circostanza del ritardo o del rinvio, precisandone i motivi. Precisare i motivi del rinvio è molto importante, perché ove fossero ingiustificati ed ascrivibili ad una delle parti, questa dovrà risponderne sia sotto il profilo dell'art. 88 c.p.c. (violazione del dovere di lealtà e probità); sia sotto il profilo dell'art. 92 c.p.c. (soccombenza nelle spese).

Il rinvio dell'inizio delle operazioni deve essere comunicato al giudice anche per l'ulteriore motivo che, diversamente, il c.t.u. precluderebbe al magistrato la possibilità di partecipare alle

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operazioni (cfr. art. 195 c.p.c.). Infine, il rinvio dell'inizio delle operazioni deve essere comunicato al giudice perché potrebbe comportare l’insufficienza del termine fissato al c.t.u. per il deposito dell'elaborato ai sensi dell'art. 195 u.c. c.p.c.: in questo caso, il c.t.u. deve chiedere, prima della scadenza, una proroga del termine al giudice.

Deve ricordarsi che il mancato rispetto del termine comporta, oltre alle sanzioni sopra esposte, la riduzione di 1/4 del compenso (art. 8 1. 319/80).

B)Talora, nel corso delle operazioni, le parti consegnano al c.t.u. atti e documenti, che questi esamina e deposita quindi nel fascicolo d'ufficio unicamente all'elaborato scritto. Tuttavia, come già detto, se questi documenti non erano stati ritualmente prodotti in giudizio, e se l'altra parte non ne ha avuto conoscenza, essi devono essere stralciati, e la relazione del c.t.u. deve essere posta in non cale per la parte in cui su quei documenti si fonda.

C) E' accaduto che il c.t.u. incaricato, impossibilitato ad accettare !'incarico, abbia inviato in udienza un suo emissario collega, latore di uno scritto nel quale lo si indica come possibile sostituito.

Questa prassi, benché innocua in sé, a mio avviso nuoce assai all'immagine di distacco ed imparzialità che il c.t.u. deve avere sempre cura di conservare. Infatti in questo modo il consulente:

a) impinge in una scelta che l'art. 62 co. II c.p.c. riserva al giudice;

b)rischia di apparire titolare - anche se in effetti non lo sia - di una concezione mercantilistica del proprio incarico

D) Accade anche che consulenti iscritti agli albi compaiano non invitati all’udienza istruttoria, allegando di essere pronti a ricevere incarichi peritali ove si presentasse questa esigenza, in relazione alle cause fissate per quel giorno.

Questa prassi è, forse, ancora di più scorretta di quella indicata per ultima, per gli stessi motivi; e parimenti censurabile è l’operato del giudice il quale acconsenta a tali richieste.

In questo caso, inoltre, viene grandemente offuscata la trasparenza che di necessità deve circondare la scelta del c.t.u. da parte del giudice.

3. I quesiti in materia medico legale

Una disamina approfondita delle "indagini" (cosi si esprime l'art. 62 c.p.c.) che il giudice commette al medico-legale richiederebbe ovviamente ben altro spazio e ben altra dottrina: in questa sede si vuole dunque fermare l'attenzione unicamente su alcuni aspetti significativi e su alcuni problemi di metodo.

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La diversità, in primo luogo. Una sommaria indagine a campione, e senza alcuna pretesa di completezza, su otto uffici giudiziari di varie dimensioni, dislocati in tutte le parti di Italia, ha rilevato che esiste ben poca omogeneità nei quesiti che i singoli giudici pongono al medico- legale.

Qui però occorre subito spezzare una lancia contro il preteso mito della "omogeneità delle prassi giudiziarie”, quasi che essa fosse un valore in sé, e non in funzione dei risultati di efficienza che consentirebbe di conseguire. Occorre cioè ripetere che chi pone i quesiti al medico-legale è il singolo giudice, al quale va in ogni caso lasciata la facoltà di stabilire cosa chiedere al c.t.u. Allo stato dunque, a meno di intaccare l'autonomia del giudice, non esistono - felix culpa - strumenti per standardizzare i quesiti rivolti ai medici legali nei giudizi civili, al di fuori ovviamente di uno spontaneo moto di coordinamento.

A mio avviso tuttavia non è così grave che giudici diversi pongano al medico-legale quesiti diversi, quando tale diversità si limiti alla sintassi o alla maggiore o minore completezza degli stessi.

E' grave invece che i quesiti posti al medico-legale da giudici diversi riposino su concezioni giuridiche e medico-legali diverse, se non addirittura antitetiche: ad esempio, nei quesiti adottati da taluni giudici si chiede al medico legale una duplice valutazione percentuale, una per l’invalidità ed una per il danno biologico (con evidente duplicazione del risarcimento); in taluni quesiti si continua a fare riferimento alla cosiddetta capacità lavorativa generica ed in talaltri no; in taluni quesiti si considera il danno alla c.d. capacità lavorativa specifica danno patrimoniale ed in altri danno non patrimoniale; in taluni quesiti si considera il danno all'integrità fisionomica un aspetto della più generale lesione della salute (danno biologico), in talaltri lo si considera un'autonoma voce di danno.

Ma, tanta stat praedita culpa, tali frizioni ed antinomie non possono che essere superate attraverso l'approfondimento scientifico.

In questa sede pertanto, come accennato, mi limiterò ad un sommario esame di alcuni aspetti particolarmente rilevanti.

A) Il nesso causale.

Il quesito relativo alla esistenza di un nesso causale tra le lesioni o la patologia riscontrata, e l'atto od il comportamento che ne sarebbe stato la causa, andrebbe particolarmente meditato.

In primo luogo, andrebbe sempre chiesto al medico legale di accertare la verosimile esistenza di un duplice nesso causale: sia tra l'evento traumatico e le lesioni; sia tra le lesioni e gli eventuali postumi permanenti. Anche se, sotto il profilo strettamente giuridico, la lesione della salute costituisce sempre un danno-evento (cfr. Corte Cost. 1841/86), e non un danno

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conseguenza, non dovrebbe comunque mai obliterarsi che, sotto il profilo medico legale, il trauma può essere causa delle lesioni, ma sono queste ultime a dovere essere causa della riduzione del complessivo stato di salute. Il c.t.u. dovrebbe pertanto vagliare la sussistenza di ambedue i nessi causali, prima di far derivare i postumi accertati dall’evento provato.

Inoltre, il quesito relativo al nesso (rectius, ai nessi di causalità) andrebbe formulato in modo che il medico-legale sia chiamato non soltanto a dire se tale nesso esista o non esista secondo la medicina legale, ma altresì a precisare come e perché, nel caso concreto, siano stati soddisfatti tutti i criteri medico legali di giudizio.

Criteri di causalità che devono essere passati in rassegna dal medico legale uno per uno, senza fermarsi ad un generico parere di compatibilità tra azione traumatica e lesioni.

Il quesito relativo all'esistenza del nesso causale è poi particolarmente delicato sotto un secondo aspetto. Come si è già detto in precedenza, l'opera del medico legale pertiene al momento analitico del giudizio, cioè alla ricostruzione dei fatti de quibus agitur, non pertiene invece al momento sintetico del giudizio, cioè alla comparazione del fatto concreto con lo schema normativo astratto.

Dunque l'ausiliario, nel verificare la sussistenza d'una causalità medico legale, non deve mai prescindere da quanto risulta concretamente allegato e provato dalle parti.

Un esempio banale varrà ad illustrare il concetto. Si supponga che l'attore, sostenendo di avere subìto delle lesioni al volto in conseguenza di una colluttazione, domandi in giudizio il risarcimento del danno da lesione della salute. Si supponga altresì che il medico legale, nel corso dell’esame, riscontri effettivamente delle ecchimosi ma al torace o agli arti superiori. Ora, in astratto l'ecchimosi può ovviamente conseguire al fatto colluttazione"; ma nel caso concreto non poteva conseguire a quel fatto colluttazione” come descritto dalla parte, per la evidente diversità del distretto interessato.

Si consideri un altro esempio, assai frequente: l'attore domanda il risarcimento delle lesioni subite in conseguenza di un sinistro stradale, consistito in un tamponamento, allegando che dalle lesioni sono residuati postumi permanenti. Per provare l'esistenza di tali postumi, esibisce un referto di pronto soccorso nel quale si pone una diagnosi di “colpo di frusta cervicale”

Il medico-legale, dopo l'esame, rileva tutti i sintomi comiziali di una insufficienza vertebrale del rachide cervicale. Tuttavia, dalle prove raccolte nel corso dell’istruzione risulta che i due veicoli coinvolti nel sinistro si sono urtati con direzione antero-posteriore, ma non hanno riportato danni considerevoli, ed in più quello anteriore era munito di poggiatesta.

In un simile caso, non sembra corretto l'operato del c.t.u. il quale dovesse porre una diagnosi di distrazione del rachide cervicale, causalmente legata al sinistro. Se infatti la distrazione del

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rachide cervicale può in astratto conseguire ad un tamponamento, essa non può in concreto ritenersi conseguita a quel tamponamento come provato nel corso del giudizio. Il cosiddetto

"colpo di frusta" non costituisce infatti una lesione od una patologia, ma un meccanismo articolare, solo potenzialmente lesivo: quindi la mera certificazione di "colpo di frusta" è da sola inidonea a porre una diagnosi di distrazione del rachide.

In definitiva il medico-legale, nel vagliare la sussistenza dei criteri di causalità messi a punto dalla medicina legale, non deve far riferimento al fattore traumatico pensandolo ipostatizzato, astratto. Deve invece far riferimento: a) ai fatti come sono stati descritti dalle parti nei rispettivi atti defensionali; b) ai fatti come sono emersi dall'istruttoria compiuta.

Dunque il materiale probatorio che il medico legale deve utilizzare per verificare la probabile esistenza del nesso causale è il medesimo che deve utilizzare il giudice per ritenere provato il fatto posto a fondamento della domanda.

Da questo materiale probatorio e soltanto da esso, al fine di ritenere causalmente collegati al sinistro i postumi eventualmente rilevati, il medico-legale dovrà trarre l'esistenza di due nessi causali: il primo tra evento traumatico e lesioni; il secondo, tra lesioni e postumi.

E' questo il motivo per il quale - come si diceva - non è sufficiente a radicare un giudizio di causalità medico-legale l'aver verificato una astratta compatibilità tra evento lesivo e postumi.

Perché il fatto ignoto (o parzialmente ignoto, o comunque non conosciuto nella sua esatta portata) dell'evento illecito possa essere elevato a causa del fatto noto dei postumi riscontrati in corpore, è necessario che le lesioni riscontrate e documentate possano porsi come effetto verosimile del fattore traumatico, e nel contempo come causa verosimile dei postumi accertati.

Da quanto detto sin qui deriva un corollario indefettibile: l'esame medicolegale sul soggetto leso, salvi ovviamente i casi di assoluta evidenza o di non contestazione della proprie responsabilità da parte del convenuto, dovrebbe essere l'ultimo atto istruttorio. Dovrebbe cioè disporsi l'esame medico-legale quando il fatto posto a fondamento della domanda, nella sua dinamica storica, sia stato già provato con gli ordinari mezzi di prova.

E ciò per due motivi, l'uno medico-legale e l'altro giuridico:

- sotto il profilo medico-legale, perché il c.t.u. al fine di potersi compiutamente esprimere sulla valenza lesiva del fattore traumatico ha bisogno che il fatto sia quanto più possibile certo nella sua dinamica e nelle sue circostanze, e nel processo la certezza non si raggiunge che attraverso la prova;

- sotto il profilo giuridico, deve ricordarsi che l'esame medico-legale non è un mezzo di prova, ma uno strumento di valutazione scientifica di fatti certi già acquisiti al processo. Dunque non è

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corretto disporre un esame medico-legale al fine di cercare quella prova (ad esempio di consequenzialità tra sinistro e lesioni) che deve essere fornita invece dalla parte.

La garanzia di parità tra le parti impone invece che prima si provi il fatto posto a fondamento della domanda (il danno, scilicet le lesioni), e quindi si possa dar luogo ad un esame peritale volto a misurare quelle lesioni.

B) La nozione di danno biologico.

La quidditas dell'esame peritale, nel giudizio civile, risiede probabilmente nella determinazione del grado di invalidità permanente. Tuttavia formulare un quesito nel quale si chieda al c.t.u., puramente e semplicemente, di determinare tale grado di invalidità in termini percentuali, può essere non esaustivo o addirittura fuorviante per il giudice.

Innanzitutto, infatti, occorrerebbe precisare al medico legale cosa si intenda per postumo permanente o invalidità o lesioni permanentemente invalidanti.

Occorrerebbe, cioè, precisare se devesi considerare compromissione dell'integrità psicofisica:

- ogni alterazione anatomo-patologica con carattere irreversibile, che comporti una alterazione in pejus rispetto allo stato di salute anteriore all'evento, ancorché tale alterazione sia infinitesima o insuscettibile di modificare l'esistenza del soggetto colpito;

- soltanto quella alterazione anatomo-patologica che cagioni una alterazione funzionale, ossia che non permetta più all'individuo colpito di essere e di presentarsi come era e si presentava prima dell'evento dannoso.

In altri termini, occorrerebbe precisare al medico-legale se il cosiddetto danno biologico, quando lo si valuta in termini percentuali, debba essere riguardato anche sotto il profilo strutturale, ovvero soltanto sotto il profilo funzionale.

Ambedue le concezioni potrebbero, in astratto, portare a degli eccessi: adottando la prima, si correrebbe il rischio di considerare danno risarcibile persino - per iperbole - la perdita di un capello o un esito cicatriziale di un millimetro. Adottando la seconda, per contro, si correrebbe il rischio di ampliare la discrezionalità nello stabilire se un evento traumatico abbia prodotto un danno risarcibile o meno.

Non par dubbio tuttavia che la seconda concezione (danno biologico come danno funzionale) appare preferibile perché, rifuggendo da ogni meccanicismo risarcitorio, consentirebbe di meglio valutare le caratteristiche e le peculiarità del caso concreto.

La seconda concezione appare poi preferibile anche perché in linea con l'insegnamento della Suprema Corte in ordine alla criteriologia valutativa del danno alla persona: per valutare tale danno, infatti, è necessario “porre in relazione il concreto evento biologico con il quadro

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completo delle funzioni vitali in cui poteva e potrà estrinsecarsi l'efficienza psicofisica del danneggiato": ne consegue che in presenza di una conservazione totale di tutte le proprie funzionalità non può ritenersi esistente un danno alla persona.

B1) La determinazione del grado di invalidità permanente

Il quesito nel quale si chiede al medico-legale di quantificare il grado di invalidità permanente deve essere particolarmente preciso anche in relazione ai criteri di misurazione del grado percentuale dì invalidità.

Non esiste infatti un solo barème medico legale, né esiste una sola scuola di medicina legale.

Anzi, l'esame comparato di alcune "tabelle" per la valutazione del danno alla persona, tanto italiane quanto straniere, rivela che per il medesimo esito patologico i diversi autori indicano percentuali di invalidità permanente anche assai distanti tra loro. Si consideri poi che molti medici legali non si rifanno ad alcun barème preciso, ma compiono le loro valutazioni seguendo esperienze o metodi personali.

Fermo restando che il medico legale è sovrano nella scelta della metodologia scientifica da seguire, dovrebbe però raccomandarsi all’ausiliario di indicare, nel redigere l’elaborato scritto , il metodo seguito o il barème applicato. Il giudice liquida infatti (a parità di età) la medesima somma di denaro per il medesimo grado di invalidità permanente, e dunque per trattare in modo analogo i casi simili è necessario individuare un minimo comune denominatore col quale ponderare le valutazioni fornite dai diversi medici legali. In caso contrario, si correrebbe il rischio che due soggetti, che abbiano subìto i medesimi danni alla persona, ottengano risarcimenti differenziati in funzione del differente barème di riferimento adottato dal medico- legale cui è stato demandato l'esame del caso.

C) La cosiddetta incapacità lavorativa specifica.

In molti quesiti sottoposti ai medici legali si chiede di determinare, attraverso un giudizio espresso in termini percentuali, il grado di incapacità lavorativa specifica conseguito al sinistro.

In astratto, giudici e medici legali avvertono confusamente che con questi tria nomina si designa la impossibilità o la difficoltà, per il soggetto leso, di proseguire il proprio lavoro dopo il sinistro, conservando i medesimi risultati che si conseguivano prima del sinistro stesso.

Lo studio delle conseguenze che un danno alla salute può avere sulla attività lavorativa del danneggiato, sia essa attuale o potenziale, merita forse una riconsiderazione funditus, che qui si vuole soltanto stimolare. Anche in questo caso, la finalità da perseguire è duplice: da un lato, risarcisce integralmente il danno alla persona; dall’altro, evitare duplicazioni risarcitorie.

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In astratto dunque, ogni lesione della salute (scilicet, ogni disfunzione anatomo-patologica conseguita ad un fatto illecito) può riverberare effetti sull'attività lavorativa in tre modi:.

1) precludendola del tutto, con conseguente soppressione totale del reddito. Si tratta di un danno patrimoniale che va dimostrato con gli ordinari mezzi di prova, e l'accertamento dell'esistenza di tale danno non può essere demandato al medico-legale. A questi può domandarsi, unicamente, se le lesioni subite erano tali da precludere in astratto l’attività lavorativa;

2) costringendo il soggetto leso a mutare funzioni o qualifica, ovvero a ridurre la propria produttività, con conseguente riduzione del reddito. Anche questo è un danno patrimoniale da provare con i mezzi ordinari, ed anche in questo caso l'accertamento di tale tipo di danno esula dalla competenza del medico legale. A questi, in ipotesi, potrebbe chiedersi unicamente non di stabilire di quanto la produzione si sia ridotta, ma se tale riduzione sia compatibile in astratto col trauma subìto;

3) infine, una lesione della salute può incidere sull'attività lavorativa costringendo il soggetto leso, per svolgere le medesime attività cui attendeva prima del sinistro, a sopportare sforzi maggiori, ovvero a subire una maggiore usura.

I primi due casi costituiscono - come detto - altrettante ipotesi di danno patrimoniale; nella terza ipotesi invece, la limitata validità del danneggiato non contrae il suo reddito lavorativo, ma sottopone la sua validità residua ad una maggiore usura ( è questo il cosiddetto danno alla cenestesi lavorativa.)

Si tratta dunque di un'ipotesi di lesione della salute (cosiddetto danno biologico), la quale non può dare origine ad un autonomo risarcimento, ma deve essere valutata come una soltanto delle molteplici componenti di quella valutazione complessa che è la valutazione del danno alla salute.

Appare dunque chiaro che con il medesimo sintagma incapacità (lavorativa) specifica si designano nella prassi realtà disomogenee ed affatto equiparabili allorché si debba procedere alla aestimatio del danno.

Ed infatti: il danno alla persona è danno evento; sussiste sempre in caso di lesione della salute; va risarcito proporzionalmente al barème di invalidità permanente.

Al contrario, la lesione del reddito è danno conseguenza; sussiste solo eventualmente in caso di lesione della salute, e per la precisione quando questa incida sull’attività professionale del danneggiato. Infatti, per particolari attività, a modeste lesioni possono conseguire devastanti effetti sull'attività lavorativa; mentre per contro gravi lesioni possono non precludere né ridurre la produzione del reddito.

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Sarebbe pertanto auspicabile superare la dizione stessa di incapacità lavorativa specifica, distinguendo invece le ipotesi di danno da cenestesi lavorativa (le quali determinano un

"appesantimento"' del barème di invalidità permanente), dalle ipotesi di danno da lesione del reddito (un comune danno patrimoniale, da provare e stimare secondo i criteri comuni in materia di risarcimento).

Del resto, non sarà inutile ricordare che il concetto stesso di incapacità lavorativa specifica è stato mutuato nel campo della responsabilità civile dalla infortunistica del lavoro, in un'epoca in cui il riferimento al reddito (di volta in volta potenziale, alternativo, eventuale, futuro) del soggetto leso costituiva l’unica strada per liquidare il danno alla salute.

Ma oggi, riconosciuta dalla Corte Costituzionale (sent. n. 184/'86) la risarcibilità e la onnicomprensività del danno alla salute, rispetto alle singole voci di danno in precedenza elaborate dalla giurisprudenza ( danno alla vita di relazione; danno alla cosiddetta capacità lavorativa generica; danno estetico; danno alla vita sessuale, ecc.), deve di conseguenza abbandonarsi il riferimento alla capacità lavorativa come fonte autonoma di danno, e devesi semplicemente distinguere il danno consistito nella deminutio patrimonio (la lesione del reddito), da quello consistito nella deminutio corporis (la disfunzione anatomo-patologica conseguenza della lesione) (cfr. Trib. Roma 21.12.1994, Ibba c. Sanremo s.p.a.).

D) Lo stato di salute anteriore al sinistro.

Un aspetto dell'esame medico legale che andrebbe sempre ricompreso nei quesiti da sottoporre al medico-legale è l'accurata descrizione dello stato di salute di cui godeva il danneggiato prima del sinistro. Tale descrizione deve consentire al giudice di verificare se il medico-legale abbia correttamente tenuto conto, nel determinare il grado di invalidità permanente, delle eventuali concorrenze o coesistenze.

Tuttavia, mentre accade che il medico legale descriva lo stato di salute di cui godeva il danneggiato prima del sinistro, è estremamente raro che venga descritto nell'elaborato peritale il metodo (matematico, logico, statistico) adottato al fine di ponderare il danno accertato con le preesistenze riscontrate: ad es., la regola di Balthazar o sistemi più sofisticati.

Questa carenza andrebbe evitata con un quesito ad hoc. Essa infatti (proprio come l'altra, già descritta, relativa alla omessa indicazione del barème di riferimento) preclude al giudice la possibilità di ripercorrere l'iter logico seguito dal medico-legale, con la conseguenza di esporre le risultanze peritali a facili obiezioni delle parti.

A questo proposito, non può tuttavia tacersi che l’appropriata valutazione dello stato di salute anteriore al sinistro presenta problemi di non poco momento

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Ed innanzitutto aver goduto di una salute non perfetta prima dell’evento lesivo, va considerato un fattore di incremento o di decremento del danno risarcibile? In astratto ambedue le soluzioni sono logicamente sostenibili.

Potrebbe infatti ritenersi che:

a) l'invalidità permanente si commisura su base 100; pertanto, ove lo stato di salute prima del sinistro non sia perfetto e quindi sia inferiore a 100, il grado di invalidità permanente dovrà essere necessariamente più basso di quello che sarebbe stato prodotto, dalle medesime lesioni, in un soggetto sano (secondo una normale proporzione, ad es. 10:100 = 8:80).

b) oppure potrebbe ritenersi, al contrario, che una disfunzione anatomopatologica, accettabile o tollerabile in un soggetto sano, produca effetti assai più gravi in un soggetto non sano ( si pensi, ad. es., all’ipotesi della riduzione ad 1/10 del visus di un occhio in un soggetto sano ed in un soggetto monocolo).

Può uscirsi da tale apparente aporia facendo ricorso ai concetti di coesistenza e di non concorrenza precisamente, occorrerebbe distinguere i casi in cui le disfunzioni anteriori al sinistro interessino distretti od organi indipendenti ed autonomi rispetto a quello colpito, dai casi nei quali le lesioni preesistenti interessassero i medesimi organi attinti dalle lesioni, od organi ad essi collegati per funzionalità o dipendenza.

Nel primo caso potrà applicarsi un coefficiente di riduzione rispetto al grado di invalidità permanente che sarebbe residuato in un soggetto sano; nel secondo caso, al contrario, potrà applicarsi un coefficiente di aumento del grado di invalidità permanente.

Per concludere, qualche dato statistico, senza alcuna presunzione di completezza.

La VI Sezione del Tribunale di Roma, dal 1 gennaio al 31 dicembre 1994, ha deciso - tra le altre controversie - 1069 cause aventi ad oggetto il risarcimento di danni alle persone cagionati da sinistri stradali. Di queste il 12% avevano ad oggetto sinistri che avevano cagionato la morte di una o più persone; il 49% avevano ad oggetto sinistri con conseguenze dannose medio-grandi5

Questo dato tuttavia non è ancora significativo, in quanto va ponderato con un ulteriore dato:

di queste 416 cause nelle quali si dibatteva sull'esistenza di danni alla persona, 189 (il 45,4%) si sono concluse con sentenze che hanno negato l'esistenza di danni alla persona, ovvero l'hanno negata nella misura determinata da un consulente tecnico, appositamente nominato dall'Ufficio.

Nell'ambito di queste 189 cause, in 12 casi sono stati denunciati alla Procura della Repubblica testimoni che avevano rese dichiarazioni patentemente false; ed in 2 casi sono stati denunciati

5Si designano con tale formula quei sinistri che abbiano cagionato danni a persone e cose liquidati con somme superiori a L. 10.000.000

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sempre alla Procura medici-legali che avevano redatto false perizie (la falsità era consistita nell'aver dichiarato esistenti lesioni personali in realtà inesistenti).

Dunque nel 1994, in materia di risarcimento del danno alla persona da incidenti stradali, in 189 casi su 1069 (il 17,68% del totale) il giudizio si è concluso con una sentenza che ha dichiarato non sussistere danni, ovvero non sussistere danni nella misura allegata dall'attore. Ed ancora: nei giudizi cagionati da piccoli incidenti, in quasi un caso su due non sono stati processualmente accertati danni alle persone.

Questo dato può, in astratto, essere oggetto di varie letture. Potrebbe, ad esempio, essere assunto quale indice della cecità o della infingardia dei giudici, i quali non garantiscono il giusto ristoro dei diritti conculcati.

Oppure potrebbe assumersi quale indice di un fenomeno altrettanto preoccupante. vale a dire la tendenza a fare dell'organismo giudiziario uno strumento per l'acquisizione, salvis legis verbis, di benefici od utilità non dovute.

Il dato bruto, ovviamente, potrebbe poi costituire lo spunto per ulteriori riflessioni interpretative: si potrebbe pensare, ad esempio, che il danneggiato, sfinito dalle estenuanti lentezze delle compagnie assicuratrici, decida alla fine di agire in giudizio e, mosso da un anelito di revanche processuale, aumenti l’entità dei danni che dichiara di aver subìto; oppure si può pensare - all'inverso - che le compagnie assicuratrici, rese edotte della inconsistenza di molti lamentati danni alle persone, abbiano deciso di non risarcire più neppure i danni alla salute effettivamente esistenti, ancorché minimi, facendo così lievitare il contenzioso; oppure può pensarsi all'esistenza di squallidi personaggi senza scrupoli i quali intendano trarre dal verificarsi di un sinistro stradale la fonte di apprezzabili quanto non dovuti guadagni, variamente incentivando tanto la fase precontenziosa, quanto quella contenziosa vera e propria.

Quale che sia la lettura sociale che si voglia dare del dato statistico, possono comunque trarsi da esso due corollari.

Il primo: la durata media di un giudizio civile per il risarcimento di danni derivati da un sinistro stradale è di 4-5 anni.6. In valori medi, dunque, nella materia dei sinistri stradali ogni anno pendono 189 cause (il 18%, del totale delle cause che hanno ad oggetto sinistri stradali) infondate o facilmente prevedibili. In un anno, un giudizio civile ha in media quattro udienze, della durata media di 15 minuti. Ciò vuoi dire che ogni anno, l’amministrazione della giustizia (presso il Tribunale di Roma) dedica 189 ore (quasi otto giorni interi) ad istruire domande per lo più infondate, ed ad dedicare ad esse strutture e personale. A questi tempi, ovviamente devono

6il dato si riferisce al Tribunale di Roma

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poi aggiungersi quelli relativi alle camere di consiglio ed alla redazione del provvedimenti giurisdizionali.

Questo significa, in termini assoluti, che ogni altro giudizio (anche quelli che hanno ad oggetto le situazioni più drammatiche) ha una durata superiore del 20% a quella che avrebbe, ove non esistesse il descritto fenomeno di temerarietà giudiziaria. In pratica, ogni processo durerebbe -in luogo di quattro anni - tre anni e tre mesi.

Quale che sia la soluzione per porre rimedio a tale stato di cose, non vi è dubbio che - per il momento - paga il giusto pro peccatis suae gentis.

Il secondo corollario: quando si verificano piccoli sinistri stradali - cosa frequentissima, nelle grandi città - in due casi su quattro non sarebbe probabilmente necessario l'intervento di un giudice per stimare e liquidare il danno; basterebbe che il danneggiato e l'assicuratore, messe da parte reciproche diffidenze, ricorressero unicamente al buon senso, dal quale ambedue avrebbero da guadagnare. In questa ottica, l'operato di medici legali veramente indipendenti e professionali molto può far guadagnare alla riduzione del contenzioso.

Il conseguimento di una sempre più evoluta professionalità del medico legale tuttavia non dovrebbe prescindere da momenti di raccordo e di confronto, anche istituzionalmente previsti, con il suo interlocutore principale, ovvero col magistrato impegnato nel settore della responsabilità civile.

L'isolazionismo delle categorie dei magistrati e dei medici legali renderebbe infatti parzialmente sterili i frutti delle rispettive ricerche, i quali invece soltanto integrandosi costantemente possono conseguire risultati proficui per tutti.

*Titolare di Medicina Legale e delle Assicurazioni VI Università “La Sapienza” di Roma

** Magistrato Tribunale di Roma

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